Instituto nacional de administração

L’ instituto nacional de administração (INA) è la principale istituzione pubblica a offrire corsi di formazione per dipendenti pubblici del Portogallo. Fondato nel 1983, l’INA ha sede nel Palazzo del Marchese di Pombal. Nel 2004, l’Istituto aveva un budget di 9,8 milioni di euro, di cui un terzo era costituito da fondi pubblici (dal budget governativo) e due terzi da risorse finanziarie proprie. Consiste in nove dipartimenti: Amministrazione pubblica, Sistemi e tecnologie informatici, Ricerca e sviluppo, Amministrazione generale, Affari europei, Cooperazione, Relazioni pubbliche, il Centro documentazione e il Centro informatico. Nel 2004 il personale era composto da 188 unità.

Le attività principali dell’INA riguardano la formazione di dipendenti statali e di altri gruppi afferenti alla pubblica amministrazione, la consulenza per questioni attinenti alla pubblica amministrazione e alla ricerca, attraverso la cooperazione con altre istituzioni sia nazionali sia internazionali. Il grosso delle attività riguarda chiaramente i corsi di formazione per impiegati statali. A questo riguardo l’INA si ispira ai principi di ammodernamento e di deburocratizzazione della pubblica amministrazione. Svolge un ruolo importante nel diffondere i principi di “buona pratica” e benchmarking. Fa quindi parte della rete globale europea e internazionale che si occupa dell’introduzione di nuovi elementi nella gestione pubblica, come ad esempio il controllo della qualità, i processi di valutazione e l’importanza crescente dell’e-government.

Nel 2004 l’INA ha organizzato 579 attività di formazione del personale, sessioni informative o dibattiti che hanno visto la partecipazione di 15.730 persone. Vi è stato, pertanto, un considerevole incremento rispetto all’anno precedente. L’INA organizza anche conferenze come il Congresso periodico sulla pubblica amministrazione e vari seminari su diversi argomenti d’interesse per i funzionari pubblici. In anni recenti, l’INA ha rafforzato i propri legami con altre istituzioni accademiche che hanno portato alla creazione di master (MA e MSc) online in sistemi informatici, commercio elettronico e informatica. La maggioranza dei funzionari pubblici si trova ai più alti gradi della pubblica amministrazione, sebbene anche i quadri intermedi siano ben rappresentati. Fino alla presidenza portoghese della prima metà dell’anno 2000, vi è stata una forte domanda di corsi in materia di affari europei, che in seguito ha iniziato a diminuire. Fin dagli anni Ottanta l’INA ha svolto un ruolo importante offrendo corsi di formazione al personale in materia di affari europei.

L’INA è anche impegnato in diversi programmi di formazione del personale nei paesi africani di lingua portoghese come ad esempio l’Angola, il Mozambico e São Tomé e Principe e nella creazione di istituzioni a Timor Est. Le pubblicazioni dell’INA sono di rilievo: vertono principalmente sui problemi dell’amministrazione pubblica portoghese e come tali sono strumenti importanti per studiare il paese. I diversi working papers frutto della ricerca di vari membri dello staff dell’Ina vengono talvolta pubblicati in inglese. Egualmente rilevante è il consolidato e autorevole giornale “Legislação”, che include articoli peer-reviewed sulle istituzioni portoghesi, sulla pubblica amministrazione e sui problemi della legislazione. Più di recente è stata lanciata la newsletter elettronica mensile net@ina, la quale informa il pubblico in merito alle attività dell’INA.

L’INA dispone anche di un’ottima biblioteca con 19.062 monografie e 359 pubblicazioni periodiche. Inoltre, il centro di documentazione europea collegato all’INA è un’importante fonte di informazioni per le questioni sull’Unione europea.

Le attività di ricerca dell’INA sono considerate fondamentali per la modernizzazione della pubblica amministrazione portoghese. Grazie alla crescente integrazione delle pubbliche amministrazioni nazionali all’interno dell’Unione europea, la ricerca portoghese sulla pubblica amministrazione è diventata più comparativa ed empirica. L’INA è stato all’avanguardia nel paese in queste trasformazioni nella cultura della ricerca.

José María Magone (2012)




Istituto di difesa nazionale

L’Instituto da defensa nacional – Istituto di difesa nazionale (IDN) è un think tank che dipende dal ministero della Difesa portoghese. Ciò nonostante, ha piena autonomia scientifica, pedagogica e amministrativa. Fu fondato nel 1976, e prese il posto del suo predecessore, l’Istituto di studi superiori per la difesa nazionale, creato nel dicembre 1967 e che iniziò l’attività nel giugno 1969. Quest’ultimo fu fondato durante la fase finale del regime autoritario e perciò, dopo il 1976, cambiò nome e scopo. Divenne un istituto volto in particolare a promuovere i valori democratici. La democratizzazione del paese, in seguito alla “Rivoluzione dei garofani” del 25 aprile 1974, è stata un forte catalizzatore nel trasformare l’immagine dell’esercito in Portogallo. L’IDN era ed è all’avanguardia riguardo ai processi di conversione civile e di internazionalizzazione delle forze armate e della sicurezza.

