Acheson, Dean Gooderham

Avvocato, diplomatico e uomo politico statunitense, A. (Middletown, Connecticut 1893-Harewood, Maryland 1971), figlio del vescovo della Chiesa episcopale del Connecticut, frequentò la scuola privata di Groton, si laureò a Yale nel 1915 e alla Harvard Law School nel 1918. Ufficiale di Marina per un breve periodo durante la Prima guerra mondiale, divenne segretario di Louis D. Brandeis, giudice della Corte suprema. A partire dal 1921 entrò nello studio legale Covington and Burling e, da allora e per circa cinquant’anni, divise la sua vita pubblica tra la professione forense e la politica. Roosevelt (v. Roosevelt, Franklin Delano) lo nominò sottosegretario al Tesoro nel 1933, ma A. si dimise nel giro di sei mesi, in polemica con alcune misure finanziarie decise dal Presidente. Tornò a occuparsi degli affari pubblici solo nel 1939, entrando nel Committee to defend America by aiding the Allies e battendosi per l’intervento in guerra degli Stati Uniti al fianco del Regno Unito contro la Germania hitleriana. Contribuì a tal fine a stilare il dispositivo legale necessario per la sottoscrizione dell’accordo con Londra per lo scambio tra concessioni a Washington di basi britanniche e cacciatorpediniere statunitensi da assegnare alla Marina britannica.

Roosevelt lo coinvolse di nuovo nell’amministrazione come segretario di Stato assistente, prima per gli affari economici, carica che coprì sotto Cordell Hull dal febbraio 1941 al novembre 1944, poi per le relazioni con il Congresso e le conferenze internazionali, sotto Edward R. Stettinius e James F. Byrnes, fino all’agosto 1945. In quegli anni seguì con attenzione la realizzazione del programma di aiuti collegato alla Legge affitti e prestiti, tenendo i necessari contatti politici e operativi con il Congresso e offrendo un contributo decisivo per la costruzione di alcuni pilastri della politica economica internazionale degli Stati Uniti nel periodo bellico e postbellico: l’United Nations relief and rehabilitation administration (UNRRA), la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Food and agriculture organization (FAO). Sebbene la Carta delle Nazioni Unite non lo convincesse appieno, A. si adoperò per indurre il Congresso ad appoggiare anche quel progetto. Fondamentale per la futura politica estera statunitense fu la sua persuasione che Washington dovesse garantire la pace mondiale attraverso l’aiuto alla ricostruzione economica dell’Europa, devastata dalla guerra. Oppositore dell’internazionalismo idealistico wilsoniano, persuaso che l’esercizio del potere non potesse che collegarsi a pragmatiche assunzioni di responsabilità, nel corso del conflitto A. definì la sua percezione dei rapporti internazionali in termini di politica di potenza. Quando, nel dopoguerra, si lanciò in una crociata contro l’espansione mondiale del comunismo, non esitò tuttavia a ricorrere anche a forme di retorica ideologica e moralistica per raggiungere gli obiettivi che riteneva prioritari per la politica statunitense.

Sottosegretario di Stato nel periodo 1945-47, poi segretario di Stato dal 1949 al 1953, A. fu uno dei principali collaboratori di Truman (v. Truman, Harry Spencer), di cui contribuì a forgiare la politica estera negli anni cruciali segnati prima dall’innesco della Guerra fredda e poi dall’apice della tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, con la rottura completa dell’intesa raggiunta durante il conflitto mondiale. Come sottosegretario, prestandosi con grande abilità a mediare le tensioni tra il presidente e il segretario di Stato Byrnes, e assumendosi gran parte delle responsabilità connesse alla conduzione operativa del Dipartimento, A. riuscì a creare una relazione di profonda fiducia e cooperazione reciproca con Truman, basata in particolare sulla convinzione di entrambi che occorresse negoziare con i sovietici da posizioni di forza e contenerne la spinta espansionistica, sfruttando un asse privilegiato di proiezione internazionale verso l’Europa occidentale. Unico punto di parziale divergenza tra i due fu la politica da adottare verso lo Stato di Israele, che Truman volle riconoscere senza indugi mentre A. avrebbe preferito al principio un atteggiamento di maggiore equidistanza, per potenziare le relazioni con i Paesi arabi.

Fondamentale fu l’influenza di A. anche nella formulazione della politica nucleare statunitense. In chiara opposizione a quanti, come lo stesso Byrnes e il segretario alla Marina, James V. Forrestal, ritenevano che Washington dovesse approfittare del monopolio atomico per obbligare i sovietici al negoziato nelle principali questioni internazionali, A. si schierò con chi, come Henry L. Stimson, segretario alla Guerra dal 1940 al 1945, riteneva invece che tale monopolio non sarebbe durato a lungo e propendeva quindi per la creazione di un organismo internazionale per il controllo delle risorse mondiali di uranio, che potesse ostacolare lo sviluppo di una capacità atomica sovietica e, per quanto possibile, scongiurare il pericolo di una successiva corsa agli armamenti. Il 28 marzo 1946, una commissione ad hoc, presieduta da A. e formata, tra gli altri consulenti, anche da David E. Lilienthal, presidente della Tennessee Valley Authority, e dal noto scienziato J. Robert Oppenheimer, pubblicò un rapporto sul controllo internazionale dell’energia atomica, l’A.-Lilienthal Report, incentrato sulla proposta di creazione di una Atomic development authority. Inoltrato a Byrnes, il rapporto venne modificato da Bernard M. Baruch, delegato statunitense nella Commissione delle Nazioni Unite per l’energia atomica, che volle inserirvi, prima di presentarlo, una clausola per impedire che i membri del Consiglio di sicurezza esercitassero il diritto di veto sulle questioni atomiche. A. si oppose all’idea, convinto che Mosca avrebbe respinto di conseguenza l’intero progetto, come infatti avvenne in giugno. Quando poi, nel settembre 1949, i sovietici realizzarono con successo il primo esperimento atomico, A. si adoperò per il lancio di un programma per l’acquisizione della bomba all’idrogeno.

Incline, nei primi mesi da sottosegretario, a continuare gli sforzi compiuti da Roosevelt durante la guerra per garantire la collaborazione con Mosca, A. registrò con preoccupazione crescente le mosse dei sovietici nell’Europa centrorientale, in Grecia, in Turchia e in Iran. Nella primavera del 1946 era ormai persuaso, al pari di George F. Kennan, che occorresse controbilanciarle, ponendo in atto una politica di fermezza e contenimento. Dal punto di vista di A., assai meno sfumato di quello di Kennan, Mosca puntava con evidenza a forme di dominio globale: non la tolleranza statunitense in sede di negoziato, ma solo una chiara posizione di forza militare avrebbe potuto frenare il suo espansionismo. In base a queste convinzioni, negli ultimi sei mesi da sottosegretario, dopo che Truman ebbe nominato come nuovo segretario di Stato George C. Marshall (v. Marshall, George Catlett) – una figura di grande prestigio interno e internazionale, capace di controllare la politica estera anche delegandone con intelligenza l’elaborazione a chi, come A., aveva acquisito esperienza preziosa negli anni precedenti – A. continuò a svolgere una funzione essenziale nella definizione e nella gestione delle principali questioni attinenti alla proiezione globale degli Stati Uniti. Si adoperò per convincere la Casa Bianca e il Congresso della necessità di fondare la politica estera sul rafforzamento delle relazioni economiche, politiche e militari con l’Europa occidentale, in modo tale da sottrarla alle ambizioni dell’Unione Sovietica. Fu dunque tra i principali promotori della dottrina Truman, enunciata il 12 marzo 1947, e, in un memorandum inoltrato al presidente il 5 marzo, poi modificato nel dibattito interno all’amministrazione e confluito in un discorso pronunciato in Mississippi l’8 maggio, elaborò alcune linee di fondo del piano che Marshall, smorzandone alcuni toni, ma approvandone la sostanza, avrebbe poi annunciato a Harvard nel noto discorso del 5 giugno. In luglio, passate le consegne al suo successore, Robert A. Lovett, A. tornò ancora una volta alla professione legale ma mantenne la carica di vicepresidente nella commissione Hoover, incaricata di proporre alcune riforme della pubblica amministrazione, e continuò ad adoperarsi per la realizzazione del Piano Marshall.

Nel novembre 1948, Truman gli propose la nomina a segretario di Stato. A. assunse formalmente la carica il 21 gennaio 1949 e la conservò fino al termine dell’amministrazione democratica, nel 1953. Alla guida del Dipartimento di Stato, si impegnò a fondo per dare continuità alle scelte compiute in Europa dall’amministrazione, favorendo via via la nascita dell’Alleanza atlantica, la costituzione e il riarmo della Repubblica Federale Tedesca, la sua adesione prima al progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e poi a quello della Comunità europea di difesa (CED), e la completa trasformazione del Patto atlantico nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), cioè in un’organizzazione tale da garantire l’indispensabile partecipazione statunitense a un esercito permanente in tempo di pace nell’Europa occidentale. Accusato di eccessivo eurocentrismo e di aver sottovalutato anche per tale motivo le conseguenze di una vittoria comunista nella guerra civile cinese, A. subì pesanti attacchi politici quando il conflitto si concluse con la proclamazione della Repubblica popolare, nell’ottobre 1949, e con la sconfitta di Chang Kai-Shek, che si rifugiò a Taiwan con le massime autorità nazionaliste alla fine dell’anno. In un discorso dedicato alle future responsabilità statunitensi in Asia, pronunciato nel gennaio 1950 al National press club di Washington, A. dichiarò tuttavia che l’amministrazione non era intenzionata a coprire tutto il Pacifico da attacchi militari e non citò la Corea del Sud come parte del perimetro di difesa previsto, confermando un atteggiamento ambiguo nei confronti del governo di Syngman Rhee. Sei mesi dopo, quando le truppe della Corea del Nord entrarono nella parte meridionale della penisola, i critici di A. sostennero che quell’omissione nel discorso doveva essere stata interpretata come un invito implicito all’invasione.

Nell’estate del 1949, mentre crollava la resistenza della Cina nazionalista, i sovietici avevano infranto il monopolio statunitense, facendo esplodere un ordigno nucleare. Truman annunciò l’evento in settembre e, il 31 gennaio 1950, dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero sviluppato la bomba all’idrogeno. Per aggiornare la politica estera e di sicurezza statunitense di fronte alle nuove minacce, A. dispose la preparazione di alcuni studi che confluirono poi nella risoluzione 68 approvata in aprile dal National security council (NSC). Ispirato soprattutto da Paul H. Nitze, successore di Kennan alla guida del Policy planning staff, il documento lanciava l’allarme rispetto alla “sfida mortale” costituita dall’Unione Sovietica e dai suoi progetti di dominio mondiale e sottolineava l’urgenza di una reazione organica a tutto campo: ideologica, politica, economica e militare. La risoluzione riteneva tra l’altro necessario che gli Stati Uniti destinassero alle spese militari il 20% del prodotto nazionale lordo. A. si trovò esposto alle critiche, anche all’interno dell’amministrazione, di coloro che ritenevano tali misure troppo incentrate sul concetto di superiorità militare e destinate a esacerbare lo scontro con Mosca. Lo stesso Truman esitò all’inizio rispetto alla possibilità di adottarle e A., per tutto il 1950 («l’anno in cui iniziò la mia immolazione al Senato», come scrisse nelle sue memorie), si adoperò per convincere gli oppositori e l’opinione pubblica della fondatezza della risoluzione NSC-68. La necessità di finanziare la guerra di Corea, peraltro, avrebbe presto agevolato l’introduzione delle raccomandazioni finanziarie suggerite dal documento: le spese militari statunitensi superarono i 22 miliardi di dollari già nel bilancio del 1951, raggiunsero i 44 miliardi l’anno successivo e culminarono nel 1953 a più di 50 miliardi.

Quando le truppe nordcoreane invasero la Corea meridionale, oltrepassando il 25 giugno il 38° parallelo, A. dichiarò che Washington avrebbe dovuto impegnarsi in guerra per difenderla e salvarla, anche per dimostrare ai paesi dell’Europa occidentale che gli Stati Uniti sarebbero davvero corsi in loro aiuto in circostanze analoghe, rispettando gli impegni assunti con l’Alleanza atlantica. Truman dispose subito l’invio di truppe e l’intervento trovò presto collocazione all’interno di un’operazione delle Nazioni Unite, che il Consiglio di sicurezza pose sotto il comando del generale Douglas MacArthur. I successi militari conseguiti grazie alla sua brillante conduzione della guerra lasciarono intravedere a fine settembre la possibilità di applicare le raccomandazioni dell’ONU per la riunificazione delle due Coree. A. riteneva che il momento fosse propizio, sottovalutando, al pari di Truman e di MacArthur, la possibilità che la Cina popolare entrasse nel conflitto. Parte dell’opinione conservatrice statunitense, sostenuta anche dagli sforzi della cosiddetta China lobby, era attratta addirittura dalla possibilità di rovesciare in toto la situazione del 1949, con un tentativo di sbarco di Chang sul continente, appoggiato da Washington. A metà ottobre, reparti di “volontari” della Cina popolare cominciarono però a concentrarsi nella Corea del Nord e il conflitto entrò in una fase critica. Alla fine di novembre aumentarono le pressioni di MacArthur perché si concedesse alle forze dell’ONU di varcare il fiume Yalu, che segnava il confine tra Cina e Corea. L’alleanza sino-sovietica rendeva molto pericolosa l’estensione del conflitto: quando il generale, nel marzo 1951, compì alcuni gesti di insubordinazione, Truman lo destituì, pagando un prezzo politico molto alto, dati il prestigio e la grande popolarità di MacArthur.

Poco prima dell’apertura delle ostilità in Corea, il 4 giugno 1950, A. aveva inviato chiare disposizioni alle ambasciate degli Stati Uniti in Europa, sottolineando come Washington attribuisse la massima importanza alla dichiarazione solenne rilasciata il 9 maggio, a nome del governo di Parigi, dal ministro degli Esteri Schuman (v. Schuman, Robert), in merito a una durevole riconciliazione franco-tedesca, mediata dalla condivisione delle risorse di carbone e acciaio, nell’ambito di una nuova organizzazione aperta all’adesione di tutti i paesi europei (v. Piano Schuman). Il piano, ispirato da Jean Monnet e destinato a sfociare in breve nella CECA, era stato presentato in anticipo, il giorno 7, da Schuman ad A. e all’ambasciatore David K. Bruce, che contribuì a guadagnare il favore degli Stati Uniti al progetto e, più in generale, ai vantaggi complessivi della costruzione europea dal punto di vista americano. A., legato a Monnet da una solida relazione di collaborazione e stima reciproca costruita negli anni di guerra, in particolare nel contesto dell’UNRRA, reagì con cautela, non sottovalutando le valenze negative del progetto francese nel medio e nel lungo termine, quali ad esempio la possibile costituzione di un grande cartello del carbone e dell’acciaio o di un’Europa non allineata, incline a definirsi come “terza forza” e dunque a sganciarsi dalla tutela statunitense per salvaguardare i propri interessi, magari anche in contrapposizione con quelli americani. Intravide, però, anche gli indubbi vantaggi del progetto – in termini di composizione del conflitto franco-tedesco, integrazione della Germania nell’Occidente, aggregazione delle forze economiche e politiche degli Alleati euroccidentali in funzione di contenimento della spinta sovietica – e ne agevolò la realizzazione. La necessità di non guastare le relazioni con la Gran Bretagna, che rese pubblica l’intenzione di non aderire al piano, consigliò però prudenza e l’amministrazione statunitense seguì i negoziati tra i Sei (Francia, Germania federale, Italia e i tre paesi del Benelux) in modo discreto, non esitando comunque a intervenire in alcuni casi per facilitare le trattative.

Ben diverso, almeno in prima battuta, fu l’atteggiamento di A., favorevole al collegamento diretto tra il riarmo e l’inserimento della Germania federale nella NATO, rispetto al cosiddetto Piano Pleven, anch’esso d’ispirazione monnetiana, avanzato nell’ottobre 1950 dal governo francese per la creazione di una difesa integrata all’interno di una nuova Comunità europea: «costernazione e sconforto», tanto per lui quanto per Marshall e per Truman, di fronte a un progetto ritenuto «irrealizzabile», come lo avrebbe definito A. nelle sue memorie. A partire dal Consiglio atlantico tenuto a Bruxelles in dicembre, si decise pertanto di considerare in modo separato il tema del riarmo tedesco, la costituzione di un esercito europeo nella CED e l’organizzazione di un esercito atlantico. Mentre quest’ultimo decollava rapidamente, il governo di Londra dichiarò che non avrebbe interferito con i negoziati per la CED e gli Stati Uniti si dichiararono favorevoli al loro avvio. Solo nell’estate del 1951, tuttavia, il governo di Washington si impegnò più a fondo per il successo delle trattative, grazie all’interesse tributato all’iniziativa, tra gli altri, da A. e da Bruce, così come da John J. McCloy, Alto commissario per la Germania, amico e fondamentale alleato di Monnet nella sua lotta per l’unità europea, da W. Averell Harriman, da poco nominato da Truman assistente speciale per la sicurezza nazionale, e dal generale Eisenhower (v. Eisenhower, Dwight David), comandante in capo delle forze atlantiche in Europa, che lo stesso Monnet aveva indotto a pronunciare un chiaro discorso sull’opportunità di una costruzione federale nel continente (v. anche Federalismo). Firmato dai governi dei sei paesi membri della CECA nel maggio 1952, il trattato istitutivo della CED incontrò il pieno favore della nuova amministrazione repubblicana, presieduta dallo stesso Eisenhower, ma non avrebbe poi superato la fase di ratifica, due anni dopo. Nel dicembre 1952, quando partecipò a Parigi alla riunione del Consiglio atlantico, per l’ultima volta come segretario di Stato, A. espresse a Monnet l’opinione che in Europa, nonostante i grandi progressi compiuti dagli Stati Uniti per cooperare anche con le iniziative partite dagli alleati, si fosse perso ormai lo slancio. Solo se, viceversa, gli Europei si fossero dimostrati capaci di costruire una «comunità unita dal punto di vista politico e forte sotto il profilo economico e militare», gli americani avrebbero potuto continuare a impegnarsi oltreoceano come negli ultimi sei anni: proprio perché quella comunità essi «avrebbero potuto e voluto sostenere come un punto centrale della loro politica estera».

