Amaral, Diogo Freitas do

A. (Póvoa do Varzim 1941) proviene da una famiglia di cattolici conservatori. I nonni materni di A. erano amici intimi del dittatore portoghese Salazar, che governò il Portogallo dal 1932 al 1968. Il padre di A. era capo di Gabinetto di Salazar, quando quest’ultimo era ministro delle Finanze prima di passare alla guida del governo, e in seguito fu deputato all’Assemblea nazionale dal 1957 al 1974.

Nel 1958, all’età di diciassette anni, A. entrò alla facoltà di Giurisprudenza di Lisbona, laureandosi nel 1963 con ottimi voti. L’anno seguente professore divenne assistente di Marcello Caetano e successivamente responsabile del corso di Diritto amministrativo.

Profondamente influenzato, all’inizio, dai suoi genitori, A. ne condivise i valori conservatori e cattolici, nonché l’ammirazione per Salazar. Durante gli anni universitari A. cominciò ad ammirare Charles de Gaulle, Valéry Giscard d’Estaing e Raymond Aron. Dal governo di Charles de Gaulle del 1958-1969, A. apprese che era possibile curare una democrazia instabile senza dover ricorrere alla dittatura, che la decolonizzazione era inevitabile e nell’interesse della nazione colonizzatrice, evitando anni di guerra e, infine, che l’economia di mercato, regolata dallo Stato, era la politica migliore per proteggere i salariati a basso reddito. Tuttavia, A. criticava de Gaulle per il suo governo autoritario, arrogante e centralizzatore, mentre stimava Giscard d’Estaing, all’epoca ministro delle Finanze di de Gaulle, per il suo approccio aperto e moderato e per le sue idee centriste, liberali e filoeuropee. In Raymond Aron, A. trovò la giustificazione intellettuale per rifiutare il marxismo; la superiorità del capitalismo democratico sul comunismo totalitario era duplice: il capitalismo democratico non sacrificava i diritti degli individui allo sviluppo economico, era economicamente più efficiente e proteggeva meglio i diritti dei meno fortunati.

In un articolo pubblicato nel 1961 all’età di vent’anni, A. sosteneva di aver preso pubblicamente posizione a favore dell’integrazione europea in contrasto con la posizione ufficiale favorevole all’integrazione economica con le colonie (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In realtà, nell’articolo A. era solo a favore di una riforma integrale dell’economia e del sistema politico-amministrativo per permettere al Portogallo di competere in uno scenario di integrazione europea già sviluppata. Ribadiva altresì l’idea del regime di Salazar dell’unità politica ed economica fra il Portogallo e le sue colonie.

Gli stretti legami accademici e personali fra il premier Caetano e il suo assistente universitario spinsero il primo a invitare A. a diventare nel 1973 deputato al Parlamento e, più tardi, ministro della Giustizia. A. avrebbe rifiutato entrambe le cariche, affermando di dover consolidare la propria reputazione accademica prima di considerare una carriera politica. Questa scelta non gli impedì di essere membro della Camera corporativa (Câmara corporativa) del Parlamento portoghese.

La rivoluzione del 25 aprile 1974 a favore della democrazia e della decolonizzazione spinse per la prima volta A. a partecipare attivamente alla politica. Il 19 luglio 1974 fu uno dei fondatori del Centro democrático social (CDS), il secondo partito a essere legalizzato dopo il Partito comunista, e ne divenne il primo leader all’età di 32 anni. Il CDS era un partito cristiano-democratico in tutto fuorché nel nome, avendo i suoi fondatori seguito il consiglio dei vescovi cattolici di adottare un nome diverso per non mettere in dubbio l’imparzialità della Chiesa.

Nella sua dichiarazione programmatica, il CDS sosteneva gli ideali di democrazia, decolonizzazione e sviluppo che avevano ispirato la rivoluzione del 25 aprile. Secondo i suoi fondatori, il CDS era un partito di centro e democratico, che credeva in un mercato economico regolato dal governo. In pratica, come i Repubblicani indipendenti di Giscard, il partito si collocava al centrodestra dello spettro politico. Per distinguersi dalla precedente dittatura di estrema destra, il CDS riconobbe i principi democratici e affermò la sua profonda attenzione al sociale in linea con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Il CDS riconosceva che l’indipendenza delle colonie portoghesi (ciò che essenzialmente si celava dietro la rivoluzione era l’impasse politica e militare fra i movimenti di indipendenza delle colonie e la dittatura) era inevitabile. Il partito era favorevole all’adesione del Portogallo alla Comunità economica eonomica Ezato dopo il Partito Curopea. L’Unione europea dei Cristiani democratici (UECD) avrebbe riconosciuto le credenziali cristiano-democratiche del CDS nel novembre del 1975.

Nonostante il CDS fosse un partito cristiano-democratico, il periodo rivoluzionario che seguì (1974-75) portò gli estremisti di sinistra ad accusare i suoi membri di essere neofascisti, e a attaccare il quartier generale del partito e il primo congresso di partito a Porto. In realtà, secondo A. fu la presenza dei delegati stranieri (incluso il presidente dell’UECD, Van Hassel) alla conferenza del gennaio 1975, che a più riprese chiamavano le loro ambasciate e addirittura i loro governi, a spingere il governo portoghese ad interim a restaurare alla fine l’ordine pubblico. La campagna del CDS per l’Assemblea costituente (che avrebbe stilato la Costituzione) fu costantemente insidiata dagli attacchi dell’estrema sinistra e di conseguenza fu quasi inesistente nel Sud del paese. A., sua moglie e i figli furono costretti a dormire in posti sempre diversi per evitare di essere arrestati dalla milizia dell’estrema sinistra.

Alle elezioni del 25 aprile 1975, i socialisti risultarono vincitori indiscussi con il 37,87% dei consensi, seguiti dai socialdemocratici con il 26,39%, i comunisti (e i loro alleati) con il 16,6% e il CDS con un deludente 7,61%. D’altro canto, il CDS era il quarto partito politico nel paese e i partiti democratici avevano ottenuto oltre il 70% dei voti. Di fatto, alle prime elezioni parlamentari dell’aprile 1976, il CDS aveva più che raddoppiato i voti raggiungendo un discreto 16%. Fu il solo partito a votare contro la nuova Costituzione per via delle sue clausole marxiste a sostegno della nazionalizzazione di settori-chiave dell’economia. Nel 1977 il partito appoggiò la richiesta del governo socialista di entrare nella Comunità economica europea.

A dispetto dei suoi infausti inizi, il CDS acquistò rapidamente potere. Nel 1978 costituì una maggioranza, destinata a vita breve, con i socialisti per la formazione di un governo con tre ministri del CDS – con A. fuori dal governo. Divergenze sulla politica economica portarono alla caduta di questo governo. L’anno seguente, il CDS formò l’Alleanza democratica con i socialdemocratici (a dispetto del nome, situato nel centrodestra dell’arena politica) e i monarchici popolari, un piccolo partito di idee monarchiche sensibile alle questioni ecologiche. Questa coalizione di centrodestra ottenne la maggioranza nelle elezioni del 1980 e A. ricevette l’incarico di vicepremier e di ministro degli Esteri. Il primo ministro Francisco Sá Carneiro e A. ritenevano che l’appartenenza al Mercato comune (v. Comunità economica europea) fosse la priorità fondamentale del governo e visitarono le capitali aderenti al Mercato comune nel tentativo di accelerare le trattative. In termini istituzionali, questa priorità si rifletteva nella creazione di una Segreteria di Stato per l’Integrazione europea alle dipendenze del Consiglio dei ministri. Il governo portoghese ambiva a diventare membro della Comunità europea nello stesso anno della Grecia. In realtà, Atene aveva avviato le sue trattative precedentemente e la candidatura portoghese fu messa in forse dall’instabilità del governo, dalla debolezza economica e dalla decisione della Comunità di associare la richiesta portoghese a quella spagnola (la cui economia decisamente più sviluppata, e in particolare un’agricoltura competitiva, avrebbero prodotto un impatto molto maggiore). Il Portogallo e la Spagna conseguirono l’integrazione europea nel 1986, cinque anni dopo la Grecia.

Il 4 dicembre 1980, il primo ministro Francesco Sá Carneiro, il ministro della Difesa (e numero due del CDS) Adelino Amaro da Costa e altri morirono in un incidente aereo. A. lasciò il governo poco dopo, quando Francisco Pinto Balsemão subentrò come primo ministro. Tuttavia, qualche mese dopo ricevette un nuovo incarico come vicepremier e ministro della Difesa, fino al 1983 quando le elezioni locali meno favorevoli portarono A., stanco e sempre più disilluso nei confronti della politica, alle dimissioni dal governo e dalla leadership del partito. In realtà, anche le continue divergenze con il nuovo primo ministro, Francisco Pinto Balsemão, avevano contribuito a questa decisione. Le dimissioni portarono alla caduta del governo e all’accusa, mossa da Balsemão, di slealtà. In Europa, A. successe a Van Hassel e fu presidente dell’UECD dal 1982 al 1983.

Per quanto avesse sempre dichiarato di collocarsi politicamente al centro, nel 1985 A. fu il candidato presidenziale della destra in una innovativa campagna in stile americano, che avrebbe influenzato la politica portoghese successiva. Dato come favorito, perse per pochi voti (140.000, soltanto l’1,2% dei voti) contro il socialista Mario Soares.

Nel 1988, A. ritornò alla guida del partito, dopo che quest’ultimo era passato da 21 a 4 deputati nelle elezioni dell’anno precedente. In un’intervista rilasciata all’epoca, A. dichiarò che, in termini politici, il CDS era al centro, equidistante dal PS e dal PSD. Il suo ritorno non fu un successo. La fine della Guerra fredda, in particolare, aveva trasformato il CDS da partito eurofavorevole a euroscettico (v. Euroscetticismo). A. abbandonò definitivamente la guida del partito nel 1991, dopo nuovi ribaltamenti elettorali e il suo crescente disincanto nei confronti del suo partito. L’opposizione del CDS al Trattato di Maastricht del 1992 lo spinse a lasciare il partito e a votare come deputato indipendente a favore della sua ratifica.

Nel 1995-96, A. fu eletto presidente della 50° Assemblea generale delle Nazioni Unite. Per quanto convinto sostenitore di forti relazioni transatlantiche, l’anno a New York rafforzò le sue convinzioni sull’opportunità di una politica multilaterale e la sua opposizione all’azione unilaterale. L’anno si rivelò, inoltre, importante in quanto A. maturò un’idea negativa della politica americana e, in particolare, di quelle che egli considerava le crudeli politiche sociali del Partito repubblicano.

Tornato a Lisbona, A. riprese la carriera universitaria. Nel 1996 fu il fondatore e primo direttore del Dipartimento della Universidade Nova di Lisbona. Nell’ambito della politica, A. manifestava una crescente delusione nei confronti della destra, democratica solo in superficie, ma in realtà autoritaria e segreta ammiratrice del dittatore Salazar. Per quanto nel 2002 A. avesse preso pubblicamente posizione a favore del centrodestra del PSD, guidato da José Manuel Durão Barroso, la politica estera americana lo avrebbe progressivamente condotto ad abbracciare le posizioni della sinistra portoghese. A. avversò l’intervento unilaterale americano in Iraq. Sorprendendo i membri del suo ex partito, partecipò alle manifestazioni antiamericane promosse dalla sinistra e dall’estrema sinistra. La sua opposizione alla coalizione di PSD e CDS, guidata dal successore di Durão Barroso, Santana Lopes, lo spinse nel febbraio 2005 a richiedere una maggioranza socialista. La posizione sempre più di sinistra di A. e la crescente simpatia per i socialisti sarebbe culminata nel suo incarico a ministro degli Esteri del nuovo governo socialista nel marzo 2005.

Il percorso politico di A. può essere giudicato incoerente: dapprima militante del centrodestra, è poi passato nelle file del centrosinistra. Tuttavia occorre tener presente che i membri del CDS erano sempre stati più a destra di A. I semi della discordia fra A. e il CDS sono da ricercare nella morte di Costa avvenuta nel 1980. Il progressivo orientamento a sinistra di A. può essere attribuito anche alla sconfitta elettorale e alla riconciliazione con Soares, con il quale emersero affinità crescenti. I rapporti del CDS con il PS, inoltre, sono sempre stati migliori di quelli con il PSD per la maggior vicinanza ideologica con quest’ultimo. Occorre considerare infine l’opposizione di A. al governo PSD/CDS del 2004/2005, guidato dal successore di Durão Barroso, Santana Lopes. Il cammino di A. dal centrodestra alla sinistra, con forti affinità con il PS, non fu affatto un caso isolato: altri due membri fondatori del CDS, Rui Pena e Luís Barbosa, lo avevano preceduto.

Sul fronte europeo, A. è stato favorevole all’integrazione europea e al federalismo in maniera coerente. Se le sue credenziali europee prima del 1974 erano dubbie, il suo successivo sostegno alla causa europea è stato inequivocabile, portandolo a sostenere il progetto della Costituzione europea. Come altri filoeuropei, A. è convinto che l’Unione europea abbia portato pace e sviluppo economico, abbia promosso la libertà e la democrazia e creato un’entità europea capace di affrontare le sfide della modernità, come la globalizzazione. In particolare, considera la sovranità illimitata dello Stato nazione come una minaccia, internamente, alla libertà individuale ed, esternamente, alla pace e alla cooperazione. Sul fronte interno, la soluzione è consiste per A. nella separazione dei poteri e il decentramento e, sul fronte esterno, nella creazione di una struttura sovranazionale. Inoltre, A. ritiene che l’integrazione europea permetterà all’identità nazionale di ciascuno Stato di acquisire la sua piena dimensione.

Nicolau Andresen-Leitão (2009)




Amato, Giuliano

A. (Torino 1938) è un giurista e uomo politico italiano. Laureato in Giurisprudenza nel 1960 presso il Collegio medico-giuridico di Pisa, muove i primi passi nel campo della ricerca giuridica, specializzandosi in Diritto costituzionale, conseguendo nel 1963 un master in Diritto costituzionale comparato presso la Columbia University di New York.