L’IDN si occupa della formazione di funzionari militari e civili in materia di difesa e di sicurezza. Nondimeno, svolge anche attività indirizzate a un pubblico più vasto. Ha la propria base a Lisbona, ma vi è altresì una succursale a Oporto. L’IDN viene da anni considerato uno dei più prestigiosi think tank che si occupano di difesa europea e di questioni riguardanti la politica di sicurezza. Organizza spesso conferenze e dibattiti nella propria sede per informare il pubblico.

Nel 1979 ha istituito il primo corso sulla difesa nazionale in Portogallo, controllato da un Consiglio di esperti esterni al fine di mantenere il programma di studio il più possibile aggiornato.

L’IDN si occupa sia d’istruzione sia di ricerca. Il Dipartimento di ricerca sulla difesa è la principale unità di coordinamento per gli studi sulla difesa e la sicurezza. L’IDN è anche impegnato nella raccolta di dati e nella conduzione di indagini su temi legati a sicurezza e difesa. L’IDN può vantare ottime credenziali quanto a pubblicazioni di progetti di ricerca. Probabilmente la pubblicazione più importante è il periodico “Nação e Defesa”. Varie altre pubblicazioni includono documentazione su aspetti della sicurezza portoghese e sulle politiche di difesa, conferenze tenutesi all’IDN e monografie.

Le attività di ricerca sono state gradualmente integrate in reti di ricerca composte da simili istituzioni di altri paesi. Fin dagli inizi la collaborazione con altre istituzioni all’interno di paesi della NATO è stata un’attività molto importante dell’IDN. Ciò comprende la partecipazione al Consorzio del partenariato per la pace delle Accademie di difesa e degli Istituti di studi sulla sicurezza. A partire dal 1998, l’IDN è particolarmente impegnato nel programma di colloqui dei C-4 che sono organizzati annualmente attraverso un sistema di rotazione concordato. I C-4 sono quattro istituti del bacino del Mediterraneo occidentale: l’IDN, il Centre des hautes études militaires (CHEM) con sede a Parigi, il Centro de estudios superiores de defensa (CESEDEN) con sede a Madrid e il Centro di alti studi per la difesa (CASD) di Roma. Un’altra importante rete internazionale è la Conferenza dei direttori dei Collegi di difesa ibero-americani. Essa comprende rappresentanti del Portogallo, della Spagna e dalla maggior parte dei paesi dell’America centrale e meridionale. A partire dal 1988, l’IDN organizza ogni anno seminari congiunti con il CESEDEN spagnolo riguardanti temi inerenti la difesa.

Una parte sostanziale delle attività consiste in corsi rivolti ai diversi gruppi della società civile quali giornalisti, imprenditori e giovani.

L’IDN ha una biblioteca con oltre 10.864 monografie e 170 periodici. La biblioteca è aperta al pubblico e normalmente viene utilizzata da studenti laureandi e laureati che lavorano su argomenti legati alla difesa e alla sicurezza. L’Istituto ha inoltre un programma di tirocinio per laureati i quali desiderino approfondire i propri interessi in tema di sicurezza e difesa.

José María Magone




Istituto di studi strategici e internazionali

L’Instituto de estudos estratégicos e internacionais – Istituto di studi strategici e internazionali (IEEI) è stato fondato in Portogallo nel 1980 come think tank privato no profit e indipendente per gli affari internazionali. Col tempo si è affermato come principale think tank per gli affari internazionali portoghese ottenendo finanziamenti pubblici e privati. Il primo direttore dell’Istituto è stato Alvaro de Vasconcelos, che univa alle abilità di eccellente accademico ben integrato nei maggiori circuiti di relazioni internazionali e di scienze politiche quelle di imprenditore.

La principale attività del centro è lo sviluppo di progetti sull’integrazione europea e sulle relazioni internazionali. La maggior parte del lavoro verte sul Partenariato euromediterraneo, sull’importanza crescente dell’America Latina per l’Unione europea e sugli sviluppi in Africa e Asia. A partire dalla metà degli anni Novanta, sono state organizzate varie conferenze e pubblicazioni sul partenariato euromediterraneo, che hanno reso l’Istituto uno dei più importanti centri specializzati in questo settore.

L’Istituto organizza anche conferenze periodiche del Forum euro-latino-americano. Gli argomenti principali riguardano la crescente cooperazione dell’UE con iniziative per l’integrazione di varie regioni dell’America Latina quali il progetto del MERCOSUR, la Comunità andina e la relazione con il Messico. Per l’Istituto riveste particolare importanza il progetto del MERCOSUR per via del ruolo importante svolto dal Brasile.

Dal 1981 l’Istituto ospita annualmente la Conferenza internazionale di Lisbona (Conferencia internacional de Lisboa, CIL) patrocinata dal comune di Lisbona e da altri sponsor. Nel 2004 la conferenza dal titolo “Il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Europa” si è occupata di temi concernenti la politica di buon vicinato dell’Unione europea. Vi hanno preso parte studiosi provenienti da altri paesi europei, dal Mediterraneo meridionale e dagli Stati Uniti. Precedenti conferenze hanno trattato altri importanti temi concernenti l’integrazione europea quali la crisi nei Balcani, l’impatto degli attacchi dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti e le questioni sulla sicurezza europea.