Le vicende e le difficoltà create dalle questioni asiatiche nei rapporti tra il Congresso e il Presidente avevano contribuito a portare A. al centro della crociata anticomunista promossa da Joseph R. McCarthy. Quando tentò di proteggere alcuni diplomatici e funzionari del Dipartimento di Stato che il senatore repubblicano aveva definito in pubblico comunisti o simpatizzanti del comunismo, accusandoli di aver reso di proposito inefficace la strategia asiatica del Segretario, A. si espose a un attacco frontale, volto ad accollargli la responsabilità della “perdita della Cina” e a ottenere – invano – che Truman lo privasse dell’incarico. Nel gennaio 1953, quando ancora infuriavano le iniziative di McCarthy, A. lasciò dunque il Dipartimento mentre la sua figura era bersaglio di polemiche sulla conduzione della politica asiatica sotto l’amministrazione Truman. Tornato a esercitare la professione legale, non abbandonò l’attività politica e, durante i due mandati del presidente repubblicano Eisenhower, criticò apertamente la politica estera del segretario di Stato, John Foster Dulles. Dal 1957 al 1960, l’anno in cui i democratici riconquistarono la Casa Bianca, fu presidente della Commissione affari esteri del partito.

Negli anni Sessanta, A. intrattenne importanti rapporti di collaborazione con il governo, prima con John F. Kennedy (1961-63), di cui contribuì a elaborare soprattutto la politica europea, poi con Lyndon B. Johnson (1963-68). Agevolando con efficacia l’azione di Monnet, del sottosegretario di Stato Ball (v. Ball, George Wildman), e di altri elementi dell’amministrazione sensibili ai temi dell’integrazione – o, per alcuni, della costruzione federale – europea o atlantica, fu tra gli ispiratori del discorso pronunciato da Kennedy a Filadelfia il 4 luglio 1962, in vista del lancio della nuova partnership atlantica. Nominato membro del Comitato esecutivo del NSC che il Presidente creò in ottobre per gestire la crisi dei missili, A. raccomandò l’opzione di un attacco aereo alle basi sovietiche nell’isola, ma il Presidente preferì la soluzione del blocco navale e inviò A. in missione nelle principali capitali europee per informare gli alleati delle decisioni assunte dalla Casa Bianca e per sollecitarli a manifestare la loro solidarietà. Nella questione vietnamita, A. favorì nei primi anni l’intervento, schierandosi con i cosiddetti “falchi” dell’amministrazione. Per ottenere la piena cooperazione del governo francese alla politica europea degli Stati Uniti nel 1950, infatti, egli aveva cominciato ad appoggiarne la politica indocinese di scontro con il Vietnam a partire dalla primavera di quell’anno, dapprima con qualche esitazione, poi con crescente intensità dopo lo scoppio della guerra in Corea. Quando però Ball, nell’aprile 1965, chiese il suo aiuto per rielaborare e firmare insieme un memorandum da sottoporre a Johnson in vista di una soluzione politica del conflitto, A. accettò. Il piano fu discusso in maggio con lui e con Ball dal Presidente, dal segretario di Stato Dean Rusk e dal segretario alla Difesa Robert S. McNamara, ma venne scartato. Consultato ancora da Johnson nel 1968, A. gli suggerì di procedere al ritiro appena possibile, per evitare che la presidenza perdesse del tutto il consenso interno. Il consiglio contribuì alle importanti decisioni assunte dalla Casa Bianca nei mesi successivi.

Amareggiato e preoccupato dall’ondata di proteste sociali che aveva scosso gli Stati Uniti negli ultimi anni, A. ritenne che la presidenza repubblicana di Richard M. Nixon potesse contribuire a stabilizzare il paese e a districarlo dalla situazione vietnamita. Non si sottrasse dunque alle sue richieste di collaborazione e, tramite Kissinger (v. Kissinger, Henry Alfred), offrì la propria esperienza per l’elaborazione della politica atlantica e africana della nuova amministrazione. La relazione si incrinò però nel 1970, quando la Casa Bianca decise di estendere il conflitto indocinese alla Cambogia. L’anno prima, A., scrittore elegante e prolifico, aveva pubblicato con successo il suo sesto libro, Present at the creation: il volume, dedicato agli anni trascorsi al Dipartimento di Stato, vinse il premio Pulitzer.

Massimiliano Guderzo (2010)




Adamkus, Valdas

A. (Kaunas 1926) durante la Seconda guerra mondiale si unì alle forze della Resistenza per l’indipendenza della Lituania; pubblicò e diffuse il giornale clandestino “Jaunime, budėk!” (“Gioventù, all’erta!”).

Dopo una breve permanenza in Germania, dove si era ritirato con i genitori nel luglio 1944, tornò in Lituania nell’autunno dello stesso anno ed entrò a far parte del Gruppo di difesa della patria in lotta contro il regime sovietico. Partecipò alla battaglia di Seda nella Lituania occidentale, ma dovette ben presto abbandonare nuovamente il paese. Diplomato presso il ginnasio lituano in Germania, A. si iscrisse alla Facoltà di Scienze naturali dell’Università di Monaco di Baviera.

Nel 1949, grazie all’aiuto dei familiari dell’ex presidente lituano, Kazys Grinius, A. emigrò negli USA insieme ai genitori, al fratello e alla sorella. Nel 1960 si laureò come ingegnere civile all’Illinois Institute of Technology. Tra il 1957 e il 1958 assunse la presidenza del Centro Santara (“Accordo”) degli studenti lituani negli Stati Uniti. Tra il 1958 e il 1965 fu vicepresidente della Federazione politico-culturale “Santara šviesa”, un’organizzazione di emigrati lituani d’orientamento liberale, diventandone presidente nel 1967. A. organizzò azioni di protesta contro l’occupazione della Lituania e promosse numerose petizioni. Tra il 1961 e il 1964 fu membro del Consiglio della comunità lituano-americana (LC); vicepresidente del Consiglio centrale e membro dell’American–Lithuanian Council (ALC). Nei primi anni Settanta lavorò per l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale (EPA) e fu un membro attivo del Partito repubblicano americano. A partire dal 1972 visitò più volte la Lituania, portando con sé il materiale pubblicato dalla Santara šviesa. Incoraggiando e sostenendo la costruzione di impianti di depurazione idrica e lo sviluppo del monitoraggio ambientale, A. aiutò le istituzioni ambientali degli Stati baltici ad acquisire letteratura scientifica, attrezzature e software necessari ai loro progetti. In qualità di coordinatore degli aiuti americani ai paesi baltici nell’ambito della protezione ambientale, A. organizzò visite di studio per i rappresentanti delle istituzioni accademiche lituane e sviluppò la cooperazione con l’Università di Vilnius, aiutandola a dotarsi della più recente letteratura accademica sui temi ambientali.

Nel 1989 ricevette una laurea honoris causa all’Università di Vilnius, e analoghi riconoscimenti gli furono conferiti dalle università americane dell’Indiana e dell’Illinois per il suo contributo alla depurazione dei Grandi laghi e per altri progetti ambientali.

Ad A. furono anche assegnati la medaglia d’oro dell’EPA statunitense per i risultati ottenuti mentre in servizio. Nel 1993 A. fu a capo della campagna del candidato Stasys Lozoraitis per la presidenza della Lituania. Nel 1996 partecipò attivamente alla campagna delle elezioni generali, formando uno schieramento di forze moderate. Nel 1997 fu eletto consigliere nel Comune di Šiauliai dall’Unione di Centro lituana.

A. venne eletto Presidente della Lituania nel 1998. Conservò la carica dal 1998 al 2003, quando fu sconfitto da Rolandas Paksas. Tuttavia, la sua carriera riprese nel 2004 quando Paksas fu messo in stato di accusa e rimosso dalla carica. Al primo turno delle nuove elezioni presidenziali, il 13 luglio 2004, A. ricevette il 30% dei voti, più di qualsiasi altro candidato. Il 27 aprile 2004 il ballottaggio fu vinto da A. con circa il 52% dei voti.

Fin dalla sua prima elezione nel 1998, A. perseguì come obiettivi strategici della politica estera lituana l’adesione all’Unione europea e all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO).

Nel suo programma di candidato presidenziale, A. dichiarava: «Ritengo che gli sforzi della Lituania per diventare membro sia della NATO sia dell’Unione europea siano una tendenza inconfutabile e dominante nella politica generale del paese. Mi dichiaro favorevole all’integrazione [della Lituania] nelle strutture politiche ed economiche internazionali, che giocherebbe un ruolo decisivo nel garantire la sicurezza e il benessere economico del nostro Stato. Mi impegnerò personalmente per promuovere la consapevolezza del pubblico verso la necessità dell’integrazione e per fornire informazioni adeguate in merito a tale questione» (v. Adamkus, 1997).

Nel suo discorso inaugurale come neo Presidente della Repubblica di Lituania (1998), A. ribadì il suo impegno verso l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della): «Gli obiettivi chiave della politica estera lituana sono di partecipare alla NATO e all’Unione europea nel minore tempo possibile. Lavorerò per permettere una migliore comprensione, tra i cittadini della Lituania, del significato di tale integrazione. Farò del mio meglio per permettere alla Lituania di diventare un membro a tutti gli effetti della Comunità europea ed euro-atlantica durante il mio mandato».

A. perseguì tali obiettivi tenacemente, ponendo l’ingresso della Lituania nell’UE come principale priorità nei negoziati con i capi dei paesi UE. In occasione dell’incontro con il Commissario UE Günter Verheugen a Vilnius nel 2001, espresse la ferma posizione della Lituania in merito alla chiusura della centrale nucleare di Ignalina come condizione per l’ammissione all’UE, ma chiedendo allo stesso tempo degli aiuti finanziari all’Unione europea (ivi, p. 165). In qualità di Presidente della Lituania A. prese parte a molti summit con i leader degli Stati membri dell’UE, tra cui quello storico di Copenaghen del 13 dicembre 2002, quando la Lituania, insieme a nove altri Stati, fu invitata a entrare nell’Unione europea nel 2004.

Sebbene il desiderio della Lituania di fare parte dell’Unione europea fosse stato espresso dai suoi predecessori, ad A. va attribuito il merito di aver perseguito tenacemente tale obiettivo della politica estera lituana. Secondo alcuni osservatori, «l’elezione di Adamkus fu significativa nel consolidare i progressi verso la democrazia e nel contenere gli elementi meno tolleranti del nazionalismo lituano» (v. Lane, 2001, p. 159), tra cui coloro che si esprimevano contro l’integrazione europea.

Jolanta Stankevičiūtė (2008)




Adenauer, Konrad

A. (Colonia 1876-Rhöndorf 1967). Cancelliere all’età di 73 anni, sembra che tutta la vita precedente di A. fosse solo una preparazione al compito di restituire rispetto di sé a un paese nel quale pochi possono ricordare un passato di cui andare orgogliosi e sul quale costruire un incerto futuro. La Conferenza di Potsdam del luglio 1945 decide che la Germania sarà disarmata e smilitarizzata, la vita politica rinnovata su basi democratiche.

Coloro che tornano a far politica provengono in gran parte dalla esperienza della Repubblica di Weimar e confluiscono per lo più nei loro vecchi partiti, rifondati su base locale. Tra questi il Partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD), che si costituisce ad Hannover sotto la guida di Kurt Schumacher, il Partito liberaldemocratico (Freie demokratische Partei, FDP), che attinge alle file degli ex liberali, i comunisti sostenuti da Mosca. Una formazione del tutto nuova è invece l’Unione cristiano-democratica (Christilch-demokratische Union) con la sua variante bavarese, l’Unione cristiano-sociale (Christlich-soziale Union CSU), che mira a superare l’impostazione confessionale del vecchio partito cattolico (Zentrum), per abbracciare un più ampio fronte, fino ai sindacati cristiani. Presto la sua guida è assunta da un gruppo della Renania e della Westfalia che fa capo ad A., eletto Presidente per la zona britannica nel marzo 1945, dagli inglesi nominato sindaco di Colonia nello stesso mese e deposto nell’ottobre successivo.

La soluzione del problema tedesco uscita da Potsdam è ancora unitaria. Ma la Germania diventa ben presto luogo di una contesa che si concluderà solo nel 1990 e che ha come posta in gioco il dominio del continente e la vittoria o la sconfitta nella Guerra fredda. Nel luglio 1946 gli Stati Uniti propongono al Comitato di controllo di procedere all’unificazione economica delle quattro zone, ma l’Unione Sovietica rifiuta. Il 1° gennaio 1947 sono riunite la zona americana e quella britannica, alle quali nell’aprile 1949 si aggiunge quella francese. I due Stati tedeschi nascono nel giro di sei mesi. Alla introduzione del marco nella zona occidentale l’Unione Sovietica risponde con il blocco dell’accesso a Berlino, nel giugno 1948. Per undici mesi la ex capitale del Reich sarà approvvigionata solo grazie ad un gigantesco ponte aereo. Il 7 ottobre viene proclamata la Repubblica Democratica Tedesca (RDT).

La divisione della Germania è il precipitato nel punto di massimo attrito della Guerra fredda, della sua definitiva, rigida coagulazione. La Riunificazione tedesca diviene un gioco a somma zero: quello dei due schieramenti che e assorbirà l’intera Germania conseguirà una inaccettabile vittoria sull’altro mentre l’olocausto nucleare rende improponibile ogni ipotesi di conquista con la forza.

Già il 1° luglio 1948 i governatori militari occidentali avevano sollecitato la convocazione di una Assemblea costituente. Una bozza di Costituzione, elaborata da esperti nel castello bavarese di Herrenchiemsee, è sottoposta ai rappresentanti delle assemblee territoriali. A. presiede alla nascita della Costituzione americana, il cui carattere provvisorio si riflette già nella denominazione dell’organo deliberante – “Consiglio parlamentare” – e nella sua approvazione, non con un referendum bensì attraverso i Länder. I lavori iniziati il 1° settembre 1948 a Bonn si concludono il 23 maggio 1949, secondo tempi che al Presidente sembrano troppo lunghi. La Legge fondamentale, titolo anche esso inteso a sottolinearne la transitorietà, àncora le istituzioni del nuovo Stato alla tradizione del diritto naturale e della divisione dei poteri, conservando, della scuola tedesca, il federalismo e una forte vocazione sociale. Rafforza l’esecutivo attraverso la sfiducia costruttiva ed evita che, come a Weimar, un presidente eletto direttamente abbia una legittimità più alta dell’esecutivo di nomina parlamentare.

Impera in Germania una disoccupazione di massa che ricorda i peggiori anni di Weimar. La ripresa mondiale e la guerra di Corea danno tuttavia rilevante impulso all’economia. Si registra un forte recupero dei consumi, le industrie smantellate e distrutte investono in moderni impianti, il Piano Marshall fornisce i capitali necessari e innesca il processo di integrazione sovranazionale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). I tassi di incremento delle retribuzioni restano al di sotto di quelli del prodotto sociale. I salari medi crescono comunque del cinque per cento l’anno. Dopo la maggiore disfatta i tedeschi conoscono la maggiore fioritura economica della loro storia.

Il capitalismo renano diviene il cuore economico, il motore propulsivo del grande ciclo di sviluppo. Grazie anche alle leggi di previdenza, agli indennizzi, alla tutela dei rifugiati, è messo in atto un gigantesco processo redistributivo. La concertazione sociale ed il ruolo dei sindacati rappresentano il fondamentale veicolo di integrazione e di coesione. «Bonn non è Weimar» diviene l’efficace formula per indicare la trasformazione in atto, il passaggio da un popolo «di eroi» a un popolo «di mercanti», per usare una famosa dicotomia di Werner Sombart. Un modello che ha coniugato un incredibile livello di produttività a una fortissima inclusione, attraverso la concertazione tra management e sindacato, opposizione e governo, autorità centrale e poteri periferici, e che solo oggi, nell’era della globalizzazione, questo modello incontra i suoi limiti.

Le elezioni del primo Parlamento federale si tengono il 14 agosto 1949. Il confronto è tra economia sociale di mercato ed economia pianificata e si risolve in un plebiscito a favore della prima. CDU e CSU ottengono il 31% dei voti, l’FDP l’11,9%; l’SPD il 29,2%, i comunisti il 5,7%. A. con un solo voto di maggioranza forma un governo costituito da CDU-CSU, FDP e Partito tedesco (Deutsche Partei, DP).

Lo Statuto di occupazione consegnato il 21 settembre 1949 sancisce i diritti sovrani delle potenze, che valgono al di sopra della Costituzione. Nessuna legge può entrare in vigore prima che sia approvata dagli Alti commissari. Già nel suo primo discorso programmatico, il 20 settembre 1949 il Cancelliere osserva di volere integrare nel mondo occidentale la debole Repubblica federale, che all’esterno è rappresentata dalle potenze vincitrici, e di volerne restaurare sovranità, sicurezza, capacità di azione. Colloca fin dall’inizio la questione tedesca all’interno del processo di unificazione dell’Europa occidentale e ne trae le conseguenze con coerenza e senza sentimentalismi.

La storia europea è stata storia di coalizioni ad hoc cui diversi Stati hanno dato vita per difendersi da quello che di volta in volta veniva percepito come un potenziale nemico. Lo Stato nazionale tedesco, che nel secondo dopoguerra è diviso in tre parti, se si includono i territori perduti sul versante orientale, risulta ancora incompatibile con la salvaguardia dell’equilibrio europeo. L’“impero inquieto”, troppo debole per dominare l’Europa, rischia, nonostante le amputazioni, di essere tuttavia troppo forte, troppo esteso geograficamente e troppo potente demograficamente per non essere percepito come una minaccia dagli altri Stati europei.

Il segretario di Stato James Byrnes aveva assicurato a Stoccarda nel settembre 1946 che le truppe americane sarebbero rimaste in Europa fino a quando quelle sovietiche avessero continuato ad occupare l’Europa orientale. Il “contenimento” della nuova minaccia prosegue con il Piano Marshall, nel 1947, con il ponte aereo di Berlino del 1948-1949 e, dopo la guerra di Corea, con la massiccia presenza di forze americane protette dal potere nucleare. A. ritiene che la divisione tedesca durerà a lungo. Vuole allora tenere insieme «questo resto della Germania», facendo assegnamento sul suo ruolo essenziale anche per gli Stati Uniti. L’antica posizione chiave, geografica e strategica, nel centro dell’Europa conferisce all’Occidente un migliore futuro economico e una maggiore profondità strategica a fronte della minaccia dell’Est.