Rientrato in Italia, intraprende la carriera accademica, e, dopo aver svolto libera docenza a Roma, nel 1970 ottiene la cattedra universitaria, svolgendo attività accademica presso gli atenei di Modena, Reggio Emilia, Perugia e Firenze. Nel 1975 diviene professore ordinario di Diritto costituzionale comparato presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Nel corso di quest’anni si dedica con abnegazione e risultati alla ricerca scientifica, dando luce alle prime e significative pubblicazioni della sua copiosa produzione scientifica, che gli varrà il riconoscimento per l’attività svolta nel campo della ricerca giuridica. Alla luce dell’istituzione delle regioni ad autonomia ordinaria nell’ordinamento statuale italiano nel 1970, si occuperà degli aspetti giuridico-costituzionali di questo tema, attraverso un’intensa attività pubblicistica e lo svolgimento di un ruolo tecnico, quale membro della commissione governativa per il trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni. Negli anni 1967-1968 e 1973-1974 ricoprirà l’incarico di capo dell’Ufficio legislativo del ministero del Bilancio, sotto la guida rispettivamente dei ministri socialisti Giovani Pieraccini nel secondo governo di Aldo Moro e Antonio Giolitti, nel quarto governo di Mariano Rumor. Dal 1979 al 1981 viene chiamato a dirigere il Centro studi della CGIL Istituto ricerche economiche e sociali (IRES).

È nella metà degli anni Settanta che si intensifica la sua partecipazione attiva al Partito socialista italiano, del quale era stato iscritto fin dal 1958. La sua impostazione di chiaro stampo riformista lo porta ad assumere posizioni nette all’interno del partito a favore dell’autonomia dei socialisti all’interno della sinistra italiana, e a contribuire alla realizzazione del documento di riforme definito “Progetto socialista”.

Sarà eletto alla Camera dei Deputati per la prima volta nel 1993. Da una posizione interna al partito di opposizione al segretario Bettino Craxi, si avvicinerà gradualmente al leader del Partito socialista diventando uno dei suoi principali consiglieri e assurgendo alla carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio quando Craxi diventerà Presidente del Consiglio, carica che ricoprirà dal 1983 al 1987. In questi anni sarà particolarmente intensa la sua attività volta a sostenere il progetto di “grande riforma” portato avanti dai socialisti, in particolare animerà il dibattito sul progetto di riforma delle istituzioni centrali dalle pagine del periodico socialista “Mondoperaio”, poi raccolte nel volume Una Repubblica da riformare.

Nel biennio 1987-1989 ricoprirà la carica di ministro del Tesoro rispettivamente nel governo Goria (luglio 1987-aprile 1988) e nel governo De Mita (aprile 1988-luglio 1989). Nel governo Goria sarà anche vicepresidente del Consiglio.

Nel corso di questa esperienza, raccontata nella sua opera biografica Due anni al Tesoro, affronterà i nodi legati all’unione monetaria da un osservatorio privilegiato, partecipando ai lavori di preparazione del Trattato di Maastricht.

Nel 1992, all’indomani delle elezioni politiche tenutesi ad aprile, e nel pieno della vicenda giudiziaria denominata Tangentopoli, sarà chiamato dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a formare il primo governo dell’XI legislatura.

Il primo governo A., nato col sostegno delle forze del quadripartito (Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito liberale, Partito socialdemocratico), si troverà ad affrontare un momento di profonda crisi politica, economica e morale. Nonostante l’esigua durata del governo, rimasto in carica per dieci mesi, i risultati raggiunti e le importanti riforme realizzate rappresenteranno un segno tangibile del duro e significativo lavoro svolto da A. e dai i suoi ministri.

La principale emergenza sarà rappresentata dalla profonda crisi finanziaria che l’Italia allora conoscerà, rappresentata dal crollo della lira, a cui seguiranno la conseguente svalutazione della moneta e l’uscita dal Sistema monetario europeo, avvenuta il 16 settembre 1992. A questi provvedimenti seguì il varo di una manovra economica dell’ammontare di 93 mila miliardi di lire, la più significativa mai realizzata in Italia, volta al risanamento del bilancio, e che rappresentò un importante assunzione di responsabilità che fu all’origine della ripresa che l’Italia conoscerà negli anni successivi, ma soprattutto dell’evitato dissesto finanziario. Sul versante economico, il governo A. introdusse ulteriori elementi di novità e raggiunse altri importanti risultati, in particolare, l’accordo con le parti sociali per la sospensione della “scala mobile” e il piano per la privatizzazione degli enti pubblici. A questi si aggiunge la riforma del pubblico impiego, volta a equiparare i lavoratori pubblici con quelli del settore privato. All’indomani della vittoria dei referendum per l’introduzione del sistema elettorale maggioritario in Italia, svoltisi il 18 aprile 1993, e ormai travolto in modo inesorabile dell’incessante azione svolta dalla magistratura nell’ambito della vicenda “Mani pulite”, l’esperienza del governo A. giunse alla sua conclusione.

L’anno successivo, A. viene nominato presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust), incarico che ricoprirà fino al 1997. Nel 1998 ritornerà alla politica attiva, ricoprendo nel primo governo D’Alema prima il ruolo di ministro delle Riforme istituzionali, e successivamente quello di ministro del Tesoro.

In seguito alle dimissioni di D’Alema, il 25 aprile 2000 sarà chiamato per la seconda volta a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri. Il secondo governo A., composto da una coalizione di centrosinistra, resterà in carica fino all’11 giugno 2001, e nel corso dello stesso A. ricoprirà ad interim il ruolo di ministro per l’Università, la Ricerca scientifica e tecnologica dal 2 febbraio 2001.

Alle elezioni politiche del maggio 2001, A. si candiderà per la coalizione di centrosinistra nel collegio maggioritario di Grosseto al Senato della Repubblica, e risulterà eletto, ritornando in tal modo a ricoprire un ruolo parlamentare.

Nel gennaio 2002 viene nominato vicepresidente della Convenzione europea presieduta dall’ex Presidente della Repubblica francese Valery Giscard d’Estaing e che avrà il compito di scrivere la Costituzione europea e dal 2006 al 2007 coordinerà i lavori dell’Action committee for European democracy, ACED (), anche detto “Gruppo Amato”, sorto al fine di riscrivere la Costituzione europea dopo le bocciature subite dai referendum tenutisi in Francia e nei Paesi Bassi del 2005 e che contribuirà a definire le linee guida del Trattato di Lisbona.

Alle elezioni politiche del 2006 (XV legislatura) A. sarà candidato alla Camera nelle file dell’Ulivo nella circoscrizione Toscana, dove sarà eletto deputato. In occasione della formazione del secondo governo di Romano Prodi, sarà chiamato a ricoprire il ruolo di ministro degli Interni.

Conclusa l’esperienza ministeriale, alle elezioni politiche del 2008 rinuncerà a candidarsi, dedicandosi all’attività scientifica e pubblicistica, figurando tra l’altro nei board di prestigiosi e numerosi istituti internazionali e think tank.

Nel 2002 è eletto Honorary fellow della American Academy of arts and sciences e ricopre la carica di presidente della Commissione internazionale sui Balcani, costituita dalla Bosch Stiftung, dal German Marshal Fund, dalla King Baudouin Foundation e dalla C.S. Mott Foundation. Attualmente ricopre lo stesso incarico al Centro studi americani di Roma e, dal febbraio 2009 è presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana.

Fa parte, inoltre, dell’Advisory board di InvestCorp e del Board del Center for European reform di Londra e, dal 2009, è componente del Board e del Council dell’European council on foreign relations. Dirige il quadrimestrale “Mercato, Concorrenza e Regole”, edito da il Mulino, ed è condirettore del bimestrale “ItalianiEuropei”, edito dalla omonima Fondazione.

Ricca è la sua produzione scientifica e accademica. I suoi libri principali hanno a oggetto le libertà, le forme di stato e di governo, il diritto dell’economia e la concorrenza, la cultura politica e l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In riferimento a quest’ultima, di particolare interesse le pubblicazioni aventi ad oggetto il tema della cittadinanza europea e della costituzione europea.

Michele Affinito (2009)




Amendola, Giorgio

A. (Roma 1907-ivi 1980) era figlio di Giovanni, politico democratico-liberale (deputato dal 1919, sottosegretario alla Finanze e poi ministro delle colonie nel gabinetto di Luigi Facta) esponente di spicco nell’opposizione costituzionale a Mussolini dopo il delitto Matteotti. Oggetto di ripetute e feroci aggressioni squadriste, Giovanni fu costretto all’esilio a Cannes dove morì nel 1926 per i postumi delle bastonature subite. La madre di Giorgio, Eva Kühn, era una vitale e raffinata intellettuale mitteleuropea partecipe del vivace e anticonformista mondo intellettuale della borghesia romana cui introdusse il figlio.

All’interno di questa famiglia colta e liberale ma anche, per l’impronta materna, alquanto lontana dagli schemi ritenuti “normali” per l’epoca, A. trascorre gli anni della giovinezza, giovandosi per la sua formazione del vivere in una casa che è crocevia di incontri tra personaggi illustri della politica e della cultura; da questo osservatorio privilegiato assiste alla presa di potere di Mussolini, alle connivenze tra le aree liberal-democratiche e fascismo, alla svolta antidemocratica del regime, sino all’Aventino e alla lunga traversata lungo il ventennio sino alla guerra partigiana e alla Liberazione. Un percorso che contribuisce alla formazione di una coscienza critica in A. e che ne detterà il suo “essere politico”: lo scontro ideologico che si vive in Italia dal biennio rosso in poi diviene cioè l’universo determinante di “una scelta di vita” (come scriverà lui stesso più tardi) solo in apparenza lontana dall’eredità liberaldemocratica paterna.

Dopo la morte di Giovanni, Giorgio si trasferisce a Napoli dove svolge attività antifascista all’interno dell’Unione goliardica della libertà. In questa stagione della sua vita collabora alla diffusione del bollettino clandestino “Non mollare” promosso da Ernesto Rossi e Carlo Rosselli, ed entra in contatto con giovani intellettuali comunisti. Tra il 1927 e il 1929 matura la sua decisione di aderire al Partito comunista d’Italia (PCd’I), sola forza politica che giudica in grado di svolgere una forma attiva e organizzata di opposizione al fascismo dilagante. Abbandonato il crocianesimo partecipa, clandestinamente, al IV Congresso nazionale del partito che si tiene in Francia nel 1931. Entrato nell’apparato del partito comunista nell’emigrazione, promuove contatti e svolge attività di proselitismo tra i giovani; collabora inoltre a “Stato operaio”, rivista teorica pubblicata a Parigi. Rientrato a Milano in missione clandestina nel giugno del 1932 viene arrestato e inviato dal regime al confino di polizia di Ponza. Nel 1937 il confino viene trasformato in ammonizione e nel novembre di quell’anno espatria nuovamente diretto a Parigi dove rimane, quasi ininterrottamente, lavorando alla riorganizzazione del movimento comunista sconvolto dal patto tedesco-sovietico.

Rientrato in Italia con Agostino Novella nell’aprile del 1943, A. si impegna attivamente per organizzare a Roma e in altre parti d’Italia la lotta partigiana ed è chiamato a rappresentare il partito comunista nel nascente Comitato di liberazione nazionale (CLN). Nella primavera del 1944 è chiamato a svolgere la sua azione di dirigente al Nord ed è membro del comando generale delle brigate Garibaldi.

Al termine della guerra il suo ruolo nel partito risulta consolidato ed è, a pieno titolo, parte della nuova classe dirigente nazionale del PCI: entra nel Comitato centrale e nella direzione. A livello istituzionale viene eletto alla Costituente ed è sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel gabinetto presieduto da Ferruccio Parri e, ancora, nel primo gabinetto di Alcide De Gasperi; dal 1948 alla morte sarà poi eletto continuativamente per tutte le legislature al Parlamento italiano e, dal 1969, al Parlamento europeo.

L’ attività politica di A. prosegue anche a livello locale: dal 1947 al 1952 è segretario regionale del PCI in Campania, incarico che svolge ponendo al centro della sua azione – nel quadro delle lotte per la terra – il tema del riscatto del Mezzogiorno, muovendo dalle analisi gramsciane sulla rottura del blocco agrario e dallo studio dei problemi economici delle regioni meridionali. Nel 1954-1955 viene cooptato nella segreteria nazionale del partito e chiamato a sostituire Pietro Secchia nella carica di responsabile dell’organizzazione centrale, ruolo tra i più portanti e delicati nella struttura del PCI. Dopo il 1956 e l’VIII congresso A. si distingue come uno dei più convinti sostenitori della “via italiana al socialismo” teorizzata da Palmiro Togliatti. Negli anni Sessanta, dopo la morte del segretario, la sua autorità nel partito si rafforza divenendo il più autorevole esponente di quella “destra” fautrice di una linea riformista in costante confronto (pur in un partito che non ammette correnti) con l’ala di “sinistra” capeggiata da Pietro Ingrao. In questo ruolo, nel corso del decennio, in più occasioni si fa sostenitore della tesi della necessità dell’unità tra i partiti della sinistra, auspicando l’unificazione tra PCI e PSI.

In parallelo all’attività politica, e molto spesso come supporto teorico di questa, A. prosegue a interrogarsi sulla storia d’Italia, sulla democrazia, oltre che – con un interesse molto spiccato – sui problemi economici innescati dal fordismo e dalla modernizzazione. Centinaia sono gli articoli apparsi sulle principali testate quotidiane e periodiche del partito; molte anche le pubblicazioni in massima parte pubblicate con gli Editori Riuniti di Roma; fra gli altri vanno ricordati i volumi: La democrazia nel Mezzogiorno (1957), Classe operaia e programmazione democratica (1966), Comunismo antifascismo resistenza (1967), La classe operaia italiana (1968), La crisi italiana (1971), I comunisti e l’Europa (1971).