L’IEEI ha all’attivo diverse pubblicazioni oltre a working papers periodici. Pubblica una rivista intitolata “O Mundo em Portugues” (Il Mondo in Portoghese) con la quale informa il pubblico sulle sue attività, un prestigioso periodico dal nome “Estratégia” (Strategia) che propone articoli su aspetti inerenti alle relazioni internazionali nonché diverse edizioni speciali che trattano aspetti quali il contributo dell’esercito portoghese alla missione NATO in Bosnia-Herzegovina e più recentemente la Guinea.

L’IEEI è anche un importante centro di dibattito e dialogo grazie al programma di conferenze ed è ben collegato con i diversi dipartimenti di relazioni internazionali di tutto il paese. L’IEEI è diventato il centro di riferimento per i gruppi della società civile, ma anche per gli specialisti nazionali e internazionali. Ha sviluppato una vasta rete di contatti internazionali in Europa, Stati Uniti, Canada, America Latina e Oceania. Ciò ha costituito il punto di forza dell’Istituto, che è in grado di mantenere un alto profilo internazionale in un piccolo paese come il Portogallo.

L’Istituto possiede una biblioteca con circa 8000 volumi ed è centro di documentazione su tutti gli aspetti delle relazioni internazionali. Come tale è una fonte indispensabile di informazioni per gli studiosi.

José María Magone (2012)




Istituto per gli Affari pubblici

L’Istituto per gli Affari pubblici (Inštitut pre Verejne Otásky), conosciuto con il suo acronimo slovacco IVO, ha svolto un ruolo importante nel processo di adesione della Slovacchia (v. Criteri di adesione; Paesi candidati all’adesione). Le sue relazioni hanno fornito resoconti dettagliati a livello politico, economico e sociale negli ultimi dieci anni, sebbene siano state accusate di aver fornito un quadro parziale e distorto della Slovacchia.

L’IVO, fin dalla sua istituzione nel febbraio 1997, è stato un attivo think tank, con analisti che hanno redatto numerose relazioni e hanno spesso commentato gli sviluppi politici in Slovacchia. In realtà non passa un giorno senza che almeno uno dei due più importanti analisti, Grigorij Mesežnikov e Michal Vašečka, non commentino la politica interna in televisione o sulla stampa slovacche.

Secondo il sito internet dell’IVO, i principali obiettivi del think tank sono: Analizzare questioni sociali, politiche, economiche, di politica estera, legali, culturali e altri temi di pubblico interesse e renderne le conclusioni disponibili al pubblico; contribuire al dialogo fra esperti, avviare dibattiti su temi importanti e partecipare attivamente all’orientamento del dibattito politico; elaborare le opinioni di esperti su importanti questioni, offrire consulenza a organizzazioni e individui nelle aree che ricadono nella sfera di competenza dell’Istituto; organizzare seminari, conferenze, forum di discussione, tavole rotonde interdisciplinari, workshop e corsi di formazione; stimolare un approccio attivo dei cittadini verso questioni di pubblico interesse; fornire una piattaforma di esperti in vari settori della politica pubblica e creare le condizioni per una efficace e proficua cooperazione tra di loro; portare avanti attività editoriali e contribuire ad aumentare le potenzialità di giovani esperti.

Il programma di ricerca dell’IVO è articolato intorno a sei filoni (parallelamente a un programma sull’integrazione europea e le relazioni transatlantiche, vi sono programmi di ricerca dedicati alla politica interna, ai rapporti globali, alle minoranze etniche, alla società civile, all’opinione pubblica e alla cultura politica). L’IVO organizza periodicamente conferenze e seminari per accademici, policy-maker e per il corpo diplomatico.

L’influenza dell’IVO sul processo di adesione deriva principalmente dalla pubblicazione dei suoi annuali “Global reports”, editi in inglese e in slovacco. Redatte dai più importanti esperti nei propri campi di studio, provenienti da ambiti accademici, da ONG e think tank, le versioni in lingua inglese sono state di grande aiuto per diplomatici, accademici e uomini d’affari, fornendo ai lettori un chiaro resoconto sui più importanti sviluppi occorsi nel paese l’anno precedente.

Questi resoconti dettagliati, tuttavia, non sono stati ben accolti da tutti i politici della Slovacchia. L’IVO era stato istituito specificatamente per promuovere i valori di una società aperta e di una cultura politica democratica nell’ambito della politica pubblica e del policy-making. A tal fine, molti tra i più importanti analisti avevano aspramente criticato le amministrazioni Mečiar (tra gli altri, v. Bútora, Skladony, 1997). Questa aperta presa di posizione politica provocò le ire dell’entourage di Mečiar. Uno dei suoi fedeli, Roman Hofbauer, si scagliò contro ciò che considerava menzogne veicolate dall’IVO, criticando il think tank per aver tracciato un quadro così negativo della politica ai tempi di Mečiar (v. Hofbauer, 1998, pp. 109-112).