Per un efficace contenimento, poiché gli occidentali non avevano dimenticato la forza esplosiva da sempre celata nella questione tedesca, è necessario salvaguardare gli altri europei di fronte alla Germania e l’Europa occidentale di fronte ai russi. Se neutrale e disarmata, come avrebbe potuto la Germania garantire la propria indipendenza? Se neutrale e armata, come avrebbero potuto gli altri europei garantire la loro? Gli europei occidentali risolvono il problema accettando la rinascita della Germania; i tedeschi subendone la divisione. Nelle intese tra la Repubblica federale ed i suoi alleati si ribadisce certo l’obiettivo dell’unità nazionale. Ma la precisa estensione della Germania rimane indefinita. Sovranità ed unificazione, che Schumacher, principale antagonista di A. e segretario della SPD, vorrebbe come presupposti dell’alleanza con l’Occidente, per il Cancelliere ne possono essere soltanto le conseguenze: una speranza per il lontano futuro; una riserva tedesca di fronte ai propri partner; un elemento di riconciliazione interna in un paese nel quale un abitante su cinque proviene dall’Est. Il recupero dell’unità nazionale, non conseguibile direttamente, passa allora attraverso quello che lo storico Heinrich August Winkler chiama «il lungo cammino verso l’Occidente».

Nell’Europa che si viene costruendo A. non accetta per il suo paese nessuna limitazione giuridicamente impegnativa cui non siano sottoposte le altre parti contraenti. D’altro canto il passato nazista e il presente sovietico spronano gli europei, al riparo della protezione loro offerta dall’ombrello atomico americano, a costruire l’unità europea quale antemurale dell’Occidente cristiano contro il bolscevismo. L’Europa diventa veicolo di identificazione in presenza di un nemico avvertito come totalmente altro. Attraverso molti passaggi successivi, A. porta avanti con accortezza uno scambio fondamentale: a ogni aumento di potenza tedesca fa da contrappunto un trasferimento di potere verso alleanze sovranazionali, europee o atlantiche. Cedere potere per recuperare potere è la traduzione in termini politici della dialettica, prodotto peculiare del pensiero tedesco. L’ancoraggio occidentale diviene per A. una sorta di pegno per suscitare la fiducia degli altri e alleviare il regime di occupazione.

A., alla testa di una coalizione dei partiti borghesi e moderati, conduce una politica della integrazione, mentre la sinistra socialdemocratica si candida come partito del primato della nazione e della riunificazione. A. non deve far fronte, come i governi di Weimar, a una opposizione nazionalista e antidemocratica sulla propria destra, bensì a una opposizione democratica, anticomunista e nazionale alla propria sinistra. La sua politica di adempimento verso le potenze occupanti (Erfüllungspolitik) è il presupposto per riconquistare credibilità e sovranità.

Nel progetto sovranazionale un alleato particolare si rivela Alcide De Gasperi. L’Unione Sovietica estende ormai la propria influenza fino al centro dell’Europa, ha dimezzato lo spazio che la separava dall’Atlantico. De Gasperi e A. avvertono l’ansia di mantenere un equilibrio europeo che distrae dall’unica vera questione, l’equilibrio internazionale. Nella visione franco-tedesca della futura Europa A. è consapevole del ruolo che spetta agli oltremontani, mentre la grande intuizione di De Gasperi è che la storica riconciliazione fra Francia e Germania toglie senso alla tentazione di rimanere fuori da quel connubio, alla ricerca di uno stato di neutralità, una seconda o più grande Iugoslavia, oppure di un semplice protettorato americano.

De Gasperi, anche ministro degli Esteri dal luglio 1951, è costretto a cedere ad altri la guida del governo proprio nel momento – l’estate del 1953 – in cui il Cancelliere tedesco sta per raccogliere, nelle elezioni di settembre, il suo più grande successo. Anche se i loro cicli non coincidono e A. resterà al potere altri dieci anni, ambedue si propongono di vincolare i loro paesi all’Europa e all’Occidente. Il radicamento occidentale serve ad ambedue per fronteggiare la sfida del comunismo.

Per ambedue il progetto di integrazione significa approfondire un solco: rispetto all’opposizione socialcomunista per De Gasperi, rispetto all’altra Germania per A. Anche De Gasperi ritiene che la identità cattolica o cristiana possa conferire all’atlantismo e all’europeismo i tratti culturali che non possono essere più attinti dal nazionalismo. Ambedue vedono nel neutralismo, il desiderio di non schierarsi nella incombente competizione ideologica, politica e militare che porterà il nome di Guerra fredda De Gasperi e A. vedono nel neutralismo una forma subdola di sottomissione o di esposizione senza difese all’influenza del comunismo. A. ha un doppio avversario: all’interno la socialdemocrazia, che mantiene come prioritario l’obiettivo della riunificazione; all’esterno l’Unione Sovietica, che cerca di disancorare la Germania dal processo di integrazione.

La maggiore intensità nei rapporti tra A. e De Gasperi coincide con la nascita della prima istituzione europea, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e con il fallimento del primo tentativo di unificazione politica, la Comunità europea di difesa (CED). Si manifesta nelle due visite di A. a Roma nel giugno 1951 e di De Gasperi a Bonn nel settembre successivo. A. si reca a Roma perché soltanto in Italia in quel momento egli è accettato senza riserve e considera a sua volta l’Italia il partner preferito. Il primo viaggio nel Regno Unito avverrà invece solo nel dicembre 1951. Negli Stati Uniti A. invece andrà solo nell’aprile 1953. L’Auswärtiges Amt viene creato il 15 marzo 1951 ed egli ne è il primo titolare. Ciò gli offre l’opportunità di misurarsi in condizioni di parità con i maggiori politici del suo tempo, di dismettere il saio del penitente per salire ben presto al rango dei più autorevoli leader europei.

La questione tedesca pone alla Francia un dilemma apparentemente insolubile. Di fronte alla minaccia sovietica sempre più evidente, la Francia teme la rinascita della Germania, ma non può impedirla. Il 10 maggio 1950 i tre ministri degli Esteri occidentali Ernest Bevin, Dean Acheson, Robert Schuman devono incontrarsi a Londra per discutere della Germania, in particolare del suo futuro industriale, con una Ruhr sotto controllo alleato e la Saar sotto amministrazione francese. È questa la data che Jean Monnet si assegna per presentare il proprio progetto, che viene consegnato al primo ministro Georges Bidault e al ministro degli Esteri Schuman. Il 9 maggio si riunisce il Consiglio dei ministri francese, un messo incontra a Bonn nelle stesse ore A. Allorché l’accordo del Cancelliere è comunicato, il Consiglio ha appena terminato i suoi lavori. Ma Schuman li riprende, illustra il piano e ne ottiene l’approvazione. Successivamente lo annuncia nella Sala dell’Orologio del Quai d’Orsay.

Schuman propone che Germania e Francia entrino in un negoziato per fondere il loro mercato del carbone e dell’acciaio. Una Alta autorità indipendente ne avrebbe assicurato la gestione, con la abolizione di ogni limite alla produzione tedesca.

Il metodo è quello funzionalista della sovranità condivisa tra il potere intergovernativo degli Stati e sovranazionale della Comunità o dell’Unione, secondo le due successive denominazioni da questa assunte nel tempo. Nelle decisioni la rinuncia all’unanimità tra paesi di dimensioni disuguali è compensata dalla ponderazione del voto ma subordinata a due principi. Ai due vinti, la Germania e l’Italia, è riconosciuta assoluta eguaglianza con la Francia. Al Consiglio europeo di Nizza, quasi mezzo secolo dopo, i francesi proveranno a invocare una reale o presunta promessa di A. a Monnet che la parità sarebbe stata mantenuta anche dopo la riunificazione tedesca. Inoltre la distribuzione dei voti impedisce che una decisione possa essere imposta dalla sola coalizione franco-tedesca oppure dal voto congiunto degli altri quattro.

Il metodo ha i caratteri di settorialità e concretezza che ben si confanno alla strategia di A.: si avanza per tappe successive, attraverso segmenti limitati ma nevralgici, sia nella parità che nella condivisione di sovranità. Nonostante talvolta A. deplori che Jean Monnet voglia fare del controllo della Germania una virtù europea, ne condivide subito il principio secondo il quale gli uomini non accettano il cambiamento che nella necessità e non vedono la necessità che nella crisi. La soluzione proposta da Schuman diventerà il prototipo di una integrazione generalizzata che, con la successiva Comunità, resterà ancora economica. Ma l’azione già allora guarda lontano e mira in alto, nel passaggio dal particolare al generale, secondo un processo evolutivo che è stato anche giudicato come dissimulato o mascherato. A. sa che l’integrazione economica non necessariamente conduce all’unità politica. Lo stesso “Zollverein” era stato uno spazio chiuso al centro dell’Europa. E tuttavia il suo dinamismo non era riuscito ad impedire la stagnazione causata dai particolarismi degli Stati membri. La unificazione era nata dalle spinte egemoniche della Prussia e non da un comune accordo. Per la Germania il Trattato di Parigi (CECA) è il 18 aprile 1951 da A., nella sua veste di titolare del ministero degli Esteri.

Alla fine degli anni Quaranta, sono mature le condizioni che inducono il Cancelliere a recuperare parità e sovranità anche nel settore della difesa. Nell’agosto del 1949 la prima bomba atomica sovietica rompe il monopolio americano. Il 1° ottobre nasce la Repubblica Popolare Cinese. Il 25 giugno 1950 la Corea del Nord varca il 38° parallelo in quella che viene interpretata in Occidente non come una direttrice di espansione in Asia bensì come una sorta di diversivo o prova generale che prelude a un attacco in Europa.

A Washington si mette in moto una revisione del containment, consegnata alla famosa Direttiva n. 68 del National security council, una strategia che pone l’accento sulla dimensione militare piuttosto che sociale o politica. È l’avvio di un grande piano di riarmo che cambia anche la sostanza del Patto atlantico. Di colpo diviene obsoleta la risposta periferica, accompagnata da una garanzia nucleare implicita all’Europa. Gli Stati Uniti non possono sostenere da soli due fronti. L’8 settembre 1950 Harry Truman firma un documento che prevede un esercito integrato: l’Europa vi avrebbe partecipato con sessanta divisioni sotto comando americano ma con uno stato maggiore multinazionale.

La Francia a sua volta, sotto la spinta di Monnet, reagisce con un’ipotesi sul modello della comunità carbosiderurgica, anche se il passaggio segna un salto qualitativo dalla sfera degli interessi a quella dei simboli. La alternativa americana e quella europea implicano il recupero per la Germania della piena parità di diritti. Ma il riarmo tedesco diviene l’occasione di una offensiva diplomatica occidentale e di una controffensiva russa, centrate ambedue sulla riunificazione del paese.

Il primo ministro francese René Pleven formula davanti all’Assemblea nazionale, il 24 ottobre 1950, una proposta di Comunità europea di difesa (CED), che comporta non la semplice sovrapposizione di componenti nazionali, secondo le coalizioni di vecchio tipo, bensì la fusione delle risorse umane e materiali sotto un’unica autorità politica e militare. I contingenti forniti dagli Stati partecipanti dovranno essere incorporati a livello di battaglione. Si vuole impedire che le forze tedesche, autonome sul piano operativo, possano disincagliarsi ove necessario dalla struttura comune.

Le idee francesi sembrano un diversivo, suscitano perplessità negli Stati Uniti, indignazione a Mosca, per via di un riarmo tedesco ormai comunque inevitabile. Il dilemma è soltanto se esso debba accadere nel quadro europeo o nel contesto atlantico. I due negoziati iniziano quasi contemporaneamente, nel gennaio e febbraio 1951, a Bonn tra gli Alti commissari e a Parigi sul Piano Pleven. A. avrebbe forse preferito l’opzione americana, la più breve e suscettibile di creare una relazione speciale tra Germania e Stati Uniti. A Parigi si è aperta il 15 febbraio 1951 la Conferenza che negozia il Trattato CECA. Il negoziato militare, a sua volta, produce il 24 luglio 1951, un primo rapporto provvisorio: esso prevede la fusione delle forze armate sotto istituzioni comuni; la non discriminazione; la cooperazione con l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO); la natura difensiva dello strumento militare. Il potere decisorio è nelle mani del Consiglio dei ministri, ma una autorità europea dovrebbe esprimere l’interesse collettivo e disporre di poteri di iniziativa e di gestione. Una Assemblea parlamentare ha funzioni di controllo ed è, per motivi di semplicità, la stessa della CECA.

Un’Assemblea rappresentativa investita di poteri costituenti diventa, a partire dall’ottobre 1951, l’obiettivo fondamentale di De Gasperi e di A. Nel dicembre 1951 le riunioni dell’Assemblea consultiva a Strasburgo e del Consiglio dei Sei a Parigi segnano uno dei momenti più alti nell’europeismo. A. e De Gasperi, a fronte delle incertezze degli altri, ottengono l’inserimento nel progetto di un articolo (l’articolo 38 nella versione finale del Trattato CED) che apre la via alla Comunità politica europea (CPE). Poiché la composizione dell’Assemblea della CED è la stessa della CECA, è a questa che A. chiede il 10 settembre 1952 formalmente di elaborare nello spazio di sei mesi un progetto di statuto. Soltanto cinquanta anni dopo una Convenzione verrà investita nuovamente dai governi della funzione costituente che in ambito internazionale è normalmente riservata alle conferenze diplomatiche. Il 9 marzo 1953 (dopo che il 27 maggio 1952 il Trattato CED era stato firmato ma non ancora ratificato) l’Assemblea ad hoc consegna ai ministri il progetto di comunità politica.

Ma in Francia una coalizione antieuropea accumula nazionalismo, comunismo, neutralismo. La crisi si arricchisce del tentativo sovietico di arrestare il processo facendo leva sulla prospettiva della riunificazione tedesca. Una Nota di Stalin del 10 marzo 1952 prefigura una Germania neutrale entro le frontiere di Potsdam, libera da truppe straniere e dotata di un proprio esercito. La neutralità è intesa nel senso più ampio, comprensivo del divieto di partecipare anche ad organizzazioni economiche, come la CECA.

L’obiettivo sovietico è di impedire l’integrazione anche militare della Germania occidentale nell’Europa e nell’Occidente e di separare l’Europa dagli Stati Uniti. La neutralizzazione implica una sovranità menomata. A. punta invece alla realizzazione del Piano Schuman e alla dislocazione di truppe americane e inglesi sul territorio della Repubblica federale, in base a nuovi Trattati che sostituiscono lo stato di occupazione. Nel mezzo della maturazione del processo di unificazione europea, l’adesione alle proposte sovietiche ne avrebbe arrestato il cammino e probabilmente avrebbe comportato il congedo di A. dalla politica.

Tuttavia è dell’agosto 1953 la prima esplosione termonucleare sovietica. Per Mosca la minaccia tedesca e la disponibilità a pagare un prezzo per evitarla perdono vigore a misura che essi si avvicinano alla soglia della parità nucleare con gli Stati Uniti. Mentre la CED si logora in una permanente ricerca francese di assicurazioni e controassicurazioni, la distensione provocata dalla morte di Stalin e l’evoluzione della situazione e delle dottrine strategiche ne attenua la necessità e l’urgenza.

Il 1953 segna la paralisi della politica europeista quale era stata immaginata dallo statista italiano e da quello tedesco. Nel Consiglio dei ministri della CECA del giugno 1953 l’impressione generale è quella di uno stanco e disilluso gruppo di ministri assai poco inclini allo spirito europeo. Uniche eccezioni sono De Gasperi e il Cancelliere federale. La vittoria elettorale consente ad A. di far passare anche il riarmo nazionale. L’alternativa dell’esercito tedesco in un quadro atlantico finisce per imporsi. L’Italia, del resto, ritarda la ratifica per via di Trieste, nonostante A. sia di nuovo a Roma nella prima metà del 1954. Il 30 agosto la CED cade di fronte al Parlamento francese. Da quel momento la difesa dell’Europa si sostituisce alla difesa europea in un contesto atlantico.

Per tener conto delle esigenze di controllo sulla Germania come pure di quelle degli spiriti più europeisti una Conferenza dei ministri degli Esteri dei Sei nonché del Canada e degli Stati Uniti aggiorna a Londra nel settembre 1954 il Patto di Bruxelles del 1948. I francesi non sono disponibili né a un riarmo della Germania né al sacrificio della difesa nazionale in nome di un sistema integrato che la includa. John Foster Dulles e Anthony Eden ripescano allora l’alternativa della adesione della Germania alla NATO. La Gran Bretagna accetta di stazionare proprie truppe in permanenza sul suolo tedesco. All’Unione dell’Europa occidentale (UEO) aderiscono l’Italia e la Repubblica federale, che diviene anche membro dell’Alleanza atlantica. La Repubblica federale riconquista la piena sovranità, anche se accetta alcune limitazioni in materia di armamenti. Gli accordi, conclusi a Parigi il 23 ottobre 1954, entrano in vigore il 5 maggio 1955. Il 6 maggio la Repubblica federale aderisce all’UEO, il 9 alla NATO; in quello stesso mese nasce il Patto di Varsavia. Il 7 giugno A. passa l’incarico di ministro degli Esteri a Heinrich von Brentano.

La rivolta di Berlino Est del giugno 1953 è per A. la conferma che la unificazione tedesca e l’integrazione europea sono parti necessarie di una stessa politica. Nella campagna elettorale di quell’anno il Cancelliere può far valere l’ascesa internazionale della Germania, la fiducia personale riconquistata in Europa e nel mondo, il recupero del rapporto con Israele, anche attraverso l’indennizzo delle vittime del nazismo. Un vero trionfo è la sua prima visita negli Stati Uniti, nell’aprile 1953, preceduta di pochi giorni dall’accordo con Israele sull’entità del risarcimento, non senza una forte opposizione all’interno del suo stesso governo. La somma, due miliardi di dollari, equivale alla metà di quella ricevuta dalla Repubblica federale con il Piano Marshall. Il voto del 6 settembre assegna all’Unione il 45,2% dei suffragi, contro il 28,8% dei socialisti.

Tra l’agosto e il settembre del 1954, con la caduta della CED, che A. definisce il giorno più buio per l’Europa, la ricostruzione del continente si interrompe bruscamente: la sua sicurezza è rimessa in gioco, il grande sogno unitario ridotto senza domani. A. vede compromesse le sue speranze di esorcizzare nei tedeschi il gioco dell’altalena. Ma ancora una volta, come per il riarmo, un impulso decisivo viene dall’esterno, dalla crisi del colonialismo europeo.

L’integrazione riparte dalla Conferenza dei ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda (v. Paesi Bassi) e Lussemburgo a Messina nel giugno 1955 (v. Conferenza di Messina). In Germania A. è favorevole all’integrazione per ragioni politiche; ma il suo ministro dell’Economia, Ludwig Erhard, e l’industria preferiscono il libero mercato e temono un approccio dirigista. A. non è molto ferrato in materia economica e quindi a disagio con un avversario come Erhard. A Messina si costituisce il Comitato di esperti presieduto da Paul-Henri Spaak, che nell’aprile del 1956 pubblica il suo rapporto sul Mercato comune e sulla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom).

