Attali, Jacques

A. (Algeri 1943), si trasferì a Parigi nel 1956 con la famiglia. Diplomatosi all’école nationale d’administration (ENA) nel 1970, iniziò la sua carriera nel Consiglio di Stato e parallelamente quella di docente di economia in diversi atenei parigini, laureandosi nel 1979 in Scienze economiche. Fin dall’inizio degli anni Settanta cominciò a pubblicare volumi di analisi economica di un certo successo che attirarono l’attenzione del segretario socialista François Mitterrand. Il primo incontro tra il giovane funzionario e il maturo leader politico era avvenuto nel 1968 nella Nièvre, il collegio elettorale di Mitterrand. Fu però solo durante la campagna presidenziale del 1974 che A. divenne prima consulente di Mitterrand nella redazione del programma, poi capo della commissione economica della ristretta équipe de campagne del candidato, benché A. non fosse iscritto al Partito socialista.

Nel corso degli anni A. acquistò importanza nel suo ruolo di consigliere economico del leader socialista, e la sua attività di pubblicista cominciò a varcare i limiti della scienza economica spaziando su temi storici, sociologici e demografici. In questa fase A. rappresentava il versante modernizzatore di Mitterrand, sempre più stretto dalle necessità imposte dall’alleanza con il Partito comunista. Che il suo peso fosse andato crescendo negli anni lo si vide nella campagna elettorale del 1981, quando il comitato elettorale mitterrandiano fu guidato da sole tre figure, e A. era tra queste (gli altri erano Laurent Fabius e Paul Quilès).

Il fatto di essere un’eminenza grigia, un “enarca”, indipendente dal Partito socialista e per di più investitore finanziario farlo rendeva la convivenza di A. con gli altri dirigenti dell’apparato socialista piuttosto scomoda. Perciò Mitterrand preferì non coinvolgerlo nel governo di Pierre Mauroy, ma di tenerlo accanto a sé nell’equipe presidenziale: visto che il ruolo di segretario generale alla presidenza era già occupato da Pierre Bérégovoy, Mitterrand creò l’inedita figura del consigliere speciale del Presidente: un compito delicato, che pose A. sempre a fianco di Mitterrand, il quale in più lo nominò rappresentante personale del capo dello Stato per i vertici del G7.

Fin dall’inizio della presidenza mitterrandiana, A. rappresentò appieno l’ala europeista dell’équipe presidenziale. Tra i 1982 e il 1983, si schierò a favore del rigore economico e per il mantenimento della Francia nello SME, contro il parere dello stesso Mitterrand, inizialmente restio. Fu A., assieme a Jacques Delors, a convincere definitivamente Mitterrand a non far uscire il franco dal circuito monetario europeo. E fu sempre A. a scrivere molti degli interventi di Mitterrand più aperti al mercato, in particolare nella lettera al nuovo primo ministro Laurent Fabius del luglio ’84, in cui il Presidente francese invocava una modernizzazione per rianimare l’economia accompagnata dalla creazione di Istituzioni comunitarie di saperi e tecnologie. Nel 1984 A. si occupò altresì in prima persona del programma EUREKA per lo sviluppo di nuove tecnologie. Nell’organizzazione delle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese, a lui affidate, A. si curò di dare all’evento connotazioni europee senza limitarlo a una rivendicazione di una specificità nazionale. Ma il principale sforzo in ambito comunitario di A. fu la creazione della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) nel 1991.

Nell’estate del 1989 A. invitò Mitterrand a proporre ai partner europei la creazione di una Banca dell’Europa, un progetto che affinò con il direttore del ministero del Tesoro, Jean-Claude Trichet. Già alla fine dell’anno però alcuni paesi espressero i loro dubbi; il Regno Unito chiese che tutti i paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ne fossero azionisti, i tedeschi chiesero che la sede fosse stabilita a Francoforte, gli olandesi chiesero che a dirigerla fosse il loro ministro delle Finanze Onno Ruding. Nel frattempo, il crollo repentino del muro di Berlino convinse A. che la Banca avrebbe dovuto finanziare lo sviluppo dei paesi dell’Est europei e attuare così una sorta di nuovo Piano Marshall per quella parte di Europa uscita dal comunismo. Intanto le difficoltà proseguivano, tra l’esplicita ostilità dell’Irlanda, in quel momento presidente di turno della Comunità europea (v. anche Presidenza dell’Unione europea), fino ai timori per la presenza tra i paesi azionisti dell’Unione Sovietica. Tra mille difficoltà, il trattato istitutivo della BERS fu firmato all’Eliseo nel maggio 1990, anche se la sede dell’istituto fu fissata a Londra; la pretesa che fosse a Parigi avrebbe infatti messo in discussione la sede del Parlamento europeo a Strasburgo, anche se il presidente non fu Ruding, ma lo stesso A., che nel 1991 lasciò il ruolo di consigliere di Mitterrand.

Come spiegò A. nel volume Europe(s) in cui ripercorre le vicende della BERS, «le cose non cominciavano sotto i migliori auspici. La Banca fin dalla sua nascita è più anglosassone che europea nella sua filosofia e nelle sue strutture. Ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti erano furibondi per aver dovuto rinunciare a Ruding e aver dovuto accettare la presenza dell’URSS. Quanto ai piccoli paesi europei, erano delusi dall’aver ceduto sia sulla sede che sulla presidenza». Come presidente della BERS, A. fece il più possibile per coinvolgere l’URSS: nel 1991 invitò Michail Gorbačëv nella sede londinese della Banca contro il parere del primo ministro britannico John Major e obbligò i capi di Stato, presenti in quei giorni nella capitale inglese per una riunione del G7, a ricevere il segretario del Partito comunista sovietico.

Ai pessimi rapporti con il governo britannico si aggiunse la cattiva stampa di cui A. e la BERS furono vittime nel Regno Unito fin dall’inizio, che diffuse voci su malversazioni amministrative. Ciò non impedì ad A. di finanziare diverse iniziative, in particolare gli investimenti per la protezione delle centrali nucleari, per la difesa dell’ambiente, per la costruzione di infrastrutture e per favorire le privatizzazioni. Dopo la caduta di Gorbačëv e l’indebolimento politico di Mitterrand a causa della pesante sconfitta socialista nel marzo 1993, vennero però meno i due interlocutori principali di A., il segretario del PCUS (Partito comunista dell’Unione Sovietica) e il Presidente francese; egli perciò diede spontaneamente le dimissioni dalla presidenza della BERS. Un’istituzione, secondo A., fin dall’inizio sabotata dagli USA e dal Regno Unito. La BERS, osservava al riguardo, era nata per «creare le condizioni che permettessero agli europei di occuparsi da soli dei loro affari, senza gli USA – o almeno senza dominazione americana. Abbiamo tentato di costruire un’Europa continentale unificata e indipendente. L’impresa è fallita. Non sono stati però tanto gli americani ad avere avuto la forza e l’intenzione di distruggere tale iniziativa: sono stati gli europei stessi, all’Est come all’Ovest, che, per ragioni diverse e contraddittorie, non hanno voluto darsi i mezzi per la loro indipendenza».

Nel 1994 A. creò una impresa di consulenza internazionale e nel 1998, fondò Planet finance, un’associazione di microcredito senza scopo di lucro per il finanziamento della piccola imprenditoria nei paesi in via di sviluppo. Ne luglio del 2007 era incaricato dal nuovo Presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy, di presiedere una commissione incaricata di “eliminare i freni alla crescita”.

Marco Gervasoni (2009)




Attlee, Clement Richard

A. (Putney 1883-Londra 1967) crebbe in un ambiente familiare tipico della middle class vittoriana. Henry Attlee, un avvocato che accumulò rapidamente una consistente fortuna con il commercio delle granaglie, era un gladstoniano convinto, mentre la moglie aveva orientamenti più conservatori. Clement fu educato secondo le convenzioni della classe sociale di provenienza: la scuola elementare nell’Hertfordshire, la public school ad Haileybury, dove originariamente si formavano i quadri dell’amministrazione coloniale, e infine l’università a Oxford, dove si laureò in storia nel 1904.

Il torismo giovanile di A., ispirato alla tradizione filantropica ereditata dalla madre, fu ben presto rinnegato a favore dell’adesione agli ideali socialisti che egli maturò in seguito alla lettura di John Ruskin e di William Morris. Accanto alle letture, ebbe un forte impatto sulla sua conversione politica l’impegno sociale con i ragazzi dei bassifondi londinesi dell’East End. Abbandonata la prospettiva di una carriera da avvocato, nonostante avesse superato nel 1905 l’esame per entrare nell’ordine professionale, si occupò a tempo pieno della disciplina e del benessere dei giovani. Nel 1908 si iscrisse all’Indipendent labour party, assumendo rapidamente la carica di segretario del partito a Stepney. Nel 1912 la sua esperienza sociale nell’East End gli valse un posto di lettore in scienze sociali presso la London School of Economics. Lo scoppio della Grande guerra lo convinse della necessità di battersi in prima persona per gli ideali dell’interventismo democratico. Fu aggregato al sesto battaglione del Lancashire del sud e combatté a Gallipoli e in Mesopotamia, riportando gravi ferite. Dopo una lunga convalescenza, tornò a combattere, ma questa volta sul fronte occidentale, in Francia. Alla fine della guerra fu promosso maggiore.

Una volta smobilitato, A. tornò al suo impiego presso la London School of Economics, pubblicando nel 1920 il suo primo libro, The Social Worker, frutto delle sue esperienze precedenti alla guerra. A partire dal dopoguerra, A. si dedicò interamente alla vita politica nelle file del partito laburista. Divenne sindaco di Stepney in seguito al successo ottenuto alle elezioni locali del 1919. Successivamente, abbandonò Stepney e si trasferì a Woodford Green, una zona del nord est di Londra abitata da famiglie della classe media. Si presentò alle elezioni generali nelle file del partito laburista, riuscendo ad essere eletto ai Comuni nel collegio elettorale di Limehouse, a Stepney. A. visse un’intera stagione della lotta politica all’ombra di Ramsay MacDonald, prima come suo segretario particolare e dunque come sottosegretario al War Office nel corso del primo governo laburista, guidato dallo stesso MacDonald nel 1924. Condivise le posizioni moderate del leader laburista, convinto che l’emancipazione delle classi lavoratrici dovesse avvenire attraverso il graduale innesto della legislazione sociale nel tessuto delle istituzioni rappresentative britanniche. Sostenne le Trade unions nella loro azione rivendicativa culminante nello sciopero generale del 1926, senza però condividere la strategia dello scontro frontale, né tanto meno l’estremismo anticapitalista di alcune frange della sinistra del partito.

Nel 1927 A. divenne membro della Commissione parlamentare presieduta da Sir John Simon che aveva il mandato di esplorare la possibilità dell’autogoverno in India. A. si recò oltremare per studiare a fondo la questione, diventando rapidamente un esperto in materia. I tempi e i modi dell’indipendenza indiana nel 1947, allorquando A. era diventato primo ministro, dipesero per una parte significativa dalle convinzioni che egli aveva maturato già nei tardi anni Venti e che avevano trovato espressione nelle parti che egli scrisse di suo pugno nel Report conclusivo dei lavori della Commissione nel 1930. Terminato l’impegno con la Commissione presieduta da Simon, A. entrò nel nuovo governo laburista di minoranza, guidato a partire dal 1929 ancora da MacDonald. A. ebbe la carica di cancelliere del ducato di Lancaster in sostituzione di Oswald Mosley, il quale aveva lasciato l’incarico perché le sue proposte per combattere la disoccupazione dilagante con un forte intervento statale non erano state accettate in nome dell’ortodossia liberista, propugnata dal cancelliere dello scacchiere, Philip Snowden. Di lì a poco Mosley, uscito dalle file del partito, avrebbe fondato la British union of fascists. Nel frattempo, MacDonald e Snowden proseguirono sulla strada del risanamento finanziario, proponendo un piano di tagli drastici alla spesa pubblica. Respinto dalla maggioranza laburista nell’agosto 1931, il piano fu realizzato da un nuovo governo “nazionale”, ancora guidato da MacDonald, il quale aveva nel frattempo abbandonato il partito laburista insieme a Snowden. I primi anni Trenta furono dunque anni difficili per il partito laburista, come del resto rivelò l’esito disastroso delle elezioni di ottobre del 1931. I problemi venivano anche dalla sinistra interna. Proprio in questo periodo nasceva la Socialist league, guidata da Stafford Cripps, e Harold Laski pubblicava un’opera –Democracy in crisis – in cui il gradualismo era criticato aspramente come metodo per giungere al socialismo.

Dallo stato di disorientamento in cui si trovava allora il partito emerse una nuova generazione di quarantenni, i quali, provenienti per lo più dagli ambienti dei ceti medi e intellettuali, erano decisi a mantenere al “centro” la barra politica e ideologica del partito laburista. A. vinse la corsa per la leadership, mentre i concorrenti Greenwood e Herbert Morrison furono battuti. Accanto allo spinoso problema di come uscire dalla crisi economica – continuando con le ricette ortodosse dell’economia liberale oppure adottando la lezione keynesiana che iniziava allora a circolare nelle file laburiste – si stagliava infatti all’orizzonte il problema del fascismo internazionale e della guerra. L’attacco dell’Italia mussoliniana all’Etiopia e l’inizio della guerra civile spagnola rappresentarono uno spartiacque nella storia del laburismo inglese. George Lansbury, pacifista a oltranza, dovette lasciare il posto ad A., il quale, accordatosi con Hugh Dalton e Morrison, spinse il congresso annuale del partito ad approvare una risoluzione a favore delle sanzioni contro l’Italia fascista. A. mostrò nei confronti della politica di riarmo ancora qualche titubanza, che però fu superata con il congresso di Bournemouth nel 1937. A partire da allora, le critiche laburiste nei confronti dell’appeasement furono sempre più intense fino a quando il 3 settembre 1939 la Gran Bretagna (v. Regno Unito) entrò in guerra contro Hitler con il pieno appoggio laburista. L’8 novembre 1939 A. intervenne ai Comuni. Con il suo discorso, egli intese sbarrare la strada a quanti sperassero ancora di giungere a un accomodamento con Hitler; quindi lanciò un drammatico appello ai popoli europei perché unissero i loro sforzi contro l’avvento del totalitarismo.

In seguito alla campagna che l’esercito tedesco condusse contro la Norvegia, il partito di A. si dichiarò disponibile a partecipare a un governo di coalizione che non fosse però guidato da Chamberlain. Il governo fu affidato a Winston Churchill, l’uomo politico che più di ogni altro aveva criticato la politica dell’appeasement nei confronti della Germania nazista. A. ebbe un ruolo di grande importanza nel governo per tutta la durata del conflitto, rimanendo a fianco di Churchill nei momenti più difficili. La conduzione della guerra fu svolta da tre commissioni tra loro collegate. A. prese parte (fino a diventarne presidente) al Lord president committee, vale a dire la commissione che si occupava dell’economia di guerra nonché dell’organizzazione della vita sociale. Fu anche il vice di Churchill nelle commissioni da questo dirette: il Gabinetto di guerra e la commissione di Difesa. Quando Churchill era assente, toccava ad A. riferire in Parlamento circa l’andamento delle operazioni militari. Negli anni della guerra A. dovette gestire un problema politico estremamente complesso: da un lato, doveva operare per l’unità del governo, tenendo a freno le spinte più radicali provenienti dalla sinistra del partito laburista; dall’altro, doveva preoccuparsi dell’unità del partito, stimolando il governo sulla strada di una graduale trasformazione della società. La “guerra popolare” di A. aveva insomma una duplice dimensione: da un lato, era una guerra combattuta da un popolo libero contro l’aggressione totalitaria, dall’altra significava un deciso impegno per la trasformazione sociale attraverso un intervento delle istituzioni pubbliche a favore di una maggiore uguaglianza sociale.