Vi è un importante fondo di verità nell’attacco appassionato di Hofbauer. L’IVO ai tempi di Mečiar era politicamente impegnato. In realtà molti tra coloro che avevano contribuito ai “Global reports” e ad altre pubblicazioni dell’IVO prodotte durante quegli anni, come Martin Bútora, Ondrej Dostál, Miroslav Kollár, Marián Leško, Grigorij Mesežnikov e František Šebej erano critici verso il governo, e alcuni di loro – come Šebej – erano impegnati in politica. L’elemento significativo per l’immagine della Slovacchia, era dato dal fatto che gli studiosi stranieri consideravano come primo punto di contatto gli uffici dell’IVO a Bratislava, dove potevano ascoltare gli analisti – capaci ed eloquenti – dipingere un quadro oscuro degli anni di Mečiar. Sarebbe scorretto ritenere che questi analisti si prefiggessero deliberatamente di screditare il nome della Slovacchia, e non pensare che, al contrario, ciò che li animava fosse un vero interesse per lo sviluppo del proprio paese (v. Henderson, 2000). Ciò nonostante, essi contribuirono a far diventare la Slovacchia la “pecora nera dell’Europa centrale” (v. Haughton, 2001, p. 745).

Tim Haughton (2006)




Istituto privato di economia dell’Accademia delle scienze di Lettonia

L’Istituto privato di economia dell’Accademia lettone delle Scienze, fondato nel 1997 come organizzazione no profit, è uno dei più importanti think tank che si occupano degli aspetti economici dell’integrazione della Lettonia nell’Unione europea. Nel 2001 si è fuso con l’Istituto statale di economia dell’Accademia lettone delle Scienze, in seguito alla privatizzazione di quest’ultima, e ne ha quindi assunto il nome, nonché i diritti e i doveri. L’Istituto è di proprietà dell’Istituto privato di Studi superiori di business Turība, dell’Accademia lettone delle Scienze, della Latvijas Finieris”, industria specializzata nella lavorazione del legno, degli Istituti di ricerca sociale Baltijas Datu Nams, dell’Istituto baltico di scienze sociali e di azionisti privati, tra cui dipendenti dell’Istituto stesso.

Storia

Le origini dell’Istituto risalgono al 1946, quando fu fondato all’interno dell’allora Accademia delle scienze della Repubblica Socialista Sovietica di Lettonia, per promuovere lo sviluppo dell’economia sovietica nella repubblica. A causa della loro “libertà di pensiero”, secondo i canoni sovietici, alcuni membri furono criticati e perseguitati dalle autorità. Dopo la morte di Stalin e durante il disgelo dell’era crusceviana nell’Unione Sovietica, i più importanti ricercatori dell’Istituto sostennero la necessità di riforme e avanzarono proposte su come sviluppare l’economia lettone, aumentando in tal modo la loro autonomia. Essi erano dei cosiddetti liberali o nazional-comunisti e iniziarono a esercitare una notevole influenza sulla leadership della Repubblica, ricevendo anche l’ampio sostegno della popolazione lettone, che si augurava che queste idee fossero solo l’inizio di cambiamenti molto più radicali. Durante il riflusso neostalinista, il direttore dell’Istituto, Pauls Dzerve e molti altri dirigenti furono rimossi dai loro incarichi; fu persino proibito citarne i nomi in qualunque pubblicazione sovietica e le loro attività furono fortemente limitate fino alla fine degli anni Ottanta, quando la perestrojka aprì nuove prospettive. La maggior parte del personale dell’Istituto sostenne attivamente il recupero dell’Indipendenza della Lettonia e il rilancio di riforme economiche e politiche volte a ristabilire la democrazia e l’economia di mercato.

Sin dai primi anni Novanta l’Istituto ha assunto posizioni forti su molte questioni trovandosi spesso in disaccordo con gli organi legislativo ed esecutivo dello Stato. Gli esperti dell’Istituto hanno spesso avanzato argomentazioni critiche contro le posizioni del governo, che sono state accolte successivamente dai decision-maker. Di conseguenza, l’Istituto ha acquisito una grande reputazione nella società e allo stesso tempo è stato spesso considerato un ostacolo da chi deteneva il potere. E nella privatizzazione dell’Istituto si rifletterono tali rapporti.

Il personale di ricerca

Attualmente l’Istituto è composto da 27 membri, 24 dei quali sono ricercatori. Di questi, 9 hanno alti titoli accademici in campo scientifico (dottorati o qualifiche postdottorato), 16 sono donne, 14 delle quali ricercatrici. Tutti i ricercatori parlano correntemente lettone, inglese e russo e alcuni conoscono anche il tedesco e il francese.