I negoziati cominciano a settembre, in coincidenza con la doppia crisi di Suez e dell’Ungheria. I Trattati di Roma che istituiscono la Comunità economica europea (CEE) e sull’Euratom, firmati il 25 marzo 1957, sono ratificati dal Bundestag nel luglio successivo. L’ultima ratifica, italiana, interviene a dicembre. L’intero negoziato era durato solo nove mesi, contro i quindici della CECA e i ventisette della CED.

Negli anni Cinquanta A. è oggetto di una furibonda polemica guidata da Schumacher e in genere di tutta la sinistra, che lo accusa di svendere l’unità nazionale per compiacere il capitalismo occidentale. In realtà A. è tutt’altro che un avversario dell’unità e nella difesa della Saar mostra la determinazione a evitare ulteriori amputazioni. Il Cancelliere si oppone comunque a ogni ipotesi che sacrifichi, anche in nome dell’unità, l’inserimento nella comunità occidentale. A. è fermissimo nell’anteporre la libertà al recupero dei territori orientali e ha in J.F. Dulles il maggiore alleato, come De Gasperi lo era stato nel processo di integrazione europea.

Charles de Gaulle è il leader privilegiato del Cancelliere nell’ultimo tratto del suo cammino: un partner indispensabile per inserire la Germania in una struttura europea meno dominata dagli Stati Uniti. De Gaulle pensa a una Europa degli Stati nella quale la Francia abbia il ruolo egemone che la Prussia aveva avuto nella Germania di Bismarck. L’equilibrio deve essere duplice, all’interno del continente, tra i tre partner principali, Francia, Germania e Russia; sul piano globale, con la crescita dell’Europa a fronte delle due superpotenze.

Nella crisi di Berlino il Cancelliere vede di nuovo in pericolo la sua scelta occidentale, di fronte alla politica insidiosa di Mosca. L’opposizione socialdemocratica sembra a sua volta tentata dalle illusioni della terza via di una Germania che si congedi dai due sistemi di sicurezza, un’ipotesi che invece per A. significa la rinuncia alla vera ragion di Stato della Repubblica federale. Nell’incontro tra Chruščëv e John Kennedy, a Vienna nel giugno 1961, quest’ultimo ribadisce le tre condizioni che resteranno la linea occidentale per tutto l’arco della Guerra fredda: accesso a Berlino; libertà per la sua popolazione; presenza di un presidio militare occidentale. La tensione cresce fino alla costruzione del muro di Berlino il 13 agosto 1961. Si consolida definitivamente la gerarchia dei valori della Repubblica federale: prima l’ancoraggio all’Occidente; poi la pace; e solo come ultima istanza, più lontana nel tempo, la riunificazione.

Nel 1958, nel pieno della crisi di Berlino, A. sonda cautamente se l’Unione Sovietica sia disposta ad accondiscendere a una ipotesi di neutralità verso l’esterno e di democrazia all’interno, in cambio del riconoscimento delle sue conquiste. Mosca rifiuta. La RDT era già parte integrante del Patto di Varsavia ed era divenuta ancora più importante dopo la sollevazione ungherese del 1956. Sottrarla al controllo sovietico avrebbe suscitato a Est speranze che la potenza egemone ritenne sempre di dover deludere.

Tornato al potere de Gaulle, contro le previsioni di molti, non chiede di rivedere i Trattati comunitari. Ma a metà gennaio del 1962 ottiene che l’agricoltura sia inserita pienamente nel mercato comune, costruendo quel contratto agroindustriale a base franco-tedesca che sarà una delle cerniere dell’integrazione economica. Con la proposta della Commissione presieduta da Christian Fouchet, negoziata dal luglio 1960 all’aprile 1962, tenta di costruire l’Europa secondo un modello confederale (v. Piano Fouchet), con l’estensione delle competenze dell’Unione alla politica estera, difesa e cultura. L’occasione di de Gaulle è lasciata cadere ed al suo posto si ha la fondazione dell’asse Parigi-Bonn, cui volentieri acconsente A., nel timore che sulla Germania possa stringersi la morsa di un accordo franco-russo. Il patto è firmato il 22 gennaio, la settimana precedente il generale aveva messo il veto all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea.

Le crisi di Berlino e di Cuba, la costruzione del muro congelano definitivamente lo status della Guerra fredda. Ai tedeschi è più facile e prudente adattarsi al muro che cercare di demolirlo. Le potenze maggiori accettano le regole della pace nucleare. A partire da lì il problema è di accordarsi in condizioni di parità e di creare le premesse per la distensione. Ma questo sarà il compito dei successori del Cancelliere. Nel gennaio 1963 Chruščëv annuncia che il successo del Muro ha reso superflua una pace separata. La crisi di Berlino è definitivamente superata.

L’era di A. si chiude definitivamente il 15 ottobre 1963, dopo un’ultima vittoria elettorale nel settembre 1961. Il Cancelliere vivrà fino all’aprile 1967. Il suo retaggio sarà quello di essere riuscito a liberare i tedeschi dal loro passato ed il paese dalla sua geografia. Con lui inizia un’altra storia, opposta a quella che con Bismarck aveva preso l’avvio dal 1871. La sua Westpolitik riporta la Germania alla situazione esistente prima dell’egemonia prussiana. A. realizza un’impresa straordinaria, mettendo fine al vagabondaggio nella ricerca di una “via special” (Sonderweg). Molti anni dopo l’antica, catastrofica spinta verso Est avrà non il volto egemonico di sempre, bensì i tratti condivisi dell’allargamento dell’Unione europea. L’europeismo conservatore degli anni Cinquanta ha tanto successo anche perché, diversamente dal nazionalismo, non è discreditato dalla storia, bensì ulteriormente legittimato dal confronto Est-Ovest. Populismo e nazionalismo non varcheranno mai più, nei decenni successivi, fino ai giorni nostri, la soglia minima necessaria ad avere una rappresentanza parlamentare. La Germania si congeda definitivamente da quella concezione aristocratica, politicamente reazionaria e culturalmente antioccidentale della quale Le considerazioni di un impolitico di Thomas Mann rappresentano una sorta di manifesto. Diventa il perno intorno al quale ruotano i due schieramenti, il solo Stato successore del Reich, mentre la RDT è priva di ogni legittimità. È Bonn che determina le condizioni del rapporto Est-Ovest: integrazione del suo paese con l’Occidente; unificazione solo in base a libere elezioni; fissazione delle frontiere unicamente secondo un accordo negoziato. Il Cancelliere realizza l’aspirazione che aveva guidato Bismarck: rendere impossibile una vasta coalizione contro la Germania.

I funerali del Cancelliere assumono uno straordinario valore simbolico, con il trasferimento delle sue spoglie lungo quel Reno che egli aveva saputo trasformare in baricentro dell’Europa occidentale, cuore di un sistema di relazioni sociali e di processi produttivi. Ai lati e sui ponti del fiume si raccoglie spontaneamente una folla immensa. All’inizio del 2004 un sondaggio della maggiore rete televisiva tedesca collocherà A. al vertice assoluto nella lunga e travagliata storia della Germania, prima di Lutero e di Bismarck.

Silvio Fagiolo (2012)




Adroher I Pascual, Enrique

A. nacque a Girona (Catalogna) il 10 giugno 1908 da una famiglia della classe media artigiana. Fra il 1924 e il 1928 intraprese gli studi magistrali nella Scuola Normale della sua città natale e nel 1928 si unì alla Federazione anarchica iberica, alla quale arrivò mediante i suoi contatti con il sindacato di tendenza anarco-sindacalista Confederación nacional del trabajo (CNT). Fra il 1929 e il 1932 terminò gli studi di pedagogia a Madrid, raddoppiando la sua attività politica e sindacale nel quadro degli scontri politico-sociali vissuti in quegli anni dal paese (caduta della dittatura di Primo de Rivera, fine della monarchia, instaurazione della repubblica, approvazione dello statuto di autonomia per la Catalogna). Passato nelle file del Partito comunista, A. rimase lontano da tutta l’ortodossia stalinista, conservando le proprie origini libertarie, e arrivò persino a essere incarcerato, accusato dell’incendio di alcuni conventi nelle “giornate di aprile” del 1931.

Nel 1932, assieme a un gruppo di insegnanti per la maggior parte socialisti e di alcuni amici della Scuola superiore magistrale di Madrid, A. partecipò alla fondazione del sindacato degli insegnanti (Federación española de trabajadores de la enseñanza, FETE), affiliato alla socialista Unione generale dei lavoratori (Unión general de trabajadores, UGT). Nello stesso anno tornò in Catalogna, stabilendosi definitivamente a Barcellona, dove fu insegnante fino alla guerra civile. In questo periodo proseguì la sua attività politica e sociale, ricoprendo l’incarico di segretario generale della FETE-UGT in Catalogna, e iniziò a firmare suoi articoli sulla stampa con lo pseudonimo di “Gironella”.

A partire dalla rivoluzione di ottobre del 1934 A. si affiliò al Bloc obrer i camperol (Blocco operaio e rurale), partecipando attivamente alla costituzione del Partito operaio di unificazione marxista (Partido obrero de unificación marxista, POUM) di tendenza trockijsta. Nel febbraio del 1936 appoggiò la creazione del Fronte popolare e nei giorni successivi al 18 luglio combatté sulle barricate contro i militari golpisti. Dopo la neutralizzazione del Fronte popolare si occupò dell’organizzazione di gruppi di volontari che avrebbero marciato da Barcellona fino al fronte aragonese, in qualità di rappresentante del POUM nel Comitato centrale delle milizie antifasciste di Barcellona, che in quel momento era il governo operaio della Catalogna rivoluzionaria. Fra il settembre e il dicembre del 1936 divenne commissario generale del Trasporto di guerra del Consiglio di difesa del governo autonomo della Catalogna e successivamente, fra il dicembre del 1936 e il maggio 1937, fu nominato commissario generale delle Comunicazioni del Consiglio di difesa.

Gli scontri armati a Barcellona tra varie organizzazioni repubblicane nel maggio 1937 (“la rivoluzione nella rivoluzione”) terminarono allorché il Partito comunista assunse il controllo della situazione, iniziando le persecuzioni dei dirigenti del POUM, tra cui Gironella. Arrestato in agosto, A. fu processato in ottobre assieme alla Commissione esecutiva del POUM (che fu assolta) dal “Tribunale di spionaggio” controllato dagli stalinisti, e fu condannato a quindici anni di prigione. In previsione della imminente caduta di Barcellona, nei primi mesi del 1939 A. fu trasferito, insieme ad altri prigionieri, vicino alla frontiera francese. Con il crollo del fronte catalano davanti all’avanzata delle truppe franchiste, A. fu liberato e, arrivato in Francia, internato assieme a migliaia di vecchi combattenti repubblicani nel campo di Vernet d’Ariège nei pressi di Tolosa, dove restò fino all’aprile del 1940.

Dopo la disfatta francese davanti all’esercito di Hitler e il disfacimento dell’amministrazione statale, A., aiutato dalla Commissione di aiuto ai repubblicani spagnoli, raggiunse Burdeos dove fu imbarcato sul Cuba con un mercante che conduceva rifugiati spagnoli in Messico, dove approdò pochi giorni dopo l’assassinio di Trockij. In Messico A. restò fino al 1946, collaborando attivamente alle azioni intraprese dagli esiliati repubblicani e affiliandosi a organizzazioni socialiste. Nel settembre del 1944 fu promotore della Commissione socialista internazionale, embrione di ulteriori progetti, la cui finalità era quella di unire in uno stesso organismo tutti i gruppi socialisti europei rifugiati in Messico.

Al termine della guerra mondiale, alla fine del 1946, A. ottenne un visto per la Francia e fece ritorno in Europa agli inizi del 1947, iniziando una nuova vita politica segnata dal compromesso con la sinistra europeista e la costruzione dell’Europa per i tre decenni successivi.

Nel febbraio del 1947 A. partecipò alla prima conferenza dei socialisti europei tenutasi a Londra, che cercava di dare una risposta della sinistra non comunista alla sfida dell’Europa. Non si trattava solamente di lavorare per l’Unione europea, ma anche di creare un’organizzazione dedicata specificamente a tale scopo: il Movimento socialista per gli Stati uniti d’Europa (). I principali obiettivi erano un’unità economica pianificata e un Federalismo politico in un contesto democratico. Questa organizzazione fu costituita ufficialmente a Parigi nel maggio dello stesso anno e A. ne fu nominato segretario generale, incarico che ricoprì fino al 1964.

Attraverso il MSEUE A. entrò a far parte del gruppo di uomini che negli anni Cinquanta avviarono l’edificio istituzionale europeo: attivista politico indefesso, organizzò eventi, congressi, manifestazioni e tutta una serie di azioni per promuovere le sue idee e la lotta contro le proposte attendiste.

A. divenne così una figura abbastanza nota del mondo europeista, lavorando soprattutto al fianco di socialisti del calibro di Guy Alcide Mollet, Maurice Faure, Ugo La Malfa, Jean Ziegler, Georges Renard, Paul Reynaud, Leon Blum, Paul-Henry Charles Spaak, Altiero Spinelli, François Mitterrand; ma anche con europeisti di centro e di destra: da Juan Madariaga a Robert Schuman, da Denis de Rougemont a Hendrik Brugmans, da François Poncet a Robert Van Schendel. Un’attività iniziata in vista della convocazione del Congresso dell’Aia per non lasciare alla destra l’iniziativa della costruzione europea.

Dopo il Congresso dell’Aia, al quale A. partecipò attivamente, il dibattito in seno al MSEUE in merito all’incorporazione del progetto da lui suggerito non cessò. Nonostante la posizione contraria dei britannici e di alcuni dei grandi partiti socialisti europei, si fece strada l’idea di appoggiare il processo avviato. Occorreva pronunciarsi sul Piano Marshall, sul futuro della Germania e sull’internazionalizzazione del bacino industriale della Rhur. I principali temi di discussione furono la creazione di un Parlamento europeo sopranazionale, l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) (v. Organizzazione mondiale del commercio), l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), ecc. Nell’ottobre del 1948 si organizzò il Movimento europeo (ME), che invitò il MSEUE a far parte dei suoi organi direttivi, e la proposta venne accettata dal Comitato internazionale straordinario tenutosi alla fine di novembre. Tra le personalità che entrarono a far parte degli organi direttivi del ME vi furono André Philip, Henri Frenay e lo stesso Gironella.

Il MSEUE, comunque, fu un progetto atipico. Alla fine degli anni Quaranta i partiti socialisti non erano organizzati a livello internazionale; il Comitato della conferenza socialista internazionale (COMISCO), creato nel 1947, fu un cattivo rimedio all’Internazionale socialista ricostituita nel 1951, e le sue incertezze in merito alla questione europea non si attenuarono fino agli anni Sessanta: da qui l’importanza del MSEUE e del suo segretario generale. Esso non si presentava né come un organismo di coordinamento né come una rappresentanza ufficiale dei partiti socialisti, bensì come un movimento che promuoveva l’europeismo di sinistra, accendendo dibattiti, proponendo progetti e difendendo politiche europee ed europeiste. Le sue relazioni con i partiti socialisti erano diversificate: contrastare con il Labour party, di collaborazione stretta con la Section française de l’internationale ouvrière (SFIO), la Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD) e con i partiti socialisti belga, olandese e italiano. Senza sopravvalutare la sua influenza, le politiche difese dal MSEUE e la sua rivista “Gauche Européenne” diedero un contributo teorico e politico considerevole al pensiero socialista degli anni Cinquanta, ma anche alla stessa costruzione europea, nella quale il MSEUE introdusse elementi di stampo sociale, soprattutto a partire dagli anni Sessanta.

I cambiamenti intervenuti dopo la firma del Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) costrinsero il MSEUE a rivedere la sua posizione e il suo ruolo nella costruzione europea, e a cambiare la sua denominazione in Movimento della sinistra europea (Movimiento izquierda europea) al X Congresso tenuto a Lussemburgo nel febbraio del 1961. Paul Henry Spaak fu nominato presidente, André Philip presidente dell’esecutivo del comitato centrale e A., ancora una volta, segretario generale.

Tuttavia A. detenne questo incarico per breve tempo. Il suo cambio di residenza da Parigi a Bruxelles, nel 1962, dopo la nomina a segretario generale del Centro europeo delle imprese pubbliche (CEEP), rendevano incompatibili le due cariche, e A. diede la dimissioni nel 1964 dalla prima. All’interno del CEEP A. fu riconosciuto come interlocutore sociale da parte della Comunità europea, e ciò gli permise di partecipare ai grandi dibattiti e negoziati economico-sociali della Comunità economia europea (CEE), fino al suo definitivo ritiro e al suo ritorno in Spagna nel 1976, dopo la morte di Franco.

In ogni caso, il compromesso di A. con la sinistra europeista va visto alla luce della sua condizione di esiliato antifranchista spagnolo, che lo portò a collaborare con le organizzazioni della sinistra spagnola, specialmente con il Partito socialista, nella lotta contro la dittatura da una posizione europeista. Pertanto occorre distinguere il contributo di A. alla creazione del Consiglio federale spagnolo del Movimento europeo, di cui fu segretario generale quasi ininterrottamente dal 1949 al 1974, l’attività di diffusione dell’idea europea nell’interno della Spagna come elemento di critica e opposizione al franchismo e, soprattutto, la sua attiva partecipazione all’organizzazione della c.d. “Cospirazione di Monaco”, prima riunione dell’opposizione interna ed esterna al franchismo, nella quale si condizionò l’ingresso della Spagna nelle Istituzioni comunitarie alla democratizzazione del paese, avvenuta nell’ambito del IV Congresso internazionale del Movimento europeo nel giugno del 1962. Un’esperienza che si ripeterà alla fine del franchismo, nel gennaio del 1975, nella sede delle stesse Comunità europee a Bruxelles, quando non esisteva ancora alcuna possibilità di negoziazione politica tra la dittatura e le Comunità. L’abilità di A. fu quella di offrire all’Europa l’immagine di una Spagna pronta al cambiamento politico e alla democratizzazione, come poi accadrà effettivamente nel processo di transizione.

Nel 1976 A. tornò in Spagna, stabilendosi a Barcellona, dove proseguirà la sua attività politica nella Segreteria delle relazioni internazionali del Partito socialista di Catalogna, impegnandosi per l’unità delle diverse famiglie del socialismo catalano fino alla definitiva costituzione del Partito dei socialisti di Catalogna (Partit dels socialistes de Catalunya, PSC) formazione che si inquadrò nel Partito socialista operaio spagnolo (Partido socialista obrero español) collaborando con l’ esecutivo federale.