Dall’attenzione per i temi economici discendono conseguenze importanti per la vita intellettuale del partito: svolta particolarmente significativa è la nascita della rivista “Politica ed Economia” (pubblicata dal 1957 al 1962 e poi nuovamente dal 1970) che viene a colmare il vuoto apertosi sui temi economici nelle file comuniste dopo la scomparsa delle riviste “Notizie economiche”, “Riforma agraria” e “Critica economica”. Fortemente influenzata, ma anche garantita, dalla copertura politica di A., “Politica ed Economia” riunisce un colto comitato direttivo (Bruzio Manzocchi, Emilio Sereni, Antonio Pesenti, Luciano Conosciani, Luciano Barca) sotto la responsabilità di Eugenio Peggio, redattore capo. Un gruppo composito che, rifacendosi all’eredità di “Critica economica”, tenta di raccogliere intorno a una testata d’ispirazione marxista forze tra loro molto diverse, ospitando anche interventi di studiosi e intellettuali su posizioni molto distanti dal quelle del PCI. L’interesse del gruppo per l’Europa è evidente sin dalle discussioni politiche e parlamentari che accompagnano la nascita della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom, 1957) e che coincidono, d’altra parte, con l’uscita del primo numero della rivista.

La vivacità intellettuale con cui A. e il suo gruppo seguono le tematiche economiche e, in certa misura obbligatoriamente, europee (essendo il processo principalmente, in quegli anni, principalmente un problema d’ordine economico) si fa particolarmente importante e alta nel marzo del 1962 quando, al teatro Eliseo di Roma, si svolge il convegno sulle tendenze del capitalismo italiano. A. (con Eugenio Peggio, Antonio Pesenti, Bruno Trentin e altri) presiede l’iniziativa, a testimonianza del suo ruolo di guida della schiera di politici ed economisti comunisti che più sono impegnati, in campo economico, per disincagliare il partito dalle secche dell’ortodossia; un gruppo di innovatori che si colloca alla “destra” della linea del partito, e che si caratterizza per una sensibilità europeista scarsamente presente nell’elettorato. Al convegno, nella vastità e complessità dei temi toccati, A. destina uno spazio tutt’altro che irrilevante all’approfondimento del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Se la critica formulata in più occasioni dal PCI rispetto agli organismi europei viene confermata, lo stesso non avviene per la critica “puramente negativa” che aveva ostacolato, secondo A., l’esatta interpretazione da parte del partito dei mutamenti avvenuti. Un’autocritica che sdogana posizioni sino a quel momento patrimonio di singoli intellettuali o considerate armamentario polemico dei compagni socialisti nel confronto politico. In quell’occasione A. sottolinea anche come l’opposizione ai trattati di Roma espressa dal PCI nella primavera del 1957 rappresenta un voto politico ma non implica una volontà assenteistica dalla scena europea e dagli organismi europei, dai quali il PCI è tenuto lontano in conseguenza della politica discriminatoria del governo.

Anche la costituzione del CESPE (Centro studi di politica economica), presieduto da Pesenti e A., offre un contributo positivo al partito per comprendere i mutamenti economici nazionali e internazionali. Nato nel 1966 come sezione del Comitato centrale del PCI, il Centro studi pubblica un proprio notiziario, che segna la presenza di un foglio prettamente economico in casa comunista in una fase (tra il 1962 e il 1970) di vuoto per la temporanea soppressione della rivista “Politica ed Economia”.

Sul finire degli anni Sessanta grazie anche al lavoro di A. e del suo gruppo viene raggiunto un risultato significativo: la richiesta, più volte reiterata da parte della dirigenza comunista, di avere propri rappresentanti nelle assemblee comunitarie viene accolta. Nel 1969 la prima delegazione di deputati e senatori rappresentanti del PCI entra al Parlamento europeo; il gruppo è capeggiato da A. Con lui ci sono Nilde Iotti, Mauro Scoccimarro, Silvio Leonardi, Francesco D’Angelosante, Giovanni Bertoli e Agide Samaritani. Un traguardo importante che A. sottolinea, in tutte le sue implicazioni, in una tempestiva intervista a “l’Unità”: «Noi ci apprestiamo oggi a essere presenti al Parlamento di Strasburgo essendo ben consapevoli dei limiti di fondo di questa istituzione – dovuti anche al fatto che tanta parte delle forze democratiche e socialiste dell’Europa occidentale ne è esclusa – e della crisi profonda in cui versa tutta la politica europeistica. Ci proponiamo comunque in questa sede di conseguire una più diretta conoscenza dei termini delle questioni che si pongono nella “Piccola Europa” e di utilizzare le possibilità di nuovi contatti con tutte le forze di sinistra per portare avanti in Europa la battaglia contro i monopoli, il militarismo e il revanscismo, per la pace, il superamento dei blocchi, la cooperazione economica internazionale e profonde riforme sociali e politiche» (Eletti, in “l’Unità”, 22 gennaio 1969). Poche settimane più tardi, nel primo discorso tenuto al Parlamento europeo, A. tornerà a rimarcare l’importanza di procedere a profonde trasformazioni nella Comunità, per assicurare una politica di reale cooperazione economica nel rispetto dell’autonomia di ogni paese con l’obiettivo del superamento dei blocchi militari (v. Amendola, 1969).

La frequentazione dell’ambiente comunitario favorisce l’apprendistato europeistico del PCI e porta a un mutamento della linea politica, scandito da piccoli passi, molti dei quali vedono come protagonista A., sempre più precisamente “simbolo” dell’europeismo comunista; ne è un primo esempio l’intervento del leader italiano alla conferenza economica londinese dei partiti comunisti dell’Europa occidentale (1971) in cui si sforza di evidenziare gli aspetti positivi del Mercato comune (v. Comunità economica europea), ma anche la necessità per la classe operaia europea di colmare i ritardi e porsi alla testa di tale realtà per trasformarla con l’obiettivo di «fare dell’Europa, il Continente nel quale sono scoppiate le due grandi guerre mondiali, un Continente di pace» (v. Gallico, 1971).

Negli anni Settanta il cammino del PCI verso l’europeismo è ormai compiuto come dimostrano le argomentazioni contenute in un fondamentale articolo di A. pubblicato su “l’Unità” il 29 novembre 1975 dal titolo L’Europa oggi: «Consideriamo come negativa una crisi delle istituzioni comunitarie che ritarda il processo di unificazione politica ed economica, e rinvia a tempo indeterminato la creazione di un nuovo potere multinazionale, il solo che possa risolvere problemi che gli Stati nazionali non sono più in grado, ciascuno per conto suo, di dominare. […] Alla crisi attuale della CEE bisogna opporre l’alternativa democratica della creazione di una Unione politica fondata sulla forza di un largo consenso popolare. Per questo motivo i comunisti si battono, con le altre forze democratiche europeistiche, per una trasformazione democratica della CEE, per la presenza immediata nella attività delle istituzioni comunitarie del movimento sindacale, dei movimenti organizzati delle masse lavoratrici e per la elezione di un Parlamento europeo a suffragio universale, con una legge elettorale unica, da svolgersi nella stessa giornata in tutti i paesi. Sarà questo Parlamento, eletto dai popoli, la vera Costituente della Unione politica dell’Europa occidentale».

Un articolo che Altiero Spinelli, commissario alla CEE e punto di riferimento storico del federalismo europeo (v. Federalismo; Movimento federalista europeo), non esita a giudicare federalista, quasi l’avesse scritto lui stesso. Spinelli, del resto, segue da tempo e con attenzione i progressi del PCI, sino a scegliere di dimettersi da commissario per candidarsi, come indipendente, nelle file del PCI alle elezioni politiche del 1976, con l’assicurazione di venire delegato al Parlamento europeo.

Negli ultimi anni di vita alle pubblicazioni teoriche e politiche A. accompagna libri di riflessione autobiografica: pubblica, con gli Editori Riuniti, Lettere a Milano 1939-1945: ricordi e documenti (1973), Gli anni della Repubblica (1976), Storia del Partito comunista italiano 1921-1943 (1978). Con Rizzoli i due volumi autobiografici Una scelta di vita (1976) e Un’isola (1980). Degno di essere ricordato anche per la notorietà e il dibattito che provocò al suo apparire, il libro-intervista curato da Piero Melograni per i tipi della Laterza Intervista sull’antifascismo (1976).

Mauro Maggiorani (2010)




Andreatta, Beniamino

A. (Trento 1928-Bologna 2007) si laurea in Giurisprudenza nel 1950, a Padova. Si dedica poi alla ricerca economica presso l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Cambridge.

Nel 1961 viene inviato in India per conto del Massacchussets Institute of Technology come consulente del governo, presso la Planning Commission. Dal 1962 è professore ordinario ad Urbino, poi a Trento e infine a Bologna, dove fonda l’Istituto di scienze economiche, la facoltà di Scienze politiche, poi il centro di ricerche Prometeia a Bologna nel 1974 e infine l’Arel a Roma nel 1976.

Consulente economico di Aldo Moro, dal 1976 fino al 1994 siede nei banchi del Senato, dove assume anche la presidenza della commissione Bilancio; è poi capogruppo dei popolari alla Camera dei Deputati. Dal 1984 al 1987 è anche europarlamentare e vicepresidente del Partito popolare europeo.

A partire dal 1979 assume importanti incarichi di governo: ministro del Tesoro nei governi Forlani (v. Forlani, Arnaldo) e Giovanni Spadolini (ottobre 1980-dicembre 1982), del Bilancio nel primo governo di Giuliano Amato (giugno 1992-aprile 1993), degli Esteri nel governo Ciampi (v. Ciampi, Carlo Azeglio) (aprile 1993-marzo 1994), della Difesa nel primo governo Prodi (v. Prodi, Romano) (maggio 19996-ottobre 1998). È proprio dagli anni Settanta che si fanno più rilevanti ed appassionati i suoi contributi, sia scientifici sia politici, al processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), per i quali A. va sicuramente annoverato fra i protagonisti del perseguimento tenace e continuo dell’avvicinamento dell’Italia all’Europa.

Ancora all’inizio del 1977 A. è sulla linea che verrà a più riprese espressa da Modigliani: esiste un solo salario d’equilibrio che è coerente con il pareggio dei conti con l’estero. E se il salario è una variabile indipendente nel sistema economico, non resta che adottare «una politica valutaria che permetta di mantenere un certo livello di competitività, cioè una politica valutaria che faccia riflettere nel cambio le variazioni del costo unitario del lavoro» (v. Andreatta, 1977, p. 27). Un’analisi incompatibile con vincoli monetari europei.

Ma alla fine dell’anno, quando nell’ottobre 1977 il presidente della Commissione europea Roy Jenkins propone di rilanciare il progetto di un Sistema monetario europeo (SME), le cose cambiano: da un lato esiste un progetto che di lì a pochi mesi diverrà molto concreto e dal quale sarebbe estremamente costoso per l’Italia rimanere fuori; dall’altro l’evoluzione socio-politica interna consente di sperare in un ridimensionamento del ruolo del salario come variabile macroeconomia indipendente, un processo che deve assolutamente essere agevolato.

Il Sistema monetario europeo, con la fissazione di margini di fluttuazione bilaterali ristretti, impone una disciplina esterna che deve riflettersi in comportamenti virtuosi interni, da parte di tutti i soggetti responsabili delle grandi scelte di politica economica del paese (governo, sindacati, autorità monetarie). Oltre al cambio, occorre predisporre secondo A. una dimensione di governo dell’economia a livello continentale, dove si riuniscano «tutti gli altri strumenti nell’intervento economico dei governi [come il] sostegno alla domanda mediante la politica fiscale e monetaria» (v. Andreatta, 1978, p. 87).

Negli anni successivi è protagonista del “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, primo tangibile risultato dell’efficacia dello SME come vincolo “costituzionale” esterno. Una piccola rivoluzione che avrebbe cambiato le regole del gioco istituzionale e democratico nel paese, costituendo la premessa fondamentale per la credibilità dell’autorità monetaria, a sua volta elemento imprescindibile per la sostenibilità della partecipazione della lira allo SME.

Nel 1994, ministro degli Esteri nel governo Ciampi, A. avanza una proposta di riforma dell’ONU, volta ad accrescere il grado di democraticità dell’organismo internazionale in vista di una ridefinizione complessiva delle istituzioni di governo dell’economia e della convivenza civile internazionale improntate ad una più omogenea rappresentanza e maggiore democraticità.

Negli ultimi anni A. propone anche un audace progetto di riforma del sistema di gestione del debito pubblico in Europa, volto alla riduzione dei costi di transazione di gestioni nazionali separate tramite un’emissione unitaria assistita da un’istituzione di rilevanza pubblica e di dimensioni continentali. Una proposta che, ancora oggi, non ha perso il suo sapore provocatorio e che rientra periodicamente nel dibattito politico ed economico europeo.

Fabio Masini (2010)




Andreotti, Giulio

A. (Roma 1919-ivi 2013) è un politico, scrittore e giornalista italiano. È stato uno dei principali esponenti della Democrazia cristiana. Durante gli anni del regime fascista studiò al liceo Tasso di Roma, frequentando assiduamente fin da giovinetto gli ambienti cattolici romani. Iscrittosi alla facoltà di Giurisprudenza, aderì già a 18 anni alla Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), allacciando contatti – poi rivelatisi durevoli – con altri esponenti delle formazioni cattoliche. A 23 anni subentrò ad Aldo Moro quale presidente nazionale della stessa FUCI (1942-1944). Durante gli anni della guerra, A. incontrò Alcide De Gasperi presso la Biblioteca vaticana, dove il politico trentino aveva trovato rifugio dalle persecuzioni fasciste. Nel 1944, A. fu eletto nel Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, divenendo, con la cessazione delle ostilità, responsabile del settore giovanile del partito.