Dal 1992 la direttrice dell’Istituto è a Raita Karnīte, membro dell’Accademia delle scienze di Lettonia, capo progetto e capo ricercatore di numerosi progetti nazionali e internazionali riguardanti lo sviluppo macroeconomico, lo sviluppo regionale, lo sviluppo sociale (la riforma pensionistica), le finanze pubbliche (le finanze del governo locale), lo sviluppo settoriale (industria del metallo, del turismo, della cultura, delle ferrovie e altre) e gli aspetti economici dell’integrazione nell’UE (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Raita Karnīte è considerata l’immagine dell’Istituto e gode di una solida reputazione di accademica indipendente e lungimirante, e allo stesso tempo le sue interviste trasmesse in televisione o alla radio, oppure pubblicate su giornali e riviste, suscitano un grande interesse da parte del pubblico. Per quanto riguarda gli altri ricercatori, Pārsla Eglīte e il Pēteris Guļans sono noti in Lettonia come esperti molto competenti nelle loro rispettive aree di interesse. Questa è una delle ragioni principali per cui istituzioni statali richiedono spesso la consulenza dell’Istituto per valutare problematiche e proporre soluzioni ai decision-maker.

Obiettivi

L’Istituto conduce ricerche su numerosi aspetti dell’economia, quali lo sviluppo macroeconomico, lo sviluppo regionale, lo sviluppo settoriale (industria, agricoltura, ferrovie, telecomunicazioni e IT, istruzione, cultura, turismo), lo sviluppo sociale (riforma del sistema previdenziale), le questioni demografiche (le tendenze della popolazione, il mercato del lavoro), le privatizzazioni, le finanze pubbliche e le questioni connesse all’integrazione nell’Unione europea. Un importante settore della ricerca è lo sviluppo della politica nazionale in campo sociale e demografico: monitorare le condizioni per la crescita demografica e il miglioramento della qualità di vita della popolazione, condurre studi sociologici sull’atteggiamento delle donne verso la famiglia, l’attività lavorativa, l’istruzione e la salute.

L’Istituto riceve sovvenzioni pubbliche, partecipa a programmi accademici di ricerca finanziati dallo Stato e conduce ricerche applicate per conto di sei ministeri e organismi statali lettoni. I capi ricercatori partecipano ai consigli, ai gruppi di lavoro e alle commissioni governative e gli esperti dell’Istituto sono spesso contattati per fornire valutazioni indipendenti in merito agli avvenimenti in corso da parte di media locali e internazionali.

L’Istituto coopera attualmente con sei istituti di ricerca e università lettoni al progetto finanziato dallo Stato “L’integrazione della Lettonia nell’Unione europea”, avvalendosi anche della collaborazione di colleghi dei paesi baltici, dei paesi occidentali e della Russia. Il ruolo dell’Istituto è particolarmente rilevante nell’ambito dello sviluppo di molti dei sottoprogrammi del progetto, tra cui “Gli aspetti macroeconomici dell’unificazione europea (2002-2005)” e “L’integrazione del settore finanziario lettone nel mercato finanziario dell’Unione europea (2002-2005)”. Un altro progetto finanziato dallo Stato è “L’impatto dell’integrazione europea sullo sviluppo dei settori knowledge-intensive in Lettonia (proposte per la politica di Stato)”.

Dal 1993 anche il Centro di ricerca e informazione femminile della Lettonia ha collaborato con l’Istituto. Dal 1994 l’Istituto ha partecipato a più di 20 progetti di ricerca internazionali, otto dei quali erano progetti PHARE ACE della Comunità europea. Nell’ambito del V programma quadro, l’Istituto ha preso parte al progetto “La situazione di tre discipline delle scienze sociali nei paesi candidati” in qualità di subappaltatore ed è attualmente impegnato su “I fattori e l’impatto sulla società dell’informazione: un’analisi prospettiva nei paesi candidati”.

L’Istituto si è avvalso di cooperazioni durature con l’International center for economic growth (ICEG) – USA, inoltre fa parte del network degli istituti di ricerca della Banca mondiale e della Fondazione Bertelsmann “Verso l’integrazione nell’Unione europea”, partecipa al progetto “Countdown”, condotto dall’Istituto di Vienna per gli Studi economici internazionali e nel 2003 è stato scelto come centro nazionale dell’Osservatorio europeo delle relazioni industriali.

Richard Charles Mole (2004)




La Costituzione danese e la questione della delega di sovranità

In quale misura la Costituzione danese influenza e limita il policy-making danese sull’UE? L’attuale Costituzione danese fu adottata nel 1953, e uno degli emendamenti riguardava la questione della sovranità danese. Secondo l’art. 20 dell’Atto costituzionale, i poteri spettanti alle autorità danesi possono essere trasferiti per legge o delegati ad autorità internazionali. Come si legge nel testo (art. 20, paragrafi 1 e 2): «I poteri conferiti alle autorità del Regno con questo Atto costituzionale possono, nella misura in cui è prevista dallo statuto, essere delegati ad autorità internazionali istituite di comune accordo insieme con altri Stati per la tutela del principio di legalità e la cooperazione internazionali.

Per la promulgazione di una legge in materia di cui sopra, è richiesta una maggioranza di cinque sesti dei membri del Folketing. Se non è raggiunta tale maggioranza, ma è ottenuta la maggioranza richiesta per l’approvazione di una proposta di legge ordinaria, e se il governo la sostiene, la proposta verrà sottoposta all’elettorato per l’approvazione o il rifiuto, in conformità con le regole referendarie stabilite nell’art. 42».