In larga misura, la carriera politica di A. trovò riconoscimento in quest’ultima tappa. Nominato presidente onorario del Consiglio catalano del Movimento europeo, fu altresì insignito da Juan Carlos I, nel 1984, della Gran Croce d’Isabella La Cattolica «per il suo contributo alla costruzione europea e alla integrazione della Spagna nelle Comunità europee», e nel 1986 ricevette la Croce di San Giorgio del Governo di Catalogna «per la sua azione a favore di un’Europa federale». A. morì nel 1987.

M. Juste (2010)




Aho, Esko

A. (Veteli, Finlandia 1954) iniziò la sua carriera politica nel 1974, allorché divenne presidente dell’organizzazione giovanile del Partito di centro finlandese (Suomen Keskusta). Il Partito di centro (fino al 1965 Lega agraria, Maalaisliitto) era ben radicato nella campagna finlandese e godeva del sostegno di agricoltori e di regioni scarsamente popolate. Negli anni Settanta, dopo aver seguito da vicino la politica estera finlandese, A. formalizzò le relazioni dell’organizzazione giovanile del partito con la controparte sovietica (v. anche Finlandia).

A. cominciò a fare esperienza nella politica governativa finlandese nel 1979-80, quando lavorò come segretario politico del ministro degli Esteri Paavo Väyrynen. Nel 1983, al suo terzo tentativo, fu eletto al Parlamento finlandese. Dopo aver rivestito dapprima un ruolo di semplice membro relativamente sconosciuto del gruppo parlamentare, la sua ascesa fino al vertice della politica finlandese fu fulminea e colse molti osservatori di sorpresa. Quando Väyrynen annunciò le sue dimissioni dalla carica di presidente del partito, A. divenne il suo primo successore nel 1990, e l’anno dopo il più giovane primo ministro finlandese (1991-95).

Essendo piuttosto inesperto e non avendo mai ricoperto posizioni di alto livello, A. fu inizialmente considerato una figura di mera rappresentanza del partito guidata dal suo mentore politico. Väyrynen seguitò a occuparsi di politica nazionale e condusse invano due campagne elettorali per la presidenza finlandese. In seguito, quando emersero disaccordi tra i due, A. rimarcò la sua indipendenza da Väyrynen.

Divenuto primo ministro dopo una schiacciante vittoria alle elezioni parlamentari del 1991, A. formò un governo di coalizione di centrodestra. Nel suo premierato prevalsero due questioni: la grave depressione economica e la politica finlandese verso l’Europa. Le questioni di politica estera più tradizionali, quali quella della neutralità e le relazioni con il vicino orientale, rivestirono un’importanza minore con la fine della Guerra fredda e lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991.

Sin dall’inizio, il governo di A. dovette affrontare la depressione più grave sperimentata dalla Finlandia dalla sua indipendenza (1917). La situazione economica peggiorava rapidamente, e raggiunse proporzioni critiche durante il suo primo anno in carica. Il governo sostenne la politica della Banca centrale di difesa del valore del marco finlandese fino alla forzata svalutazione nel novembre 1991 e infine alla fluttuazione della valuta dell’anno successivo, che portò a un’ulteriore svalutazione. Tali misure accelerarono la ripresa delle industrie d’esportazione finlandesi, sebbene la depressione durasse fino al 1994.

I problemi più urgenti dopo le svalutazioni erano la disoccupazione, il debito pubblico e l’instabilità del sistema bancario. Il tasso di disoccupazione, arrivato a circa il 20%, determinò una massiccia spesa pubblica e una revisione dei sussidi di disoccupazione e del sistema previdenziale. I tentativi di A. di riformare il mercato del lavoro centralizzato, riducendo i poteri dei sindacati, misero il governo in aperto conflitto con i beneficiari del sistema. I sindacati respinsero con successo i tentativi di cambiamenti strutturali, ma dovettero accettare i tagli alla spesa pubblica.

Pur occupandosi della crisi economica interna, A. riuscì a compiere un’inversione di tendenza nella politica europea della Finlandia. In stretta cooperazione con il presidente Koivisto, il suo governo prese la decisione politica che nel 1995 portò la Finlandia nell’Unione europea (UE).

Alla fine degli anni Ottanta, la Finlandia aveva compiuto cauti passi verso le istituzioni europee diventando membro della Associazione europea di libero scambio (European free trade association, EFTA) e aderendo al Consiglio d’Europa. Nell’autunno del 1999, la Svezia annunciò la sua intenzione di perseguire l’adesione alla Comunità europea (CE) (v. Comunità economica europea). Tuttavia, l’attenzione si concentrò sui negoziati tra l’EFTA e la CE per creare uno Spazio economico europeo (SEE).

Il primo promotore di una politica europea finlandese fu il presidente Mauno Koivisto. Quando egli si espresse in favore dell’ingresso del paese nella Comunità europea come membro a pieno titolo, A. ne seguì l’esempio. Sembra che il cambiamento avvenisse alla fine dell’autunno del 1991, ma rimane ancora incerto l’esatto ordine degli eventi che portò a questa revisione della politica.

Le opinioni di A. furono influenzate dalla sua posizione avvantaggiata di premier e apparentemente collegate alla gestione simultanea della crisi economica del paese. Anche il fallito colpo di Stato a Mosca e la conseguente instabilità all’interno dell’Unione Sovietica indussero a puntare sull’adesione della Finlandia alla CE come membro a pieno titolo, anziché sugli accordi per il SEE. Gli sviluppi all’interno della CE dopo il Vertice di Maastricht (v. Vertici) nel dicembre 1991 contribuirono a spingere la Finlandia nella stessa direzione.

A. e Koivisto furono entrambi accusati di ostacolare tale processo di revisione politica e di aver adottato una posizione eccessivamente prudente. A. dovette considerare anche la sua posizione all’interno della leadership del Partito di centro. L’opposizione all’adesione della Finlandia alla CE come membro a pieno titolo era diffusa soprattutto tra la base del partito. La gestione della crisi economica e la nuova politica europea della Finlandia minacciarono la coesione del suo governo.

Nell’inverno del 1992, quando la Finlandia presentò la sua candidatura all’UE, A. e Väyrynen si batterono fianco a fianco per convincere il loro partito dei vantaggi dell’adesione. La leadership del partito decise di sostenere la linea del governo, ma tra le sue file continuò a serpeggiare la diffidenza. Ciò nonostante, A. riuscì a mantenere compatto il partito finché l’adesione della Finlandia non venne confermata nel 1994. Se il Partito di centro si fosse diviso sulla questione dell’adesione, l’esito dell’intero processo non sarebbe stato garantito.

Il banco di prova più difficile si ebbe nel 1993, quando Väyrynen sfidò la posizione di A. e diede le dimissioni dalla carica di ministro degli Esteri. A. reagì nominando a sorpresa come suo successore Heikki Haavisto. Il nuovo ministro degli Esteri era presidente della potente Confederazione dei produttori agricoli, che era vicina agli elettori del Partito di centro e critica verso la politica europeista del governo. In qualità di ministro degli Esteri, Haavisto partecipò all’ultima fase dei negoziati con la Commissione europea, soprattutto in rapporto al settore agricolo, contribuendo così a ridurre l’opposizione contro A. all’interno del Partito di centro.

A. affrontò la doppia sfida contro il suo premierato e la sua politica europea, e in seguito divenne il primo capo di governo della Finlandia nell’UE. Tuttavia, l’onere di governare in tempi difficili ebbe il suo prezzo, e nel 1995 il partito di A. perse le elezioni parlamentari. Dall’opposizione, la posizione di A. verso le politiche europee della Finlandia divenne più critica, riflettendo le opinioni prevalenti all’interno del suo partito.

Dopo il fallimento della campagna presidenziale nel 2000, A. gradualmente perse interesse per la politica nazionale e nel 2002 si dimise dalla presidenza del partito. In seguito si interesserà alla politica internazionale extraeuropea. In qualità di presidente del Fondo nazionale finlandese per la ricerca e lo sviluppo – una fondazione pubblica indipendente sotto il controllo del Parlamento finlandese – ha partecipato a vari dibattiti sulle sfide che si trova ad affrontare la Finlandia in un mondo sempre più globalizzato.

Juhana Aunesluoma (2008)




Aigner, Heinrich

A. (Ebarch 1924-Amberg 1988) è stato un parlamentare europeo, esponente del Partito popolare europeo, presidente della Commissione di controllo finanziario del Parlamento europeo dal 20 luglio 1979 al 24 marzo 1988.

La sua proposta (settembre 1973) di sostituire la Commissione di controllo prevista dai Trattati di Roma (1957) con la Corte dei conti europea, è oggetto di una vasta campagna favorevole nell’ambito del Parlamento europeo, soprattutto da parte della Commissione finanziaria. Nel 1975 A. redige il progetto in vista della creazione della Corte dei conti europea.

Sottovalutato dagli storici, A. ha avuto un ruolo essenziale non solo nel passaggio dalla Commissione di controllo prevista dai Trattati di Roma alla Corte dei conti europea, ma soprattutto nel percorso verso le elezioni dirette del Parlamento europeo. Il trattato sull’autonomia finanziaria della Comunità europea del 21 aprile 1970 segna l’avvio, per un gruppo di parlamentari riuniti da A., di una lunga negoziazione con i governi della Comunità europea per ampliare le prerogative di controllo finanziario del Parlamento europeo e attraverso questa manovra arrivare all’elezione diretta dei deputati. Dopo un braccio di ferro soprattutto con il presidente francese Georges Pompidou, deciso a dare al trattato sulle risorse proprie un’interpretazione limitata alle spese amministrative della Comunità e a ritardare l’elezione diretta dei membri del Parlamento europeo, A. diventa promotore di un’iniziativa importante che, attraverso la creazione della Corte dei conti europea, concilia le differenti visioni a proposito del suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Riservando al Parlamento il diritto di veto sul bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) sulla base dei rapporti della Corte dei conti europea, ma lasciando agli Stati l’elezione dei membri della Corte, si stemperano di fatto le diffidenze dei governi della Comunità europea verso l’allargamento delle competenze parlamentari. Grazie a questo compromesso, di cui A. è l’ispiratore principale, il Parlamento condivide con il Consiglio e con la Corte dei conti la prerogativa fondamentale in una democrazia del controllo in materia finanziaria. La rivendicazione per il Parlamento europeo della prerogativa di controllo finanziario, a partire da un sottile spiraglio aperto dal trattato sull’autonomia della Comunità europea (21 aprile 1970), resta in campo europeo la principale intuizione di A. e anche il principale impegno politico del deputato tedesco.

Gli anni successivi alla creazione della Corte dei conti europea vedono infatti A. impegnato al Parlamento europeo sempre nelle file del Partito popolare e dal 1979 al 1988 presidente della Commissione di controllo finanziario della medesima assemblea, ruolo che gli ha permesso di interagire fino alla fine del suo mandato con la Corte dei conti europea.

Valentina Vardabasso (2012)




Albertini, Mario

A. (Pavia 1919-ivi 1997) fu docente all’Università di Pavia – dove insegnò storia contemporanea, scienza della politica, dottrina dello Stato e filosofia della politica – e dirigente del Movimento federalista europeo (MFE) – di cui fu segretario dal 1966 al 1970 e presidente dal 1970 al 1995 – e dell’Unione europea dei federalisti (UEF), di cui fu presidente dal 1975 al 1984. Fondatore nel 1959 della rivista “Il Federalista”, pubblicata anche in inglese dal 1984 con il titolo “The Federalist”, ne rimase direttore fino alla morte.

I fondamenti metodologici della teoria politica

Per delineare la personalità intellettuale di A. si impone un confronto con Altiero Spinelli, il fondatore del MFE, il cui merito maggiore fu quello di avere portato il Federalismo sul terreno dell’azione. Avendo deciso di concentrare ogni energia sull’azione per la Federazione europea, Spinelli si comportò come se si potesse trovare la teoria federalista già elaborata nei classici del pensiero federalista.

A. fu un continuatore di Spinelli, il quale scrisse di lui: «È bene che ci sia nel MFE un tipo di Saint-Just». Egli sviluppò l’autonomia del federalismo soprattutto sul piano teorico, superando il maestro su questo terreno. L’elaborazione teorica di A. si è sviluppata in stretta relazione con le scienze storico-sociali. Queste permettono, attraverso l’analisi delle strutture della produzione e del potere, di conoscere le condizioni oggettive nelle quali sono immersi i nostri comportamenti e che non dipendono dai nostri desideri, per quanto nobili siano. In base a questa conoscenza, si può distinguere, sia pure con un largo margine di approssimazione, ciò che nella storia deve essere attribuito al corso oggettivo degli eventi e ciò che invece può essere determinato dalla libera volontà, cioè dalla progettazione politica. Le scienze storico-sociali contribuiscono dunque a definire lo spazio che nella storia appartiene rispettivamente alla necessità e alla libertà. Esse svolgono una funzione indispensabile per l’azione politica. Quindi, solo se si riconosce il posto che occupa la necessità nella storia e si conoscono le leggi che governano il funzionamento della società è possibile individuare gli spiragli che si aprono all’intervento trasformatore dell’azione umana.

L’atteggiamento di A. nei confronti della scienza era analogo a quello del giovane Marx, secondo il quale la prova della verità del pensiero sta nella capacità di trasformare la realtà. L’approfondimento teorico è dunque per A. espressione di un’esigenza pratica. Il modello elaborato da A. per l’analisi politica è il risultato della sintesi di diverse teorie: il materialismo storico, la teoria della ragion di Stato, la teoria dell’ideologia.

Il materialismo storico

Il materialismo storico è la teoria che considera il modo di produrre come il fattore determinante in ultima istanza del corso storico e del mutamento sociale. Il presupposto di tutta la storia umana sono gli individui reali che producono i loro mezzi di sussistenza. Il modo di produzione è la categoria che rappresenta la pietra angolare e il principio ordinatore dell’intera realtà sociale. A. ha sottoposto il materialismo storico a una revisione critica e l’ha considerato come il tipo ideale più generale sul quale è possibile fondare l’architettura delle scienze sociali. «Se non si confonde,» egli scrive, «il concetto di produzione sociale con quelli, meno generali, di classe o di economia in senso specifico, e se non si concepisce l’evoluzione della produzione come la causa necessaria e sufficiente, ma soltanto come la causa necessaria, del divenire storico, […] non si può non ammettere: a) che il modo di produrre sia davvero il fenomeno storico più generale; b) che ad esso debbano effettivamente corrispondere la dimensione e la natura degli altri fenomeni sociali (sociali in senso lato: economici, giuridici, politici, culturali ecc.)» (v. Albertini, Nazionalismo… 1999, pp. 109-110).

Lo Stato e il sistema mondiale degli Stati costituiscono il quadro giuridico e politico nel quale si svolge il processo produttivo. A essi Marx ed Engels attribuiscono un ruolo sovrastrutturale. Ciò non significa che tale ruolo sia irrilevante nella determinazione del corso storico. Senza lo Stato, cioè senza l’ordine pubblico e la difesa nei confronti degli altri Stati, e senza il sistema mondiale degli Stati, cioè senza un minimo di ordine internazionale, non sarebbe possibile il funzionamento del processo produttivo. Il rapporto che esiste tra i processi storico-sociali e le strutture politiche è, per utilizzare una famosa immagine di Lev Trockij, lo stesso che esiste tra il vapore e un cilindro a pistone. Il movimento dipende dal vapore, ma senza il cilindro a pistone, il vapore si volatilizzerebbe.

Le strutture del potere possiedono una “relativa autonomia”, obbediscono cioè alle leggi specifiche della vita politica, le quali solo “in ultima istanza” sono costrette a piegarsi alle esigenze della produzione. L’adozione di questa teoria consente ad A. di formulare un giudizio complessivo sulla società contemporanea e di identificare la tendenza di fondo della storia del nostro tempo, «la tendenza verso l’unità del genere umano». È una tendenza irreversibile: «Nelle prime tappe della rivoluzione industriale la crescita dell’interdipendenza dell’azione umana si sviluppa soprattutto in profondità, all’interno degli Stati. Con la lotta liberale e democratica della borghesia contro l’aristocrazia e la lotta socialista del proletariato contro la borghesia stessa, questa fase ha prima intensificato, e poi superato, la divisione in classi antagonistiche delle società evolute. Tuttavia, a causa di questa integrazione, essa ha rafforzato contemporaneamente la divisione dell’umanità in gruppi separati costituiti dagli Stati burocratici e idealizzati, nella rappresentazione ideologica, come delle parentele di sangue o di non si sa che cosa, le “nazioni”. La crescita in estensione dell’interdipendenza dell’azione umana farà saltare la divisione dell’umanità in nazioni». Secondo A., «siamo già entrati nel corso storico che disarmerà le nazioni, unendole nella Federazione mondiale». (ivi, p. 110).

La teoria della ragion di Stato

Il materialismo storico non è sufficiente a fornire le coordinate entro le quali collocare l’analisi federalista. L’azione rivoluzionaria è un’azione politica che tende innanzi tutto a trasformare le strutture del potere. Di qui la rilevanza dell’analisi politica. A. mutua dalla teoria della ragion di Stato l’ipotesi che nella vita politica prevalgano i comportamenti che rafforzano la sicurezza e la potenza dello Stato. La componente interna della ragion di Stato è espressione dell’esigenza dello Stato di affermare la propria sovranità rispetto agli altri centri di potere esistenti sul suo territorio, di attribuire cioè al governo il monopolio della forza e allo Stato il controllo sulla società civile. La componente esterna della ragion di Stato è la conseguenza della dispersione della sovranità tra molti Stati. Con il consolidamento della sovranità dello Stato moderno, la componente esterna è diventata la manifestazione più rilevante della ragion di Stato. A causa della divisione del mondo in Stati sovrani, che non riconoscono nessun potere superiore, la forza domina nelle relazioni internazionali e la sicurezza occupa il primo posto nelle preoccupazioni dei governi. «Ne consegue», scrive A., «l’insicurezza universale e un costante stato di tensione e di preparazione militare – la situazione chiamata a buon diritto dai federalisti “anarchia internazionale” – nonché la degenerazione autoritaria degli Stati. Ne consegue inoltre il disordine economico» (Id., 1993, p. 145).

Per garantire la sicurezza, i governi sono disposti a sacrificare ogni altro valore della convivenza politica e a impiegare qualsiasi mezzo, violando, se necessario, le norme del diritto e della morale. La ragion di Stato è una forza motrice cieca e irresistibile, che non sopporta limiti e si impone a qualsiasi uomo di Stato indipendentemente dai principi ai quali ispira la sua azione. Non è la libera scelta di un valore (la guerra piuttosto che la pace, l’autoritarismo piuttosto che la libertà), ma è il riconoscimento della necessità di adattare la struttura e la politica dello Stato alle condizioni interne e internazionali della sua sopravvivenza.