La vittoria elettorale dei laburisti all’inizio del luglio 1945, a cui seguì il 28 dello stesso mese l’annuncio della formazione di un governo presieduto da A., era il risultato di un programma elettorale efficace che prometteva pieno impiego, un vasto piano di nazionalizzazioni e la riorganizzazione dei servizi sociali secondo le direttrici indicate dal Rapporto Beveridge del 1942. Il governo A. realizzò la costruzione di un moderno Stato sociale (con al centro il National health service) nonché un vasto piano di nazionalizzazioni (dalla Banca d’Inghilterra alle miniere del carbone fino alle acciaierie, alle ferrovie, al gas e all’elettricità). Se la politica estera non aveva avuto un ruolo particolare nella vittoria laburista, essa tuttavia tornò a giocare un ruolo decisivo quando il clima di cooperazione esistente tra i vincitori della coalizione anti-hitleriana venne rapidamente meno, già a partire dal 1946. A. e il ministro degli esteri Ernest Bevin guidarono la Gran Bretagna negli anni della Guerra fredda seguendo linee strategiche probabilmente non dissimili da quelle che avrebbe seguito un governo conservatore guidato da Churchill. Scartata l’ipotesi terzaforzista e socialista, caldeggiata da quella parte della sinistra laburista che si era riunita a partire dal 1947 nel gruppo Keep Left, A. e Bevin cercarono infatti di mettere in atto la teoria churchilliana dei “tre cerchi”. Secondo questo ragionamento, il rafforzamento della special relationship con gli Stati Uniti doveva servire da puntello per la conquista di un ruolo di primo piano nella formazione dei nuovi equilibri europei, evitando però che questo ruolo di primo piano nel vecchio continente, accompagnato da forme di integrazione economica e militare, finisse per distogliere il governo britannico dal compito decisivo, cioè la riorganizzazione del Commonwealth su nuove basi.

Il terreno principale di questa complessa strategia fu la Guerra fredda. Già nel corso delle conferenze dei ministri degli Esteri che si tennero tra l’autunno 1945 e la primavera del 1946, i britannici si batterono contro la pressione sovietica in attesa che gli americani assumessero le redini del mondo occidentale, abbandonando l’aspirazione di Franklin Delano Roosevelt di collaborazione mondiale con l’URSS. La contestazione che settori del laburismo inscenarono contro il discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” fu respinta con durezza da A., il quale mostrò una forte consapevolezza della realtà del confronto globale tra le democrazie occidentali e l’impero sovietico in via di formazione. In considerazione delle difficoltà dell’economia, A. spinse un riluttante Bevin ad accettare la prospettiva del ritiro della Gran Bretagna da alcune aree strategiche; prospettiva che il titolare del Foreign office accettò laddove gli Stati Uniti mostrarono una decisa propensione a intervenire, come effettivamente avvenne in Grecia e in Turchia nella primavera del 1947. A. aveva compreso che il declino dell’impero era diventato inarrestabile e che la posizione britannica nel mondo dovesse affermarsi in nuove forme. Anche grazie alle competenze che aveva acquisito come membro della Commissione Simon alla fine degli anni Venti, A. indicò tempi e modi dell’indipendenza del subcontinente indiano nella convinzione che la fine dell’impero avrebbe contribuito alla riorganizzazione del Commowealth. Effettivamente, i due Stati che uscirono dal processo di indipendenza, l’India e il Pakistan, entrarono a far parte del Commonwealth che già nel 1949 mutò le regole di adesione, estendendo la possibilità anche agli Stati che si erano dati forme repubblicane.

Pur non mancando in questi anni motivi di contrasto con gli americani (la sospensione del lend lease act, il condizionamento di nuovi prestiti alla convertibilità della sterlina, la mancata condivisione delle informazioni cruciali per la costruzione della bomba atomica), il governo presieduto da A. puntò con forza sull’intervento statunitense in Europa come elemento chiave della propria politica estera. Bevin spinse il presidente Harry Spencer Truman a elaborare un progetto di aiuti economici per la ripresa europea, che si concretizzò con il Piano Marshall. Grazie all’iniziativa del titolare del Foreign office, con il quale A. era oramai entrato in piena sintonia, la Gran Bretagna ebbe un ruolo decisivo nei negoziati che condussero alla nascita dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE). Il 1948 si aprì a Londra con il discorso di inizio anno tenuto dal primo ministro. Nel corso della sua prolusione, A. pose l’accento sulla collaborazione tra USA e Gran Bretagna contro l’espansione della tirannia sovietica in Europa. Nella fase più dura della Guerra fredda, segnata dal colpo di Praga del febbraio 1948, A. mantenne un atteggiamento di fermezza, equiparando a più riprese fascismo e comunismo e collocandoli entrambi dentro la comune cornice del totalitarismo. I comunisti britannici furono interdetti dalle cariche cruciali per la sicurezza dello Stato. La sinistra laburista denunciò l’attacco alle libertà civili.

A conclusione delle trattative per il Patto di Bruxelles, iniziate da Bevin con l’intento di dimostrare agli americani la volontà degli europei di contrastare anche sul terreno militare la minaccia comunista e allo stesso tempo di rassicurare gli europei circa la determinazione britannica a svolgere un ruolo centrale nella difesa dell’Europa, A. annunciò al Parlamento il 17 marzo 1948 l’adesione britannica al patto (v. anche Unione dell’Europa occidentale). Nel contesto della Guerra fredda, il governo laburista si faceva nel complesso promotore di forme di intensa cooperazione europea (economica e militare), che tuttavia non intaccassero la sovranità degli Stati. Il culmine del disegno britannico sembrò raggiunto con la firma a Washington dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), il 4 aprile 1949. La tutela statunitense sull’Europa rendeva la special relationship anglo-americana un elemento decisivo per l’affermazione di un ruolo di primo piano per Londra in Europa. Se è vero – come lo stesso A. ha narrato nelle sue memorie – che il Patto di Bruxelles e il Patto atlantico rappresentarono essenzialmente il frutto dell’impegno personale di Bevin, si deve nondimeno aggiungere che A. contribuì a rafforzare quelle scelte, compiendo un paziente lavoro di tessitura all’interno del partito laburista per cercare di isolare le forze antiamericane, come il gruppo Keep Left.

A. non aveva mai creduto a una politica estera volta a costruire una federazione europea (v. anche Federalismo), se si eccettua qualche vago riferimento all’inizio della guerra antihitleriana. Fu costantemente scettico verso le posizioni terzaforziste, in particolare nei confronti di quelle che circolavano intorno al 1947-48 nella sinistra socialista per opera del gruppo Keep Left, i cui esponenti erano convinti che compito della Gran Bretagna laburista fosse quello di guidare l’Europa come soggetto internazionale equidistante dall’URSS e dagli USA. Già nel 1945 A. aveva espresso un forte scetticismo circa le basi materiali e spirituali della terza forza europea, sostenendo – in una lettera a un vecchio amico sindacalista, Fenner Brockway – che ciò che era rimasto dell’Europa dopo la guerra di Hitler non era sufficiente per resistere alla pressione sovietica senza l’impiego della forza economica e militare, rappresentata dagli USA. Al di là delle posizioni terzaforziste, emersero nel corso di quegli anni anche le motivazioni dell’estraneità di A. e del suo governo rispetto alla prospettiva della federazione europea, caldeggiata invece dagli Stati Uniti. In sintonia con Bevin, A. era convinto che la federazione europea avrebbe innanzi tutto messo fine alla specificità della tradizione giuridica britannica, immergendola nel calco del costituzionalismo europeo continentale. Integrando la Gran Bretagna nello spazio europeo, la federazione avrebbe inoltre finito per allentare i forti legami che invece Londra intendeva mantenere con il Commonwealth. Ancora, la natura stessa della special relationship con gli USA sarebbe stata modificata in profondità qualora Londra non avesse più svolto la funzione di iniziativa e mediazione che aveva svolto per il Piano Marshall, il Patto di Bruxelles e il Patto atlantico. Infine, i progetti di pianificazione socialista, intrapresi dal governo laburista a partire dal 1945, sarebbero stati ostacolati da un super-Stato europeo, nato sotto le insegne del moderatismo di Robert Schuman, Alcide De Gasperi e di Konrad Adenauer.

Una celebre battuta di A. («Non ho fiducia negli Europei, perché non giocano a cricket») rappresenta qualcosa di più di una tipica espressione dello humour inglese. Il disagio nelle relazioni con i partner europei si acuì allorquando questi ultimi (e in particolare la Francia) misero in campo progetti di integrazione europea che entravano in contrasto con il design britannico (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Le autorità francesi raccolsero le proposte per un’assemblea europea, lanciata dal Movimento europeo presieduto da Churchill, nella convinzione che la carta dell’integrazione potesse risultare utile affinché la Francia uscisse dallo stato di marginalità in cui si trovava nell’ambito del sistema occidentale che si andava allora costituendo. Soprattutto Schuman pensò che un asse franco-tedesco potesse bilanciare l’iniziativa inglese, risolvendo il problema della ricostruzione della Germania e del riarmo tedesco in modo consono agli interessi francesi. Iniziava allora una forte conflittualità tra il governo britannico e quello francese che giunse a una tregua con la nascita del Consiglio d’Europa. L’ostilità del laburismo inglese guidato da A. nei confronti delle iniziative funzionaliste (v. Funzionalismo) di Jean Monnet (dall’integrazione del carbone e dell’acciaio fino al progetto di difesa comune) è ben rappresentato dai giudizi sferzanti che il periodico laburista, “New Stateman” dedicò alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), stigmatizzata come l’espressione di un accordo reazionario tra Vaticano, industriali della Ruhr e burocrazie francesi.

Dopo la sconfitta di misura riportata alle elezioni dell’ottobre 1951, che aprì la strada al ritorno al potere di Churchill, A. rimase a capo del partito per altri quattro anni, anche se la sua rinomata capacità di mediare tra le diverse anime del partito sembrava oramai essersi logorata. Del resto, questo logoramento era già emerso nell’aprile 1951 con le dimissioni di Aneurin Bevan da ministro della Sanità per protestare contro le deroghe alla gratuità del servizio sanitario, decise dal cancelliere dello scacchiere Hugh Gaitskell per finanziare il riarmo britannico. Quando i laburisti vennero sconfitti per la seconda volta, alle elezioni generali del 1955, A. decise di ritirarsi dalla scena politica, lasciando il posto di leader laburista a Gaitskell. A. ricevette quale riconoscimento della sua attività politica e istituzionale il titolo di conte.

Luca Polese Remaggi (2010)




Augstein, Rudolf

A. (Hannover 1922-Amburgo 2002) frequentò le scuole a Hannover e sostenne gli esami finali della scuola secondaria nel 1941. Prima di essere reclutato per sei mesi nel servizio nazionale tedesco del lavoro, lavorò come tirocinante per il giornale locale “Hanoverscher Anzeiger”. Durante la Seconda guerra mondiale, dal 1942 al 1945, si arruolò nell’esercito tedesco sul fronte orientale. Rimase ferito, ma riuscì a tornare a casa nel 1945 con il grado di sottotenente d’artiglieria. Alla fine della guerra, anziché iscriversi all’università, A. iniziò a lavorare per l’“Hannoversche Nachrichtenblatt”. Ben presto si guadagnò l’attenzione di due addetti stampa inglesi i quali gli chiesero di entrare a far parte della rivista “Diese Woche”, fondata di recente dalle forze di occupazione britanniche. Nel novembre 1946, A. esordì nella rivista come capo dipartimento, occupandosi di cronaca interna tedesca. Nel gennaio 1947, all’età di 23 anni, insieme a Gerhard R. Barsch e Roman Stempka rilevò la proprietà di “Diese Woche”. A. divenne editore e direttore della rivista, che da allora in avanti si chiamò “Der Spiegel”.

Nelle vesti di direttore, A. cercò di sviluppare un approccio anglosassone al giornalismo, guadagnandosi in particolare una certa reputazione nel giornalismo investigativo d’assalto. A. considerava “Der Spiegel” come un baluardo della democrazia; per questa ragione definì la come “l’artiglieria pesante della democrazia” (Sturmgeschütz der Demokratie). Svelando numerosi casi di corruzione e incompetenza governative, A. modellò l’opinione pubblica della Repubblica Federale Tedesca (Germania) nei decenni a seguire. Nel settembre 1950, ad esempio, “Der Spiegel” denunciò un episodio di corruzione legato alla scelta della capitale tedesca. Secondo A., il Parlamento tedesco aveva scelto Bonn come capitale al posto di Francoforte sul Meno perché 100 parlamentari avevano ricevuto tangenti in cambio di un voto a favore di Bonn. La copertura di questo caso di corruzione dello “Spiegel” spinse il Parlamento a istituire una commissione investigativa per far luce sul fatto. Tra i testimoni convocati da tale commissione vi era anche A., direttore della rivista. Dopo alcuni mesi, la commissione rivelò che i reportage di “Der Spiegel” corrispondevano al vero e che i parlamentari avevano ricevuto tangenti provenienti soprattutto dal mondo industriale localizzato nella zona della Ruhr. Considerata la rilevanza politica di queste pubblicazioni, non sorprende che negli anni seguenti vi furono ripetuti tentativi politici di indebolire la rivista.

Un’altra questione controversa affrontata dallo “Spiegel” fu quella legata al contributo militare della Repubblica Federale Tedesca alla lotta contro il comunismo internazionale. Inizialmente, A. non prese una posizione netta su questo argomento. Fino al 1952, si potrebbe perfino affermare che fosse tacitamente a favore del riarmo tedesco, ritenendo peraltro che gli attacchi contro l’esercito tedesco per i crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale fossero ingiustificati. La posizione di A. a questo proposito, tuttavia, cambiò a partire dal 1952, quando si rese conto che il riarmo della Germania avrebbe approfondito la divisione tra le due Germanie. Un evento decisivo per questo cambiamento di opinione fu il dibattito che si sviluppò attorno al Piano Schuman (1951) che prevedeva l’unione delle industrie siderurgiche e del carbone tedesche e francesi. Secondo A. l’unico scopo del Piano Schuman era quello di potenziare le forze militari europee. Nello “Spiegel”, A., con lo pseudonimo di “Jens Daniel” (che mantenne per diversi anni) affermò che la sottoscrizione del Piano Schuman avrebbe finito per rendere permanente la divisione della Germania. Il cambiamento di opinione sulla questione del riarmo tedesco fece mutare anche la posizione di A. rispetto all’azione politica di Konrad Adenauer, il primo cancelliere della Repubblica Federale Tedesca. Da quel momento in poi, A. divenne un importante oppositore del governo Adenauer e dedicò vari numeri dello “Spiegel” alla critica dell’operato del cancelliere. Nel 1952, un intero numero dello “Spiegel” venne sequestrato poiché conteneva un articolo che riferiva di un presunto piano che, in caso di invasione sovietica nella Germania Ovest, prevedeva il salvataggio di Adenauer e il suo esilio in Spagna.

Anziché danneggiare “Der Spiegel”, questi eventi resero il settimanale sempre più popolare e la tiratura settimanale crebbe costantemente. In quel momento, lo “Spiegel” vendeva già più di 120.000 copie a settimana. Nonostante il successo del settimanale, tuttavia, i due coproprietari insieme ad A., Barsch e Stempka, lo lasciarono rispettivamente nel 1950 e nel 1952. Con John Jahr quale nuovo coeditore, A. decise di trasferire la redazione dello “Spiegel” da Hannover ad Amburgo. Nel 1955, A. riuscì a espandere il proprio gruppo editoriale con l’acquisto di “Star Revue”. A. inseguiva altri piani d’espansione, ma nel 1960 si trovò costretto a rinunciare al progetto di lanciare la rivista “Deutsche Allgemeine Zeitung” a causa di guai legali. Inoltre, quello stesso anno, Jahr lasciò lo “Spiegel”.

In quegli anni, tuttavia, A. non si impegnò soltanto nel consolidamento dello “Spiegel”, ma si cimentò anche come scrittore. Già nel 1949 aveva scritto una commedia che era stata rappresentata in teatro. Inoltre, nel 1953, A. pubblicò il suo primo libro, intitolato Deutschland – ein Rheinbund? Questo per A. fu il primo di una serie di libri, la maggior parte dei quali dedicati ad argomenti politici. Tra le pubblicazioni di A. vi sono anche due biografie, una di Adenauer (1964) e l’altra di Gesù (1972). A. pubblicò anche libri sulla storia tedesca, come Preußens Friedrich und die Deutschen (1968) nel quale criticò la storiografia tedesca. Specialmente quest’ultimo libro riscosse molto successo e divenne un best-seller in Germania.

Durante gli anni Cinquanta, A. rivolse sempre più le proprie critiche nei confronti di Franz-Josef Strauß, il quale, in quanto leader dell’Unione cristiano sociale bavarese e ministro della Difesa, sperava di divenire il successore di Adenauer nella carica di cancelliere. Lo “Spiegel” rivelò diversi episodi di corruzione in cui Strauß era stato coinvolto, la maggior parte dei quali legati all’approvvigionamento di armamenti. Il conflitto tra lo “Spiegel” e Strauß raggiunse l’apice in una vicenda conosciuta come l’affaire “Spiegel”. Nel 1962, Conrad Ahlers, un giornalista dello “Spiegel”, scrisse un articolo nel quale criticava la politica di difesa del governo della Germania Ovest. L’articolo si occupava di un’operazione segreta dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), conosciuta come “Fallex 62” e sosteneva che l’esercito tedesco non sarebbe stato in grado di difendere il paese da un attacco comunista, sebbene fossero state stanziate ingenti somme di denaro per la difesa. L’articolo dello “Spiegel” affermava inoltre che la NATO stava pianificando la difesa della Germania Ovest con l’impiego di bombe atomiche, nonostante una risposta nucleare a un’invasione sovietica avrebbe causato molte vittime tra i civili. Secondo la rivista, in caso di guerra atomica, l’Alleanza occidentale prevedeva che il numero di morti e vittime civili sarebbe arrivato fino a 15.000.000 in Germania e nel Regno Unito.

Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, il 22 ottobre, la polizia tedesca avviò un’inchiesta nei confronti dello “Spiegel” per tradimento. Il giorno seguente fu emesso un mandato di arresto per A. e altri giornalisti e il 26 ottobre la polizia occupò e perquisì la sala stampa dello “Spiegel”. Sempre nello stesso giorno, Ahlers venne arrestato dalla polizia spagnola a Malaga, dove si trovava in vacanza. Si sostiene che la cattura di Ahlers fosse avvenuta a causa dell’intervento personale di Strauß presso la dittatura spagnola. Il 27 ottobre, A. si costituì alle autorità. L’accaduto suscitò enorme interesse tra i tedeschi dell’Ovest, i quali espressero apertamente la loro disapprovazione rispetto alle misure adottate dal ministro e dalla polizia. Molti tedeschi temettero che questa vicenda avrebbe compromesso la libertà di stampa nella Germania Ovest.

Per l’accusa di tradimento, A. fu detenuto per più di tre mesi e fu rilasciato soltanto nel febbraio 1963. Infine, il caso che lo vedeva coinvolto fu archiviato il 14 maggio 1965, dopo che le accuse nei suoi confronti risultarono infondate. In seguito all’affaire “Spiegel”, Strauß dovette rassegnare le dimissioni nel dicembre 1962, un passo che segnò la fine delle sue aspirazioni alla cancelleria. Per lo “Spiegel”, il principale risultato della vicenda fu l’incremento della tiratura che raggiunse quasi le 500.000 copie a settimana. Quando le accuse contro A. vennero ritirate, lo “Spiegel” tentò di ottenere un documento ufficiale da parte della Corte costituzionale della Germania federale, nel quale si riconoscesse che il governo aveva di fatto limitato illegalmente la libertà di stampa. Quattro degli otto giudici della corte concordarono con l’opinione dello “Spiegel”, gli altri quattro si dichiararono contrari e di conseguenza l’istanza dello “Spiegel” venne respinta.

Negli anni seguenti, la vita politica tedesca venne fortemente influenzata dalla contestazione studentesca. In questo contesto, Axel Springer, il principale rivale di A. nel panorama giornalistico tedesco e proprietario del più grande gruppo editoriale nell’ambito dell’informazione in Germania (che, tra gli altri, pubblicava il quotidiano sensazionalistico “Bild”) fu oggetto di duri attacchi da parte degli studenti. Sebbene questi avvenimenti non coinvolsero direttamente lo “Spiegel”, la contestazione studentesca ebbe conseguenze indirette per A., dal momento che essi rafforzarono le richieste di una riforma dei rapporti gerarchici all’interno della redazione del settimanale. A. era diventato l’unico proprietario dello “Spiegel” dopo aver comprato le quote dell’ultimo coproprietario, Richard Gruner. Con il controllo nelle mani di A., tuttavia, i dipendenti dello “Spiegel” aumentarono le loro richieste di maggiori diritti di partecipazione. Sentendosi sotto pressione, A. ricorse al metodo del bastone e della carota per venire a capo dei problemi interni. Da una parte licenziò tre dei suoi dipendenti più ribelli e dall’altra introdusse un sistema che consentì ai dipendenti di acquisire parte della proprietà dello “Spiegel”. A. conservò il 25% delle quote dello “Spiegel”, mentre il restante 75% venne ripartito tra i dipendenti e la casa editrice.

La crisi attraversata dalla propria casa editrice fu uno dei fattori che spinse A. a partecipare attivamente alla vita politica tedesca. Nel 1955 si era iscritto al Partito liberal-democratico (Freie demokratische Partei, FDP) e nel novembre 1972 ottenne un seggio in parlamento dopo aver ricevuto il 5,3% dei voti nel proprio collegio elettorale. Poco meno di due mesi dopo le elezioni, nel gennaio 1973, tuttavia, A. decise di dimettersi dalla sua carica. A. motivò questa decisione sostenendo che Günter Gauss, direttore in carica allo “Spiegel”, a breve sarebbe stato inviato a Berlino Est a capo della missione tedesca presso la Repubblica Democratica Tedesca. Probabilmente poco gratificato dalla vita politica, A. utilizzò la partenza di Gauss come pretesto per tornare ad assumere la guida dello “Spiegel”.

Negli anni seguenti, lo “Spiegel” svelò diversi scandali politici. Uno dei più importanti scoop della rivista, reso pubblico nei primi anni Ottanta, rivelò che leader politici avevano accettato denaro in cambio di favori dall’industriale Friedrich Karl Flick. Nel 1987 lo “Spiegel” portò alla luce uno scandalo, noto come l’“affare Barschel” che condusse alle dimissioni del governatore regionale dello Schleswig-Holstein, Uwe Barschel. Questi e altri scoop della stessa portata assicurarono allo “Spiegel” una crescente popolarità. Dopo un primo tentativo fallito, nel 1986, di entrare nell’industria cinematografica, l’azienda fondò “Spiegel TV” nel 1988 allo scopo di produrre programmi tematici che venissero trasmessi su canali televisivi tedeschi privati. Nel 1994, lo “Spiegel” vide la nascita di un concorrente, con l’uscita di una rivista rivale chiamata “Focus”, che in pochi mesi riuscì a vendere più di 500.000 copie, ossia metà di quelle vendute dallo “Spiegel” ogni settimana. Ciò nonostante, un paio d’anni dopo divenne chiaro che lo “Spiegel” era riuscito a liberarsi del proprio rivale. Da quel momento in poi, l’interesse principale dell’azienda si rivolse al potenziamento del suo settore televisivo.

A. rimase attivo in politica soltanto indirettamente, prendendo parte a dibattiti pubblici. Nel 1986, ad esempio, A. fu un importante partecipante della controversia tra gli storici in merito alla questione della responsabilità della Germania per il proprio passato. Lo storico tedesco Ernst Nolte, fra gli altri, sostenne che quarant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il popolo tedesco non sarebbe più dovuto essere ritenuto responsabile per le atrocità che il regime nazista aveva commesso. A. criticò aspramente questa posizione arrivando persino a definire Nolte un “nazista costituzionale”. Insieme all’elaborazione del passato della Germania, la Riunificazione tedesca in special modo rimase un argomento centrale per A. Egli diede supporto agli sforzi compiuti nei primi anni Settanta da Willy Brandt per avviare le relazioni con la Germania Est comunista (Ostpolitik). Nel 1990, A. sostenne inoltre la riunificazione tedesca dopo la caduta del Muro di Berlino.

Tuttavia, benché fosse favorevole alla riunificazione tedesca, A. era scettico riguardo all’unificazione europea. Non più tardi del 1987, ipotizzò che la riunificazione tedesca avrebbe richiesto la fine dell’adesione della Germania alla Comunità europea. Eppure, questo scetticismo nei riguardi dell’integrazione europea non era soltanto dovuto al suo interesse per la riunificazione tedesca (v. anche Integrazione, teorie della). Quando la Germania aderì all’Unione economica e monetaria nel Trattato di Maastricht (1992), ad esempio, A. mise in guardia rispetto alle politiche monetarie francesi sostenendo che sarebbero andate a discapito degli interessi tedeschi. Per quanto fosse egli stesso un liberale, A. criticò anche il governo di coalizione tra socialdemocratici e verdi che salì al potere in Germania nel 1998. In particolare, A. attaccò il nuovo ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer (del partito dei Verdi) per aver cambiato radicalmente le proprie opinioni nel corso del tempo.

Benché per la maggior parte della propria vita A. avesse contribuito a rivelare scandali, in vecchiaia divenne egli stesso bersaglio del giornalismo investigativo. Uno degli scandali emersi riguardava il suo eccessivo consumo di alcol; già alla fine degli anni Settanta il giornalista aveva ammesso che beveva sei bottiglie di birra al giorno. A questo si aggiunse un altro scandalo che aveva a che fare con il possesso di droghe illegali quando, nel 1985, la polizia italiana trovò 50 grammi di hashish in suo possesso. Poco prima della sua morte, inoltre, prese il via un dibattito sul passato di A. Quando dovette ammettere che, nei primi anni di esistenza dello “Spiegel”, aveva assunto ex nazisti, egli venne anche accusato di avere tendenze antisemite. Negli ultimi anni le sue attività furono volte a contrastare queste critiche, impresa che gli riuscì piuttosto bene, come testimoniano i vari premi conferitigli. Ricevette diverse lauree ad honorem, come quella da parte dell’Università di Bath (1983), dell’Università di Wuppertal (1987) e dell’Università di Mosca per le Relazioni esterne (1999). Inoltre, un sondaggio svoltosi fra 100 importanti giornalisti tedeschi gli valse il titolo di “Giornalista del secolo”.

Andreas Dür (2012)




Aznar López, José María

A.L. (Madrid 1953) proviene da una famiglia di origine navarrese piuttosto in vista durante il franchismo. Il nonno di A.L., Manuel Aznar Zubigaray, fu un noto giornalista, scrittore e diplomatico, direttore dell’agenzia di stampa EFE e di diverse testate giornalistiche (tra cui la catalana “La Vanguardia”), ambasciatore spagnolo all’ONU, in Marocco, in Argentina e nella Repubblica Dominicana e ministro plenipotenziario negli Stati Uniti. Il padre, Manuel Aznar Acevedo, falangista di Bilbao, fu soprattutto un giornalista radiofonico.

Nel 1975, il giovane A.L., dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza presso l’università Complutense di Madrid, decide di intraprendere la carriera nell’amministrazione pubblica e vince il concorso per entrare nel corpo degli ispettori delle finanze, diventando, l’anno successivo, funzionario del ministero. Nel 1978 A.L. lascia Madrid per trasferirsi, destinato dal ministero, a Logroño, una città della regione de La Rioja, nel nord della Spagna.

Dopo la morte di Franco, avvenuta nel novembre 1975, la Spagna attraversa una fase storica cruciale e delicatissima – la cosiddetta “transizione” – durante la quale, in maniera progressiva, le strutture dello Stato franchista vengono modificate per essere sostituite con quelle proprie di una nazione democratica. Un processo politicamente lungo e complicato, sorretto da fragili equilibri e dall’esito non scontato, segnato da grandi slanci, decisioni coraggiose, ma anche da scelte contraddittorie e brusche interruzioni. Un periodo di grandi mobilitazioni ed entusiasmi, di forte partecipazione popolare, in cui i temi in discussione e le trasformazioni richieste o prospettate coinvolgono, trasversalmente, tutti gli abitanti della nazione.

È in un simile contesto sociale, agitato da sollecitazioni e spinte differenti e opposte – ansia di partecipare al rinnovamento, paura del futuro e desiderio di conservare il passato – che A.L. comincia a interessarsi attivamente di politica. Benché, già durante gli anni del liceo, avesse militato nel Frente de estudiantes sindicalistas (FES), un’organizzazione di estrema destra legata agli ideali del falangismo di José Antonio Primo de Rivera e critica nei riguardi del Movimiento naciónal (il partito unico franchista) è con il dibattito intorno alla nuova Costituzione che A.L. si fa conoscere negli ambienti della destra conservatrice. Frequenta soprattutto Alianza popular (AP), federazione che riunisce piccoli partiti liberali e democratico-cristiani, guidata da Manuel Fraga Iribarne, più volte ministro durante la dittatura, ambasciatore e, dagli anni Settanta, rappresentante di una corrente “aperturista” all’interno del regime, propensa all’idea che il franchismo debba – anche se timidamente – riformarsi e aprirsi al centro politico. Dagli articoli che A.L. pubblica in quel periodo (per esempio sul giornale “La Nueva Rioja”) emergono giudizi piuttosto critici nei confronti della nuova Carta costituzionale, soprattutto in merito alla questione del futuro assetto istituzionale e dello Stato delle autonomie. A.L. non nasconde la propria preoccupazione per un’eventuale frammentazione o, addirittura, una possibile rottura dell’unità nazionale spagnola come conseguenza della creazione di comunità autonome e delle sempre più ampie competenze concesse alle diverse regioni (Catalogna, Galizia e Paesi Baschi, innanzitutto).

Nel 1979 A.L. s’iscrive ad AP, diventando segretario generale della regione de La Rioja. La sua carriera politica non è che agli inizi. È nominato secondo segretario della Commissione Costituzionale e consigliere di altre commissioni come quella de Presupuestos, Régimen de las administraciones públicas y mixta per questioni riguardanti la Corte dei conti. Nel 1981 entra a far parte del Comitato nazionale del partito in qualità di vicesegretario per le comunità autonome, mentre nel febbraio dell’anno seguente, durante il V congresso di AP, viene eletto segretario aggiunto al segretario nazionale. Intanto però il partito di Fraga non consegue i risultati sperati, subendo una pesante sconfitta tanto nelle elezioni generali del 1977 (in cui raggiunge l’8,21% delle preferenze) come in quelle legislative del 1979 (dove AP – sotto il nome di Coalicción democrática – ottiene uno scarso 6,05%). Trionfatrice di quelle consultazioni è l’Unión de centro democrático (UCD), formazione fondata dal primo ministro Adolfo Suárez, capace di coagulare attorno a sé i voti degli elettori di centrodestra. Nelle elezioni generali dell’ottobre 1982 AP migliora nettamente. Tramontata l’epoca di Suárez e con l’UCD in gravissima crisi di consensi (dal 34,84% crolla al 6,77%), è il partito di Fraga (in coalizione con il Partido demócrata popular) a trarne i maggiori benefici, raggiungendo il 26,36% dei voti e diventando il secondo partito spagnolo alle spalle dei socialisti del Partido socialista obrero español (PSOE) di Felipe Màrquez González, trionfatori con il 48,11% dei consensi. Tra i 107 deputati che AP è riuscita a portare alle Cortes nelle elezioni del 28 ottobre si trova anche A.L., eletto per la provincia di Avila, una delle poche zone dove l’alleanza AP-PDP riesce a superare il PSOE.

Il referendum sulla permanenza della Spagna nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e le elezioni del 1986 segnano la fine della leadership di Fraga in AP. L’ex ministro di Franco, dopo la netta vittoria del “sì” (il partito ha, invece, invitato i suoi elettori ad astenersi) e la riaffermazione del PSOE nelle elezioni legislative di giugno, si dimette da segretario, aprendo la corsa al successore. A.L., che nel frattempo è diventato presidente di AP in Castiglia, non appoggia il candidato sostenuto da Fraga, Antonio Hernández Mancha, ma Miguel Herrero y Rodríguez de Miñón, un giurista, uno dei sette padri (con Fraga) della Costituzione ed ex dirigente dell’UCD. La scelta di A.L. si rivela però sbagliata poiché a vincere è Hernández Mancha. Benché perda alcuni incarichi all’interno del partito, quest’errata valutazione non blocca l’ascesa del politico madrileno che, nel giugno 1987, grazie all’appoggio esterno del Centro democrático social, diventa il nuovo presidente della Giunta della regione autonoma della Castiglia-León.

AP non riesce a superare la crisi apertasi nel 1986: il nuovo segretario non solamente non risolleva le sorti del partito, ma come evidenziano i modesti risultati ottenuti nelle consultazioni locali ed europee del 1987, non arriva nemmeno a avvicinarsi alle percentuali ottenute dai socialisti del PSOE. Si va verso una nuova e profonda trasformazione del partito. Nel IX congresso nazionale, celebrato nel gennaio 1989, AP modifica il nome, diventando Partido popular (PP). Con il cambio ritorna Fraga, in qualità di presidente e poi di fondatore del nuovo soggetto politico. Le quotazioni di A.L. crescono, in quanto ha le caratteristiche del candidato ideale per scalzare o al meno scalfire il potere di Felipe González: giovane, ma con una certa esperienza di governo locale, d’idee liberal-conservatrici e privo di legami tanto con il franchismo come con le più recenti legislature ucediste.