Terminata la guerra e iniziata l’epoca repubblicana, A. fu eletto nel 1946 all’Assemblea costituente. De Gasperi lo volle segretario del Consiglio dei ministri (31 maggio 1947), carica che detenne fino al 12 gennaio 1954. Alle elezioni del 18 aprile 1948 entrò alla Camera dei deputati per la circoscrizione di Roma-Latina-Viterbo-Frosinone. Da allora fu sempre riconfermato deputato fino alla nomina (1991) a senatore a vita.

In quanto segretario del Consiglio dei ministri nei difficili anni del secondo dopoguerra, A. dedicò un ridotto interesse alle tematiche europeiste, consacrando gran parte delle proprie attenzioni ai problemi legati alla governabilità e alla ripresa economica del paese. Del resto, in quegli anni, sia la Democrazia cristiana (al pari della maggioranza dei partiti italiani) sia gran parte del movimento cattolico prestarono scarso interesse al Federalismo europeo e ai suoi progetti, recependo solo parzialmente il sostegno dato dall’allora papa Pio XII a una Europa unita, portavoce del messaggio della Chiesa e baluardo contro il comunismo, ma, al contempo, soggetto non appiattito sulla politica USA.

Quale segretario del Consiglio dei ministri, A. poté assistere in prima persona al primo cambio di passo da parte della politica italiana rispetto all’unificazione del continente, avvenuto in occasione del lancio del Piano Schuman (per la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, CECA, 9 maggio 1950) e del Piano Pleven (per la nascita della Comunità europea di difesa, CED, 24 ottobre 1950) (v. Pleven, René). La scelta di De Gasperi e di alcuni politici, economisti e diplomatici di sostenere i due piani non rispose solo alle sollecitazioni degli Stati Uniti a favore di una struttura europea che unificasse il continente, ma anche alla convinzione che le ipotesi di lavoro di Robert Schuman e René Pleven fossero una opportunità preziosa per il paese. Pur non svolgendo un ruolo di primo piano nella vicenda, A. poté assistere e meditare sulle vicende che videro il primo tentativo della classe dirigente nazionale di dare all’Italia un ruolo di primo piano entro il continente. Su queste esperienze egli tornò più volte negli anni seguenti. La speranza di De Gasperi e degli altri sostenitori dei progetti di Europa unita era di superare le debolezze e le arretratezze economiche, politiche e militari dell’Italia, rendendola parte integrante di una struttura più grande, dando una risposta strategica al grande timore della politica estera del paese: il sospetto che, senza un processo di integrazione continentale entro il quale inquadrare l’alleanza franco-tedesca, Bonn e Parigi potessero egemonizzare il panorama europeo, ponendo l’Italia ai margini (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Si trattò, in sostanza, di una sorta di fuga in avanti, che più volte venne ritentata dall’Italia in seguito.

Anche per A. come per tutta la classe dirigente italiana, la fine della CED costituì un momento di svolta importante. L’alleanza militare tradizionale che scaturì dal progetto di esercito europeo (la Unione dell’Europa occidentale, UEO), era fondata su un binomio franco-britannico che poneva l’Italia ai margini del sotto-sistema europeo inserito nel più grande sistema occidentale. Questi anni, tra l’altro, furono importanti anche per A. Lasciata la funzione di segretario del Consiglio dei ministri al termine del governo di Giuseppe Pella (12 gennaio 1954), A. ottenne il suo primo incarico ministeriale con il primo governo di Antonio Segni (6 luglio 1955-6 maggio 1957), divenendo ministro delle Finanze (carica che mantenne anche con il successivo governo Zoli, 19 maggio 1957-19 giugno 1958). Fu da via XX Settembre che A. assistette e partecipò ai negoziati per la nascita della Comunità economica europea (CEE). A. condivise l’impegno posto dai governi italiani a partire dalla Conferenza di Messina (1-3 giugno 1955) fino ai Trattati di Roma (25 marzo 1957) che portarono alla creazione della CEE. Durante i lavori, i rappresentanti italiani fecero di tutto perché non si creassero direttori di sorta, sfruttando anche il momento di difficoltà nel quale si trovavano le altre potenze europee. Questo prudente sostegno si accompagnò in A. con uno scrutinio molto attento dedicato alle altre opzioni strategiche a disposizione dell’Italia, in primo luogo il neoatlantismo sostenuto da Amintore Fanfani. Questa posizione nasceva dalle competizioni tutte interne alla Democrazia cristiana. Ad A., che era comunque un sostenitore della linea filoamericana nella politica estera italiana, non sfuggirono le prospettive incerte della strategia fanfaniana, che cercava di giocare sull’amicizia con gli Stati Uniti per far acquisire all’Italia maggiore peso nel Mediterraneo o per portarla a svolgere un ruolo centrale di mediazione nel confronto tra Est e Ovest, facendole acquisire anche un ruolo preminente entro la CEE. Come emerge dalla lettura degli editoriali e delle pagine della rivista bisettimanale della destra democristiana “Concretezza” (1 gennaio 1955-16 gennaio 1976) di cui era fondatore e direttore, A. non escludeva affatto che l’Italia potesse assumere tali posizioni internazionali. Per esempio, in qualità di ministro della Difesa (carica che aveva assunto in occasione del varo del secondo governo Segni, 15 febbraio 1959, e che gli era stata confermata entro il terzo e il quarto governo Fanfani, 26 luglio 1960), A. garantì il proprio sostegno al viaggio compiuto da Fanfani in URSS nel 1961, deciso anche allo scopo di accreditare l’Italia quale plausibile mediatore tra Mosca e Washington. Nello stesso tempo, però, A. non mancò di considerare che eccedere in una politica autonoma rischiasse di creare fratture tra l’Italia e gli stessi USA, oltre a porre in pericolo i rapporti con i partner comunitari, da cui il paese non poteva prescindere.

Appreso fin dall’inizio degli anni Sessanta come le ambizioni neoatlantiche italiane avessero poca consistenza, A. scelse di sostenere una linea palesemente filostatunitense, anche dentro la stessa CEE. È in quest’ottica che deve essere letta la disponibilità di A. all’accoglimento della richiesta di partecipazione del Regno Unito alla CEE (9 agosto 1961), compiacendo Washington, che di un Regno Unito nella CEE era il principale sostenitore. Il suo favore alla domanda inglese aveva le stesse basi politiche che lo spinsero a sostenere il progetto di Multilateral force (MLF) proposto dagli USA per la difesa nucleare integrata dell’Europa: ovverosia la ricerca di iniziative politiche che potessero garantire vantaggi politici all’Italia, facendole superare limiti economico-politici nazionali altrimenti non valicabili, ponendo – nel contempo – un freno alle iniziative egemoniche continentali di Francia e Germania. Il contrasto ai progetti di Charles de Gaulle e alla preminenza dell’asse franco-tedesco nella compagine comunitaria, però, non doveva spingersi fino a porre in pericolo l’impalcatura europea, vitale per gli interessi italiani, di cui la Francia era pur sempre cardine portante. Sulla base di ciò, A. comprese la sostanziale contraddittorietà di qualsiasi iniziativa che cercasse di far acquisire indipendenza d’azione all’Italia entro la CEE a spese dell’asse Bonn-Parigi. Il veto di de Gaulle (14 gennaio 1963) all’entrata di Londra nella Comunità privò l’Italia del possibile contrappeso all’amicizia franco-tedesca inducendola a riconsiderare le linee della propria politica comunitaria. A quel punto, in qualità di ministro della Difesa del primo governo Leone (21 giugno 1963-4 dicembre 1963) e dei primi due governi Moro (4 dicembre 1963-23 febbraio 1966) A. condivise la scelta dell’Italia di porsi quale mediatore dei veti incrociati tra le singole potenze comunitarie, ridando senso alla partecipazione italiana alla CEE, garantendole anche vantaggi concreti. In tale ottica va visto l’atteggiamento del governo italiano in occasione della “crisi della sedia vuota” e del Compromesso di Lussemburgo. Sapendo di disporre di un relativo spazio d’azione, Roma, più che provare a piegare i partner europei ad accogliere le sue richieste, preferì lavorare per mantenere in vita la Comunità, mediando tra le divaricantesi politiche di Francia e Germania occidentale.

In qualità di ministro dell’Industria, commercio e artigianato nel terzo governo Moro e nel secondo governo Leone (23 febbraio 1966-12 dicembre 1968), A. assistette al declino della politica gollista e della vecchia Europa a Sei, e alle rinnovate speranze di un rilancio della Comunità. Tra il 1969 e i primi mesi del 1972, A. non tenne cariche di governo, ma diede un certo consenso alla breve ma intensa opera riformista che si consumò tra il dicembre 1969 e l’aprile 1970, mesi durante i quali la Comunità a Sei riuscì ad approvare un complesso di norme di grande importanza economica e politica (rapida adozione del regolamento per il finanziamento della Politica agricola comune (PAC), i cui negoziati risalivano al 1965, stanziamento delle risorse proprie della Comunità, rafforzamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo, lancio dell’unione economica e monetaria e, infine, messa a punto di un sistema di cooperazione nel campo della politica estera (L’Aia 1-2 dicembre 1969) (v. anche Cooperazione politica europea). Identico consenso fu mostrato da A. all’apertura del negoziato con il Regno Unito (30 giugno 1970), sia perché soddisfaceva un punto sul quale A. aveva speso qualche sforzo in passato sia perché sembrava poter riaprire spiragli per un rinnovato attivismo italiano in ambito comunitario e mediterraneo.

Egli visse in prima persona, in qualità di Presidente del Consiglio (17 febbraio 1972-7 luglio 1973) gli ultimi passaggi attuati per l’entrata della Gran Bretagna nella Comunità. Poi ebbe modo di toccare con mano, in quanto ministro del Bilancio e della programmazione economica nel quarto e quinto governo Moro (23 novembre 1974-26 luglio 1976) e poi ancora quale Presidente del Consiglio (29 luglio 1976-4 agosto 1979), la grave sclerosi che colpì l’istituzione comunitaria durante la seconda parte degli anni Settanta, manifestatasi con l’interruzione del processo di integrazione comunitaria che era stato previsto dalla Conferenza di Parigi del 19-21 ottobre 1972. A. dovette subito percepire, al pari dei suoi colleghi, un senso crescente di delusione per come il processo di integrazione europea stava proseguendo. Il disappunto maggiore ruotò attorno alla presa d’atto che la presenza della Gran Bretagna nella Comunità non si stava traducendo in un maggiore spazio d’azione politica per l’Italia, mentre il Regno Unito – attore debole nel contesto internazionale durante gli anni Settanta – tendeva a porsi in posizione di critica globale delle strutture comunitarie. Queste difficoltà finivano per rendere più acuti sull’Italia gli effetti della crisi politico-economico-sociale, al punto da costringerla a uscire dal serpente monetario, favorendo anche un periodo di riflusso del suo tradizionale filoeuropeismo.

Furono proprio le esperienze acquisite in questi anni che rafforzarono in A. l’impressione che la Comunità dovesse essere difesa con ogni mezzo. Per A., come per gli altri politici democristiani, la presenza del paese nella CEE costituiva una sorta di àncora che teneva il paese legato al blocco occidentale evitandone la marginalizzazione rispetto alle grandi potenze del blocco. Tra l’altro, l’evoluzione delle posizioni della CGIL (Confederazione generale italiana del lavoro) e del PCI (Partito comunista italiano) a partire dalla metà degli anni Settanta sul tema della costruzione europea fece sì che l’argomento comunitario divenisse materia di consenso entro l’arco costituzionale, favorendo una maggiore compattezza istituzionale di fronte alla politica europea del governo italiano. Fu anche per questo che, rispetto al passato, l’Italia – al pari degli altri paesi europei più importanti – scelse di assumere posizioni anche intransigenti di fronte a iniziative comunitarie che rischiavano di tradursi in svantaggi evidenti per il paese. Per esempio, pur accogliendo di buon grado l’idea che la CEE potesse allargarsi a Spagna e Portogallo, A. – tornato a rivestire la carica di Presidente del Consiglio (1976-79) – non tacque le perplessità sue e del governo di fronte a scelte che rischiavano di danneggiare gli interessi italiani entro la CEE. Fu solo dopo aver ricevuto adeguate garanzie – e prima di essere sostituito a Palazzo Chigi da Cossiga – che egli diede il proprio assenso all’apertura dei negoziati a Bruxelles tra la CEE e i due paesi iberici.

Fu con gli anni Ottanta, comunque, che A. ebbe modo di acquisire meriti per la sua attività politica a favore dell’Europa comunitaria. Entrato in carica quale ministro degli Affari esteri con il primo governo del socialista Bettino Craxi il 1° agosto 1983, A. tenne l’ufficio ininterrottamente fino al 22 luglio 1989, lasciandolo solo per divenire Presidente del Consiglio (22 luglio 1989-28 giugno 1992). Durante questo lungo periodo, A. poté dare continuità alla sua politica e alla sua intuizione. Dimostratesi prive di concretezza le alternative politiche come il cosiddetto “eurosocialismo”, inutile ai bisogni del paese e slogan adatto al solo ambito interno quale risposta a certe ambizioni comuniste, A. fece propria l’idea che fosse fondamentale per l’Italia lasciare da parte le velleità di “onesto sensale” delle tensioni comunitarie e optare per la ricerca di un rapporto privilegiato con un grande partner comunitario, allo scopo di conferire forza alla propria presenza e ai propri interessi nella CEE. Va detto che per un anno e mezzo almeno A. non colse fino in fondo la novità offerta al panorama comunitario dall’accordo raggiunto tra il 1983 e il 1984 tra il presidente francese François Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmut Kohl; accordo che poneva – di nuovo – Francia e Germania al centro della CEE. L’accordo sanciva un direttorio ansioso di imprimere una svolta alle vicende comunitarie, ponendosi alla testa di una riforma della Comunità che consentisse all’Europa di affrontare la sfida economica posta dalla “reaganomics” e dalla “rivoluzione informatica”. In ogni caso, dalla seconda metà del 1984. seppure in ritardo, A. comprese quanto stava accadendo e cercò di recuperare il tempo perduto. Di fatto, A. – agendo in sintonia con il suo presidente Craxi – fece di tutto per fare in modo che l’Italia si affiancasse, su basi paritarie, a Germania e Francia, provando perfino a scavalcarle. Fu l’Italia a favorire l’accelerazione dei negoziati per l’adesione alla CEE di Spagna e Portogallo, dopo averli rallentanti per diverso tempo. Furono A. e Craxi che ebbero parte non trascurabile nel superare, durante il famoso vertice dei capi di Stato e di governo di Milano (28-30 giugno 1985), l’ostacolo posto dal primo ministro inglese Margaret Thatcher, contraria a qualsiasi riforma dei Trattati che portasse al rafforzamento della Comunità.