Solo nell’ambito del pensiero federalista la teoria della ragion di Stato può essere pensata con rigore. «Solo la finalità della pace», nota A., «che comporta il proposito di controllare nell’interesse generale la politica di tutti gli Stati e non solo quella del proprio, fa della politica internazionale un oggetto autonomo della volontà umana. In ogni altro caso, limitandosi ciascuno al proposito di controllare direttamente solo la politica del proprio Stato, la politica internazionale dipende soprattutto dall’andamento del cozzo fra gli Stati, cioè da un fattore che trascende la volontà di tutti […] Solo la teoria del governo supernazionale, ossia la conoscenza del fatto che si possono controllare i rapporti tra gli Stati, e del modo con il quale si può far cessare il loro cozzo, configura le relazioni internazionali come un processo fatto dagli uomini e sottoposto alla scelta degli uomini, e quindi anche come un’attività la cui causa è compiutamente nota e perfettamente spiegabile» (ivi, p. 144).

La teoria della ragion di Stato non è una legge eterna della politica, ma la teoria della politica di una fase della storia: quella dell’anarchia internazionale. Il federalismo consente di stabilire «il confine entro il quale il concetto [di ragion di Stato] può e deve essere applicato». Esso «deve essere pensato come qualcosa che sta con un certo tipo di organizzazione politica del genere umano (sistema di Stati sovrani ed esclusivi, difesa armata dell’indipendenza nazionale, necessità per ogni nazione di massimizzare le sue risorse di forza, subordinazione di tutte le nazioni alla gerarchia dei rapporti di forza e di tutti i valori a quello della difesa della nazione), e cade con un altro tipo di organizzazione (federazione mondiale, indipendenza delle nazioni assicurata dal diritto, eguaglianza delle nazioni come conseguenza della eliminazione della difesa armata e quindi anche della gerarchia stabilita dai rapporti di forza)» (ibid., pp. 220-221).

La concezione materialistica della storia e la teoria della ragion di Stato sono di solito considerate incompatibili, come le correnti di pensiero che le hanno prodotte. Tuttavia, se considerate complementari, permettono di chiarire correlazioni altrimenti inspiegabili. Per esempio, il materialismo storico spiega la relazione esistente tra l’industrializzazione e la nascita dei moderni Stati burocratici di dimensioni nazionali. Ciò che spiega la differenza tra la struttura rigida e accentrata degli Stati del continente europeo e quella elastica e decentrata della Gran Bretagna è un fattore politico: la pressione militare che gli Stati subivano ai propri confini era più forte sul continente che sulle isole. È un fattore che non ha un rapporto diretto con la struttura del sistema produttivo

L’ipotesi di A. è che il materialismo storico e la teoria della ragion di Stato siano modelli complementari. Il materialismo storico consente di spiegare il rapporto esistente tra una determinata fase dell’evoluzione del modo di produrre e la dimensione e la forma degli Stati, mentre il campo di variabilità non definito dal materialismo storico sarebbe coperto dalla teoria della ragion di Stato, intesa come teoria che si fonda sul principio dell’autonomia relativa del potere politico rispetto all’evoluzione del modo di produrre. L’ipotesi della complementarità, sembra permettere di avvicinarsi maggiormente di quanto non sia in grado di fare ciascuno dei due approcci alla conoscenza e alla previsione del corso della storia.

La teoria dell’ideologia

In terzo luogo, A. sviluppa la teoria dell’ideologia, intesa come la forma che il pensiero assume nella sfera della politica. Le ideologie, sulla base della loro proiezione verso il futuro e del tentativo, mai pienamente realizzato, di giungere a una conoscenza globale della situazione storica che le ha prodotte (le ideologie hanno sempre riunito conoscenze teoriche e mistificazioni), indicano alla volontà umana un valore da realizzare e i mezzi relativi.

La parola ideologia ha due significati. «Se è inevitabile, sul piano del linguaggio comunemente usato (dopo Marx), far corrispondere al termine “ideologia” l’automistificazione politica e sociale», nota A., «non è possibile tuttavia ridurre le “ideologie” (al plurale: liberalismo ecc.) alla pura e semplice “ideologia” (al singolare: automistificazione). Non ha senso identificare in toto il liberalismo, il socialismo, ecc. con l’automistificazione. Le grandi ideologie tradizionali, sino al marxismo, sono gran parte del nostro patrimonio di cultura politica e dei nostri strumenti di conoscenza dei fatti storico-sociali, anche se è vero che si tratta di un sapere in forma non critica (senza possibilità di controllo che non siano quelle della saggezza) e se inoltre è vero che, anche a causa di ciò, è in seno a queste ideologie che si manifesta l’ideologia come automistificazione». A. imposta così il nesso fra le due nozioni di ideologia: «Come processo mentale l’automistificazione dipende […] dalla confusione tra giudizi di valore e asserzioni di fatto. Ne segue che se si distingue e si isola il valore, si fa cadere tutto ciò che è fatto travestito da valore e si ricupera tutto ciò che è valore travestito da fatto. Ciò mostra che l’automistificazione non si manifesta (o può essere eliminata) se si elabora (o si rielabora) il valore in quanto tale, cioè come il modello di una situazione desiderabile, senza confondere l’elaborazione del modello o scopo con la conoscenza dei mezzi adeguati per conseguirlo» (ivi, p. 92).

Le ideologie sono schemi concettuali che servono a conoscere la società e la storia e a orientarne il cambiamento. Definiscono un progetto politico che mette in luce il senso di un’epoca storica attraverso l’affermazione delle istituzioni e dei valori corrispondenti. L’ideologia è, secondo A., la forma che assume il pensiero politico attivo. Essa rende possibile la convergenza di pensiero indispensabile alla coesione di un gruppo politico e alla coerenza dei suoi princìpi di azione. Si distingue dal pensiero filosofico e religioso per il suo carattere attivo, cioè per il suo orientamento verso l’azione.

Il federalismo come ideologia

Poiché le istituzioni sono condizionate dalla società, la quale costituisce l’infrastruttura delle istituzioni, e queste a loro volta costituiscono strumenti di governo che servono a produrre decisioni politiche e quindi a perseguire determinati valori, una definizione completa del federalismo esige che, accanto all’aspetto istituzionale, si considerino anche l’aspetto storico-sociale e l’aspetto di valore. Se studiato da questi tre punti di vista, il federalismo si presenta come un’ideologia che ha un aspetto di struttura (lo Stato federale), un aspetto di valore (la pace) e un aspetto storico-sociale (il superamento della divisione della società in classi e in nazioni).

L’aspetto di valore del federalismo è la pace. La relazione che esiste tra il federalismo e la pace è la stessa che esiste tra il liberalismo e la libertà, la democrazia e l’uguaglianza, il socialismo e la giustizia sociale. In questa prospettiva A. ricupera la visione kantiana, la cui attualità è messa all’ordine del giorno dalla crisi dello Stato nazionale e dalla crescita al di là delle frontiere degli Stati dell’interdipendenza dell’azione umana, di cui l’unificazione europea è l’espressione più sviluppata. Questi fenomeni vanno intesi come premesse della realizzazione della pace perpetua attraverso la costruzione della Federazione mondiale. Negare, con la Federazione europea, la nazione significa negare «la cultura della divisione politica del genere umano» e significa, nello stesso tempo, affermare «nella stessa sede delle nazioni» il «modello multinazionale, […] la cultura politica dell’unità del genere umano» (ivi, pp. 288-289).

L’aspetto di struttura del federalismo è lo Stato federale, che permette di superare le strutture chiuse e accentrate dello Stato nazionale verso il basso con la formazione di vere autonomie regionali e locali e verso l’alto con la realizzazione di effettive forme di solidarietà politiche e sociali al di sopra degli Stati nazionali.

L’aspetto storico-sociale del federalismo consiste nel superamento della divisione del genere umano in classi e in nazioni antagonistiche, che apre la via verso la formazione di una società federale, nella quale il lealismo verso la società complessiva coesiste con quello verso le comunità territoriali più piccole e nessuno prevale sull’altro. Nelle società federali finora esistite questo equilibrio sociale si è sviluppato parzialmente, perché, da una parte, la lotta di classe ha fatto prevalere il senso di appartenenza alla classe su ogni altra forma di solidarietà sociale e ha impedito che si radicassero forti legami di solidarietà nelle comunità regionali e locali e, d’altra parte, la lotta tra gli Stati sul piano internazionale ha determinato il rafforzamento del potere centrale a scapito dei poteri locali.

La concezione del federalismo come ideologia non permette solo di illuminare i limiti delle concezioni riduttive, che definiscono il federalismo come una mera tecnica costituzionale (Kenneth Wheare). La critica di A. si indirizza anche contro quelle correnti, come il federalismo integrale di Alexandre Marc o di Denis de Rougemont e quella che fa capo a Daniel Elazar, che danno rilievo al solo aspetto sociale. Si tratta, secondo A., di una concezione generica e storicamente indeterminata, che colloca le origini del federalismo nella notte dei tempi, quando si costituirono le prime forme di associazione fra tribù, e ne trova tracce in ogni epoca: nelle leghe tra le città-Stato della Grecia antica, nell’Impero romano, nell’età dei Comuni dell’Italia e della Germania medievali, nel Sacro romano impero e così via.

Secondo A., la democrazia rappresentativa è un requisito essenziale delle istituzioni federali. La prima Costituzione federale è dunque quella degli Stati Uniti, mentre non hanno carattere federale le formazioni politiche precedenti, come quelle sopra ricordate, le quali, pur presentando un’articolazione territoriale del potere, non avevano una struttura democratica. Possono tutt’al più essere classificate come manifestazioni precorritrici del federalismo.

Crisi dello Stato nazionale e unificazione europea

La definizione sopra ricordata ha consentito ad A. di periodizzare le fasi di sviluppo del pensiero federalista. La prima fase, che va dalla Rivoluzione francese alla Prima guerra mondiale, è caratterizzata dall’affermazione, sia pure soltanto sul piano dei princìpi, della componente comunitaria e cosmopolitica del federalismo contro gli aspetti autoritari e bellicosi dello Stato nazionale. Nella seconda fase, che va dalla Prima alla Seconda guerra mondiale, i criteri del federalismo furono impiegati per interpretare la crisi dello Stato nazionale e del sistema europeo delle potenze. Nella terza fase, cominciata dopo la Seconda guerra mondiale e tuttora in corso, l’impiego degli schemi concettuali e degli strumenti politici e istituzionali del federalismo è necessario per risolvere la crisi dell’Europa.

È più facile comprendere il significato del federalismo se si comincia a considerarlo dal punto di vista di ciò che nega piuttosto che da quello di ciò che afferma. Le determinazioni positive della teoria federalista si sono precisate attraverso l’esperienza della negazione della divisione del genere umano in Stati sovrani e della centralizzazione del potere politico. Poiché questi fenomeni si sono manifestati nella forma più netta nell’Europa delle nazioni, il federalismo si è venuto configurando innanzi tutto come negazione dello Stato nazionale.

A. ha elaborato una nuova teoria della nazione allo scopo di demolire il paradigma naziocentrico della politica, espressione di una cultura arcaica, incapace di affrontare i grandi problemi del mondo contemporaneo. Il metodo impiegato da A. è quello di definire la nazione in base all’osservazione empirica dei comportamenti degli individui. Il comportamento nazionale è un comportamento di fedeltà. Il riferimento oggettivo di questo comportamento è lo Stato, il quale però non è pensato come tale, ma come entità illusoria, alla quale sono collegate esperienze culturali, estetiche, sportive, il cui carattere specifico non è nazionale. Perché, si domanda A., quando un italiano guarda il golfo di Napoli, dice: «L’Italia è bella»? Alla base di quest’affermazione c’è un fatto politico. Gli individui, che frequentano scuole nazionali, celebrano feste nazionali, pagano tasse nazionali, fanno il servizio militare nazionale, che li prepara a uccidere e a morire per la nazione, esprimono questi comportamenti in termini di fedeltà a un’entità mitica, la nazione, rappresentazione idealizzata degli Stati burocratici e accentrati. Questa idealizzazione della realtà è il riflesso mentale dei rapporti di potere tra gli individui e lo Stato nazionale.

A. ha esteso la nozione di ideologia, che Marx aveva collegato alle posizioni di classe, ai rapporti di potere all’interno dello Stato. Su questa base è possibile demistificare l’idea di nazione, che era nata come idea rivoluzionaria e oggi si è trasformata in un fattore di conservazione. Nella misura in cui raffigura la divisione politica tra le nazioni come giusta e naturale e persino sacra, essa contrasta la tendenza di fondo della storia contemporanea, l’internazionalizzazione del processo produttivo, che esige che lo Stato si organizzi su vasti spazi politici secondo schemi multinazionali e federali.

La negazione dello Stato nazionale da parte del pensiero federalista si è manifestata fin dall’epoca della Rivoluzione francese, cioè fin dal primo apparire dell’ideologia nazionale. Ma per lungo tempo tale negazione si è espressa solo sul piano dei principi. Nella realtà storica non si erano ancora formate condizioni tali da permettere al federalismo di presentarsi come alternativa politica all’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali e di tradursi in azione politica.

La situazione muta con l’avvento della società industriale, e più precisamente con la seconda fase del processo di industrializzazione, che «aumenta l’intensità e la frequenza dei rapporti fra gli individui di Stati diversi, ampliando così la sfera della politica internazionale» (ivi, p. 147). A questo punto comincia a manifestarsi un fenomeno nuovo: la crisi dello Stato nazionale. Questo è il concetto sul quale si fonda l’autonomia teorica del federalismo contemporaneo. Esso occupa il posto centrale che nella teoria liberale ha il concetto di “crisi dell’ancien régime” e nella teoria socialista e comunista quello di “crisi del capitalismo”. Esso permette di individuare la contraddizione di fondo di un’intera epoca e di formulare un giudizio storico globale su di essa. È questo un concetto che tanto Trockij quanto Luigi Einaudi hanno utilizzato per spiegare la Prima guerra mondiale. L’imperialismo tedesco è inteso come l’espressione negativa del bisogno di unità dell’Europa. L’alternativa a un’Europa unificata con la violenza sta per entrambi negli Stati Uniti d’Europa. Solo dopo la Seconda guerra mondiale diventa possibile perseguire questo obiettivo.

L’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) rappresenta il problema storico che sta al centro dell’elaborazione teorica di A. Egli ha elaborato una grande quantità di categorie analitiche che costituiscono un complesso apparato concettuale necessario a dominare teoricamente e praticamente il processo. Non c’è spazio, in questa sede, per illustrarne tutti gli aspetti. Ci limiteremo quindi a tracciarne le linee di fondo.

Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati nazionali «non sono più in grado di far fronte da soli ai due compiti fondamentali che si pongono a ogni Stato: quelli dello sviluppo economico e della difesa dei cittadini». Di qui la crisi del consenso verso le istituzioni nazionali. Ne consegue che i governi nazionali «si trovano permanentemente di fronte all’alternativa dell’impotenza nella divisione e della forza nella unità […] La loro stessa ragion di Stato […] li obbliga, senza via di scampo, a risolvere insieme i problemi» (ivi, p. 237).

Nel 1968 A. giunge alla conclusione che l’integrazione europea ha ormai assunto un «carattere irreversibile». Così argomenta questa asserzione: «L’integrazione nell’ambito dei Sei non è che lo stadio più avanzato di un processo più vasto di integrazione dell’attività umana a livello mondiale che sembra rivesta il carattere di un nuovo ciclo storico al suo inizio, ossia quello di una forza storica irreversibile. Un’evoluzione di questo genere non esclude, ovviamente, la possibilità di crisi, o addirittura di periodi di arresto e di involuzione, che potrebbero anche riguardare, in ipotesi, lo stesso Mercato comune [v. Comunità economica europea]. Ma esclude, in linea di principio, la possibilità di un ritorno stabile a forme di mercato nazionale chiuso». E conclude che l’irreversibilità del processo dipende «dall’evoluzione stessa del modo di produrre, cioè da un fatto storico primario» (ivi, p. 235).

A. ha dedicato gran parte delle sue energie intellettuali allo studio dell’unificazione europea, intesa come la prima espressione del corso sovrannazionale della storia. Il federalismo è la teoria che consente di conoscere e di controllare questo processo. Esso ha un ruolo analogo a quello svolto in passato dalle ideologie liberale, democratica e socialista: attraverso l’elaborazione e l’affermazione della cultura della pace, propone un progetto di società capace di dare una risposta ai maggiori problemi della nostra epoca e riapre la possibilità di pensare l’avvenire, che si era offuscata nell’ambito delle ideologie tradizionali a causa dell’esaurimento della loro spinta rivoluzionaria.

La Federazione europea si collocherà «sul terreno della negazione della divisione politica del genere umano». Questa è, secondo A., «la cosa storicamente più importante. La cultura nazionale, come teoria della divisione politica del genere umano, è la cultura che ha legittimato nei fatti, mistificando il liberalismo, la democrazia e il socialismo, sovietico o non, il dovere di uccidere. La cultura della negazione della divisione politica del genere umano è la negazione storica di questo dovere; è l’affermazione, nella sfera del pensiero, del diritto politico, e non solo spirituale, di non uccidere, e perciò il quadro storico della lotta per affermarlo anche in pratica, al di là della Federazione europea, con la Federazione mondiale» (ivi, p. 135).

Il gradualismo costituzionale

L’unità europea, come era stata pensata da Spinelli durante la Seconda guerra mondiale nel confino di Ventotene (v. anche Manifesto di Ventotene), non era una semplice previsione storica. Era l’obiettivo di un’azione politica. Dopo la guerra, essa divenne progressivamente una realtà economica e istituzionale, basata sull’interesse dei governi a collaborare tra di loro e a promuovere una politica di integrazione.

In relazione a questi sviluppi, l’obiettivo strategico che il MFE scelse fin dalla fondazione – materializzare l’adesione dei cittadini all’unità europea attraverso campagne di agitazione dell’opinione pubblica per preparare la convocazione di un’Assemblea costituente europea – si modifica nella prospettiva del «gradualismo costituzionale». Questa espressione, coniata da A., indica una svolta nella strategia federalista, che abbandona il massimalismo delle origini, trae una lezione dal successo del gradualismo economico e colloca l’obiettivo costituente alla fine di una serie di atti costituzionali intermedi, che rappresentano altrettante tappe della costruzione della Federazione europea. Queste tappe sono le Elezioni dirette del Parlamento europeo e la moneta unica (v. Unione economica e monetaria; Euro). A. individuò in anticipo quegli obiettivi e il MFE e l’UEF contribuirono a realizzarli, costruendo lo schieramento di forze politiche e sociali e il consenso dell’opinione pubblica necessari.