Nel settembre 1989, con la benedizione politica di Fraga, A.L. diviene il candidato del PP alle elezioni legislative dell’ottobre di quello stesso anno. Il PSOE, tuttavia vince ancora, conservando – per pochi voti – la maggioranza assoluta, mentre il rinnovato partito conservatore spagnolo non va oltre un 25,79%. Nel 1990, durante i lavori del X congresso, A.L. consolida il proprio ruolo di capo dell’opposizione, ottenendo anche la presidenza del partito, ora che il vecchio leader Fraga, vinte le elezioni per la presidenza del governo autonomo galiziano, si ritira dalla scena nazionale per dedicarsi alla politica locale. Con abilità, pragmatismo, alternando forza e diplomazia, A.L. riesce a dare più unità al partito, a cancellare i personalismi e le lotte interne che avevano caratterizzato negativamente la storia della vecchia AP (eliminando le sette vicepresidenze) e a imporre un nuovo progetto politico che punti verso il centro e che sia espressione di una destra moderna in grado di interpretare i bisogni e le aspirazioni di un elettorato moderato. A.L. comprende che se si vuole far diventare il PP un’alternativa credibile al potere socialista è necessario: svecchiare il gruppo dirigente, marginalizzando personaggi legati al regime franchista, eliminare dal proprio bagaglio ideologico quegli elementi e simboli troppo marcatamente di destra o reazionari, richiamandosi, invece, a una tradizione liberale e democratico-cristiana di respiro europeo e, infine, adattare le strutture del partito alla nuova realtà spagnola delle diverse comunità autonome.

Se nelle elezioni del 1993 il PSOE conferma la propria supremazia, ma questa volta senza ottenere la maggioranza assoluta, il PP di A.L. fa un vero balzo in avanti, raggiungendo il 34,76%. Il declino socialista, dopo il lungo periodo di successi, sembra oramai inevitabile. I primi anni Novanta sono segnati dagli scandali – sempre più frequenti – che coinvolgono figure di spicco del governo e del partito di maggioranza. Si tratta per lo più di casi di corruzione, di malversazione o di arricchimento personale che mettono in evidenza però una fitta trama di comportamenti illegali di politici socialisti ed esponenti della società civile a essi legati (come nei casi di Juan Guerra, fratello del vicepresidente del governo Alfonso Guerra, di Luis Roldán, direttore generale della Guardia civil o del governatore della Banca di Spagna Mariano Rubio Navarro). Ma non solamente. Oltre alle accuse e ai sospetti di corruzione, nel 1994, un altro grave scandalo macchia l’ultima legislatura di Felipe González, quello dei Grupos antiterroristas de liberación (GAL). Organizzazione paramilitare segreta, nata nel 1983 e alle dirette dipendenze dei servizi d’intelligence spagnoli e del ministero dell’Interno, i GAL combattono il terrorismo basco di ETA utilizzando metodi illegali e violenti e operando come una sorta di squadrone della morte, spesso giungendo all’eliminazione fisica dei presunti terroristi. Se il giudice Baltasár Garzón aveva iniziato le indagini sull’attività dei GAL nel 1988, è nel 1994 che l’opinione pubblica viene a conoscenza del fatto che la cosiddetta “guerra sporca” – la guerra sucia – non è altro che un “terrorismo di Stato”, coperto, promosso e finanziato dalle istituzioni e da alcuni fra i suoi più alti funzionari. Gli indici di credibilità e di popolarità del governo socialista, ma soprattutto del primo ministro in persona, subiscono una caduta verticale: la maggioranza dell’opinione pubblica – sebbene i dirigenti socialisti facciano quadrato attorno al loro leader – è convinta che l’esecutivo fosse almeno a conoscenza dell’attività dei GAL.

A.L. sfrutta questo prolungato periodo di scandali in cui il governo è coinvolto, per chiedere le dimissioni di Felipe González. Le elezioni europee (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo) e quelle municipali del 1994 e del 1995 sono anticipatrici del successo che i popolari ottengono in quelle legislative del 1996. Sebbene il PSOE contenga le perdite, il PP guidato da A.L. prevale con il 38,79% contro il 37,63% dei socialisti.

Spesso si è sottolineato come la vittoria di A.L. abbia portato con sé non solamente un cambio politico – dopo quattordici anni di governo socialista – ma anche generazionale. Il neo primo ministro quarantatreenne e i suoi collaboratori appartengono alla generazione successiva a quella di Felipe González e compagni, una generazione che aveva cominciato a impegnarsi politicamente quando il processo di democratizzazione era già in atto e che, di conseguenza, non aveva conosciuto la dittatura dal quel punto di vista, nemmeno nella sua ultima stagione. Questa nuova generazione di esponenti di centrodestra poteva guardare al franchismo come a una fase oramai conclusa e non ripetibile della recente storia di Spagna. In forza della loro età anagrafica, essi non erano costretti ad affrontare il “senso di colpa” o difendersi dalle accuse di connivenza con il regime com’era talvolta capitato ad altre personalità, specie nei primi due governi UCD e nella scomparsa AP. Lontano dall’aver ottenuto la maggioranza assoluta, A.L. per poter governare, deve cercare l’alleanza di quei partiti nazionalisti regionali che, in passato aveva criticato. Convergència i uniò (catalano), Partido nacionalista vasco (basco) e Coalición canaria (isole Canarie), sottoscrivono un patto di governabilità insieme ai popolari. In realtà, se da un punto di vista strettamente numerico sarebbero decisivi i soli voti della formazione catalana guidata da Jordi Pujol, A.L. insiste per includere nel patto anche baschi e canari. In cambio della fedeltà, il governo s’impegna a concedere maggiori autonomie e competenze alle comunità autonome in materia politica e fiscale (con un nuovo modello di finanziamento per le regioni e più responsabilità e libertà nell’imposizione, esazione e ridistribuzione delle tasse, con l’assegnazione del 30% dell’IRPEF). L’accordo stretto tra PP e forze autonomiste è un’importante novità politica, dato che durante la legislatura precedente, i catalani di CiU avevano limitato il loro supporto al governo socialista di González al voto di investitura.

La composizione del governo è il riflesso di quella molteplicità di esperienze e di sensibilità politiche che aveva dato origine ad AP prima e al PP poi. A.L., inoltre, si circonda di uomini di fiducia, persone che hanno condiviso le medesime esperienze, situazioni e scelte durante la lunga e non sempre facile evoluzione della destra spagnola, dai primi anni Ottanta fino al 1996. Come ministro della Presidencia e primo vicepresidente, A.L. sceglie l’aliancista e stretto collaboratore, Francisco Álvarez-Cascos Fernández, come ministro dell’economia, un altro militante dell’ex AP, l’amico Rodrigo Rato Figaredo, mentre agli Interni chiama Jaime Mayor Oreja, centrista e proveniente dall’esperienza UCD.

Rilancio dell’economia e lotta antiterrorista sono i due problemi che il primo governo popolare è chiamato a risolvere. Sebbene, quando A.L. sale al potere, la crisi congiunturale degli anni 1992-1994 sia ormai passata, i buoni risultati che l’economia spagnola riuscirà a raggiungere negli anni successivi si debbono attribuire anche alle scelte e alle strategie di politica economica operate dal suo governo. Le ricette sono quelle proposte dal liberalismo economico: deregulation dei mercati e dei servizi, ridotta presenza dello Stato nell’economia, maggiori liberalizzazioni e privatizzazioni, smantellamento dei monopoli, più concorrenza, riduzione della pressione fiscale e contenimento della spesa pubblica.

Sul piano economico, la vera sfida per l’esecutivo è quella di riuscire a rientrare nei rigidi parametri fissati dal Trattato di Maastricht in maniera che anche la Spagna possa accedere sin da subito – ovvero dal 1 gennaio 1999 – alla terza fase dell’unione monetaria. Le manovre economico-finanziarie intraprese dal governo popolare danno i loro frutti: l’inflazione è scesa all’1,8% nel 1997, il deficit delle amministrazioni pubbliche passa dal 7,3% del 1995 al 2,6% del 1997, mentre la crescita è intorno al 4%. Malgrado la Spagna non sia perfettamente in linea con i parametri europei sulla riduzione del debito pubblico, la nazione iberica entra lo stesso a far parte del primo gruppo di paesi che, dal 1999, adotteranno l’euro come moneta unica.

Se sul piano delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, il governo A.L. prosegua nell’opera già incominciata dai socialisti durante i primi anni Novanta, è possibile scorgere importanti differenze. Non solamente la sua azione risulterà meno timida, più sicura di sé e incisiva di quella portata avanti dal PSOE, ma anche i benefici e i ricavi di queste operazioni saranno di molto superiori. Vengono liberalizzati e sottoposti finalmente a un sistema basato sulla libera concorrenza settori importanti come quello dell’energia elettrica e del gas, dei trasporti (specie di quello aereo) o delle telecomunicazioni (si regola il mercato della televisione via cavo e vengono concesse licenze per la telefonia mobile). Nello stesso tempo l’esecutivo procede a importanti privatizzazioni. Si segue questa strategia: privatizzare prima quelle imprese pubbliche, come Repsol, Endesa, Telefónica, Argentaria ed Enagás, in grado, perché in attivo o perché potenzialmente remunerative, di attrarre sin da subito acquirenti e capitali e poi, con il ricavato di queste vendite (che risulteranno essere quattro volte superiori alle aspettative) risanare altre compagnie statali, questa volta meno floride o in decisa perdita. Una volta ristrutturate, queste ultime sono messe sul mercato, di nuovo appetibili per eventuali compratori privati, come avviene per Tabacalera, Aceralia, Iberia, Casa e Santa Bárbara. Alla fine del 1999, in mano pubblica rimangono le ferrovie (RENFE), infrastrutture come porti e aeroporti, alcune industrie legate a settori strategici come la difesa, le poste, la Huelleras del Norte o Hunosa (un’impresa di estrazione mineraria delle Asturie) e i cantieri navali IZAR. Benché la politica delle privatizzazioni abbia condotto a risultati positivi (guadagni per lo Stato, per i piccoli azionisti e, in generale, per l’economia) non mancano le critiche, rivolte all’opportunità di vendere certe compagnie, come la Telefónica, ma soprattutto riguardo all’uso che l’esecutivo fa della golden share (l’istituto giuridico che permette al governo di riservare un certo numero di azioni per sé nonché la possibilità di nominare un membro del consiglio di amministrazione), non rinunciando a far sentire il proprio peso e mettendo alla guida di certe società (come la già menzionata Telefónica) persone in qualche maniera legate a esponenti del governo e allo stesso primo ministro.

Il buon andamento dell’economia e un atteggiamento incline al dialogo permettono al governo di A.L. di riformare il rigido mercato del lavoro spagnolo – più flessibilità e occupazione a tempo parziale – garantendo, nello stesso tempo, il mantenimento di un clima di bassa conflittualità sociale. A questa mancanza di tensione contribuiscono fattivamente l’aumento dei salari e un importante calo della disoccupazione, che passa dal 23% al 15% nel periodo 1996-1999. Sempre durante questi anni il governo opera una ristrutturazione del sistema pensionistico e delle forme del suo finanziamento, correggendo certe incongruenze del passato. L’incremento del numero di occupati e l’emersione del lavoro in nero hanno ricadute positive anche sul bilancio della Seguridad social (più iscritti, più contributi versati e dunque maggiori entrate) che, vantando un attivo del 0,2% nel 1999, consente all’esecutivo di aumentare mediamente le pensioni minime del 5%. Per quanto riguarda la politica fiscale, il governo arriva a ridurre l’IRPEF dell’11% e a esentare dal pagamento delle imposte circa un milione e settecentomila persone appartenenti alle fasce più povere della popolazione. Sebbene la pressione fiscale media – per via della crescita dell’economia – tenda ad aumentare (dal 32% al 35%), quella diretta segna un chiaro decremento.

Se sul piano delle relazioni internazionali e delle scelte di politica estera si è spesso parlato di una certa “continuità” con quanto già fatto dalle precedenti amministrazioni socialiste, ciò non significa che il governo popolare rinunci a imporre una propria linea politica. Senza dubbio, già nella prima legislatura emergono quali sono gli orientamenti di A.L.: primo, una più decisa vocazione atlantista, conseguenza tanto dell’ammirazione nutrita per i modelli politici conservatori d’origine anglosassone (inglese e americana), quanto della sua distanza da quelli francesi, e, secondo, un maggior distacco – che sarebbe però esagerato bollare come euroscetticismo – nei riguardi dell’Europa, che non è più vista come l’unica soluzione possibile ai problemi spagnoli. Nel rapporto con la NATO (North Atlantic treaty organization), il governo A.L. cerca di superare le incertezze del PSOE – costretto a fare i conti con il giudizio negativo di una parte del suo elettorato – e lavora per un maggiore coinvolgimento della Spagna nell’Alleanza atlantica. Convinto che il ruolo della nazione iberica nel quadro internazionale debba essere più centrale e preoccupato che l’ingresso nella NATO di nuovi paesi dell’Europa orientale possa relegarla ai margini, A.L. insiste affinché la Spagna entri ufficialmente a far parte della struttura militare integrata e affinché al paese iberico venga assegnato un ruolo strategico all’interno del quadro difensivo del Mediterraneo occidentale e dell’Atlantico orientale. Ottiene dunque che il nuovo comando regionale della NATO sia ospitato su suolo spagnolo, a Retamares, vicino Madrid. Nel marzo 1999, aerei spagnoli integrati nella flotta NATO partecipano ai bombardamenti sulla Serbia e, nel giugno dello stesso anno, truppe spagnole prendono parte alla missione internazionale nel Kosovo. Completamente nuovo invece l’atteggiamento verso Cuba; il governo A.L. mostra tutta la propria ostilità alla dittatura di Fidel Castro tanto da un punto di vista diplomatico come da un punto di vista politico, congelando crediti e aiuti finanziari all’isola, esigendo riforme e aperture democratiche e sostenendo l’opposizione.

Il rapporto di A.L. con l’Unione europea è più articolato rispetto a quello del suo predecessore socialista. Il buon andamento dell’economia spagnola e il suo elevato tasso di crescita insieme alla richiesta avanzata da Germania, Olanda (v. Paesi Bassi), Austria e Svezia di non versare più fondi di coesione (v. Fondo di coesione) al gruppo di paesi della zona euro, rischiano di privare la Spagna di un’importante fonte di finanziamento per gli anni 2000-2006. A.L. inizia con gli altri membri dell’Unione un lungo e duro negoziato, minacciando di non votare l’ampliamento a Est, qualora la proposta di interrompere le sovvenzioni venisse approvata. La questione, ampiamente dibattuta, trova il suo culmine nel marzo 1999 al Consiglio europeo di Berlino, durante il quale il presidente del governo spagnolo, dopo un’estenuante maratona negoziale, non solamente riesce a convincere i partner europei, ma ottiene condizioni ancora migliori di quelle avute negli anni 1993-1999. Nei successivi sette anni Madrid incasserà 16,3 miliardi di pesetas – cifra che comprende i fondi di coesione, strutturali e agricoli – con un saldo netto con la UE di 1,2 miliardi di pesetas rispetto al periodo precedente.

La lotta antiterrorista è l’altro problema – insieme al rilancio dell’economia – che l’esecutivo A.L. è chiamato a risolvere. Tra il 1996 e il 2000 ETA continua la propria attività criminale, compiendo attentati, sequestri e omicidi (13 morti nel 1997 e 6 l’anno successivo). Tra le vittime c’è un consigliere comunale del PP di Ermua, Miguel Ángel Blanco, rapito e ucciso nel luglio del 1997. L’esecuzione del giovane politico popolare scatena una reazione di protesta, partecipata e spontanea, alla violenza di ETA che si diffonde in tutta la società spagnola, Paesi Baschi compresi. Uno sdegno e un rifiuto dei metodi terroristici che, di fatto, porta all’isolamento tanto di ETA come della formazione radicale che la sostiene, Herri Batasuna (HB), dopo che il partito nazionalista basco (PNV) ne prende politicamente le distanze. Ma nel settembre 1998, il nazionalismo radicale riesce a uscire dall’impasse in cui era finito, annunciando di aver stipulato un patto con altre forze nazionaliste moderate (patto di Estella) con l’obiettivo di dare una soluzione al problema basco. ETA dichiara una tregua unilaterale, ma il governo non è propenso a intavolare delle vere trattative con i terroristi, convinto che la sospensione dell’attività da parte dell’organizzazione basca sia strumentale. Le elezioni per il rinnovo del parlamento autonomo basco dell’ottobre 1998 portano a un patto di governo in cui i nazionalisti moderati del PNV si alleano con quelli più radicali di HB e Eusko Alkartasuna (EA). Nel 1999 ETA annuncia la fine della tregua, uccidendo l’anno successivo ben 23 persone, tra cui Fernando Buesa, portavoce del partito socialista basco (PSE-EE) al parlamento di Vitoria. Nel contempo continuano le iniziative dell’autorità giudiziaria con retate, arresti e ordini di chiusura per giornali, radio, movimenti politici e società sospettati di essere conniventi con i terroristi. Puntando poco sul negoziato come possibile via per giungere a una soluzione del problema, A.L. – vittima anch’egli di un attentato etarra nel 1995 – preferisce seguire un’altra strategia che all’azione repressiva, con l’intensificazione di operazioni di polizia e di provvedimenti giudiziari, combina una dura propaganda antiterrorista, con l’avvio di un’intensa e aspra campagna d’opinione contro le forze più radicali con l’intento di condurle verso un sempre maggiore isolamento politico e sociale.