Sulla base degli studi fino a oggi compiuti, si ha però la persuasione che A. non riuscisse a comprendere fino in fondo come fosse proprio l’Europa comunitaria il contesto in cui Roma avrebbe potuto disporre delle maggiori opportunità d’azione. Egli continuò a coltivare ambizioni mediterranee e la speranza di porsi quale mediatore tra i due blocchi, in una fase di cambiamenti internazionali molto profondi che stavano andando al di là delle effettive possibilità di manovra del paese. In questi frangenti, l’Italia non comprese come gli Stati Uniti fossero perfettamente in grado di agire autonomamente nella gestione di problemi quali quello palestinese o il dialogo diplomatico con l’URSS di Michail Gorbačëv. Ciò fece sì che dall’allargamento europeo traessero maggiori vantaggi i paesi di nuova entrata nella compagine comunitaria, che divennero – a quel punto – più concorrenti che non alleati di Roma, privandola dell’aiuto che questa si sarebbe attesa nel suo sempre attuale tentativo di contrastare il binomio franco-tedesco.

Proprio a causa di queste delusioni, che fecero perdere al paese parte del terreno guadagnato nel contesto europeo in occasione degli eventi verificatisi nel biennio 1985-1986, alla fine degli anni Ottanta A. e i politici italiani tornarono a dare il giusto peso al ruolo che la CEE (ora incamminatasi sulla strada che avrebbe portato, il 7 febbraio 1992 alla firma del Trattato di Maastricht e, il 1 gennaio 1993, alla nascita ufficiale dell’Unione europea) avrebbe potuto avere nella politica italiana. I due Consigli di Dublino (uno straordinario il 28 aprile 1990 e il secondo ordinario del 25-26 giugno) che rilanciarono l’impegno dei membri della Comunità per la nascita di una Unione politica europea videro i rappresentanti italiani – e tra questi in primo luogo lo stesso A., per l’ultima volta tornato a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio – impegnati a inserire l’Italia nel cosiddetto inner circle dell’Europa. La ragione fu duplice: da un lato, A. era convinto, al pari di altri, che l’evoluzione delle vicende europee avrebbe di certo inciso in modo radicale non solo sul futuro della costruzione europea stessa, ma anche sul ruolo internazionale dell’Italia. In secondo luogo, egli condivideva la certezza che aderire all’unione economica e monetaria avrebbe permesso alla classe dirigente nazionale di ricondurre il paese sulla via del risanamento economico.

Di fatto, fu con la firma del Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992) da parte del suo governo che A. concluse la sua lunga carriera politica attiva, pur continuando a mantenere un seggio al Senato quale senatore a vita. Per certi versi, è stato osservato come Maastricht finì per rappresentare una sorta di suggello sia personale sia dei partiti che avevano guidato la Repubblica italiana dal secondo dopoguerra in avanti attraverso la politica europeista iniziata nel 1950 e proseguita tra alti e bassi fino a quel momento, prima che i vecchi gruppi dirigenti fossero travolti dagli scandali di Tangentopoli.

Lucio Valent (2013)




Antonio, Giolitti

G. (Roma 1915-ivi 2010), nipote di Giovanni Giolitti, compì i suoi studi a Roma, laureandosi in giurisprudenza. Allevato nell’atmosfera liberale e antifascista della sua famiglia, nel 1941 aderiva al PCI e diventava redattore nella sede romana della casa editrice Einaudi. Durante la guerra fu commissario politico della brigata partigiana Garibaldi, operante nella Valli di Lanzo in Piemonte. Nel 1945 era nominato membro della Consulta e nel 1946 entrava nell’Assemblea costituente nelle liste del Partito comunista. Dal 1948 fu membro del gruppo comunista della Camera dei deputati, eletto nel collegio di Cuneo-Asti-Alessandria. Rieletto nel 1953, nel 1958 si presentava nelle liste del PSI dove nuovamente conseguiva il seggio parlamentare, che avrebbe conservato fino alla sua nomina a Commissario europeo nel 1977.

Nel 1956 G. aveva preso posizione contro l’intervento sovietico in Ungheria. Di qui un lungo confronto con gli organi dirigenti del PCI, a cui diede forma nel suo saggio, Riforme e rivoluzione (1957) e in un intervento all’ VIII Congresso del PCI nel 1958 a cui seguirono le sue dimissioni da quel partito. La sua formazione si era indirizzata verso l’economia politica, e di carattere economico furono gli incarichi direttivi assunti nell’ambito dell’organizzazione comunista e negli interventi della sua attività parlamentare. Divenne in seguito responsabile della sezione economica del PSI e tenne questo ruolo nei dibattiti che accompagnarono la formazione del centrosinistra. Si schierò con la corrente autonomista a fianco di Riccardo Lombardi. Con la formazione del primo governo organico di centrosinistra assunse la carica di ministro del Bilancio e della programmazione nel primo governo di Aldo Moro con il compito precipuo di formulare il piano economico del governo. Impostato su linee keynesiane, con rigore scientifico, e postulando una collaborazione con le parti sociali e un coordinamento dei variegati programmi di intervento pubblico, fu proprio il Piano Giolitti, assieme ad altri temi programmatici, causa della crisi del governo nel giugno 1964.

Schieratosi sulle posizioni di Lombardi, critiche verso il prosieguo della collaborazione di centr-sinistra; se ne distaccava nel 1969, in occasione del primo congresso del Partito socialista unificato, formando con il deputato socialista Loris Fortuna, che sarebbe divenuto uno dei leader storici della campagna per il divorzio in Italia, la corrente di Impegno socialista, favorevole a una ripresa del centrosinistra su nuove basi programmatiche (che aveva elaborato a partire del 1967 nel suo Socialismo possibile). Nel 1970 tornava al ministero del Bilancio nel primo governo di Emilio Colombo, per ricoprire poi la stessa carica nel IV governo Rumor nel luglio 1973.

Il III governo di Giulio Andreotti lo designava nel 1976 come secondo membro italiano, dopo l’uscita di Altiero Spinelli nella Commissione europea. G. Assumeva l’incarico nel gennaio 1977, sotto la presidenza di Roy Jenkins, e lo avrebbe tenuto anche nel quadriennio successivo sotto la presidenza di Gaston Thorn, assumendo il portafoglio relativo al Fondo regionale che era stato istituito dalla Conferenza di Parigi del 1972 (v. anche Fondo di coesione). Era succeduto in quell’incarico al commissario scozzese George Thomson, essendo a capo della competente direzione comunitaria Renato Ruggiero. Trovò il lavoro avviato su di un solido impianto tecno-burocratico, basato su criteri automatici che lasciavano poco, pressoché nullo, spazio ad interventi discrezionali d’ordine politico. G. aveva rilievo tuttavia l’attività di controllo delle procedure e degli obbiettivi. Il Fondo aveva per destinazione i “territori” in posizione di squilibrio economico rispetto alle aree europee di più intenso sviluppo, ed era diviso in quote nazionali che riguardavano soprattutto il Regno Unito, l’Italia e l’Irlanda, a cui in un secondo tempo si sarebbe unita la Grecia. G. svolse un’intensa attività di raccordo con questi paesi. Le preoccupazioni maggiori venivano dall’Italia, per il non rispetto delle procedure e la tendenza a ricevere i fondi senza un’indicazione progettuale, tanto che G. dovette minacciare la Regione Sicilia di tagliare ogni erogazione affinché seguisse le regole. Di rilievo fu anche l’intervento in Campania finalizzato alla realizzazione del Centro direzionale di Napoli. Più in generale Giolitti si propose di far fare un salto di qualità alla gestione del Fondo, in relazione anche agli accresciuti poteri di intervento del Parlamento europeo, dopo la sua elezione diretta, e che portò subito a una particolare attenzione verso la politica regionale, con riguardo, tra l’altro, all’analisi delle spese non obbligatorie e alla congruità degli obbiettivi da conseguire (v. anche Politica di coesione). L’altra linea di intervento perseguita da G. fu quella di coordinare gli interventi comunitari, in particolare quelli del Fondo regionale e del Fondo sociale europeo (FSE), basati sui diversi assunti, quanto ai destinatari. Aveva ricevuto anche delega da Jenkins ai fini di questo coordinamento che doveva tuttavia scontrarsi con forti resistenze interne alla Comunità.

Fu da questa esperienza che maturava la necessità di una riforma del Fondo regionale. G. vi attese nel suo secondo mandato. Negli anni Settanta i governi laburisti avevano patrocinato l’attività del Fondo. Con l’arrivo di Margareth Thatcher l’interesse inglese venne meno. Si imponeva d’altra parte l’obbiettivo di rendere più stretto il legame della Comunità con il sistema delle autonomie regionali europee. L’inefficienza operativa, che derivava anche dai meccanismi di automaticità delle procedure di erogazione e la ripartizione nazionale rigida delle quote, che da più parte si chiedeva di rivedere, spinsero infine nel 1981 ad avviare la riforma. G. riuscì ad attuarla, introducendo quella maggiore flessibilità che consentiva meglio sia l’individuazione sia la trasparenza degli obbiettivi perseguiti. Riservava inoltre a grandi progetti pilotati da Bruxelles una quota del Fondo stesso. Pur nei suoi limiti la riforma G. introdusse principi che costituirono un solido punto di partenza per la successiva riforma di Jaques Delors, che venne imponendosi dopo l’ingresso nella Comunità del Portogallo e della Spagna.

Rilevante fu poi l’attività di G. nel compito parallelo di rappresentanza degli interessi nazionali nell’attività della Commissione, che era un implicito viatico per ciascun commissario. In particolare vanno ricordati due momenti salienti, quello dell’accordo sul nuovo “Serpente monetario” europeo dove svolse un’attività di raccordo nazionale ed europeo, godendo la sua persona, presso i partner europei, del prestigio della assoluta affidabilità, soprattutto col presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Così pure nella riforma della Politica agricola comune (PAC) che interessò la Commissione agli inizi degli anni Ottanta.

Lasciato l’incarico europeo nel 1984, G. fu eletto nel 1987 senatore, come indipendente di sinistra, nelle liste del PCI. Nel 1992 non avrebbe rinnovata la candidatura e si sarebbe ritirato dalla vita politica.

Piero Craveri (2012)




Areilza, Josè Maria De

A. (Portugalete, Bilbao 1909-Madrid 1998) proveniva da una tipica famiglia della borghesia bilbaina. Il padre medico, umanista liberale era stato militante attivo della generazione del 1898, la madre apparteneva ad una famiglia di militari.

Sin dai primi anni di scuola A. impara l’inglese, il francese e il tedesco, nel 1932 si laurea in Giurisprudenza presso il prestigioso ateneo di Salamanca.

Sin dalla gioventù milita nella Uniόn monárquica in Viscaya. In seguito alla caduta della monarchia nel 1931 stringe contatti con il gruppo politico Renovaciόn española. Attraverso Ramiro Ledesma Ramos entra in contatto con Gimenez Caballero, Santiago Montero Diaz e con l’ambiente dei circoli letterari. La fede monarchica sarà una costante nella sua vita. Nel 1933 e nel 1936 si presenta alle elezioni repubblicane come candidato dell’Uniόn monárquica nella circoscrizione di Bilbao, ma non viene eletto. All’epoca A. non è ancora un uomo politico di primo piano. Quando, nel giugno 1936, scoppia la guerra civile si arruola nel fronte nazionalista.

Nel 1937 viene nominato sindaco di Bilbao, incarico che ricopre fino al 1939 quando diventa direttore generale del ministero dell’Industria.

Partecipa alle attività dell’Instituto de estudios políticos e nel 1941 pubblica insieme a Fernando María Castiella Reivindicaciones de España opera con la quale gli autori rivendicano la sollevazione del luglio 1936 come una legittima ribellione del popolo spagnolo contro la Repubblica.

Nel 1945, in seguito alla nomina di Alberto Martín Artajo al ministero degli Esteri, gli viene offerto di svolgere la funzione di ambasciatore in Argentina, paese strategico e centrale per la politica estera spagnola. A. rimane a Buenos Aires dal 1947 al 1950, dove, in un momento di grande isolamento della Spagna tenta di riallacciare i contatti internazionali del suo paese e facendosi portavoce delle istanze franchiste riesce a ottenere degli aiuti da parte di Peron.

Dal 1954 al 1960 ricopre l’incarico di ambasciatore a Washington. Il processo di normalizzazione delle relazioni spagnole con i paesi occidentali compie i primi passi e in particolare A. cura il processo di adesione del suo paese alle Nazioni Unite (1955).

Dopo gli Stati Uniti viene chiamato per dirigere l’ambasciata di Spagna a Parigi dal 1960 al 1964. Sono centrali in questo torno di tempo i contatti stabiliti da A., nonché l’azione sinergica con il ministro degli Esteri Castiella, in nome dell’ingresso del paese nella Comunità economica europea (CEE).

Gli anni parigini sono quelli in cui matura il progressivo allontanamento di A. dal regime franchista. Insiste molto nei resoconti inviati al ministro Castiella sulla necessità di adottare misure di liberalizzazione per conformarsi quanto più possibile alle democrazie occidentali.