Il federalismo e le altre ideologie

La finalità della pace qualifica il federalismo come ideologia indipendente. La posizione verso la pace e la guerra distingue il federalismo dalle altre ideologie.

I teorici liberali, democratici e socialisti, quando hanno pensato all’avvenire delle relazioni internazionali, hanno immaginato che i popoli, divenuti padroni del loro destino grazie alla liberazione dal dominio monarchico e aristocratico o da quello borghese e capitalistico, non avrebbero più fatto ricorso alla guerra. Ciò che accomuna il liberalismo, la democrazia e il socialismo è la visione della politica internazionale chiamata internazionalismo, che interpreta la politica internazionale con le stesse categorie con le quali spiega la politica interna, imputa le tensioni internazionali e le guerre esclusivamente alla natura delle strutture interne degli Stati e considera la pace come una conseguenza automatica e necessaria della trasformazione delle strutture interne degli Stati. L’internazionalismo è una concezione politica che, dal punto di vista teorico, non riconosce autonomia al sistema politico internazionale rispetto alla struttura interna degli Stati e alla politica estera rispetto alla politica interna e, dal punto di vista pratico, considera prioritario l’impegno per realizzare la libertà e l’uguaglianza all’interno dei singoli Stati e assegna un ruolo subordinato agli obiettivi della pace e dell’ordine internazionale.

Al contrario, il pensiero federalista individua nell’anarchia internazionale il fattore che impedisce di consolidare la libertà, la democrazia e la giustizia sociale all’interno degli Stati e indica nella pace, cioè nella creazione di un ordine giuridico internazionale, la condizione per sconfiggere le tendenze bellicose e autoritarie sempre latenti nello Stato. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento del punto di vista ancora oggi prevalente, che considera prioritaria la riforma dello Stato rispetto all’obiettivo dell’ordine internazionale e ha l’illusione che la pace possa essere la conseguenza automatica dell’affermazione dei principi liberali, democratici e socialisti all’interno dei singoli Stati.

In definitiva, «mentre l’affermazione storica di ciascuna di queste ideologie costituisce una delle premesse della pace, la pace, a sua volta (come governo mondiale) costituisce la premessa necessaria della loro realizzazione completa, ciò mostra immediatamente che non si può costruire la pace con il semplice rafforzamento di queste ideologie» (ivi, p. 171).

La relazione tra il federalismo e le altre ideologie non è competitiva, ma complementare. Il federalismo «non si presenta come un’ideologia alternativa al liberalismo, alla democrazia e al socialismo che, avendo espresso e organizzato la liberazione della borghesia, della piccola borghesia e del proletariato, hanno assunto storicamente forme antagonistiche e reciprocamente esclusive, limitando così la realizzazione stessa dei loro valori di libertà e di uguaglianza – che in quanto tali sono complementari e non alternativi. Ne segue che il federalismo […] può svilupparsi solo collaborando ad un’affermazione sempre più completa dei valori di libertà e di uguaglianza mediante quello della pace, che solo nel federalismo trova la sua sistemazione morale, istituzionale e storica» (ivi, pp. 181-182).

Modelli normativi e filosofia della storia

Lo studio del federalismo ha rivelato l’esistenza di un aspetto di valore di questo concetto. Si tratta di una caratteristica propria di tutti i concetti cruciali del vocabolario politico a partire dalla parola “politica”. Machiavelli aveva osservato che i conflitti politici possono essere risolti con mezzi legali o con mezzi violenti. Questo fatto si presenta come una lacerazione nel tessuto della convivenza politica e una contraddizione nei significati della vita politica. L’analisi empirica della politica, che si limita a osservare la realtà com’è, si manifesta come un approccio parziale, che rinvia all’idea di un obiettivo non raggiunto: la politica emancipata dalla violenza.

A. aveva cominciato la sua riflessione sulla politica elaborando le proprie categorie nell’ambito della scienza politica, ma ben presto si rese conto che l’approccio descrittivo o empirico non consentiva di giungere a un’analisi completa dei problemi della politica. Secondo A., «La politica non è veramente sé stessa se lascia sussistere, accanto alla sfera dei rapporti veramente giuridici, una sfera di rapporti di forza e di sopraffazione […]. Questa idea […] della politica, pur essendo un aspetto costante del processo storico, cioè proprio un aspetto […] della politica nel suo farsi, non è ancora diventata uno degli elementi della conoscenza positiva della realtà sociale. Questa idea è ancora confinata nei campi dell’utopia e dell’ideologia […] Lo studio positivo dei fatti, d’altra parte, resta a sua volta confinato nel cosiddetto ‘realismo’ […], che in verità non è affatto realistico ma riduttivo perché non sa considerare reali gli ideali» (Id., 1974, pp. 105-106).

Lo studio di autori come Kant, per quanto riguarda la pace, e Pierre-Joseph Proudhon, per quanto riguarda la proprietà, mette in luce la possibilità di superare i limiti teorici di un esame separato dei due aspetti della politica. «Partendo da un dato primario di osservazione, le caratteristiche empiriche» dei rapporti di forza, che si manifestano rispettivamente nella proprietà o nelle relazioni internazionali, «e da un fatto primario teorizzabile, la trasformazione rivoluzionaria del comportamento umano, Proudhon ha potuto dimostrare che […] l’economia diventa se stessa, cioè può fondarsi davvero sul lavoro se, e solo se, svolgendosi sulla base del diritto e non sulla base di uno scontro degli interessi allo stato brado, toglie di mezzo la sopraffazione dei deboli da parte dei forti» (ivi, p. 106), e Kant ha potuto dimostrare che la politica diventa se stessa se, espulsa la violenza dalle relazioni internazionali, ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza, ma solo dalla forza collettiva di una grande Federazione di popoli. In definitiva, Proudhon e Kant pensavano che i rapporti di forza appartenessero alla sfera della patologia sociale e che i modelli normativi da essi elaborati rappresentassero «nel loro insieme il modello della società (fisiologia sociale)» (ivi, p. 107).

La disposizione mentale di A. verso la politica è quello dello scienziato, ma di uno scienziato che ha un atteggiamento attivo verso la politica. Ebbene, la politica è espressione del «tentativo di sottoporre il futuro ai piani della ragione. Ciò comporta, tra l’altro, che si ammetta la presenza della ragione nella storia (cioè che la storia abbia un senso); e comporta anche che si scelga di fatto il progresso – invece di chiedersi in astratto se è possibile o impossibile – evitando così l’errore catastrofico di applicare la ragione a tutto meno a ciò che decide di tutto, il corso della storia» (Id., Nazionalismo, 1999, p. 144).

A. ha dedicato una gran parte del suo lavoro teorico alla discussione dei modelli normativi, in particolare a quello della pace, che ha consentito di definire i lineamenti più generali del progetto federalistico.

La teoria della pace

Ricuperando la lezione kantiana che indica nella pace la finalità ultima del corso della storia, A. costruisce la teoria della pace come un modello normativo. La pace è il valore che consente di dare un ordine razionale al mondo e un senso alla storia. Essa è definita da Immanuel Kant in termini nuovi, che si allontanano dall’accezione che la parola ha ancora oggi: la pace intesa come mancanza di ostilità o come sospensione delle ostilità nell’intervallo tra due guerre (pace negativa). Secondo Kant, la pace non è uno stato di natura, ma è qualcosa che dev’essere istituito attraverso la creazione di un ordinamento giuridico e garantito da un potere superiore agli Stati (pace positiva). Definendo la pace come l’organizzazione politica che rende la guerra impossibile, Kant traccia una nuova linea di divisione tra pace e guerra e colloca la tregua (cioè la situazione nella quale, anche se sono cessate le ostilità, permane la minaccia che si riaprano) sul versante della guerra.

Tuttavia il dogma sul quale si fonda tuttora il pensiero politico dominante è che la nostra nazione costituisce il centro dell’universo politico. Il paradigma Stato-centrico considera la politica dal punto di vista dell’interesse nazionale e della sua promozione e non da quello del bene comune dell’umanità. Da una parte, nota A., «il mondo degli Stati […] è il mondo della guerra». D’altra parte, «all’interno di ogni Stato la politica è proprio l’attività con la quale si risolvono pacificamente i conflitti». Inoltre, «la storia presenta […] una tendenza costante verso l’allargamento della dimensione degli Stati, cioè verso la trasformazione di precedenti aree di guerra in aree di pace interna». Se la politica è «il processo di eliminazione graduale delle guerre, […] la guerra è l’espressione dell’imperfezione della politica e la pace è espressione della perfezione della politica» (ivi, p. 169).

A. ha sviluppato in diverse occasioni analisi sulla natura della Federazione mondiale. Qui ricordiamo quella che mette in relazione il governo mondiale con il controllo del processo storico. «Con l’idea del governo mondiale», osserva A., «acquisiamo la possibilità di pensare distintamente il processo storico non controllato e quello controllato. In questo caso […] la volontà generale, che si forma ormai anche a livello mondiale, non deve più sottostare alla necessità (come cozzo internazionale delle volontà nazionali). La volontà politica passa pertanto dalla sfera dell’eteronomia a quella dell’autonomia. E ciò comporta, nel contempo, il passaggio da una storia di carattere deterministico a una storia guidata dalla libertà» (ivi, p. 167). Con il governo del mondo, la politica mondiale cessa di essere il risultato dello scontro anarchico tra gli Stati e può diventare oggetto di scelte libere e democratiche. I fini della politica non sono più scelti sotto la pressione della necessità, ma dalla ragione.

Lucio Levi (2010)




Albonetti, Achille

Nato a Venezia il 6 febbraio 1927 da Giovanni e Maria Sangiorgi, A. si laurea in Legge e nel 1950 entra nella delegazione tecnica dell’Ambasciata italiana a Washington. Nel 1953 diventa consigliere economico della rappresentanza italiana all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), carica che conserva sino al 1961.

Nella nuova fase di rilancio comunitario inaugurata dalla Conferenza di Messina, A. ha quindi apportato un significativo contributo alla costruzione europea. Dapprima, nell’estate del 1955, grazie alla partecipazione ai lavori della prima Conferenza di Bruxelles, nella quale un gruppo di personalità e di esperti era stato chiamato a redigere un rapporto contenente le linee generali di un progetto per l’integrazione europea nel campo nucleare. Poi, dopo la riunione dei ministri degli Esteri a Venezia, tenutasi nel maggio 1956, allorché prende parte alla seconda Conferenza di Bruxelles, come membro del gruppo di lavoro incaricato di elaborare il testo del Trattato Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica). Proprio in quell’occasione egli giocherà un ruolo importante, sbloccando con un’abile mediazione una difficile situazione di stallo provocata dal contrasto franco-tedesco sul sistema degli approvvigionamenti.

Una ricostruzione e un’interpretazione di tale vicenda sarà tracciata a caldo dallo stesso A. nel fortunato volume Euratom e sviluppo nucleare, pubblicato nel 1958 a Milano. Si tratta della sua prima opera, alla quale avrebbe poi fatto seguito il volume Preistoria degli Stati Uniti d’Europa, uno dei primi testi di storia dell’integrazione europea, pubblicato nel 1960 e poi uscito in edizione tedesca nel 1961, francese nel 1963 e in seconda edizione italiana nel 1964.

Sfruttando le competenze acquisite in ambito comunitario, A. nel biennio 1958-1959 s’impegna nella Comunità economica europea, dapprima in qualità di capo di gabinetto della vicepresidenza e poi come assistente speciale del presidente Walter Hallstein. Dal 1960 è direttore per gli Affari internazionali e studi economici, quindi, sino al 1980, direttore centrale delle Relazioni esterne, del Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN, oggi ENEA). Tutta la sua attività si fonda sulla convinzione della necessità di puntare sull’energia atomica nella produzione di elettricità, coniugando questo obiettivo con sincere idealità europeistiche. Tali idealità si riflettono inevitabilmente nella sua produzione bibliografica degli anni Sessanta, che spazia da Europeismo e atlantismo (1963) a La collaborazione internazionale nucleare (1963), da L’Europa e la questione nucleare (1964) a Divario tecnologico, la ricerca scientifica e produttività in Italia e negli Stati Uniti (1967), sino a Egemonia o partecipazione? Una politica estera per l’Europa (1969).

Imponente risulta anche la sua bibliografia degli anni Settanta, che comprende titoli quali L’Europa e l’energia nucleare (1972), Energia nucleare e crisi energetica europea (1974), Un manifesto per la libertà (1976), L’Italia e l’atomica (1976), Gli Stati Uniti, l’Italia e l’eurocomunismo (1977) e Gli Stati Uniti e il PCI da Kissinger a Carter (1978). Membro di vari e qualificati comitati internazionali, dal 1973 al 1980 A. sarà governatore per l’Italia dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) dell’Organizzazione delle nazioni Unite.

Condirettore della rivista “Affari Esteri” dal 1980, A. da quello stesso anno al 1987 è presidente della Total italiana, dal 1981 al 1988 presidente dell’Unione petrolifera e membro della giunta esecutiva di Confindustria, oltre che consulente dei presidenti di IRI e Finmeccanica. Nel suo ultimo libro, L’Italia, la politica estera e l’unità dell’Europa, torna alle amate tematiche europee, senza peraltro nascondere il proprio disappunto sulle difficoltà della Unione europea a 25 Stati e sulla scarsa propensione europeistica del governo guidato da Silvio Berlusconi.

Guido Levi (2009)




Alphand, Hervé

Figlio di un ambasciatore che rappresentò la Francia a Londra e Mosca tra le due guerre e pronipote dell’urbanista che rivoluzionò insieme con Haussmann la Parigi del Secondo impero, A. (Parigi 1907-ivi 1994) è stato uno dei più importanti grands commis francesi del Novecento, con una carriera fuori del comune per durata, varietà e importanza degli incarichi ricoperti. Fu anche il funzionario che, forse più di ogni altro nella sua generazione, avvertì la contraddizione tra l’eredità nazionale della Francia e la sua vocazione europea e si sforzò, talvolta di fronte a difficoltà insormontabili, di conciliare i suoi due modelli: Charles de Gaulle e Jean Monnet.

Entrato a ventitré anni nel corpo scelto degli ispettori delle Finanze, A. si trovò già prima della Seconda guerra mondiale a condurre delicati negoziati finanziari, in particolare con la Spagna di Franco e l’Italia fascista, che gli ultimi governi della Terza repubblica cercavano inutilmente di sottrarre all’orbita economica tedesca. Riparato a Vichy dopo la disfatta del 1940, si rese subito conto che il maresciallo Pétain stava avviando l’amministrazione francese verso una politica di collaborazione, ossia di subordinazione al Terzo reich. Inviato in missione negli Stati Uniti, ruppe con Vichy e si trasferì a Londra, presso il Comitato di liberazione del generale de Gaulle, assumendo la carica di direttore degli affari economici del governo provvisorio che conservò quando il ministero degli Esteri fu ricostituito a Parigi nel 1944. In quegli anni svolse un’azione instancabile per procurare al movimento gollista il sostegno delle banche di Wall Street e della City: un ruolo prezioso di “banchiere della Resistenza” che non gli fruttò molta riconoscenza da parte del generale, il quale preferì dimenticare quanto la “France libre” dovesse ai finanziamenti anglosassoni.

Fu durante la guerra che A. maturò una riflessione personale sul ruolo della Francia nel mondo che non poteva più rimanere, ai suoi occhi, quello di una grande potenza imperiale. Solida preparazione economica, cultura anglosassone (insolita allora nell’alta burocrazia francese) e il realismo ereditato dal padre gli permisero di capire che la Francia poteva ritrovare dopo la guerra un rango adeguato alla sua storia solo ponendosi al centro di un’Europa unita e prospera. Se ne trova l’impronta nel progetto di costituzione di un’Unione economica dell’Europa occidentale (v. Unione economica e monetaria), a cui A. lavorò sin dal 1943 sotto la guida di Jean Monnet insieme agli economisti René Mayer e Laurent Blum-Picard. Questa visione lo mise ben presto in contrasto con l’ala più retriva del movimento gollista, di cui non condivise mai né l’ideologia populista né l’atteggiamento antiamericano. L’ostracismo dei fedelissimi (v. anche Federalismo) del generale avrebbe pesato a lungo, impedendogli di diventare, come sperava, un vero e proprio consigliere del principe, quale il collega e rivale Maurice Couve de Murville. Da qui una certa amarezza, evidente nel diario che A. pubblicò dopo il suo pensionamento nel 1973 e che avrebbe potuto intitolarsi, come uno di quei classici della letteratura che tanto amava, “Grandezze e dolori di un servitore dello Stato”.

Anche dopo il ritiro di de Gaulle nel gennaio 1946, A. si confermò un tecnico di prim’ordine. Gli incarichi di prestigio si moltiplicarono – come la presidenza nel settembre 1947 del Comitato di cooperazione economica europea (CCEE) incaricato di negoziare l’applicazione del Piano Marshall – ma sempre accompagnati da una certa diffidenza della classe politica della Quarta repubblica. Ciò non gli impedì di portare avanti iniziative pionieristiche per la costruzione europea. Alla Conferenza di Londra del novembre 1948 sullo statuto della Ruhr perorò la causa di una gestione internazionale a tempo indeterminato delle risorse energetiche e industriali del bacino renano. A prima vista era la riproposta di un’esigenza di sicurezza francese, analoga a quella che nel 1923-25 aveva portato all’infelice decisione dell’occupazione renana e alla crescita del revanscismo nazista. Per questo inglesi e americani la bocciarono e restituirono la cosiddetta “Bizone” all’amministrazione locale, dando il via alla rinascita l’anno successivo di uno Stato tedesco, la Repubblica federale. In realtà, almeno nella visione di A., il tentativo francese obbediva a un’esigenza più ampia: quella di “comunitarizzare” la questione tedesca per eliminare alla radice il rischio di un nuovo conflitto tra Francia e Germania. Maggior successo ebbe un’altra iniziativa condotta allora da A., ossia l’offerta all’Italia e ai paesi del Benelux di un’unione doganale regionale, alla quale Roma aderì prontamente e che costituì il primo esperimento di riapertura delle frontiere europee alla libera circolazione di mano d’opera e di merci.

Gli anni successivi videro A. sempre in prima linea nella battaglia per la creazione di una Comunità europea di difesa (CED). Con Robert Schuman e René Pleven fu il principale artefice da parte francese del trattato istitutivo della CED, che, ideato sulla base del Piano Pleven, venne firmato a Parigi il 27 maggio 1952 da Schuman e dagli altri ministri degli Esteri dei sei paesi che avevano istituito l’anno prima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Alla base dell’impegno di A. per la CED vi era la stessa esigenza strategica che lo aveva guidato nel tentativo di dare uno status internazionale alla Ruhr. Come scrisse nel suo diario: «Mai si potrà realizzare un’Europa federale o confederale se l’industria pesante tedesca o lo stato maggiore tedesco dominano di nuovo la Germania. Il piano Schuman e l’esercito europeo, nel rispondere a questa doppia preoccupazione, ci impongono di creare un’Europa politica» (L’étonnement d’être. Journal 1939-1973, Fayard, Paris 1977, p. 231, annotazione del 15 giugno 1952).