Le elezioni legislative nazionali del 12 marzo 2000 riconfermano A.L. alla guida della Spagna. Questa volta però il margine è ampio e la percentuale ottenuta (44,22%, con i socialisti distanziati di 10 punti) consente di poter governare senza dover scendere a patti con i partiti nazionalisti, quello di Jordi Pujol in primis. Se A.L. nella prima legislatura aveva pragmaticamente ceduto alle richieste dei partiti nazionalisti, le attuali condizioni di forza gli permettono di lasciar corso alle proprie più intime convinzioni. Il politico madrileno esprime tutti i suoi dubbi e le sue riserve sull’attuale stato delle autonomie, così come si è venuto profilando dalla Transizione a oggi, criticando con durezza il discorso dei nazionalismi periferici, catalano e basco innanzitutto. Difensore dell’unità nazionale spagnola – talvolta utilizzando argomentazioni dal sapore nazionalista – e contrario a politiche che conducano a una sempre più ampia autonomia regionale, anticamera di eventuali secessioni territoriali, A.L. è convinto che si debba arrivare a un punto fermo in questo processo, ponendo dei limiti all’acquisizione di competenze da parte delle diverse regioni e rendendo finalmente stabile l’assetto dello Stato.

L’aver conquistato la maggioranza assoluta permette al suo governo anche una maggiore libertà di azione, com’è evidente quando si tratta di intervenire su una questione tanto urgente quanto delicata come la legge sull’immigrazione. Frutto di un accordo trasversale tra socialisti e comunisti, partiti nazionalisti e gruppo misto, la legge votata nel 1999, a fine della precedente legislatura, prevedeva norme più blande rispetto a quelle proposte dal PP. Tenendo fede a una promessa fatta in campagna elettorale, nel dicembre del 2000 l’esecutivo A.L. cambia la legge, introducendo sanzioni più severe contro l’immigrazione clandestina e adottando misure atte a rendere meglio controllabili e gestibili i flussi migratori. Un’ulteriore modifica, in senso più restrittivo, verrà votata dal governo popolare nell’ottobre del 2003.

Gli ottimi risultati ottenuti sul piano economico durante la prima legislatura a guida PP, sembrano ripetersi anche nella seconda. Nel periodo 2000-2003 il tasso di crescita si mantiene su livelli alti (una media del 2,8%, terzo paese nella UE), mentre le percentuali relative al numero di disoccupati fanno registrare un ulteriore calo, toccando il 9%, anche se il dato va interpretato tenendo conto del numero elevatissimo di contratti a tempo determinato firmati nel paese iberico (il doppio della media europea). Parallelamente prosegue una rigorosa opera di risanamento del deficit: per la prima volta si registra un attivo, con le entrate che superano le spese, arrivando nel 2003 a rappresentare lo 0,3% del PIL e viene varata una nuova riforma fiscale, introducendo agevolazioni, semplificando e razionalizzando il prelievo e, per quanto riguarda le comunità autonome, stabilendo nuove regole di distribuzione. A fare da contraltare a questo favorevole contesto è un deciso incremento dell’inflazione che, invertendo la decennale tendenza alla diminuzione, dal 2000 in poi si attesterà sopra il 3%, con pesanti ricadute sul potere d’acquisto delle famiglie spagnole. Ugualmente preoccupanti per le conseguenze negative sull’economia sono tanto le basse retribuzioni (stipendi scarsi e precarietà contrattuale) quanto la salita vertiginosa del prezzo degli immobili, che cresce con un ritmo dell’11,5% annuo contro il 4,5% della media europea (situazione che spesso porta a un forte indebitamento, specie per l’acquisto della prima casa).

Durante la seconda legislatura del PP viene meno il clima di bassa conflittualità sociale che aveva caratterizzato il rapporto tra esecutivo, organizzazioni sindacali e associazioni imprenditoriali nel periodo 1996-2000. Nel maggio del 2002, l’approvazione da parte del consiglio dei ministri di una nuova legge sull’occupazione che contempla misure in grado di garantire ancora maggiore flessibilità del mercato del lavoro, scatena le reazioni dei sindacati che proclamano lo sciopero generale, il primo dal 1994. Se inizialmente l’esecutivo sembra deciso a procedere con la contestata riforma, in seguito rivede il progetto, accogliendo quasi tutte le richieste delle forze sociali. Altro motivo di profonda divisione è la legge di riforma del sistema universitario, approvata alla fine del 2002 e che porterà alla mobilitazione dei partiti di sinistra, dei sindacati, di alcune associazioni degli studenti, dei professori universitari e della Conferenza dei rettori.

Sempre nel 2002, in almeno due altre occasioni, l’operato del governo A.L. diviene motivo di scontro politico e causa di vivaci proteste da parte di settori dell’opinione pubblica. Innanzitutto, in seguito alla catastrofe ambientale che nel novembre colpisce le coste galiziane, quando la nave petroliera Prestige, naufragando, rilascia nel mare tonnellate di greggio. In quell’occasione il governo è duramente criticato per il modo in cui gestisce la crisi tanto nelle sue fasi iniziali come nelle settimane seguenti. All’esecutivo e alla giunta galiziana guidata da Fraga si imputano errori e decisioni sbagliate (l’ordine di rimorchiare al largo la nave danneggiata avrebbe peggiorato la situazione), la mancanza di coordinamento e di preparazione da parte delle istituzioni preposte a fronteggiare queste emergenze e una certa tendenza alla disinformazione sulle reali dimensioni del disastro e sull’operato delle istituzioni.

Divide e fa discutere anche la maniera con cui il governo popolare gestisce e risolve l’incidente diplomatico con il Marocco. L’11 luglio, un plotone di gendarmi marocchini occupano l’isolotto disabitato di Perejil o Leila, territorio conteso situato di fronte alle coste marocchine nella regione di Tetuan. Siccome né le proteste dell’esecutivo spagnolo né quelle dell’UE e della NATO fanno recedere il governo marocchino dai suoi propositi, Madrid ritiene di dover ricorrere alla soluzione di forza per recuperare il piccolo promontorio. Il 17 luglio, dopo aver richiamato l’ambasciatore a Rabat, il governo dà il via libera all’operazione militare che, senza colpo ferire, restituisce l’isola alla Spagna. Se l’opposizione accusa apertamente A.L. di aver reagito in maniera sproporzionata rispetto a quanto le circostanze lo richiedessero, rischiando di aprire una pericolosa crisi (diplomatica ma anche militare), dai comandi NATO, dagli altri paesi europei e dall’amministrazione statunitense trapela la preoccupazione per le possibili ricadute negative nelle relazioni tra paesi dell’area. La vicenda si chiude alla fine di luglio con la mediazione del segretario di Stato americano Colin Powell che ottiene la demilitarizzazione dell’isola da entrambe le parti. Benché anche prima di questo episodio, altre questioni di non semplice soluzione (l’immigrazione illegale, il narcotraffico, le rivendicazioni territoriali del governo marocchino su Ceuta, Melilla e sull’ex Sahara spagnolo e il rinnovo degli accordi sulla pesca) facessero trapelare una certa freddezza, l’incidente di Perejil non contribuisce a distendere i rapporti tra Madrid e Rabat.

Tuttavia ancora più contestata è la decisione di A.L. di appoggiare il governo degli Stati Uniti nell’azione militare contro l’Iraq di Saddam Hussein. A differenza di quanto era accaduto nei quattro anni precedenti, la politica estera del secondo governo A.L. si discosta nettamente dalle tradizionali linee che l’avevano fino allora guidata, allontanandosi dall’europeismo che ne era stato il tratto distintivo da quando la Spagna aveva intrapreso la via della democrazia. Il nuovo asse attorno al quale ruota la politica estera del paese iberico non è più dunque quello europeo – e, in special modo, franco-tedesco – ma quello atlantico. Benché il vincolo che lega Spagna e Stati Uniti non sia mai stato in discussione, rimanendo saldo anche durante l’epoca socialista, nella seconda legislatura popolare la relazione con Washington – e con Londra – si fa ancora più forte e cordiale, assumendo i tratti dell’esclusività e giungendo – come sarà evidente durante la crisi irachena del 2003 – all’allineamento politico completo. Parallelamente – riflesso o conseguenza dell’incondizionato sostegno spagnolo alla politica americana – A.L. stringe con il presidente repubblicano George W. Bush e con il primo ministro laburista Tony Blair, un forte legame di collaborazione e di amicizia.

Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti, la Spagna partecipa alla missione ONU in Afghanistan, in sostegno all’azione americana contro il regime dei talebani. Nel corso del 2002 A.L. appoggia e difende l’operato del governo Bush in merito alla discussa questione sul trattamento e sullo status giuridico dei sospettati di terrorismo tenuti prigionieri nella base statunitense di Guantanamo, sull’isola di Cuba. Ugualmente, il primo ministro spagnolo concorda con le linee guida espresse a metà settembre nella dottrina che porta il nome del presidente americano. Un documento di capitale importanza perché, rovesciando alcuni fra i criteri sui quali, per quasi cinquanta anni, si è basata la politica estera statunitense – come il multilateralismo – parla apertamente di unilateralismo e introduce il concetto di guerra preventiva.

A.L. appoggia le tesi dell’amministrazione Bush sull’imminente pericolosità del regime di Baghdad, sui suoi legami con il terrorismo islamista e dunque sulla necessità di intervenire quanto prima per fermarlo. A.L. giudica veridiche le prove – che si riveleranno false – fornite dai servizi segreti americani sulla presenza di armi di distruzione di massa in territorio iracheno e ribadisce (nel celebre incontro delle Azzorre, il 16 marzo 2003, a pochi giorni dall’inizio della guerra) che la Spagna parteciperà alla missione irachena anche se questa non avrà il mandato dell’ONU. Così sarà: il Consiglio dei ministri spagnolo, in luglio, approva l’invio di militari della Brigata Plus Ultra con il compito di pacificare un paese che invece sembra sempre più sprofondare nel caos e nella violenza di una guerra civile.

Analogamente a quanto accade in altri paesi coinvolti nella questione irachena, anche in Spagna la maggioranza dell’opinione pubblica è contraria alla decisione di appoggiare la politica di Bush. Manifestazioni di protesta (come quella molto partecipata del 15 febbraio) e inchieste e sondaggi d’opinione rilevano come più dell’80% degli spagnoli sia fermamente contrario alla guerra. La decisione del governo di sostenere l’alleato americano nell’avventura irachena ha ripercussioni anche sul piano delle relazioni internazionali. Il tentativo di A.L. di convincere alcuni paesi latinoamericani (Messico, Argentina e Cile in particolare) a schierarsi con il presidente statunitense nella sua guerra al terrorismo provoca malumore e preoccupazione. Nello stesso modo l’aspra e prolungata contesa politico-diplomatica che vede schierati, da una parte, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna (v. Regno Unito), l’Italia, la Spagna e alcuni paesi dell’Est europeo e dall’altra nazioni come Francia e Germania, non solamente è fonte di tensione nelle relazioni bilaterali tra questi paesi, ma anche si riflette in maniera negativa sulle relazioni all’interno della UE.

Nel primo semestre del 2002, A.L. ricopre il ruolo di presidente di turno del Consiglio europeo (v. Presidenza dell’Unione europea). I membri dell’UE sono chiamati a decidere su alcune questioni decisive per capire quale sarà il futuro politico dell’Unione (Revisione dei Trattati, ripartizioni delle competenze e l’elaborazione di una Costituzione (v. Costituzione europea). A.L. mostra la propria insoddisfazione nei riguardi del lavoro della Convenzione europea, l’organo temporaneo incaricato di redigere il testo costituzionale. Il primo ministro spagnolo critica l’assenza di un esplicito riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa e non condivide il progetto di un nuovo sistema di voto che, non prevedendo più la ponderazione dei voti (v. Ponderazione dei voti nel Consiglio) stabilita alla fine del 2000 con il trattato di Nizza, opta per la maggioranza qualificata (una risoluzione o una legge potrà essere approvata con il voto favorevole di almeno il 50% degli Stati membri in rappresentanza del 60% della popolazione europea). In merito a quest’ultima questione A.L. in alleanza con il governo polacco, dà battaglia e dal 4 ottobre 2003, giorno della prima seduta della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative), si oppone fermamente alla possibilità di cambiare il sistema di votazione, penalizzante per la Spagna. Le trattative per sbloccare la situazione proseguono e, dopo che anche paesi più piccoli (come Portogallo, Grecia o Austria) hanno accettato il principio della Duplice maggioranza, A.L., nella riunione del dicembre del 2003, si mostra più disposto a trattare sui cambi proposti. Un’apertura che si rivela non risolutiva, anche a causa dell’atteggiamento di chiusura a qualsiasi possibilità di mediazione del primo ministro polacco. L’approvazione del testo costituzionale sarà rimandata al giugno 2004.

Così come durante la prima legislatura, anche nella seconda, il terrorismo separatista di ETA è uno fra i problemi più urgenti da risolvere. L’organizzazione basca ricomincia a colpire dopo la tregua del 1999 e nel 2000 arriva a uccidere 23 persone. Decise e ripetute operazioni di polizia (investigazione, repressione e arresti) in combinazione con iniziative dell’autorità giudiziaria (perseguendo coloro che sono sospettati di essere fiancheggiatori e finanziatori del terrorismo basco) costringono ETA a ridurre di molto l’attività e portano a un deciso calo delle azioni terroristiche e alla cattura di esponenti di primo piano della banda. Tra le formazioni politiche orbitanti nella galassia di ETA messe fuorilegge dalle ordinanze del giudice Garzón c’è anche HB. Una decisione presa nell’agosto 2002, poche settimane dopo l’approvazione della nuova legge sui partiti politici votata in parlamento, oltre che dalla maggioranza popolare, anche dai socialisti, dai catalani di CIU, dal partito canario e dal Partido andalucista. La strategia antiterrorista del secondo governo A.L. prevede il riconoscimento internazionale di ETA come organizzazione sovversiva e la sua iscrizione nelle liste dei gruppi terroristici. Così avviene nel 2001, quando la formazione basca è inserita nell’elenco stilato dal governo degli Stati Uniti e quando, a margine del Consiglio europeo di Laeken, entra a far parte delle organizzazioni terroristiche operanti sul territorio dell’Unione. Il parallelismo fra terrorismo internazionale e terrorismo di ETA spesso utilizzato da A.L. come argomentazione per giustificare o spiegare scelte di politica estera – come l’appoggio alle iniziative statunitensi – diviene ulteriore motivo di scontro politico.

Non meno conflittuale è il rapporto che in questi anni esiste tra governo di Madrid e i rappresentanti dei nazionalismi periferici moderati, in particolare con il presidente del governo basco Juan José Ibarrexte, esponente del Partido nacionalista vasco (PNV) e con Pascual Maragall, membro del partito socialista catalano, ex sindaco di Barcellona e dal 2003 presidente del governo autonomo della Catalogna.

Le elezioni amministrative celebrate alla fine di maggio 2003 evidenziano segnali di recupero da parte del PSOE che supera, anche se di poco, il PP in numero di voti. Nonostante negli ultimi mesi l’azione del governo, le scelte della maggioranza o la persona stessa di A.L. siano stati oggetto di proteste e di polemiche, accusati di cattiva gestione e di errori politici (dalla catastrofe ambientale del Prestige, alla politica estera passando per certi gesti o parole del primo ministro), il PP non esce sconfitto dalle amministrative. Malgrado la flessione nell’indice di popolarità, il partito di A.L. guida più amministrazioni locali rispetto ai socialisti e si riconferma vincente in città come Madrid, Valencia e Malaga. I dati economici, anche alla fine del 2003, rimangono molto buoni, così come gli sforzi per contenere la spesa pubblica danno ottimi risultati. Anche la lotta al terrorismo basco – questione molto sensibile per la società spagnola – mostra notevoli progressi: dalle 23 vittime del 2000 si passa alle 3 del 2003.