Assolutamente contrario alle misure adottate dal governo (confino o esilio) nei confronti dei membri dell’opposizione interna che avevano partecipato al Congresso di Monaco di Baviera il 7-8 giugno 1962, così come alla fucilazione del giovane Julian Grimau il 20 aprile 1963, A. ravvisò come peggiore conseguenza di tali atti il mantenimento del suo paese in una situazione di isolamento internazionale.

La consapevolezza dell’impossibilità di riformare il regime lo spinge nel 1964 a lasciare il suo incarico. Entra nel Consiglio privato di Don Juan, all’epoca in esilio a Estoril in Portogallo, e da allora in poi diventa una sorta di trait d’union tra i gruppi di opposizione interna al regime di stampo monarchico e il legittimo erede al trono di Spagna in esilio.

In questi anni A. concentra la sua attività politica intorno all’obiettivo della restaurazione della monarchia che vede come naturale premessa tanto all’avvio di un processo di transizione democratica come all’integrazione spagnola nella CEE. Nel 1966 diventa membro della Real academia de ciencias morales y políticas. Anche in seguito allo scioglimento del Consiglio privato del legittimo erede al trono di Spagna (avvenuto nel giugno del 1969 in conseguenza della nomina di Juan Carlos come successore di Franco), continua a difendere l’importanza della restaurazione monarchica come garanzia di una futura transizione all’insegna dei principi democratici. Da questo momento in poi la sua vita pubblica è fortemente osteggiata dal regime che lo addita come un traditore dei principi ispiratori del franchismo.

Sempre attento al contesto internazionale e al ruolo occupato dalla Spagna dopo aver lasciato la guida della rappresentanza diplomatica del suo paese a Parigi, A. inizia a scrivere sui giornali “El Pueblo”, “ABC” e “La Vanguardia”.

Nell’immediato postfranchismo, il 15 dicembre 1975 entra nel primo governo della monarchia come ministro degli Esteri, incarico che ricopre fino al giugno 1976.

La presentazione tanto agli Stati Uniti come ai paesi membri della CEE del carattere democratico della monarchia di Juan Carlos I è il leitmotiv del suo mandato. Il suo principale obiettivo è creare un ambiente favorevole al reinserimento della Spagna nel novero delle democrazie occidentali.

Emblematiche in tal senso le dichiarazioni rilasciate da A. durante il viaggio effettuato nel gennaio del 1976 presso le nove capitali dei paesi membri della CEE, dove l’allora ministro degli Esteri spagnolo presentò il programma di democratizzazione previsto dalla monarchia spagnola, l’imminente legalizzazione dei partiti politici e la celebrazione delle elezioni democratiche per il rinnovo delle Cortes, per annunciare che non appena questi progetti si fossero realizzati il paese avrebbe presentato la richiesta d’adesione alla CEE.

Parallelamente alla sua azione a livello diplomatico sin dalla fondazione del quotidiano “El Pais” (maggio 1976), A: scrive una serie di articoli sul contenuto della riforma democratica interna e prepara il lancio del primo Partito popolare (che confluirà poi nell’Uniόn de centro democrático). Viene eletto presidente di quest’ultimo, ma poco dopo, a causa di pressioni governative e dei cattivi rapporti con Adolfo Suárez si dimette dalla carica prima delle elezioni politiche del giugno 1977.

Dopo l’approvazione della nuova Costituzione avvenuta nel dicembre 1978, in seguito allo scioglimento delle Cortes è tra i membri fondatori della Coaliciόn democrática (CD) e alle elezioni politiche per il rinnovo delle Cortes celebrate nel marzo 1979 viene eletto deputato.

Nel 1981, come riconoscimento del suo impegno a favore dell’integrazione in Europa, A. è eletto presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, incarico che ricopre fino al 1983. Sempre nel 1981 dopo le dimissioni di Suárez dall’Uniόn de centro democrático (UCD) entra nel partito ed è eletto deputato per la provincia di Santander. Nel 1987 diventa membro della Real academia española. Tra le sue opere ricordiamo Así lo he visto (1974), Diario de un ministro de la monarquía (1977) e in occasione dell’ingresso della Spagna nella Comunità europea La Europa que queremos.
Maria Elena Cavallaro (2012)




Armand, Louis

Figlio di una coppia di maestri, A. (Cruseilles 1905-Villiers-sur Mer 1971) trascorre un’infanzia serena e studiosa nel villaggio di Cruseilles nell’Alta Savoia. Dopo essere stato ammesso all’École Polytechnique nel 1924 e poi, brillantemente, al Corps des Mines, nel 1929 alla inizia la sua carriera di ingegnere. In un primo tempo è in servizio nelle miniere di Clermont-Ferrand; in seguito entrando entra nel 1934 nella compagnia Paris-Lyon-Marseille (PLM). La sua formazione lo segna in modo duraturo: diverrà infatti membro e poi presidente (1956-1968) del Consiglio di perfezionamento dell’Ècole Polytechnique, alla quale resta profondamente legato per tutta la vita. Apprezzato per le sue qualità di ingegnere, la sua carriera prosegue nella PLM, poi nella Société nationale des chemins de fer (SNCF) francese – dopo la sua creazione avvenuta nel 1938 – e nel 1940 diventa docente all’École des Ponts et Chaussées.

Durante la guerra A. rifiuta nel 1942 un incarico propostogli da Laval, il quale aveva apprezzato la sua intelligenza all’epoca del passaggio a Clermont-Ferrand al principio degli anni Trenta. Lavora parallelamente per la Resistenza e sfrutta la sua posizione per inviare informazioni a Londra dall’autunno del 1940. In seguito incontra il colonnello Passy, capo del Bureau central de renseignements et d’action (BCRA) della Francia libera e organizza insieme ad altri la rete Résistance Fer, una federazione dei gruppi di resistenza dei ferrovieri, preparando in questo contesto un piano di blocco delle vie ferrate prima dello sbarco degli Alleati in Normandia. Dopo essere stato arrestato nel giugno del 1944, a stento si sottrae all’esecuzione ed è liberato in agosto. Alla fine della guerra è nominato “compagno” dell’Ordine della Liberazione e grand’ufficiale della Legion d’Onore.

Il suo impegno discreto, le sue qualità di trascinatore di uomini e le sue competenze tecniche gli conferiscono un grande risalto al momento della Liberazione. La carriera di A. progredisce rapidamente all’interno della SNCF: nel 1945 è direttore del servizio centrale del materiale, nel 1946 è vicedirettore generale, nel 1949 direttore generale e nel 1955 presidente. Pieno di entusiasmo, sostenitore delle innovazioni tecniche, svolge un ruolo cruciale nella modernizzazione e nell’elettrificazione della rete ferroviaria francese e si interessa da vicino all’energia nucleare, che all’epoca era considerata un settore di punta indispensabile alla crescita. La sua influenza è riconosciuta anche nel suo settore professionale – è presidente dell’Union internationale des chemins de fer (UIC) dal 1951 al 1959, in seguito ne diverrà segretario generale fino alla morte – e negli ambienti scientifici e governativi. Fra il 1952 e il 1958 è nominato membro del consiglio scientifico e poi presidente del comitato per l’equipaggiamento industriale del Commissariato per l’energia atomica (CEA) creato nell’autunno del 1945. A partire dal 1947 insegna i “dati tecnici dell’economia industriale” all’École nationale d’administration (ENA), creata all’indomani della Liberazione per reclutare la nuova élite della funzione pubblica. A. si impone quindi come uno dei grandi ingegneri amministratori che hanno pianificato la ricostruzione e la modernizzazione industriale della Francia negli anni Cinquanta, al pari di Raoul Dautry alla CEA o di Pierre Massé all’EDF (Electricité de France).

La dimensione europea del suo percorso si sviluppa nel secondo dopoguerra intorno all’Eurafrica e all’energia nucleare. Nel 1952 A. aderisce al comitato per la pianificazione delle zone industriali in Africa, creato dal residente generale francese in Marocco Erik Labonne, grande promotore dell’Eurafrica. Negli anni seguenti entra a far parte anche del Conseil supérieur du pétrole e diventa presidente del Bureau d’organisation des ensembles sahariens e del Bureau industriel africaine. Nel 1956 suggerisce a Guy Alcide Mollet di creare un’Organizzazione comune delle regioni sahariane (OCRS) che viene costituita nel gennaio del 1957.

Più importante sul piano istituzionale, l’impegno per l’Europa dell’energia nucleare si inserisce con estrema coerenza nella carriera di A. Nel 1954 viene sollecitato dall’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) affinché prepari un rapporto sul problema dell’energia in Europa, che prefigura la cooperazione europea, la pianificazione delle politiche energetiche e il ricorso all’energia atomica civile (Quelques aspects du problème européen de l’énergie, luglio 1954). Esperto riconosciuto, nel 1955 presiede una delle sottocommissioni (sull’energia atomica) del comitato guidato da Paul-Henri Spaak, che prepara un rapporto fondamentale per il rilancio europeo. Quando Jean Monnet progetta una nuova organizzazione europea imperniata sull’atomo civile, è A. a suggerirgli la denominazione Euratom. Convinto dell’importanza del progetto, aderisce al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa creato da Monnet e usa la sua influenza personale per sostenerlo. Nel luglio 1956, durante una sessione rimasta famosa all’Assemblea nazionale, viene a perorare la causa dell’Euratom insieme all’alto commissario del CEA Francis Perrin, su richiesta del Presidente del Consiglio Guy Mollet. In novembre, in seguito alle pressioni del Comitato Monnet e nel contesto travagliato della crisi di Suez, insieme a Franz Etzel e Francesco Giordani A. è designato come uno dei tre “saggi” del comitato di esperti nominato dai ministri degli Esteri dei paesi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per valutare le possibilità dell’energia atomica in Europa. Il loro rapporto (Un objectif pour l’Euratom) è consegnato nel maggio 1957, poco dopo la firma dei Trattati di Roma. I Sei scelgono A. per presiedere la Commissione dell’Euratom a partire dal gennaio 1958 (v. Comunità europea dell’energia atomica). In questa veste A. negozia un importante accordo con gli Stati Uniti ma, deluso dalle tensioni che affiorano, si dimette dall’incarico dopo un anno.

Questo mezzo fallimento dà avvio ad una nuova fase della sua carriera, ormai meno centrata sull’alta amministrazione e più orientata verso gli ambienti economici e intellettuali. Presidente delle Miniere di carbon fossile del bacino lorenese e amministratore di numerose società, A. incarna la figura dell’esperto per eccellenza. Nel 1959-1960 diventa presidente del gruppo di lavoro dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) per l’accrescimento del potenziale scientifico dei paesi occidentali e nel novembre 1959 è nominato copresidente del Comitato sugli ostacoli all’espansione economica creato dal primo ministro Michel Debré. Gli viene affidata anche la vicepresidenza della Fondazione europea della cultura (1960) ed è eletto all’Accademia delle scienze morali e politiche (1960), poi all’Accademia di Francia (1963). Queste cariche rappresentano la prosecuzione di una riflessione avviata dal 1953 nel Centre international de prospective di Gaston Berger. A., appassionato dall’evoluzione della tecnica, in particolare della cibernetica e dell’informatica, e dal loro impatto sull’organizzazione delle società, riflette sulla “rivoluzione manageriale” venuta dagli Stati Uniti, sui problemi dell’insegnamento e della ricerca, su quella che chiama “l’universalizzazione” del commercio, dei trasporti, delle tecniche e della cultura (attraverso la “mondovisione” o la televisione satellitare). In una serie di scritti – Pladoyer pour l’avenir (1961), Simples propos (1968) e Le pari européen (1968), in cui sviluppa le sue riflessioni pubblicate alla fine di Défi américain (1967) di J.-J. Servan-Schreiber – A. invita i francesi e gli europei ad adattare le loro mentalità alle nuove realtà e a ripensare l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), più che mai indispensabile, ma ormai invecchiata nei metodi. Ai suoi occhi l’Europa unita non deve opporsi all’America, ma “tradurla” al resto del mondo e proporre una soluzione nuova all’“universalizzazione” in corso – non un nuovo Stato sovranazionale ma un “federalismo alla carta”, con cooperazioni rafforzate scelte dagli Stati europei intorno ad una base minima (estensione dell’unione doganale, moneta comune, Europa dei brevetti). A. immagina anche degli “uffici” europei in settori nuovi (nucleare, ambiente, gestione dell’acqua), una nuova “camera di riflessione politica europea”, un ministro per l’Europa in ciascun governo – allo scopo di «offrire [all’America] un interlocutore in posizione eretta», capace di «farsi carico di una parte dei problemi dell’organizzazione mondiale» (Le pari européen, p. 299) e di restituire all’Europa un ruolo creativo con l’invenzione di nuove istituzioni. L’originalità della sua visione europea – in certo qual modo una versione modernizzata e più liberale del funzionalismo alla Monnet – consiste nel pensare la sfida della mondializzazione all’integrazione europea. Nel 1965 rifiuta di presentarsi alle elezioni presidenziali come gli propongono i centristi, ma nel 1969 accetta di presiedere un ultimo comitato sul miglioramento dell’ambiente i cui suggerimenti sono recepiti nel 1970 dal governo. Scomparso il 31 agosto 1971, A. incarna al tempo stesso una figura tipica delle élites tecniche francesi dell’epoca e un europeista convinto.

Valérie Aubourg (2013)




Aron, Raymond

Quando era in vita e anche in seguito A. (Parigi 1905-ivi 1983) è stato spesso descritto soprattutto come un “atlantista”. Questo non è esatto: in realtà egli era molto più “europeista” che “atlantista”. Tuttavia non fu sempre un fautore della costruzione europea nel senso dell’integrazione e della sovranazionalità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). A. era “europeista” in senso generale, in cui del resto la sua visione della cultura e della storia aveva un ruolo importante, ma lo era molto meno nel senso particolare che spesso oggi ha assunto questo termine (vale a dire sostenitore dell’“Europa di Bruxelles”). Il tema europeo non compare comunque nel suo pensiero prima del 1945, se non attraverso una condanna generale del nazionalismo, di cui A. aveva potuto osservare i devastanti effetti incrociati nei rapporti franco-tedeschi durante il periodo trascorso in Germania fra il 1930 e il 1933. Oltre alle sue riflessioni filosofiche e sociologiche A. allora si era concentrato soprattutto sullo spettacolo della Germania in crisi e, dopo l’ascesa al potere di Hitler, sul fenomeno dei totalitarismi.