L’art. 42 della Costituzione danese tratta, in generale, dell’istituto del referendum legislativo facoltativo, secondo il quale un terzo dei membri del Parlamento (il Folketing unicamerale) può richiedere un referendum riguardante leggi già approvate (con alcune eccezioni). Nel referendum i voti verranno assegnati a favore o contro la legge. Per abrogare la legge, la maggioranza degli elettori, e non meno del 30% di tutti gli aventi diritto, deve votare contro la legge.

Perciò l’Atto costituzionale pone condizioni rigorose, sebbene in qualche modo contraddittorie, su una legge che verte sulla delega della sovranità danese a organizzazioni internazionali. Da un lato, ciò può avvenire soltanto per legge, si devono indicare con precisione i poteri, e viene richiesta una maggioranza molto ampia in Parlamento. Dall’altro, tutti i tipi di potere sono passibili di delega, e se la maggioranza parlamentare prevista non può essere raggiunta, sarà sufficiente che non vi sia una larga maggioranza di votanti contro il trasferimento di poteri.

In origine, l’emendamento fu introdotto principalmente per facilitare la partecipazione danese in organizzazioni internazionali quali la CECA, la NATO e l’OECE, ma in pratica è stato usato principalmente in relazione alla Comunità europea e all’Unione europea.

Politicamente, si è discusso a più riprese se l’adesione della Danimarca alla CEE/UE potesse far riferimento a tale articolo o se tale adesione richiedesse un emendamento costituzionale. Dal momento che i partiti della sinistra danese avevano insistito sul fatto che fosse necessario un emendamento costituzionale, il professore di diritto costituzionale e internazionale Max Sørensen, che nel 1953 aveva preso l’iniziativa di introdurre l’articolo, sostenne che l’art. 20 poteva essere usato in relazione alla partecipazione danese nella CEE/UE. Alcuni costituzionalisti hanno affermato fin dal 1950 che l’art. 20 non indicava criteri qualitativi né quantitativi sulla delega dei poteri. Pertanto possono essere delegati poteri importanti e ampi. Il disaccordo principale in tale dibattito ha riguardato l’interpretazione della formula «nella misura in cui è previsto dallo statuto» che, tradotta dal danese in un modo diverso, si può interpretare come “in misura specifica”, e che nel dibattito pubblico danese viene spesso interpretata come “in limitata misura”. Sussiste d’altra parte un consenso generale sul fatto che, secondo tale articolo, alle organizzazioni internazionali non può essere accordata l’autorità di decidere circa i propri poteri.

Tuttavia, la questione è se si possa accumulare un certo numero di specifiche deleghe al punto da comprendere, ad esempio, tutti i poteri legislativi ed esecutivi. Una questione correlata concerne l’applicazione dell’art. 308 (ex 235 del Trattato di Roma) nel Trattato CEE, secondo il quale alcune regole ad hoc possono essere decise dal Consiglio dei ministri, con Voto all’unanimità, qualora sia necessario un atto della Comunità in assenza di uno specifico regolamento del Trattato, per conseguire i fini concordati della Comunità stessa.

In una storica sentenza emessa dalla Corte suprema danese nel 1998, venne stabilito che la partecipazione all’UE non violava la Costituzionalità danese. Fu inoltre stabilito che l’articolo 308 del Trattato CEE era così vago da poter essere contemplato nell’art. 20 della Costituzione danese. Al tempo stesso fu sottolineato, con la sentenza della Corte suprema, che né una singola delega né l’accumulo di più deleghe potevano prescindere dal fatto che la Danimarca continuava a essere uno Stato sovrano. Modificare lo status della Danimarca in quanto Stato sovrano richiede un emendamento costituzionale, secondo la procedura delineata nell’art. 88 della Costituzione; ma la reale linea di confine tra il trasferimento dei diritti di sovranità secondo l’art. 20 o l’art. 88 deve essere decisa, a parere della Corte suprema danese, principalmente a livello politico (v. anche Corti costituzionali e giurisprudenza).

Seguendo questa interpretazione, la Costituzione danese pone soltanto limiti molto vaghi e flessibili per quanto riguarda la politica danese in ambito UE. Pertanto è davvero improbabile che la Corte suprema respinga una delega di poteri decisa dal Parlamento danese o dagli elettori danesi in un referendum, secondo l’art. 20, con la motivazione che i poteri delegati siano stati definiti in maniera troppo vaga o che risultino troppo estesi.

Palle Svensson (2012)




La “dimensione nordica”

Il concetto di “dimensione nordica” apparve per la prima volta durante i negoziati di adesione della Finlandia all’Unione europea (UE). Fu usato come riferimento generale rispetto alla nuova dimensione geografica che l’Unione avrebbe acquisito tramite i nuovi Stati membri del nord e per aumentare la conoscenza da parte dell’Unione delle tipiche situazioni nordeuropee e dei loro rispettivi valori.