Leader indiscusso del suo partito e più volte riconfermato presidente, nel gennaio 2002, durante il XIV congresso, A.L. annuncia che non sarà più lui il candidato popolare alla presidenza del governo alle elezioni del marzo 2004. Per l’eventuale successore gli analisti soffermano l’attenzione su tre nomi, quello di Mariano Rajoy, di Rodrigo Rato e di Jaime Mayor Oreja. Nel settembre 2003, A.L. svela i suoi propositi e indica Rajoy come il prossimo candidato popolare alle elezioni legislative. Di due anni più giovane di A.L., il galiziano Mariano Rajoy è un politico esperto avendo alle spalle la lunga militanza in AP prima e nel PP poi e l’esperienza di otto anni di governo durante i quali ha più volte ricoperto il ruolo di ministro. Più propenso al dialogo, di carattere più aperto e meno intransigente di A.L., Rajoy sembra destinato a vincere, come evidenziano i principali commentatori politici e i numerosi sondaggi realizzati sulle intenzioni di voto. Tuttavia, il giovedì 11 marzo, a pochi giorni dalla consultazione elettorale, un evento inatteso e drammatico colpisce la Spagna. A Madrid dieci bombe esplodono in tre affollate stazioni ferroviarie e su alcuni treni carichi di pendolari, provocando la morte di 191 persone e migliaia di feriti.

La strage, oltre a sconvolgere l’intera società spagnola – inevitabilmente – si ripercuote sulle ultime ore di campagna elettorale e ne condiziona l’andamento. Già poche ore dopo la tragedia madrilena, il ministro degli Interni Ángel Acebes non esita ad attribuire l’azione terrorista all’ETA, mentre A.L., in una dichiarazione pomeridiana, fa allusione al gruppo basco senza mai però citarne direttamente il nome. Arnaldo Otegui però, portavoce della disciolta Batausuna, si affretta a condannare gli attentati e a respingere le accuse che provengono da Madrid, suggerendo un’altra interpretazione quella del terrorismo di matrice islamista. Nonostante, nella notte, l’attentato venga rivendicato dalle sedicenti Brigate di Abu Hafs Al Masri con un comunicato al quotidiano inglese – ma di lingua araba – “Al Quds Al Arabi” e malgrado il ritrovamento di un furgone al cui interno si scoprono sette detonatori, resti di esplosivo e un’audiocassetta con incisi versetti del Corano, il governo non abbandona il suo convincimento, indicando nei terroristi baschi gli autori della strage. Anzi, su richiesta spagnola, quello stesso giorno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU vota una risoluzione di condanna, nella quale si cita esplicitamente l’ETA quale responsabile del massacro. Si parla anche di pressioni esercitate dal governo sui mezzi d’informazione e l’invito fatto dal ministro degli Esteri Ana Palacio agli ambasciatori affinché si insista su questa linea interpretativa. Anche il giorno successivo, venerdì 12, si attribuisce la paternità dell’attentato all’ETA. Tuttavia, tanto sui mezzi di informazione spagnoli e stranieri come nell’opinione pubblica si fa sempre più largo l’idea che i responsabili vadano cercati in quella galassia terrorista che ruota intorno al terrorismo di matrice islamista. Destinataria delle minacce dei capi di Al Qaeda a causa della sua partecipazione al conflitto iracheno, la Spagna era diventata, secondo le segnalazioni dei servizi segreti occidentali, uno dei bersagli più probabili di un futuro attacco terrorista.
Il 14 marzo, in un clima turbato da forti polemiche, più del 75% degli spagnoli aventi diritto al voto si reca ai seggi (nel 2000 la percentuale di votanti era stata del 68,71%). Il PP è sconfitto, raccogliendo il 37,71% dei consensi contro il 42,59% ottenuto dal PSOE. Nuovo Presidente del Consiglio è il socialista José Luis Rodríguez Zapatero.

Ritiratosi dalla vita politica attiva, ma non estraneo al dibattito politico spagnolo, A.L. attualmente è presidente della Fundación para el análisis y los estudios sociales (FAES), istituzione nata nel 1989 e costruita sul modello dei think tank americani.

Nel 2006 è entrato a far parte del consiglio di amministrazione della News Corporation, uno dei maggiori gruppi multimediali al mondo, possessore di numerosi media e controllata dal magnate Rupert Murdoch.

Alessandro Seregni (2009)




Baeza Martos, Fernando

B.M. (Madrid 1920-ivi 2002) studiò nel collegio dei Marinisti a Madrid, ma nel 1939, alla fine della guerra civile, il padre, repubblicano, fu costretto all’esilio e la famiglia si trasferì in Argentina, dove B.M. si laureò in lettere e filosofia all’Università di Buenos Aires. Tornato in Spagna, proseguì gli studi a Madrid, e nel 1956 partecipò alla protesta degli studenti universitari che provocò la crisi di governo. Nello stesso anno fu tra i fondatori del movimento clandestino Azione democratica, più tardi convertitasi nel Partito sociale di azione democratica (Partido social de acción democrática, PSAD), insieme a Dionisio Ridruejo e a un gruppo di intellettuali antifranchisti. La base programmatica del partito si imperniava sulla unità delle forze di opposizione, sul superamento del passato e sull’impegno attivo per la restaurazione delle libertà democratiche, accettando l’ideologia socialdemocratica aconfessionale e indifferente alle forme di governo. Nel 1957 fu arrestato e condotto nel carcere madrileno di Carabanchel, assieme ad altri membri del PSAD come Ridruejo, Fermin Solana e Antonio Menchaca.

Nel 1962 B.M. prese parte al congresso del Movimento europeo tenuto a Monaco, dove si ebbe l’incontro tra gli esiliati repubblicani e l’opposizione interna al regime franchista, a eccezione dei comunisti. A seguito della dura reazione del governo spagnolo, che arrestò e mandò al confino vari partecipanti, B.M. andò nuovamente in esilio, soggiornando nei mesi seguenti in Colombia, Argentina, Messico e Francia, anche se non poté evitare di essere multato al suo ritorno in Spagna. Nello stesso periodo collaborò attivamente con l’Associazione spagnola di cooperazione europea (Asociación española de cooperación europea, AECE), del cui direttivo fu eletto membro nella giunta generale del febbraio 1967. Durante la seconda metà degli anni Sessanta intervenne in buona parte dei negoziati e delle attività dell’opposizione antifranchista, e nella sua casa si tennero varie riunioni fra i rappresentanti dei diversi partiti clandestini, inclusi i comunisti.

Nel 1972 B.M. aderì al Partito socialista operaio spagnolo (Partido socialista obrero español, PSOE) e fu arrestato ancora una volta nel 1975, poco prima termine della fine della dittatura.

Eletto senatore nelle liste del PSOE nella provincia di Huesca nelle prime elezioni democratiche del giugno 1977 e in quelle successive del 1979, B.M. fu primo vicepresidente della giunta direttiva del Parlamento, dell’Unione parlamentare e della Commissione mista parlamento spagnolo-Parlamento europeo, fino al 1982. Dal 1983 al 1987 fu ambasciatore spagnolo presso il Consiglio d’Europa, sempre in stretta collaborazione con il ministro spagnolo degli Affari esteri, Fernando Morán, amico e compagno di partito dai tempi dell’antifranchismo. Nel Consiglio europeo fece parte della Commissione economica, e fu inoltre vicecommissario nella Commissione politica e membro della Sottocommissione per il Medioriente.

All’interno del PSOE B.M. fu uno dei fondatori del Gruppo socialista de Chamartin (Madrid), della Federazione nazionale di arti grafiche dell’Unione generale dei lavoratori (Unión general de trabajadores, UGT), del gruppo di lavoro “Jaime Vera” e della Fondazione “Pablo Iglesias”, di cui fu membro. Autore del libro Baroja y su mundo (1962), tradusse in spagnolo l’opera di importanti autori stranieri, tra cui George Bernard Shaw e Honoré de Balzac e nel 1955 fondò a Madrid la casa editrice Arion.

Javier Munoz Soro (2009)




Baffi, Paolo

B. (Pavia 1911-Roma 1989) nel 1932 si laurea in economia e commercio alla Università Bocconi di Milano dove, dal 1933, diventa assistente di Giorgio Mortara alla cattedra di Statistica. Nel 1936 entra al Servizio studi della Banca d’Italia, che poi dirigerà dal 1945 al 1956.

In quegli anni diviene membro della Commissione economica presso il ministero per la Costituente, presieduta da Giovanni Demaria. Dopo il 1956 diviene Consigliere economico della Banca d’Italia e della Banca per i regolamenti internazionali. Dal 1960 è nominato direttore generale della Banca d’Italia di cui diviene governatore quando, nel 1975, Guido Carli passa alla guida di Confindustria.

Anche se l’ interesse di B. per la questione della compatibilità fra vari regimi di cambio e la politica economica, in particolare quella monetaria, si sviluppa negli anni Cinquanta e Sessanta (v. Baffi, 1957; Id., Studi, 1965; Id., Considerazioni, 1968), è principalmente nel corso degli anni Settanta (quando diviene anche professore incaricato di Storia e politica monetaria presso la facoltà di Scienze politiche di Roma) e soprattutto nel periodo del governatorato che assume un ruolo importante nel dibattito sul processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Sono gli anni successivi al crollo del sistema monetario internazionale fondato sul dollar-exchange standard ereditato dalla conferenza di Bretton Woods del 1944. Il passaggio a un regime generalizzato di cambi flessibili permette certo di svalutare per risollevare le esportazioni, ma al costo di creare maggiore incertezza, favorendo la speculazione sul mercato internazionale dei capitali, e di accrescere l’inflazione, particolarmente dannosa in un’economia di trasformazione fortemente esposta alle importazioni come quella italiana.

Sono anche gli anni dell’austerità, della crisi della bilancia dei pagamenti, dei prestiti del Fondo monetario internazionale che chiedono come contropartita il controllo di un nuovo aggregato monetario, piuttosto inconsueto per l’Italia: il credito totale interno. Diventa quindi sempre più aspro e diretto il contrasto e l’effetto-spiazzamento reciproco tra finanziamento del settore pubblico e di quello privato. Vincoli monetari esterni e gradi di manovra della politica nazionale si trovano così sempre più ai ferri corti, lasciando spazi di manovra che vengono ancor più schiacciati dalle pressioni espansive di una classe politica che, al di là di spinte clientelari, deve oggettivamente fare i conti con una situazione sociale particolarmente turbolenta (non dimentichiamo che stiamo parlando degli anni più bui dell’esperienza terroristica nazionale).

Proprio nel ruolo di governatore B. si trova quindi ad affrontare in maniera diretta e concreta la propria posizione nei confronti di un progetto di rilancio del processo di integrazione europea, quello del Sistema monetario europeo (SME).

Non v’è dubbio che B. fu tra i maggiori e più coerenti rappresentanti dell’opposizione allo SME, ma si tratta di un giudizio che deve essere qualificato. In quanto rappresentante della già difficile autonomia dell’autorità monetaria in Italia, B. era convinto che un sistema di cambi fissi, anche se con parità aggiustabili, non fosse coerente con l’assetto istituzionale della politica economica in Italia.

Con governi che, in risposta alle tensioni sociali e alle profonde crisi strutturali degli anni Settanta, aprivano il cordone della borsa e con un meccanismo di collocazione del debito pubblico che poneva una responsabilità alla Banca d’Italia come acquirente residuale obbligatorio del Tesoro, era evidente la difficoltà di trovare coerenza fra obiettivi interni (crescita del reddito, piena occupazione, bilanci in ordine) ed esterni (pareggio di bilancia dei pagamenti) di politica economica.

La politica monetaria si sarebbe trovata, in presenza di un vincolo di cambio, a servire due padroni che solo casualmente avrebbero potuto condividere gli stessi obiettivi. Secondo B., in un sistema economico caratterizzato da rigidità istituzionali di varia natura (spesa pubblica governativa e locale, rivendicazioni salariali ecc.) le autorità monetarie avevano il compito di veicolare le aspettative degli agenti economici con azioni discrezionali. Aggiungere un ulteriore grado di rigidità al sistema poteva significare il tracollo: perdita di credibilità, di competitività, di strumenti insomma indispensabili per la conduzione della politica economica.

In tale atteggiamento, B. appare inizialmente in assoluta continuità con lo schema neoricardiano ufficialmente portato avanti da Carli: in presenza di un sistema salariale che fissa le retribuzioni in maniera indipendente dall’andamento della produttività ed anzi perfettamente indicizzate all’inflazione, la politica monetaria era destinata al fallimento, e anche i tentativi di moderazione salariale potevano avere successo solo in presenza di «costanza della spesa pubblica e flessibilità del cambio» (v. Baffi, Disavanzo, 1976, p. 447).

Ma nel corso degli anni lo scetticismo di B. verso ogni disegno di integrazione monetaria in Europa viene argomentato facendo sempre più ricorso alla letteratura sulle aree monetarie ottimali, essenzialmente nella versione originaria (ci riferiamo al noto saggio di Robert Mundell del 1961, A theory of optimum currency areas), peraltro largamente utilizzata nel dibattito (v. Masini, 2004) sullo SME da coloro che avversavano tale scelta. Secondo tali teorie, un’area composta da più Stati poteva passare ad un accordo valutario, o a una moneta unica, solo con un efficiente mercato dei fattori, soprattutto del lavoro. In presenza di shock asimmetrici, se i salari non fossero stati flessibili e il lavoro mobile sul piano territoriale, si sarebbe rischiato di mettere a repentaglio la credibilità e quindi la tenuta del cambio, oltre che alimentare speculazioni sulle valute più deboli.

Su queste basi, B. giudicava la Comunità economica europea un’area monetaria non ottimale. Per sostenere un sistema di cambi sostanzialmente fissi occorreva, come ebbe a ribadire con forza in più occasioni nelle varie “Considerazioni finali” all’assemblea di BankItalia e soprattutto nel corso di un’audizione alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato (v. Baffi, I cambi, 1978), aumentare i margini di oscillazione dei cambi bilaterali, istituire e fornire liquidità ad un Fondo monetario europeo a favore delle operazioni di sostegno delle banche centrali, accrescere la dotazione dei fondi strutturali a fini di redistribuzione del reddito.

Senza queste condizioni, un sistema economico pieno di rigidità come quello italiano sarebbe stato spazzato via ai primi venti della speculazione internazionale o di shock asimmetrici, sia quelli comunemente considerati nella letteratura sul lato della domanda, sia sul lato dell’offerta (come gli shock energetici e tecnologici).

Mentre però la maggior parte dell’intellighenzia politica ed economica del paese credeva fermamente nell’effetto benefico dell’integrazione europea come veicolo di comportamenti virtuosi, nel senso che i soggetti responsabili delle rigidità del sistema Italia sarebbero state costretti a rivedere i propri atteggiamenti, B. era pessimista nei confronti della possibilità che il vincolo esterno costituito dall’accordo di cambio potesse scardinare le tare ataviche del sistema istituzionale italiano. Non credeva, in particolare, che avrebbe posto dei freni agli abusi del potere politico su quello economico. Questo suo profondo scetticismo lo etichettò nel tempo in maniera indelebile come un avversario del processo di integrazione europea, come egli stesso ebbe a lamentarsi con Carli (v. Carli, 1993, p. 353).

Certo la sua vicenda personale non poteva fornirgli ottimismo nei confronti del tessuto civile, politico e istituzionale italiano: proprio mentre prendeva avvio l’esperimento del sistema monetario europeo, B. pagava in prima persona la colpa di aver disposto un’ispezione bancaria “scomoda” che lo portò a una denuncia alla Procura per abuso di potere e al ritiro del passaporto.

Una vicenda dalla quale fu poi completamente dichiarato estraneo, ma che ormai aveva colpito irrimediabilmente alle fondamenta la fiducia dell’uomo pubblico, il quale accettò probabilmente con disincanto la carica di governatore onorario, l’incarico di professore ordinario di Politica monetaria alla Sapienza e la presidenza della Società italiana degli economisti dal 1980 al 1982. Fu ancora consigliere e poi vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali.

Nei suoi ultimi anni B. fu ancora una volta dalla parte “storicamente perdente” del percorso di integrazione europea. Di fronte alle tesi di coloro che spingevano per un passo istituzionale concreto verso una moneta unica in Europa (che sarebbero sfociate nel Rapporto Delors del 1989 e divenute poi il “manuale” per l’adozione dell’euro), B. aderì alle tesi della concorrenza monetaria (nella versione proposta coi contributi di Hayek degli anni Settanta, riportata alla superficie del dibattito pubblico negli anni Ottanta da Vaubel), come testimoniano articoli sui quotidiani dell’epoca e una lettera a Carli (v. Carli, 1993, p. 358).