Fu chiaramente la Seconda guerra mondiale a indurre A. a prendere coscienza dell’Europa e farla diventare un tema costante delle sue riflessioni. Nei suoi articoli su “Combat” nel 1946 A. descriveva un’Europa ridimensionata di fronte alle due superpotenze che erano le vere vincitrici del 1945, auspicando che potesse affermarsi nei loro confronti per mantenere la propria indipendenza. Inoltre si augurava che la Francia si mettesse alla testa di questo movimento. Ma non si trattava di riflessioni particolarmente originali rispetto alle idee emerse nella cerchia di Aristide Briand alla fine degli anni Venti, epoca in cui il declino relativo dell’Europa rispetto agli Stati Uniti e all’URSS era già un elemento di forte inquietudine. A partire dal 1947 l’evidenza del progetto espansionistico totalitario sovietico e l’inizio della Guerra fredda portano A. a insistere con forza sulla necessità della coesione occidentale e sul ruolo importante dell’America rispetto a Mosca. Ma l’idea di un’Europa indipendente e, se possibile, di un superamento della Guerra fredda non sarebbe mai scomparsa, anche se per lungo tempo le riflessioni di A. saranno consacrate al conflitto Est-Ovest più che alla costruzione europea. Sul piano delle relazioni internazionali la Francia e l’Alleanza atlantica (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) restarono in effetti al centro del suo sistema di coordinate molto più dell’Europa, almeno fino a metà degli anni Sessanta: su “Le Figaro” del 31 agosto 1948 A. osservava a proposito del Piano Marshall che la ricostruzione della Germania da parte degli Stati Uniti era conforme al «bene comune del Vecchio continente, a una sola condizione: che si sappia tradurre in realtà lo slogan dell’unità europea», formula in cui il termine “realtà” opposto al termine “slogan” ben riassume l’approccio aroniano.

A. accolse favorevolmente il Piano Schuman del 9 maggio 1950, ma per due ragioni precise e assai più circoscritte rispetto alle preoccupazioni europeiste a lungo termine di Robert Schuman e soprattutto di Jean Monnet: gli pareva utile un’organizzazione dell’industria pesante europea, con una funzione modernizzatrice, che rendesse più accettabile politicamente la formula dei cartelli siderurgici dell’anteguerra. E l’iniziativa francese dimostrava che alla fine era stata abbandonata la politica punitiva seguita nei confronti della Germania dal 1945 e che ci si era orientati verso una riconciliazione franco-tedesca. Secondo A., in quel momento, era questo l’essenziale e la condizione indispensabile per qualsiasi riavvicinamento europeo. In effetti è in questo periodo, trattando il tema della riconciliazione, che Aron trovò i suoi accenti più profondamente europeisti, come dimostra il discorso rivolto agli studenti dell’Università di Francoforte pronunciato il 30 giugno 1952. Per le stesse ragioni (visione pragmatica delle cose e volontà di riconciliazione con la Germania) egli accettò senza problemi, sempre nel 1950, il principio del riarmo tedesco. In compenso era fortemente critico nei confronti della Comunità europea di difesa (CED) e assolutamente contrario a coloro che intendevano costruire, a partire dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e dalla CED, una vera e propria federazione europea (v. anche Federalismo), come spiegava molto chiaramente nel suo articolo su “Le Figaro” del 24 settembre 1952 Fédération européenne: objectif ou mirage?, A. riteneva che una federazione di questo tipo fosse un progetto irrealistico poiché non teneva conto del peso delle tradizioni e degli interessi nazionali e che inoltre fosse contrario agli interessi della Francia, una potenza con interessi considerevoli anche fuori dell’Europa. Europeista per ragione ragioni culturali e razionali, A. non era certo un europeista idealista e ancor meno un federalista.

Lo scetticismo di A. nei confronti dell’Europa integrata si manifestò ancora nel 1955, al momento del “rilancio europeo” alla Conferenza di Messina, sia che si trattasse del Mercato comune (v. Comunità economica europea) o dell’Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica): la cooperazione sarebbe stata assai più utile dell’integrazione e sarebbe stato «assolutamente inammissibile» che la Francia rinunciasse alla bomba atomica nel quadro dell’Euratom, ipotesi fortemente discussa all’epoca. Tuttavia, A. si opponeva all’idea, molto diffusa fra i partner della Francia nel 1958, di accettare la proposta britannica di un’ampia zona di libero scambio in cui diluire il Mercato comune. In effetti il suo pragmatismo e la sua visione europeista, seppure non integrazionista, lo inducevano a riconoscere la necessità di un’unione economica dotata di una sua personalità rispetto al mondo esterno, anche se i meccanismi complessi dei Trattati di Roma evidentemente non lo convincevano. Auspicava però che la Gran Bretagna (v. Regno Unito) finisse per aderire alla Comunità economica europea (CEE). Nell’autunno del 1958 i negoziati avviati nel 1957 fra i Sei e gli altri paesi, in particolare la Gran Bretagna, sulla costituzione di una zona europea di libero scambio giungevano a un punto cruciale. A. ritiene indispensabile non far diluire il Mercato comune, che per definizione avrebbe comportato una parziale discriminazione nei confronti dei paesi europei non membri, ma al tempo stesso auspicava la conclusione di un ragionevole compromesso tariffario che tenesse conto degli interessi dei partner, comprese le relazioni fra Gran Bretagna e Commonwealth. A. deplorò la brusca rottura dei negoziati imposta dalla Francia il 15 dicembre 1958, come pure il deteriorarsi dei rapporti fra Parigi e Londra, e continuò a sostenere la necessità di un accordo franco-inglese. In effetti, egli riteneva che l’Europa dovesse fondarsi su un accordo di questo tipo non meno che su un accordo franco-tedesco. L’orientamento della politica francese verso Bonn a partire dal 1960 palesemente non lo entusiasmava: per esempio, dalla sua tribuna regolare su “Le Figaro” non dedicò neppure un articolo al progetto di unione politica europea del 1960-1962 (conosciuto come Piano Fouchet).

Il generale Charles de Gaulle tornò al potere nel giugno 1958. All’inizio A. si mostrò estremamente moderato nei giudizi: dopo tutto, la sua visione di un’Europa pragmatica che non pretendesse di negare le realtà nazionali e la sua diffidenza nei confronti del federalismo coincidevano, almeno a una prima analisi, con gli orientamenti gollisti. A. apprezzava il fatto che il generale non cercasse di stravolgere l’Alleanza atlantica o lo stato delle cose in Europa, ma che volesse semplicemente permettere alla Francia di far sentire meglio la sua voce, un’idea che non lo disturbava affatto. Ma le ambizioni di de Gaulle andavano molto più lontano, mirando a riorganizzare l’Europa occidentale intorno alla coppia franco-tedesca e l’intera Europa intorno al rapporto privilegiato fra Parigi e Mosca, allo scopo di superare la Guerra fredda, mentre gli Stati Uniti sarebbero stati sospinti in una posizione periferica. A. comprese nel 1962 che quel che effettivamente voleva de Gaulle era il ritorno al concerto europeo delle potenze precedente al 1914 (certamente modernizzato per tener conto delle realtà del XX secolo). A partire da questo momento la critica di A. non si rivolse solo ad argomenti particolari, ma investì il cuore della politica di de Gaulle, che mirava ad una sintesi, a suo parere impossibile, fra la vecchia Europa degli Stati e la moderna aspirazione all’unificazione europea (articolo su “Le Figaro” del 14-15 luglio 1962: De Charles-Quint à Clemenceau), tanto più che de Gaulle, nel 1962, annunciò il futuro riavvicinamento fra le due Europe, al di là delle ideologie, e il ritorno ad un sistema internazionale che evocava di fatto il concerto europeo precedente al 1914. Secondo A., ciò era assolutamente insufficiente: «Equilibrio e cooperazione, era la formula di pace all’epoca in cui gli Europei si facevano la guerra più volte al secolo». Ma A. se la prendeva anche con certi orientamenti specifici del generale: in particolare, l’asse Parigi-Bonn voluto da de Gaulle indisponeva non solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri partner europei e isolava la Francia.

Ma il 4 luglio 1962, a Filadelfia, John F. Kennedy annunciò quello che è stato definito il suo “grande progetto”, vale a dire una comunità atlantica politica, economica, strategica fondata su due pilastri, l’America del Nord e un’Europa unita che comprendesse la Gran Bretagna. A questo punto entrarono apertamente in conflitto i due “grandi progetti” di un’“Europa europea”, quello di Kennedy e quello di de Gaulle, ed ebbe inizio quel percorso che avrebbe condotto alla conferenza stampa del generale il 14 gennaio 1963 e alla rottura dichiarata fra Parigi e Washington. Da quel momento in poi A. smise di credere nella possibilità di un accordo con Washington. Ai suoi occhi de Gaulle non cercava più un compromesso sulla base di obiettivi precisi, ma un rovesciamento dell’Alleanza atlantica e dell’Europa in funzione di una visione superata del ruolo della Francia nel mondo, rovesciamento che non era di per sé auspicabile e che Parigi, inoltre, non aveva alcuna possibilità di imporre. A. puntò più volte il dito sulla difficoltà principale del progetto gollista: la Repubblica Federale Tedesca non poteva scegliere Parigi contro Washington a meno che la Francia non la incoraggiasse a dotarsi anch’essa dell’arma nucleare, il che era impensabile. Ne seguiva una conclusione perfettamente logica, che era al tempo stesso la critica più forte rivolta da A. contro de Gaulle e senz’altro il punto centrale del loro disaccordo: «È nel quadro atlantico e non a favore di una rivalità franco-americana che può e deve svilupparsi l’amicizia tra la Francia e la Germania» (“Le Figaro”, 4 agosto 1964, Un ensemble occidentale). Per A. l’Europa e l’Alleanza atlantica non erano antinomiche ma complementari. Questo non gli impedì (il gollismo in atto fu per lui una seconda esperienza fondante dopo la Seconda guerra mondiale) di estendere ormai le sue critiche specificamente alla politica europea del generale, in particolare a partire dalla crisi detta della “sedia vuota” del 1965-1966, mentre fino a quel momento aveva spesso dimostrato un certo scetticismo nei confronti delle idee federaliste o sovranazionali che preconizzavano un abbandono della sovranità. In una serie di cinque articoli su “Le Figaro” dedicati all’idea europea, dal 15 novembre al 12 dicembre 1966, A. sviluppò le sue sottili concezioni. In primo luogo constatava che il Mercato comune non era diventato altro che una zona di libero scambio, «un’unità commerciale, non un’unità economica, ancora meno un’unità tecnica» (15 novembre 1966). D’altra parte, l’idea dei padri fondatori secondo cui l’unità politica sarebbe scaturita del tutto naturalmente dall’unità economica si era rivelata falsa (17 novembre, L’échec politique). Di fatto, «l’Europa che si sta sviluppando, sia all’Est che all’Ovest, è un’Europa delle nazioni”. La concezione di Robert Schuman e della sua scuola, secondo cui l’integrazione dell’Europa occidentale avrebbe permesso sia di resistere in un primo tempo all’URSS che di far pazientare la Germania, prima di potersi estendere progressivamente all’Europa orientale quando fosse finita la Guerra fredda, si era rivelata efficace per un certo lasso di tempo, ma ormai non rispondeva più alle realtà del momento, ossia non teneva conto della potenza americana che il Mercato comune non aveva potuto eguagliare e del rifiuto dell’URSS di modificare lo statu quo (7 e 12 dicembre). Tuttavia questo parziale fallimento nulla toglieva all’apporto essenziale dell’impresa: l’instaurazione di «relazioni interstatali di tipo nuovo […] fra popoli divisi da memorie tragiche […] che senza sottrarre agli Stati nazionali la responsabilità delle decisioni ultime devono incoraggiali o aiutarli a comprendersi» (7 dicembre).

Allo stesso tempo, un altro modello di Europa, quello di de Gaulle, era altrettanto condannato al fallimento, ma in modo assai più radicale. Innanzitutto i sovietici non ne volevano sapere, e inoltre esso non poteva che portare ad un equilibrio instabile fra nazioni indipendenti, «senza altri legami all’infuori dei loro mutevoli interessi», a meno che non comparisse un domatore «che non risiederebbe a Parigi» (7 dicembre). A. denunciava «i pericoli dell’evoluzione in corso, che conduce dalla congiuntura di ieri, dominata dalla Guerra fredda, a un’Europa non più separata in due campi ma suddivisa in un gran numero di Stati sovrani» (12 dicembre). Nel dibattito fra gli “europeisti” alla Schuman e gli europeisti gollisti, A. dava fondamentalmente ragione ai primi, ma sottolineando che potevano accontentarsi di aspettare la fase postgollista per riprendere il precedente corso europeo. In effetti, la politica francese, anche dopo de Gaulle, rischiava «di restare, almeno per qualche tempo, di ispirazione gollista» e d’altra parte Bonn tendeva a guardare sempre più a Est. L’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune, di per sé auspicabile, poteva senz’altro provocare un rilancio europeo, ma nell’immediato appariva poco probabile. Quindi era necessario che gli “europei” pensassero in primo luogo a una «stretta intesa fra i paesi dell’Europa occidentale, condizione di un’accresciuta autonomia nei confronti degli Stati Uniti»; e, per raggiungere quest’obiettivo, A. raccomandava di puntare sulla pressione dei “popoli” sui governi (12 novembre, Garder confiance).