Enorme fu pertanto la sua delusione quando i voti congiunti di gollisti, comunisti e dei “franchi tiratori” radical-socialisti portarono dopo due anni di snervanti trattative alla bocciatura del trattato all’Assemblea nazionale nell’agosto 1954. Una visione ormai superata della sovranità nazionale aveva impedito alla Francia di mettersi alla testa di un’Europa in grado di garantire, almeno teoricamente, la propria sicurezza. L’esercito tedesco si ricostituì sotto l’egida dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) e l’occasione di una difesa europea svanì per almeno un paio di generazioni.

Nel 1950 A. fu nominato ambasciatore di Francia, il più giovane nella storia della carriera e contemporaneamente rappresentante a Londra, alle riunioni del Consiglio atlantico. Ma la sua attività professionale rallentò mentre la Quarta repubblica affondava nel marasma politico. Dopo la fine della CED, scartata l’ipotesi di dimettersi dalla carriera per entrare nel mondo bancario, A. si rassegnò a partire in “esilio” a Tokyo, allorché, grazie anche all’influenza del suo mentore Jean Monnet negli ambienti americani, fu nominato rappresentante permanente alle Nazioni Unite (1955-56) e subito dopo ambasciatore negli Stati Uniti. In tale incarico, che mantenne per quasi un decennio, fino al 1965, con tre diversi presidenti americani, A. assicurò alla diplomazia francese un’influenza superiore al peso effettivo del paese.

Il ritorno al potere di de Gaulle nel 1958 segnò il momento della verità per A. come per molti alti funzionari francesi. Dopo la fruttuosa collaborazione degli anni di guerra – che tuttavia non gli aveva consentito di essere inserito nell’élite dei “Compagnons de la Libération” – si era trovato negli anni Cinquanta sul fronte opposto a quello del generale, che tuonava contro l’Europa dei “mercanti”. Questi precedenti crearono tra loro un rapporto ambivalente, lungo tutto il primo decennio della Quinta repubblica. De Gaulle, consapevole delle qualità di A. e dei suoi appoggi nel mondo anglosassone, a lui tradizionalmente ostile, continuò a utilizzarlo ma senza lasciargli alcun margine d’autonomia. A. accettò di servire de Gaulle, convinto come molti che fosse l’unico uomo in grado di risollevare le sorti della Francia, ma non divenne mai un vero gollista. Troppe cose separavano i due politici, specie sui due temi che A. conosceva meglio e che gli stavano più a cuore: l’Europa e il rapporto transatlantico. Idealmente rimase legato alla concezione federalista di Monnet, personaggio che sentiva anche umanamente più vicino e al quale continuava a rivolgersi nei momenti di dubbio, mentre del generale non condivideva il gusto della grandeur e la retorica nazionalista che, specie agli occhi degli americani, gli sembravano controproducenti. Ma aveva vinto de Gaulle non Monnet, era stato lui a ridare prestigio alla Francia nel mondo, chiudendo quel contenzioso coloniale che per A. era ormai solo una palla al piede: «Siamo una piccola potenza, dai magri bilanci, che le sue risorse e il suo ingegno non possono da sole portare al primo rango. Abbiamo bisogno della volontà tenace di quest’uomo per compiere il miracolo» (ivi, p. 459).

Gollista riluttante, A. si trovò così ad apprendere l’arte del diplomatico, che deve talvolta servire un regime in cui crede poco per continuare a servire lo Stato al quale ha giurato fedeltà. Lo fece spesso con senso di frustrazione ma con straordinario successo personale. Poter contare su un accesso diretto e confidenziale ai massimi dirigenti del paese in cui si è accreditato – che è il compito essenziale, ma sempre più difficile un ambasciatore – gli permise di esercitare alla Casa Bianca un ruolo che probabilmente nessun rappresentante francese e forse europeo poté svolgere prima o dopo di lui. Il paradosso è che a Parigi A. non aveva un’influenza analoga e quasi tutti i suoi propositi di ristabilire uno stretto rapporto tra Parigi e Washington furono destinati al fallimento. Basti pensare al tentativo di convincere de Gaulle ad accettare la fornitura dei missili Polaris che Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) aveva offerto a Nassau nel dicembre 1962 a Francia e Regno Unito, in alternativa almeno parziale alla force de frappe. Ma il ruolo di A. fu importantissimo in termini di “limitazione dei danni”, in quanto evitò che su altri temi, dal Vietnam alla velleitaria Ostpolitik del generale, la reazione americana fosse ancor più negativa, specie dopo che al filo-europeo Kennedy subentrò Johnson (v. Johnson, Lyndon Baines), che lo era molto meno.

Nel 1965, de Gaulle richiamò A. a Parigi come segretario generale del Quai d’Orsay, incarico che per la prima volta fu assegnato a un diplomatico che veniva dalla specializzazione economica e non politica. Per altri sette anni, specialmente dopo l’uscita di scena del generale, con uomini a lui più congeniali come Georges Pompidou e il ministro degli Esteri Maurice Schumann, esponenti dell’ala morbida e tecnocratica del gollismo, A. rese grandi servigi alla Francia, dalla ripresa dei rapporti con la Cina al negoziato di Helsinki, non intervenendo più tuttavia sui grandi temi della costruzione comunitaria, a parte l’antico impegno per sbloccare l’entrata del Regno Unito nella CEE.

Gli ultimi vent’anni di A. furono avvolti nel più stretto riserbo. Come molti diplomatici, prigionieri felici prima, vittime poi della gabbia dorata in cui hanno vissuto e operato, passò rapidamente dal proscenio all’oblio. L’immagine che verrà conservata di lui è affidata alle pagine, talvolta magistrali, talvolta scettiche fino al cinismo, del suo diario e ai ricordi dei contemporanei che (a cominciare dall’asciutta citazione contenuta nelle memorie di de Gaulle) non hanno reso sempre giustizia al suo ingegno, alla sua laboriosità, al suo patriottismo “franco-europeo”.

Maurizio Serra (2010)




Álvarez de Miranda, Fernando

A. de M. (Santander 1924) nasce da una famiglia della alta borghesia. Nel 1934 si trasferisce a Zaragoza dove continua i suoi studi presso i gesuiti. Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Zaragoza per poi laurearsi presso l’Università di Madrid nel 1948. Sin dagli anni degli studi universitari si schiera a favore della restaurazione di una monarchia parlamentare.

Difensore della tradizione politica democristiana, a partire dai primi anni Cinquanta entra in contatto con gruppi di opposizione tollerata dal regime quali monarchici e liberali. Nel corso di quel decennio traduce il suo ideale politico in militanza attiva e collabora alla creazione di gruppi di opposizione al regime di stampo democristiano. Assume poi la carica di segretario generale della Democracia social cristiana presieduta da José María Gil-Robles y Gil-Delgado e rimane all’interno del partito fino alla metà degli anni Sessanta.

Sin dalla sua fondazione nel 1954 entra a far parte della Asociaciόn española de cooperaciόn europea (AECE), principale associazione europeista sorta nell’ambito dell’opposizione moderata, due anni dopo, nel novembre 1956 ne è eletto segretario generale. Attraverso i contatti dell’AECE prima con il Movimento europeo e, solo negli anni Sessanta, con l’altra organizzazione sorta in esilio in difesa degli ideali europeisti, il Consejo federal español del movimiento europeo (CFEME), A. de M. può affinare le caratteristiche del suo europeismo sempre più associato alla difesa dei diritti dell’uomo e al modello di democrazia parlamentare.

L’attività svolta da A. de M. in seno all’AECE fa crescere i suoi contatti con importanti esponenti delle istituzioni comunitarie. Basti in tal senso citare la costante corrispondenza nel corso del 1958 tra A. de M. e Walter Hallstein da un lato e van Schendel dall’altro, rispettivamente presidente della Commissione europea e segretario generale del Movimento europeo.

Sempre nello stesso anno, in occasione dell’ingresso della Spagna nell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), in netta contrapposizione con l’europeismo del regime (favorevole all’Europa delle patrie, intesa come progetto che limitava fortemente ogni ipotetico tentativo di ingerenza esterna negli affari spagnoli), A. de M. è tra i principali promotori di una dichiarazione di stampo federalista (v. Federalismo).

Attacca la formula confederale denunciandola come «una soluzione tendente a confondere il principio dell’integrazione sovranazionale» e sostiene in modo chiaro l’impianto secondo cui gli Stati europei devono attribuire poteri reali ad un’autorità sovranazionale «eletta democraticamente». Entrando in tal modo in contrapposizione netta con il franchismo aggiunge che l’Unione europea (UE) si sarebbe potuta realizzare solo se formata da membri politicamente, economicamente e socialmente omogenei. Come sostegno ulteriore alla sua tesi si richiama al manifesto dei movimenti della Resistenza europea del 1944 ed evidenzia la necessità di fondare la vita dei popoli europei sul rispetto della persona umana e della giustizia sociale, di superare «il dogma della sovranità assoluta degli Stati» e di integrarsi in una organizzazione federale. In conclusione cita la centralità dello stato di diritto e delle libertà democratiche raccolte nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Nel 1959 insieme ad Iñigo Cavero, altro rappresentante dell’opposizione moderata, A. de M. partecipa alla celebrazione del decimo anniversario della fondazione del Consiglio d’Europa a Strasburgo.

Quello stesso anno entra nel consiglio d’amministrazione di una casa editrice nata sotto l’indiretto patrocinio della AECE, “Distributrice Europea”, che inaugura le sue pubblicazioni con una raccolta delle conferenze celebrate quell’anno dall’associazione e dedica un approfondimento al ruolo del Consiglio d’Europa.

Nel decennio degli anni Sessanta A. de M. partecipa all’organizzazione dei seminari della AECE, ed entra in contatto con altre personalità europee, basti pensare a Nicola Catalano, presidente della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), Piero Malvestiti, presidente all’epoca dell’Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nonché all’amicizia instaurata con Robert van Schendel, segretario del Movimento europeo.

Episodio centrale della attività europeista di A. de M. è la partecipazione al Congresso di Monaco di Baviera svolto il 7-8 giugno 1962. Due giorni prima dell’inizio del IV Congresso del Movimento europeo dedicato quell’anno alla “Democratizzazione delle istituzioni europee”, centodiciotto membri dell’opposizione spagnola giungono a Monaco tanto in rappresentanza dell’esilio quanto dell’opposizione interna per discutere delle condizioni necessarie a una eventuale integrazione del loro paese in Europa. Una volta giunti nella capitale bavarese i due gruppi formano due commissioni. A. de M. è nominato segretario di quella presieduta da Gil-Robles che riunisce i membri dell’opposizione interna. Questa inserisce nella sua bozza di risoluzione, come prerogativa essenziale per l’ingresso di qualsiasi paese in Europa, l’importanza della celebrazione, a intervalli regolari, di consultazioni elettorali democratiche.

Dopo una serie di passaggi si giunge alla formazione di una commissione unica e pertanto all’elaborazione di una singola risoluzione. I cinque punti accettati all’unanimità ben esemplificano l’europeismo di A. de M. La risoluzione sottolinea che ai fini dell’integrazione della Spagna in Europa, il paese deve avere istituzioni rappresentative e democratiche, salvaguardare i diritti umani e le libertà fondamentali (soprattutto quelle che garantiscono la libertà personale e d’espressione), riconoscere l’esercizio delle libertà sindacali su base democratica, difendere i diritti fondamentali dei lavoratori, concedere la possibilità di organizzare correnti d’opinione e partiti politici nonché garantire il diritto al dissenso.

Per A. de M. e gli antifranchisti che firmano tale documento, la democratizzazione del paese diventa una premessa irrinunciabile dell’europeismo. Detto in altri termini l’europeismo si converte anche in un modo alternativo per appellarsi allo smantellamento del regime franchista.

La reazione del regime è molto dura. Viene abrogato l’articolo 14 del Fuero de los Españoles, che regola il diritto della popolazione di fissare liberamente la propria residenza all’interno del territorio nazionale. A. de M. insieme ad altri, tra cui ricordiamo Jaime Álvarez Miralles e Joaquin Satrustegui, è confinato a Fuerteventura nelle Canarie dove rimane nove mesi.

Nel marzo del 1963 torna a Madrid dove riprende l’esercizio della professione di avvocato, ma il regime pone molti ostacoli alla sua attività.

Negli anni Sessanta si dedica all’obiettivo dell’unificazione delle forze spagnole di ispirazione democristiana. Istanza che promuove nel marzo 1963 nel corso di una assemblea della Democracia social cristiana e successivamente anche sulla scena internazionale il settembre dello stesso anno nel corso della riunione della Uniόn mundial de la Democracia cristiana svoltasi a Strasburgo, e ancora a Taormina al Congresso europeo dei partiti democristiani svoltosi nel dicembre 1965.

Nel 1964 entra nel Consiglio privato del legittimo erede al trono di Spagna Don Juan de Borbόn, all’epoca in esilio all’Estoril in Portogallo.

In linea di continuità con i contenuti e gli obiettivi della casa editrice Distributrice Europea, chiusa dopo la morte del suo principale ideatore, il Conte Fontar, nel 1970 fonda la rivista “Discusiόn y Convivencia” di tendenza social cristiana, particolarmente attenta al processo di integrazione europea della Spagna e a tematiche europeiste più generali. Quello stesso anno dopo aver abbandonato la Democracia social cristiana entra in un altro partito di stampo democristiano Izquierda democrática (ID) guidato da Joaquín Ruiz Giménez Cortés. Nel 1974 ne assume la vicepresidenza e rimane nel partito fino all’aprile del 1976, quando nel Congresso dell’Escorial si consuma la sua scissione e da una costola dell’ID nasce la Izquierda democrática cristiana.

La militanza democristiana e l’impegno europeista di A. de M. continuano ad andare di pari passo e a intrecciarsi vicendevolmente. Nel gennaio 1975 assiste al colloquio organizzato a Bruxelles dal club “Realtà europea” sul tema “La nuova Spagna di fronte all’Europa” e nel luglio dello stesso anno in qualità di rappresentante della democrazia cristiana spagnola assiste a Bruxelles a una riunione dell’Unione europea democratico cristiana. Svolge un’intensa attività politica e stringe nuovi contatti sia in patria che all’estero.

L’11 giugno 1975 partecipa alla riunione della Plataforma de convergencia democrática e sottoscrive il manifesto programmatico di quell’organizzazione antifranchista che prevede l’immediata rottura con il regime, l’apertura di un periodo costituente per il ristabilimento di un regime democratico pluralista e una struttura federale dello stato.

Nel novembre del 1976 è invitato dal Dipartimento di Stato americano ed assiste all’elezione di Jimmy Carter. Presso il Dipartimento di Stato incontra anche Micheal Durkee e Arthur Adair Hartman. Il primo incaricato delle relazioni con la Spagna, il secondo degli Affari europei. Visita anche il Messico e, nel dicembre 1976, assiste all’insediamento di Lopez Portillo alla presidenza del paese.

Considerata terminata la stagione della Izquierda democrática cristiana fonda il Partido popular democrata cristiano (PPDC) che unendosi all’Uniόn democrata española (UDE), altra formazione di stampo democristiano, darà vita al Partido democrata cristiano, con l’obiettivo di aumentare il più possibile i consensi dell’opinione pubblica e accreditarsi come il rappresentante di centro del sistema politico.

Alla vigilia delle prime elezioni politiche, nell’aprile del 1977 partecipa a un incontro della Democrazia cristiana italiana per sottolineare l’importanza del processo elettorale in corso nel suo paese.

Poco dopo il Partido democrata cristiano confluisce nella coalizione Uniόn de centro democrático (UCD) guidata da Adolfo Suárez Gonzaléz.

Sotto questa sigla viene eletto deputato a Palencia e nominato presidente del Congresso della prima legislatura (1977-1979). Alla luce della regolarità e del carattere pienamente democratico delle prime consultazioni elettorali libere in Spagna, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa decide all’unanimità di invitare una rappresentanza di neoeletti deputati spagnoli a partecipare come osservatori alla loro successiva assemblea autunnale. A. de M. in qualità di presidente delle Cortes coordina l’attività dei capigruppo alla Camera per elaborare una dichiarazione congiunta per accelerare il più possibile i tempi dell’adesione al Consiglio d’Europa e riuscire a realizzare l’obiettivo dell’ingresso del suo paese in seno a quell’organismo prima della redazione della carta costituzionale. Il documento da lui redatto, firmato da tutti i rappresentanti dei partiti dell’arco parlamentare rappresenta il simbolo dell’impegno delle forze politiche spagnole a procedere verso l’autentica democratizzazione del paese e allo stesso tempo la volontà di tutti i deputati a redigere la futura carta costituzionale nel pieno rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Dopo essere stato approvato dalla commissione Esteri della Camera il documento il 15 settembre 1977 è consegnato al presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Czernetz. Il mese successivo, l’11 ottobre, l’ingresso di fatto della Spagna nel Consiglio d’Europa viene approvato all’unanimità.

A. de M. accoglie la notizia molto positivamente e sottolinea il grande significato simbolico che tale evento riveste.

Un altro importante passaggio avvenuto in campo europeo durante la sua presidenza, il 15 novembre 1977 è la ratifica della Carta dei diritti umani e della Carta sociale europea. Nel 1978 A. de M. assume la presidenza del CFEME. Nel 1979 è rieletto deputato sempre nella stessa circoscrizione elettorale del 1977 e rimane poi nell’UCD fino al completo collasso del partito consumatosi con i risultati delle elezioni politiche del 28 ottobre 1982. La presidenza delle Cortes passa nel 1979 a Landelino Lavillas.

Dal 1986 al 1989 ricopre l’incarico di ambasciatore ne El Salvador. In segno di riconoscimento di una carriera politica spesa in nome della centralità del rispetto dei diritti umani prima nel suo paese e poi in America centrale, nel 1992 viene nominato presidente del Comitato di esperti dell’Unione europea per il Programma di promozione dei diritti umani nell’America centrale.

Nelle sue raccolte di articoli dedicati all’Europa risalta il ricordo del Congresso di Monaco, il costante riferimento all’ordine democratico, alla difesa dei diritti umani e al pluralismo politico a cui la membership europea viene associata in modo indissolubile.

Maria Elena Cavallaro (2011)