Una tesi, quella della concorrenza fra valute e della moneta parallela, che negli anni Settanta aveva avuto il merito di rilanciare il processo di integrazione in Europa, ma che nel 1989 appariva ormai una battaglia di retroguardia e si apprestava infatti a essere utilizzata dal governo inglese per contrastare il progetto di moneta unica proposto dal Comitato Delors (v. Delors, Jacques).

Protagonista nel dibattito e nel potere istituzionale relativo al percorso di integrazione europea, B. potrebbe insomma essere definito un antieroe di quel disegno istituzionale, testimone e latore di timori troppo grandi di fronte a un processo storico di tale portata, che richiedeva (e tuttora richiede) una lucida follia per essere portato a compimento. Una follia che la figura di uno studioso rigoroso come B. certo non poteva che rifuggire.

 Fabio Masini (2010)




Bahr, Egon Karl-Heinz

B. (Treffurt, Turingia 1922), dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale dal 1942 al 1944, B. inizia la sua attività di giornalista come inviato di “Berliner Zeitung”, “Allgemeine Zeitung” e “Tagesspiegel”; dal 1950 al 1960 è anche caporedattore dell’emittente radiofonica berlinese RIAS. La sua carriera politica è strettamente legata a quella del suo mentore, nonché amico, Willy Brandt. Iscritto alla SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) dal 1956, B. viene nominato nel 1960 dall’allora borgomastro berlinese portavoce al Senato e direttore dell’ufficio stampa e informazione di Berlino Ovest. Nel 1966, quando Brandt diventa ministro degli Esteri, B. viene nominato ambasciatore straordinario (Sonderbotschafter) e, nel 1967, direttore della Commissione di pianificazione presso lo stesso ministero. Al culmine della carriera politica di Brandt, B. riceve nel 1969 il duplice incarico di segretario di Stato presso la cancelleria e di delegato plenipotenziario della città di Berlino e, nel 1972, diventa ministro agli Affari particolari. La sua attività politica prosegue, tuttavia, anche dopo le dimissioni di Brandt da capo del governo. Nel luglio 1974 il neoeletto cancelliere Helmut Schmidt gli affida, infatti, il ministero per la Cooperazione allo sviluppo. Nel 1976 B. lascia il governo e diventa amministratore federale della SPD, incarico che svolgerà fino al 1981. Membro del Bundestag sin dal 1972, resterà parlamentare fino al 1990, l’anno della riunificazione tedesca (v. Germania).

B., o il “Kissinger tedesco”, come è stato una volta definito dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, è considerato uno dei principali artefici dell’Ostpolitik: egli svolse un ruolo di primissimo piano sia nella fase di elaborazione delle linee guida della politica di normalizzazione e di distensione dei rapporti della Repubblica federale con il blocco comunista, sia nella sua concreta realizzazione. In particolare, il 15 luglio 1963 lo stratega socialdemocratico tenne all’Accademia evangelica di Tutzing, in Baviera, uno dei discorsi più significativi sulle premesse concettuali della futura Ostpolitik. Più precisamente, in quell’occasione B., suscitando peraltro non poche polemiche all’esterno come all’interno del suo partito, affermò che l’evoluzione della Guerra fredda, con particolare riguardo alla cristallizzazione della divisione della Germania e alle strategie distensive prevalenti nel blocco occidentale, rendeva necessario da parte della Repubblica Federale Tedesca (RFT) l’abbandono della tradizionale politica di forza e di isolamento nei confronti dell’Unione Sovietica, dell’Europa orientale e della Deutsche Demokratische Republik (DDR). In quell’occasione, B. riprendeva l’idea espressa da Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald), all’indomani della costruzione del Muro di Berlino (13 agosto 1961), che solo il riconoscimento dello status quo avrebbe potuto determinarne il superamento e individuava nella formula del “cambiamento attraverso l’avvicinamento” (Wandel durch Annäherung) la nuova strategia entro cui la RFT avrebbe dovuto dispiegare ogni sforzo per la riunificazione del paese. Analoghe considerazioni vennero ulteriormente sviluppate dallo stesso B. in un manoscritto (Was nun?) del 1965-66 che, tuttavia, non fu mai pubblicato (v. Gallus, 2001, pp. 302 e ss.). Sul piano politico le idee di B., che spesso (anche se non sempre) coincidevano con quelle di Brandt, trovarono una prima, sia pure limitata, traduzione politica nel miglioramento dei rapporti tra Berlino Ovest e Berlino Est. Il mutamento di rotta nella politica orientale della Bundesregierung avvenne, infatti, solo negli anni della Grosse Koalition: la tradizionale ostilità verso la Repubblica Democratica Tedesca fu sostituita con un atteggiamento più conciliante nei problemi confinari; allo stesso modo, Bonn stabilì rapporti diplomatici normali con i paesi dell’Europa dell’Est (nel 1967 con la Romania e nel 1968 con la Iugoslavia), prendendo così nettamente le distanze da quello che fino a quel momento era stato uno dei principali dogmi della politica estera tedesca, la dottrina Hallstein (v. Hallstein, Walter). In quegli anni B., in qualità di direttore della Commissione di pianificazione del ministero degli Esteri, elaborò una serie di documenti programmatici sulla sicurezza in Europa e sulla politica estera della futura Bundesregierung, contribuendo così concretamente alla definizione di quelle che sarebbero state le linee guida in politica estera della futura coalizione di governo social-liberale.

D’altra parte, ancora più rilevante fu il ruolo che B. svolse all’inizio degli anni Settanta nel corso dei negoziati che portarono al trattato di non aggressione con Mosca (1970) e al Trattato fondamentale tra le due Germanie (1972), il quale prevedeva relazioni di buon vicinato sulla base dell’eguaglianza dei diritti e dunque il riconoscimento formale della Repubblica Democratica Tedesca come Stato da parte della Repubblica federale. Quale uomo di fiducia di Brandt, B. negoziò personalmente, anche se non sempre attraverso i canali convenzionali o formalmente riconosciuti, con i massimi vertici dell’URSS, da Gromyko a Kossigyn, e della DDR, da Honecker (v. Honecher, Erich) a Stoph, finendo per svolgere un compito che, da protocollo, sarebbe spettato al ministro degli Esteri.

La centralità della questione nazionale per B. è evidente nel suo operato, ma anche nei suoi scritti. D’altra parte, la dimensione internazionale e più specificatamente europea del suo pensiero e della sua azione politica non può essere trascurata. Con il superamento dello status quo B. non si limitava ad auspicare la progressiva normalizzazione e distensione nei rapporti tra le due Germanie, ma indicava anche il contesto entro il quale un tale avvicinamento sarebbe stato, a suo giudizio, favorito. Più precisamente, movendo dalla constatazione che nell’età del terrore nucleare la sicurezza dell’uno non poteva prescindere dalla sicurezza del proprio nemico, egli avanzò, sulla base di quella che egli stesso definiva la dottrina della “sicurezza comune”, la proposta di creare in Europa una “zona di distensione” denuclearizzata (v. Bahr, 1988). Come nel manoscritto non pubblicato del 1965-66, così nel “piano in quattro punti”, esplicitato in un’intervista rilasciata al politologo americano Walter F. Hahn nel 1969, lo stratega socialdemocratico non escludeva, peraltro, la possibilità di pervenire, sempre nel quadro di un sistema di sicurezza europea, al superamento della logica dei blocchi e alla realizzazione di una Germania unita e svincolata da qualsiasi sistema di alleanza militare. Una prospettiva, quella ventilata da B., che gli valse, da più parti, l’accusa di coltivare sentimenti nazional-neutralisti e antioccidentali (v. Gallus, 2001, p. 296 e ss.).

Per quanto riguarda invece il processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) in senso stretto, la posizione di B., almeno fino alla caduta del muro di Berlino, è segnata da una certa ambiguità: pur ritenendola, quanto meno sul piano della retorica, storicamente necessaria e politicamente opportuna, B. rivela, infatti, nelle sue memorie di non aver mai abbandonato la convinzione, sulla scia del pensiero di uomini politici come Kurt Schumacher (SPD) e Jakob Kaiser (CDU, Christlich-demokratische Union Deutschlands), che un’integrazione troppo stretta tra i paesi dell’Europa occidentale potesse seriamente compromettere la possibilità di pervenire a una soluzione nella questione nazionale: «Era una questione di priorità e di direzione: l’integrazione escludeva la riunificazione» (v. Bahr, 1996, p. 175).

Tuttavia, nel contesto di un mutamento complessivo di paradigma storico, reso evidente dall’11 settembre 2001 e dal successivo intervento militare degli USA in Iraq nel 2003, B. ha rivendicato per l’Europa allargata (v. anche Allargamento) un ruolo di maggior rilievo sulla scena internazionale, invocando la costruzione di un’identità europea sulla base di un modello di “potenza civile” non contrapposto, ma comunque alternativo a quello dell’iperpotenza americana (v. Bahr, 2003).

Gabriele D’Ottavio (2009)




Ball, George Wildman

B. (Des Moines, Iowa 1909-New York 1994), laureato in Legge alla Northwestern University nel 1933, ha avuto grande influenza sulla politica estera americana. Iniziò la sua carriera come funzionario governativo lavorando come consigliere legale al dipartimento del Tesoro (1933-1935). Durante la Seconda guerra mondiale collaborò con il segretario di Stato di Franklin Delano Roosevelt, Edward Stettinius, nel General counsel’s office dell’amministrazione della legge affitti e prestiti, che in seguito divenne Foreign economic administration (1942-1944). Nel 1944-45 diresse a Londra l’U.S. Strategic bombing survey, doveva incaricato di studiare la strategia dell’offensiva degli alleati contro la Germania. Subito dopo la guerra fece parte del French supply council a Washington (1945-1946), occupandosi dei progetti di ripresa economica della Francia. A Washington durante la guerra incontrò Jean Monnet, che era stato cooptato alla vicepresidenza della British purchasing commission, e tra i due nacque uno stretto rapporto professionale e di amicizia. B., convinto fautore dell’unificazione europea, collaborò a molte delle iniziative di Monnet, fu consulente della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) e divenne uno degli esponenti di punta della “sponda” americana sulla quale l’esponente francese poté contare per ottenere il sostegno dell’amministrazione americana per i progetti di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), soprattutto durante gli anni (1961-1966) in cui B. fu sottosegretario di Stato nelle amministrazioni Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) e Johnson (v. Johnson, Lyndon Baines). I legami di B. con il partito democratico si erano rafforzati all’inizio degli anni Cinquanta, a seguito dello stretto rapporto di amicizia che lo legava a Adlai Stevenson, con il quale aveva condiviso l’esercizio della professione di avvocato, e che sostenne nelle due campagne presidenziali del 1952 e del 1956. Insieme a Stevenson B. entrò nella ristretta cerchia dei collaboratori di Kennedy, che nel 1961 lo nominò sottosegretario di Stato agli Affari economici. Svolse un ruolo importante nel formulare la politica economica e commerciale degli Stati Uniti e fu uno degli architetti principali del Trade expansion act del 1962. Occupandosi di commercio estero, tariffe, integrazione europea, B. lavorò strettamente con il segretario di Stato Dean Rusk e con lo stesso presidente, ottenendo la promozione a sottosegretario di Stato. Nel periodo in cui ricoprì l’incarico B. partecipò all’inner circle di Kennedy durante la crisi di Cuba, prese parte alle riunioni del National security council, svolse il ruolo di mediatore durante le crisi di Cipro, Pakistan, Congo e della Repubblica Dominicana. Fortemente critico verso il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam, nel settembre 1966 B. dette le dimissioni dal dipartimento di Stato e entrò come senior partner presso la Banca di investimenti Lehman Brothers. Nominato dal Presidente Johnson, dal 26 giugno al 25 settembre 1968, ricoprì l’incarico di ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. Nel 1969, tornato alla vita privata rientrò presso Lehman Brothers, dove rimase fino al 1982. Negli anni dell’amministrazione Carter (v. Carter, James Earl) fu chiamato a collaborare alla definizione della politica americana nel Golfo Persico durante la crisi iraniana e all’elaborazione dei trattati tra Stati Uniti e Panama per regolamentare lo status di neutralità e il controllo del canale. Membro della Commissione trilaterale, B. è stato anche tra i membri fondatori del Bilderberg group, un club internazionale di leader europei e americani molto elitario e segreto che prendeva il nome da un hotel in Olanda dove si riunì la prima volta nel 1954. Scrittore molto prolifico, B. è autore oltre che di numerosi interventi e articoli su riviste di politica internazionale anche di alcuni importanti volumi sulla politica estera degli Stati Uniti. Tra i più importanti: The discipline of power (1968), Diplomacy for a crowded world: an American Foreign Policy (1976), The past has another pattern: memoirs (1982), The passionate attachment: American involvement with Israel, 1947 to the present (1992). Le sue carte personali sono depositate presso la John Fitzgerald Kennedy Presidential Library per il periodo 1961-1963 e la Princeton University Mudd Library per il periodo 1933-1994. Negli anni in cui svolse la sua attività diplomatica B. appoggiò l’obiettivo dell’unità europea, ritenendolo perfettamente conciliabile con quello di una maggior cooperazione transatlantica. Per unità dell’Europa egli intendeva soprattutto l’unità politica, la sola che avrebbe dato all’Europa la taglia e il peso necessari a assumere la sua parte di responsabilità nella difesa del “mondo libero”. Una maggiore unità europea era anche una sfida per gli Stati Uniti, la cui leadership nella Guerra fredda non doveva certo essere messa in discussione. L’approccio di B. tendeva da un lato a rafforzare il sistema economico multilaterale di scambi per evitare che la Comunità europea sviluppasse un sistema commerciale chiuso, col rischio di un isolamento economico, politico, dell’Europa, certamente contrario agli interessi statunitensi; dall’altro lato, nel campo della difesa, era la Forza nucleare multilaterale, una flotta dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) armata di missili Polaris, lo strumento per associare gli europei alla tecnologia nucleare americana lasciando agli Stati Uniti il diritto di porre il veto sull’uso delle armi atomiche di proprietà multilaterale. Un progetto che B. sostenne con tenacia, convinto che impedire lo sviluppo di deterrenti nazionali rappresentasse la strada più agevole verso una maggiore unità politica e un’efficace forza europea. La MLF (Multilateral force) non riuscì però a vincere le perplessità degli europei e le esitazioni all’interno della stessa amministrazione americana. La sintonia delle concezioni “euroatlantiche” di B. e Monnet, che causò anche aspre critiche a B. da parte del Senato americano, non fu sempre totale. In comune con Monnet B. ebbe comunque la convinzione che fosse fondamentale evitare che l’Europa ricadesse nelle disastrose rivalità nazionali del passato. Distinguendosi dai cold warriors vicini al Presidente, dal maggio 1964 al 1966 B. divenne uno strenuo oppositore della politica dell’amministrazione Johnson in Vietnam. Dopo l’incidente del Golfo del Tonchino, con ripetuti memoranda cercò di fermare l’escalation del coinvolgimento statunitense nel conflitto vietnamita e di mettere fine ai bombardamenti sul Vietnam del Nord. Il fatto che esprimesse queste critiche mentre pubblicamente difendeva la politica di Johnson, scelta compiuta da B. perché si riteneva legato dagli oneri e dalle restrizioni di una responsabilità pubblica, gli alienò le simpatie di alcuni uomini dell’amministrazione, in particolare del segretario alla Difesa McNamara. B. non auspicò solo di trovare una via d’uscita dalla guerra in Vietnam mediante una soluzione diplomatica alla guerra nel Sud, per perseguire la ricerca di una solida base sulla quale costruire un nuovo sistema di rapporti di forza in Estremo Oriente. Sottolineò anche la necessità per gli Stati Uniti di elaborare una dottrina di extrication, che fornisse un’opportuna via d’uscita da una situazione deteriorata e costituisse allo stesso tempo un’utile guida per evitare di ritrovarsi in un pantano senza fondo. Rimproverato per l’eccessivo eurocentrismo della sua visione di politica estera, accusato di elitismo e ostinazione, B. diede prova di indipendenza intellettuale e acutezza di giudizio sia nei momenti in cui ricoprì incarichi governativi che come analista e commentatore della politica internazionale. Esponente dell’America ufficiale, è tuttavia considerato una figura controversa perché non esitò a andare controcorrente pur di difendere le proprie idee. In particolare, fecero discutere le sue prese di posizione per la cessazione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, a favore dell’ingresso della Cina alle Nazioni Unite, la critica alla politica mediorientale degli Stati Uniti, ritenuta troppo imperniata sull’alleanza con Israele. Polemista brillante, capace di analisi penetranti delle questioni internazionali ma calato in un realismo privo di utopismo a-storico, B. era convinto che la tecnica della diplomazia non dovesse essere mai disgiunta dal riferimento a principi e valori che ne ispirassero l’azione.