L’adesione al progetto europeo di A., complessa e ricca di sfumature, non è stata sempre compresa. Jean Monnet, in ogni caso, non la fraintese e il 17 dicembre 1966 scriveva ad A. di aver seguito i suoi articoli «con interesse crescente» e manifestava la convinzione che in quel momento fosse «necessario agire», cosa che osava «credere possibile», chiedendogli di incontrarlo per «parlargli dei mezzi» ai quali pensava. Di fatto i federalisti francesi erano giunti alle stesse conclusioni di A.: il cammino rapido verso la costituzione di un’Europa sovranazionale che dalla sfera economica sfociasse in quella politica in cui si era creduto fino alla crisi della “sedia vuota” del 1965 era ormai bloccato. In prima istanza bisognava consolidare le acquisizioni della CEE e a questo scopo accogliere la Gran Bretagna nel Mercato comune, per fare da contrappeso al gollismo. Il 16 marzo 1967 Jean Monnet annunciava che il Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa, all’unanimità, si pronunciava per l’ingresso dell’Inghilterra nella CEE, il che per Monnet ed il Comitato, ostili alla prima domanda di adesione britannica del 1961, rappresentava un notevole cambiamento.

Ma A. si preoccupava anche del mantenimento dell’Alleanza atlantica: a proposito del famoso discorso di Henry Alfred Kissinger del 23 aprile 1973, in cui quest’ultimo propose la stesura di una nuova Carta atlantica e annunciò che per l’amministrazione americana il 1973 sarebbe stato «l’anno dell’Europa», A. approvò l’iniziativa, al contrario di numerosi commentatori europei. In effetti, per Kissinger si trattava di mantenere l’Alleanza atlantica «malgrado i contrasti economici», confermando «alcuni obiettivi politici» comuni, una posizione che corrispondeva perfettamente alle preoccupazioni di A. Sembra che nell’ultima fase della sua carriera, prima della scomparsa nel 1983, A. Tornasse a essere più scettico nei confronti dell’Europa e si preoccupasse preoccupato nuovamente per l’evoluzione del totalitarismo comunista e delle relazioni Est-Ovest, ritenendo che il recupero della solidarietà occidentale si facesse quanto mai pressante. La crisi economica provocata dallo choc petrolifero successivo alla guerra del Kippur indeboliva l’Occidente, che doveva affrontare una recrudescenza dell’attivismo sovietico a partire dal 1975. Inoltre la crisi rendeva più fragili i governi moderati dell’Europa occidentale, in particolare in Italia, dove i comunisti si avvicinavano al potere, e in Francia, dove la posta in gioco delle elezioni legislative del 1978 fra la maggioranza e l’opposizione social-comunista del “Programme commun” appariva eccezionalmente importante, mentre la crisi portoghese a partire dal 1974 e la transizione spagnola dopo la morte di Franco nel 1975 appassionavano le élites francesi. Il pessimismo di A. traspariva nel libro pubblicato nel 1977, Pladoyer pour l’Europe. Ai suoi occhi la crisi investiva l’Europa quanto l’America, se non di più. La crisi contemporanea del funzionamento della democrazia liberale in Francia, in Italia, in Gran Bretagna (Le syndrome de Weimar, “Le Figaro”, 4 agosto 1976), i problemi della Comunità europea, in particolare a causa delle esitazioni britanniche, la prospettiva dell’ascesa al potere dei comunisti in Francia e in Italia sottolineavano l’inesistenza a livello internazionale dell’Europa dei Nove, che pure dopo la guerra del Kippur si era sforzata di smarcarsi dagli Stati Uniti con alcune dichiarazioni prive di conseguenze (L’Europe aussi est en crise, “Le Figaro”, 7 maggio 1975).

In ultima analisi il sistema che A. preferiva era un mondo occidentale concepito come un’ellissi con due fuochi: gli Stati Uniti e un’Europa con una propria personalità, ma su basi realistiche, che tenesse conto delle nazioni e della loro storia e introducesse la sovranazionalità solo con grande cautela, laddove fosse al tempo stesso utile e possibile.

Georges-Henri Soutou (2010)               




Artajo Y Alvarez, Alberto Martín

Uomo politico e accademico spagnolo, A. (Madrid 1905-ivi 1979), dopo aver compiuto gli studi di giurisprudenza a Madrid si specializzò a Nimega, Lovanio, Friburgo e Milano. Assistente di diritto amministrativo all’Università di Madrid, vi divenne docente di politica sociale nel 1944-1945. Entrò per concorso nel Cuerpo de letrados del Consiglio di Stato e ne fu eletto segretario nel 1940. Durante la guerra civile, schieratosi per gli insorti, fu consigliere giuridico della Commissione per il lavoro della Giunta tecnica dello Stato e consigliere tecnico del ministero del Lavoro. Avvocato, vicepresidente dal 1931 e poi presidente dell’Azione cattolica spagnola dal 1939 al 1945, esponente di spicco di un potente gruppo di pressione, la Asociación católica nacional de propagandistas, il 20 luglio 1945 fu nominato da Francisco Franco ministro degli Esteri e mantenne l’incarico nei primi due gabinetti del dopoguerra, fino al 25 febbraio 1957, offrendo al dittatore, in sintonia con gli auspici del cardinale primate Enrique Pla y Deniel e delle alte gerarchie ecclesiastiche spagnole, la piena collaborazione della maggioranza dei cattolici nella prospettiva di un ritorno alla monarchia, di un graduale allontanamento del regime dalle sue connotazioni più spiccatamente falangiste e di un simmetrico avvicinamento alle istituzioni politiche europee.

In stretta cooperazione con Franco, che mantenne un rigido controllo degli orientamenti di fondo in politica estera lasciando spazio assai limitato a un’effettiva autonomia del ministero, A. – in realtà privo di esperienza diplomatica e scelto dal “Caudillo” per il suo profilo moderato e confessionale, utile al regime tanto sul fronte interno quanto nei rapporti con l’estero, in particolare con Londra, con Washington e con la Santa sede – guidò con fedeltà, serietà professionale e prudenza la diplomazia spagnola dal relativo isolamento internazionale della seconda metà degli anni Quaranta (contraddistinto dalla risoluzione che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò il 12 dicembre 1946 per escludere il paese dall’Organizzazione e dalle agenzie a essa collegate, e dalla conseguente rottura delle relazioni diplomatiche con Madrid da parte di quasi tutti gli Stati, con le importanti eccezioni del Portogallo, del Vaticano e della Svizzera) al reinserimento formale nell’orbita politica e nel sistema difensivo degli Stati Uniti, grazie soprattutto all’inasprirsi del confronto politico e militare tra i blocchi occidentale e sovietico nei primi anni Cinquanta.

Esclusa dal Piano Marshall, la Spagna poté giovarsi dell’aiuto alimentare e finanziario assicurato dall’Argentina di Juan Domingo Perón e, riaperta la frontiera nel febbraio 1948, dell’intesa commerciale con la Francia, che si accompagnò a quella rinnovata su base annuale anche dalla Gran Bretagna (v. Regno Unito). A. seguì la preparazione di quegli accordi, si adoperò in buona fede e con alterna efficacia per convincere gli interlocutori della propensione di Franco alla restaurazione della monarchia, cioè a una normalizzazione graduale e controllata della situazione spagnola funzionale alle nuove esigenze della Guerra fredda, sfruttò la sua fitta rete di contatti con il Vaticano per attenuare le forme e la sostanza dell’isolamento diplomatico, e prestò la debita attenzione ai rapporti con Lisbona, anche in considerazione del fatto che il Patto iberico sottoscritto con il Portogallo offriva un aggancio indiretto all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Nonostante le ovvie difficoltà collegate alla presenza coloniale in Marocco, ridimensionata solo nell’aprile 1956 dalla firma a Madrid di un accordo con il sultano Maometto V, A. cercò di migliorare le relazioni con i paesi arabi e, sfruttando il concetto di hispanidad e la creazione, nel dicembre 1945, dell’Instituto de cultura hispánica, lavorò per la ristrutturazione dei rapporti con gli interlocutori latinoamericani in modo strumentale alle esigenze del regime franchista. Secondo linee analoghe, attente agli obiettivi locali ma soprattutto alle reazioni delle potenze principali, fu impostata anche la ripresa graduale dell’azione in Asia orientale, dove la fine del conflitto mondiale aveva segnato il momento più critico della presenza spagnola.

Nel medio e nel lungo periodo, comunque, l’investimento diplomatico più accorto e proficuo fu diretto verso gli Stati Uniti, dai quali la Spagna ottenne un prestito di 62,5 milioni di dollari nel novembre 1950. Nel giugno 1951, A. discusse con il diplomatico William D. Pawley, consigliere politico del generale Omar N. Bradley, allora presidente dei Joint chiefs of staff, l’opportunità di un contributo spagnolo alla difesa occidentale, agevolato dalla fornitura di aiuti economici e militari statunitensi. Sebbene il controllo dei successivi negoziati per la concessione di basi al governo di Washington, avviati in luglio, rimanesse saldamente nelle mani di Franco e del generale Juan Vigón, Capo dello stato maggiore, A. si mosse nel suo circoscritto spazio di manovra anche per la conclusione di quei Patti che, firmati a Madrid il 26 settembre 1953, durante il primo mandato del presidente repubblicano Dwight D. Eisenhower, consentirono al regime franchista di creare un legame molto solido con il centro del blocco occidentale quanto meno su base bilaterale, non essendo ancora maturo il tempo per l’inserimento nei contesti multilaterali dell’Alleanza atlantica e, con diversa sfumatura, della Comunità europea. La visita di A. in Egitto, Iraq, Giordania, Libano, Arabia Saudita e Siria, nell’aprile 1952, aveva permesso al governo statunitense di presentare all’opinione pubblica i vantaggi di un accordo con un Paese che godeva non solo di una posizione strategica di importanza primaria ma anche di buone relazioni con il mondo arabo. Ammessa già nel 1950 alla Food and agricolture organization (FAO) e nel novembre 1952 alla United Nations educational, scientific and cultural organization (UNESCO), la Spagna sarebbe poi entrata nell’ONU nel dicembre 1955, raccogliendo i frutti di una marcia di avvicinamento iniziata cinque anni prima e agevolata dalle iniziative diplomatiche realizzate nei confronti dei paesi arabi e latinoamericani, seppur nel costante riferimento agli orientamenti statunitensi. Nel 1956, prima e durante la crisi di Suez, A. consigliò con successo a Franco, che aveva assecondato in un primo tempo la vendita di armi all’Egitto e la propensione di elementi falangisti del regime a stringere i legami ideologici e diplomatici con il nazionalismo nasseriano, di tenersi in linea con il governo di Washington nelle relazioni con Il Cairo.

Molto importanti furono anche la presenza di A. alla guida degli Esteri e la sua stretta collaborazione con Joaquín Ruiz Giménez Cortés e Fernando Maria Castiella, come lui esponenti di spicco del cattolicesimo spagnolo, per i negoziati che sfociarono nel Concordato con la Santa sede, il 27 agosto 1953, e per il mantenimento di contatti con esponenti della democrazia cristiana sul piano europeo, alcuni dei quali si stavano adoperando per la costruzione istituzionale comunitaria in un periodo in cui la Spagna, anche qualora il regime vi avesse dedicato maggiore attenzione e consapevolezza, sarebbe rimasta comunque al margine del processo integrativo. Durante la sua prima visita a Roma, organizzata nel 1949 per l’inaugurazione dell’Anno santo su iniziativa di Ruiz Giménez, allora ambasciatore presso la Santa sede, e del cardinale Domenico Tardini, futuro segretario di Stato, A. fu ricevuto in udienza da Pio XII e da monsignore Giovanni Battista Montini, che con Tardini era allora il più stretto collaboratore del papa per la gestione della Segreteria di Stato, vacante dal 1944. A. colse l’occasione anche per incontrare, tra gli altri, Alcide De Gasperi, Carlo Sforza e Guido Gonella. Di De Gasperi e Sforza A. condivideva solo in parte l’europeismo, limitandosi a quegli aspetti che, vicini ai suoi principi confessionali e conservatori, risultavano anche i più vantaggiosi per un possibile riavvicinamento della Spagna ai paesi impegnati nella costruzione delle nuove istituzioni internazionali e sovranazionali. In tal senso A. incoraggiò le prime forme di interessamento del governo alla cooperazione continentale e, in particolare, appoggiò le attività del Centro europeo de documentación e información (CEDI) (v. Centro europeo di documentazione e informazione), l’organizzazione che, fondata nel 1952, contribuì a mantenere contatti significativi tra alcuni esponenti del regime e vari circoli conservatori europei.

La firma del Concordato, che A. definì un esempio perfetto di collaborazione tra Stato e Chiesa, costituì una tappa significativa per il franchismo, che nelle forme ideologiche e operative del nazional-cattolicesimo e nella cooptazione del laicato militante, soprattutto a partire dalla formazione del nuovo governo del luglio 1945, aveva trovato una delle strade più vantaggiose verso la legittimazione sul piano interno e, nonostante le difficoltà dei primi anni, anche sulla scena internazionale. Non a caso A. fu tra i protagonisti della crisi che diede vita al nuovo gabinetto del luglio 1951, mentre sei anni dopo, nel febbraio 1957, mutati gli equilibri interni al regime e aggiornati gli obiettivi di politica estera, Franco lo sostituì con Castiella. Emarginato dal vero centro del potere, A. continuò comunque a occupare cariche di rilievo in seno al Consiglio di Stato, nei consigli di amministrazione di banche e società, alla presidenza del CEDI e nelle sedi direttive dell’associazionismo cattolico, si dedicò alla stesura di alcuni saggi e rimase una delle personalità più note della politica spagnola, individuato ancora nei primi anni Settanta come la figura di punta della cosiddetta democrazia cristiana franchista e come un uomo di fiducia del dittatore. Sopravvissuto per quasi quattro anni alla sua fine, poté assistere alla transizione verso la democrazia e morì a Madrid nell’agosto 1979.

Massimiliano Guderzo (2010)