La “dimensione nordica”, come iniziativa politica, venne lanciata dal primo ministro finlandese Paavo Lipponen nell’autunno 1997. Secondo Lipponen, l’Unione avrebbe dovuto tener conto di una dimensione nordica nelle sue politiche. In pratica l’Unione avrebbe dovuto prestare più attenzione al Nord nello sviluppo delle proprie politiche e nella definizione dei propri interessi nella regione. Nel coordinare e rendere le proprie attività più efficienti, avrebbe anche potuto svolgere un ruolo più importante nell’area, incluse le relazioni con la Russia. Oltre a obiettivi generali come la promozione della stabilità e del benessere, fu redatto un elenco di aree specifiche d’intervento, che comprendevano anche la tutela ambientale, la previdenza sociale, la prevenzione delle malattie infettive, lo sviluppo di buone pratiche amministrative, la lotta contro il crimine organizzato e una società dell’informazione nordica. La “dimensione nordica” era destinata a ricoprire un’ampia area geografica che si sarebbe estesa dai litorali meridionali del Mar Baltico a quelli artici, e dall’Islanda e Groenlandia alla Russia nord occidentale. In seguito venne anche aggiunto un elemento transatlantico, sotto forma di cooperazione con Stati Uniti e Canada, in particolare riguardo alle questioni artiche.

Dietro tale iniziativa si potevano distinguere diversi fattori importanti. La Finlandia aveva aderito all’Unione solo di recente (1995). L’adesione aveva implicato un rapido riorientamento della politica estera finlandese che fino a quel momento aveva impedito la partecipazione all’integrazione nell’Europa occidentale (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Il cambiamento fu rapido anche per la velocità con cui vennero condotti i negoziati. A livello interno esisteva la necessità di trovare argomenti utili per sostenere in qualche modo il concetto di una continuità nella politica estera finlandese. Al contempo era anche necessario dimostrare lealtà verso l’Unione e le sue politiche estere, anche perché alcuni dei vecchi Stati membri ritenevano potenzialmente problematico il passato di neutralità della Finlandia. Le iniziative intraprese nell’ambito della politica estera furono, quindi, per la Finlandia un’attestazione di lealtà. Per quanto concerne la continuità, era logico che la Finlandia concentrasse il suo impegno nelle relazioni con i paesi più vicini, in particolare con la Russia. Uno degli obiettivi principali era quello di influenzare le relazioni dell’UE con la Russia.

L’iniziativa prese a funzionare rapidamente nell’ingranaggio dell’Unione europea: il summit di Lussemburgo nel dicembre 1997 richiese alla Commissione di presentare una relazione interinale sull’argomento entro il 1998, e il primo Piano d’azione triennale riguardante la dimensione nordica fu adottato nel giugno 2000. La Finlandia promosse attivamente l’idea sia fra i paesi dell’Unione che tra i paesi vicini che non ne facevano parte. Il compito non fu difficile poiché l’iniziativa non prevedeva la creazione di nuove istituzioni o nuovi finanziamenti, e pertanto non richiedeva un impegno finanziario. L’iniziativa prometteva una maggiore efficienza attraverso un duplice miglioramento del modo di occuparsi della regione: un coordinamento più efficace degli strumenti finanziari esistenti, con i quali l’UE finanziava le proprie iniziative nella regione, e un coordinamento tra l’UE e gli altri numerosi organismi regionali: i Consigli nordico e baltico e i Consigli dei ministri, il Consiglio degli Stati del Mar Baltico, il Consiglio artico, il Consiglio euro-artico di Barents, per citarne solo alcuni.

L’iniziativa della “dimensione nordica”, presentata dalla Finlandia, fu esposta in modo da farne risaltare il valore per l’Unione nella sua totalità, in opposizione a interessi puramente nazionali o regionali. Ciò si rifletté anche nel modo in cui la Finlandia gestì la sua prima presidenza verso la fine del 1999. L’idea era che la Finlandia non avrebbe avuto bisogno di sottolineare troppo i propri interessi – quali quelli per la “dimensione nordica” – nel corso della propria presidenza, qualora fosse riuscita a inserire l’iniziativa nel programma dell’UE prima di tale periodo; cosa che avvenne. In definitiva, durante il mandato presidenziale, l’iniziativa probabilmente non ebbe ulteriori sviluppi. Il vertice dei ministri degli Esteri organizzato su questo tema fu boicottato dai ministri degli Esteri che protestavano contro gli attacchi russi in Cecenia.

L’iniziativa della “dimensione nordica” conteneva un’importante innovazione politica: ai paesi della regione non appartenenti all’Unione europea, quali Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Norvegia e Islanda, venne offerto lo status di paese partner. I partner furono invitati a contribuire al processo di formulazione della politica dell’UE. In tal modo venne data loro la possibilità di intervenire nelle politiche attuate dall’UE nei loro confronti, pur senza esserne membri.

Gli altri membri nordici dell’Unione europea, Svezia e Danimarca, non furono coinvolti nella fase di presentazione dell’iniziativa (dato, questo, che la scelta del termine “settentrionale” anziché “nordico” potrebbe rispecchiare) ma si rivelarono più tardi di fondamentale importanza per l’ulteriore sviluppo dell’iniziativa stessa. Entrambi i paesi intuirono che essa sarebbe progredita durante i loro rispettivi mandati presidenziali del 2001 e 2002.