Marinella Neri Gualdesi (2010)




Balladur, Édouard

B. (Smirne 1929) a si trasferisce nel 1934 con la famiglia a Marsiglia, dove compie gli studi elementari e superiori. Si iscrive alla Facoltà di giurisprudenza a Aix-en-Provence; in seguito, si reca a Parigi per frequentare l’Institut d’Etudes Politiques, presso il quale si diploma in diritto. Nel 1955, dopo aver compiuto il servizio militare in Algeria, entra all’École nationale d’administration (ENA), la scuola che forma gli alti funzionari francesi. Due anni dopo, uscito quinto dall’ENA, sceglie di entrare al Consiglio di Stato.

Nel 1964 B. entra nel gabinetto del primo ministro Georges Pompidou con l’incarico di seguire le questioni sociali, amministrative e giuridiche. Con Pompidou si instaura un rapporto di fiducia che porta B. a diventare uno dei suoi principali collaboratori per i successivi dieci anni. Nel 1967 partecipa alla stesura delle ordinanze sulla “partecipazione”, la sicurezza sociale e l’impiego. Nel maggio del 1968, assieme a Jacques Chirac, affianca Pompidou nei negoziati sociali di Grenelle. Quando, nel luglio di quell’anno, a Pompidou succede Maurice Couve de Murville, B. segue l’ex primo ministro nel suo “ritiro attivo”. Con l’elezione di Pompidou alla presidenza della Repubblica, nel giugno del 1969 il suo fedele collaboratore entra all’Eliseo come vicesegretario generale e dal 1973 come segretario generale. Nel 1974 la morte del Presidente allontana a lungo B. dalla politica: egli sceglie di ritornare al Consiglio di Stato e poi di lavorare nel privato.

B. si riavvicina alla politica negli anni Ottanta. Nel 1986 è nominato ministro di Stato, ministro dell’Economia, delle finanze e della privatizzazione nel governo appena formato dall’amico Chirac. Propone a questo titolo le prime ordinanze sulle privatizzazioni, che egli considera come uno dei suoi successi. Alle elezioni legislative del giugno 1988, che segnano al fine del governo Chirac, B. è eletto deputato (XII circoscrizione di Parigi), seggio che conquista anche alle successive elezioni del 1993. In questi anni di opposizione ai governi socialisti nelle file del Rassemblement pour la République (RPR), B. si dedica alla riflessione scrivendo libri, tra i quali Passion et longueur de temps (1989) e Dictionnaire de la riforme (1992).

In occasione del referendum sul Trattato di Maastricht nel 1992, mentre l’RPR si spacca sulla risposta da dare, B. si schiera, anche se in modo prudente, a favore del “sì”. Nella sua visione, la costruzione di un’Europa più unita deve essere «un mezzo al servizio degli interessi della Francia e della sua perennità». In questa prospettiva, il Trattato di Maastricht rafforza la Francia evitandole la «solitudine»; permette un’associazione che non significa la «perdita della sua identità», ma che al contrario «preserva la capacità di decisione della Francia negli ambiti vitali e mantiene la sua indipendenza». Il Trattato, che secondo B. necessita tuttavia di essere completato, in particolare al fine di assicurare «un controllo più stretto del parlamento francese sulle decisioni legislative e finanziarie della comunità», deve costituire il primo passo verso un’Europa a più velocità. Il nucleo duro di quest’Europa deve essere costituito dal tandem Francia-Germania, attorno al quale ruotano paesi con statuti differenti secondo l’ambito regolato in comune (questioni monetarie, sociali, militari, commerciali, finanziarie) (v. Balladour, 1992, pp. 112-113).

Nel marzo del 1993, all’indomani delle elezioni legislative che vedono una netta vittoria dei partiti di centrodestra, B. è nominato primo ministro dal capo dello Stato, il socialista François Mitterrand. Membro del RPR, B. è gradito anche alla maggior parte dell’Union pour la Démocratie française (UDF), il partito centrista della coalizione, in quanto vicino alla dottrina cristiano-democratica alla tedesca dell’economia sociale di mercato e in quanto riformista pragmatico. Dovendo coabitare con un Presidente della Repubblica di opposto colore politico, B. si trova tuttavia a dover fare i conti con le linee della politica estera di Mitterrand, che non ha alcuna intenzione di delegargli tale ambito decisionale. Infatti, fin dalla nomina del primo ministro, Mitterrand insiste sulla necessaria continuità nella politica estera della Francia, specificamente per quanto riguarda la realizzazione del Trattato di Maastricht, la parità tra franco e marco tedesco e la preservazione del Sistema monetario europeo.

In realtà, il primo ministro si trova in sintonia con il presidente sulla necessità di proseguire il processo innescato da Maastricht. Non a caso, il suo governo è composto in maggioranza da favorevoli al Trattato. Nel suo discorso di politica generale davanti ai deputati (8 aprile 1993), B. afferma che Francia e Germania, coppia dalla cui solidità dipende il futuro dell’Europa, devono condurre una politica di bilancio, monetaria e fiscale tale da evitare le divergenze nell’evoluzione delle economie. Per questo è necessario mantenere la parità tra il franco e il marco tedesco, «fondamento del sistema monetario europeo», e rendere autonoma la Banca di Francia, affinché essa possa dialogare con le altre Banche centrali (in particolare con la Bundesbank) in vista dell’unione monetaria. In ottemperanza alle sue promesse, nell’agosto del 1993 la Banca di Francia viene dotata di uno statuto che la rende indipendente. Più difficile, invece, è il compito di difendere il franco dagli attacchi speculativi che colpiscono alcune monete europee proprio nell’estate di quell’anno senza stravolgere il Sistema monetario europeo.

Nei due anni del suo governo (1993-1995), l’Unione europea (UE) deve affrontare due questioni principali, condizionate dallo sfaldamento del blocco sovietico: le nuove domande d’adesione di Austria, Finlandia, Svezia e Norvegia, i cui negoziati, iniziati già all’inizio del 1993, procedono rapidamente e si concludono con il trattato di allargamento firmato al Consiglio europeo di Corfù nel giugno del 1994; i conflitti regionali nei Balcani, in particolare la guerra che lacera la Bosnia-Erzegovina. Al Consiglio europeo di Copenaghen del 21 e 22 giugno 1993, B. propone una conferenza internazionale per la stabilizzazione delle frontiere dell’Europa centrale e orientale, che il governo francese ritiene costituisca una condizione all’adesione di nuovi stati all’UE (v. anche Criteri di adesione). La conferenza inaugurale sulla stabilità in Europa si tiene a Parigi nel maggio 1994 e, nel 1995, l’UE adotta il Patto di stabilità il cui obiettivo è incitare tali paesi a firmare trattati bilaterali per la regolamentazione delle dispute dei confini e sulla presenza di minoranze.

Nel frattempo, a livello politico B. può vantare il successo ottenuto nei difficili negoziati finali dell’Uruguay Round nell’ambito dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), affrontati nel corso del 1993. Il governo francese ottiene dai partner europei di non cedere sull’“eccezione culturale”, ossia di escludere la produzione culturale (cinematografica in particolare) dagli accordi di libero scambio, e negli accordi finali strappa alcune concessioni in materia di agricoltura, tali da temperare l’accordo di Blair House del novembre 1992 tra la Commissione europea e il governo americano.

Le elezioni per il Parlamento europeo del 1994 segnano una sconfitta per la lista comune che RPR e UDF hanno deciso di presentare uniti assumendo il rischio di ignorare le fratture interne rivelate dal dibattito sul referendum sul Trattato di Maastricht di due anni prima: la lista comunque ottiene solo il 25,6% dei voti e deve affrontare il successo delle liste della destra antifederalista (v. Federalismo) di Philippe de Villiers e di Jean-Marie Le Pen, che insieme ottengono quasi il 23%.

Il primo gennaio 1995 la Francia assume la presidenza dell’UE. Alla fine del 1994 B. traccia le linee guida di tale presidenza partendo dalla constatazione che «l’organizzazione dell’Europa è per la Francia un elemento supplementare di forza e influenza». A suo parere il governo «ha dimostrato che l’Europa può servire gli interessi della Francia, nel momento in cui la volontà politica di questa si esprime senza ambiguità». Nella prospettiva di un allargamento dei confini dell’UE, che non deve spingersi però oltre la Polonia e la Romania, il primo ministro francese auspica l’adozione di «formule elastiche» di cooperazione, in grado di «organizzare la diversità e gestire il gigantismo». Per evitare la diluizione dell’UE in una zona di libero scambio, l’Europa allargata necessita di una riforma istituzionale che preceda l’allargamento a Est. Tale riforma deve tenere conto del fatto che i paesi dell’Unione non possono progredire allo stesso ritmo in tutti gli ambiti e deve sviluppare pertanto istituzioni per un’Europa a più velocità, che permetta collaborazioni più strette in determinati ambiti. B. propone un nuovo Trattato dell’Eliseo, poiché a suo parere la nuova Europa dipende dalle risposte comuni che Francia e Germania daranno in tutti gli ambiti (politico, economico, diplomatico e militare). Tuttavia, egli non è disposto a seguire gli impulsi del governo tedesco che spera di riformare le istituzioni comunitarie in senso più federale e di sviluppare un nucleo europeo Francia-Germania-Benelux. Infine, lo sviluppo di una difesa comune dell’Unione europea, unico mezzo affinché essa pesi sulla scena internazionale, è fortemente auspicata dalla presidenza dell’unione europea francese (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa).

Tuttavia, il programma per l’Europa è presto messo in secondo piano dall’impegno di B. come candidato alle elezioni presidenziali dell’aprile di quell’anno. Al primo turno, però, è solo terzo con il 18,58 dei voti espressi e non passa al II turno. In settembre ritrova il seggio di deputato in un’elezione suppletiva. È rieletto all’Assemblea nazionale nel 1997 e ancora cinque anni dopo. Nel 2002 diventa presidente della Commissione per gli Affari esteri dell’Assemblea nazionale.

Ancora nel 2006 B. sostiene l’idea dei tre cerchi dell’Europa: il primo è il cerchio di diritto comune, corrispondente all’Unione europea; il secondo è il cerchio delle cooperazioni specializzate in seno all’UE; il terzo è il cerchio del partenariato con alcuni paesi vicini (v. Balladour, 2006) (v. anche Europa a “cerchi concentrici”). Nel 2007 viene nominato dal Presidente Nicolas Sarkozy presidente del Comitato di riflessione e di proposta sulla modernizzazione e sul riequilibrio delle istituzioni della V Repubblica.

Lucia Bonfreschi (2009)




Bangemann, Martin

B. (Wanzleben, Sassonia 1934) studia giurisprudenza a Tubinga e a Monaco e nel 1964, ottiene a Metzinger (Baden-Württemberg) l’abilitazione alla professione di avvocato. Il nome di B. diventa noto al grande pubblico in seguito al suo impegno come avvocato della sinistra giovanile e dei membri dell’Opposizione extraparlamentare (Außerparlamentarische Opposition, APO) nell’ambito dei processi contro i responsabili delle dimostrazioni della primavera del 1968.

B. dà inizio al suo impegno politico già durante gli studi tra le fila dell’Unione degli studenti liberali (Liberale Studenten Deutschlands, LSD) e, in seguito dei Giovani democratici/Sinistra giovanile (Jugend demokratische/Junge Linke, JD/JL). Nel 1963 entra a far parte della FDP (Freie demokratische Partei) e diventa in fretta portavoce della sua ala progressista. Nel 1969 è eletto vicepresidente regionale e prende parte alla commissione programmatica del partito dalla quale saranno elaborate le cosiddette “tesi di Friburgo” (momento di forte rinnovamento politico per il partito, dopo la sconfitta elettorale del 1969). Nel 1972 è il candidato sindaco della città di Mannheimer per la FDP, ma come previsto, senza successo. Nello stesso anno però è eletto al Bundestag e fa parte della Commissione esteri. Dal 1973 è membro del Parlamento europeo (lo sarà fino al 1984) in cui, dal 1975, è capogruppo parlamentare per il suo partito (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo). Nel gennaio 1974 B. è eletto presidente regionale del partito per il Baden-Württemberg e, qualche mese più tardi, in occasione del rinnovamento dei vertici della FDP, su proposta del presidente. Hans-Dietrich Genscher succede a Karl-Hermann Flach come segretario generale del partito. La sua strategia politica trova, però, immediatamente grande opposizione e, appena un anno dopo la sua elezione, rinuncia all’incarico. Nel gennaio 1977 B. è confermato alla presidenza regionale della FDP per il Baden-Württemberg, ma il risultato elettorale documenta una crescente opposizione alla sua politica anche a livello regionale e, già nel 1978, decide di presentare le proprie dimissioni. Suo successore sarà Jürgen Morlock.

In seguito B. si concentra sul suo mandato europeo, ma resta attivo anche al Bundestag, del cui presidium fa parte dal novembre 1978 (B. rinuncia definitivamente al suo incarico al Bundestag nel 1988).

In occasione delle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo, nel giugno del 1979, svolge un ruolo centrale nell’elezione a presidente dell’assemblea di Strasburgo della francese Simone Veil. La medesima tornata elettorale lo vede candidato di punta della FDP. Ottiene ottimi risultati: è eletto infatti capogruppo parlamentare della FDP e fa della sua fazione politica un gruppo molto attivo all’interno dell’istituzione europea (v. anche Istituzioni comunitarie).

Nel 1980 è nominato vicepresidente del Movimento europeo e acquista sempre maggiore autorità come relatore della commissione bilancio a Strasburgo. Nel 1982 B. assume l’incarico di presidente, per la FDP, della commissione esteri e di quella per la sicurezza.

In occasione delle elezioni europee del 1984 la FDP raccoglie solo il 4,8% dei consensi non riuscendo a superare lo sbarramento del 5%. In seguito a questa nuova sconfitta elettorale anche B. perde il suo mandato europeo e il presidente del partito Genscher annuncia le proprie dimissioni. Questi, a sorpresa, indica come suo possibile successore proprio B. che durante il congresso del luglio 1984 è eletto a grande maggioranza. Già un mese prima (giugno 1984), inoltre, B. ottiene il mandato di ministro dell’Economia, ma la sua politica non viene accolta con grande favore e gli scarsi risultati registrati nella risoluzione dei problemi più pressanti dell’economia tedesca fanno moltiplicare i dubbi sulla sua competenza in materia economica. Sebbene durante il congresso della FDP del maggio 1986 ottenga nuovamente a larga maggioranza il mandato di presidente di partito, la sua immagine politica all’interno dello stesso appare fortemente danneggiata. Nel 1988, infatti, viene sostituito da Otto Graf Lambsdorff. Nel dicembre dello stesso anno è costretto a rassegnare le sue dimissioni da ministro dell’Economia. Gli succederà Helmut Haussmann.

Nel gennaio 1989 B. riprende la sua carriera politica in seno alle istituzioni europee. Dal 1989 al 1993 è, infatti, uno dei sei vicepresidenti della Commissione europea, responsabile del mercato interno, e gioca un ruolo importante nell’ammissione della Germania dell’est all’interno Comunità economica europea. Nel 1992 perora un cambiamento del diritto d’asilo tedesco e l’elaborazione di un diritto d’asilo europeo. Dal 1993 al 1994 è membro della Commissione, responsabile per gli affari industriali, per l’informazione e le telecomunicazioni. A questo proposito, fondamentale è il ruolo da lui svolto nella liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni in Europa (v. anche Politica europea delle telecomunicazioni).

Nel 1999 B. sorprende l’allora presidente in carica della Commissione europea Jean Jaques Santer dimettendosi da tutti i suoi incarichi di commissario europeo, a causa di una sua imminente collaborazione in qualità di consulente presso la compagnia telefonica spagnola Telefónica. Le dimissioni sono accettate, ma le reazioni della commissione sono dure. Nonostante l’impegno dell’ex commissario a non fornire alcuna informazione che possa favorire la Telefónica creando così le condizioni per una concorrenza sleale sul mercato, si apre un caso di conflitto di interessi e viene istruito un procedimento alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) contro B. La testata giornalistica “Die Welt” riferisce che l’ex commissario europeo si insedierà nella sua nuova carica presso la società Telefónica solo dopo un periodo di aspettativa (luglio 2000), così come auspicato dalla Commissione.

Il 30 luglio 2001 un’agenzia riferisce della conferma di B. presso la società spagnola Telefónica.

Agata Marchetti (2009)