Il secondo Piano d’azione in merito alla dimensione nordica per gli anni 2004-2006, adottato dalla Commissione nel giugno 2003, diede all’iniziativa la funzione di fornire un quadro comune per la promozione del dialogo sulle politiche e della concreta cooperazione. I settori prioritari erano quelli economico, commerciale, delle infrastrutture, delle risorse umane, dell’ambiente, della cooperazione transfrontaliera, della giustizia e degli affari interni.

Vi era bisogno di rendere l’iniziativa “dimensione nordica” conforme ad altre iniziative dell’UE nella regione, specialmente quelle intraprese con la Russia (l’Accordo di partenariato e di cooperazione, la strategia comune dell’Unione verso la Russia) e con il processo di Allargamento che comprendeva gli stati Baltici e la Polonia. L’obiettivo era quello di far sì che la “dimensione nordica” fornisse un “valore aggiunto” a tali iniziative. Allo stesso tempo, la sua natura specifica era probabilmente divenuta meno chiara.

Sebbene possa risultare difficile individuare i risultati concreti della “dimensione nordica”, in parte a causa della mancanza di un bilancio specifico, l’iniziativa ha svolto un ruolo “ombrello” per attività ancora in corso nella regione e intraprese da molti e differenti attori, che spaziano da altre organizzazioni internazionali fino a imprese private e organizzazioni non governative. Il Partenariato ambientale della dimensione nordica è stato uno dei risultati concreti: esso include un gruppo di finanziamento al quale partecipano sia gli Stati coinvolti che istituti finanziari internazionali. In questo contesto, la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha cominciato a finanziare progetti indirizzati all’ambiente in Russia. È stato inoltre programmato un partenariato simile per le questioni sociali e sanitarie.

Con l’adesione all’UE di Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, l’obiettivo della “dimensione nordica” è cambiato nuovamente (v. anche Paesi candidati all’adesione). Sono stati compiuti tentativi per sostituirla con una “dimensione dell’Est” su proposta della Polonia. Tuttavia sono soprattutto le nuove politiche di vicinato dell’UE, “Europa allargata”, a intaccarne il ruolo. Resta ancora da vedere fino a che punto giungerà tale erosione, ma specialmente per quanto concerne la Russia, la “dimensione nordica” potrà continuare a fornire un quadro utile per la cooperazione.

Hanna Ojanen (2009)




Ministero degli Affari esteri

Il ministero degli Affari esteri (Ministério dos negócios estrangeiros) è l’anello di congiunzione tra il governo portoghese e l’Unione europea. Si tratta di un ministero con una forte tradizione storica che affonda le sue radici nei secoli XV e XVI, allorché il Portogallo era una superpotenza. Dopo il 1974 furono attuate grandi riforme amministrative al fine di avviare un processo democratico strutturale all’interno del ministero dopo quasi cinque decenni di autoritarismo. La prima importante riforma venne introdotta poco prima dell’adesione del Portogallo alla Comunità europea sotto la leadership del ministro degli Affari esteri Jaime Gama nel 1984 e fu completata soltanto alla fine del 1985 dal suo successore. La riforma era principalmente volta ad adeguare le strutture del ministero degli Affari esteri all’imminente adesione alle Comunità. La seconda maggiore riforma fu intrapresa dal ministro Manuel Durão Barroso nel 1994, che poneva l’accento sulla decentralizzazione dei servizi e su un miglior coordinamento. In questo senso vennero rafforzati vari meccanismi di coordinamento interdipartimentale. In relazione con l’UE, il ministero degli Affari esteri ospita le principali strutture di coordinamento delle politiche del Portogallo nell’Unione europea.

Il sistema di coordinamento nazionale portoghese è uno dei più semplici ed efficienti dell’Unione europea grazie all’alto livello di centralizzazione amministrativa.

Il Portogallo, insieme alla Grecia, è tuttora fra i paesi più centralizzati in seno all’UE. In questo senso, il coordinamento delle politiche è stato materia esclusiva dell’amministrazione pubblica che si concentra nelle due città principali, Lisbona e Oporto. Circa l’80% dei servizi fa capo a queste due città. Tale retroterra è utile per comprendere il fatto che il processo di decision-making non coinvolge quasi nessun attore esterno all’amministrazione centrale in merito alle questioni dell’UE.

Il centro della politica nazionale portoghese è la Direzione generale per gli Affari europei (Direcção general de assuntos comunitários, DGAC). Questa struttura, che svolge compiti di coordinamento delle politiche, esiste dal 1985, quindi dall’anno prima che il Portogallo entrasse nella Comunità europea. Il modello venne adottato in seguito a un attento studio di altri modelli di coordinamento delle politiche. I portoghesi adottarono il più comune, cioè quello impiegato soprattutto dai piccoli Stati come Paesi Bassi, Danimarca, Lussemburgo e Belgio.

Storicamente, gli albori di un sistema di coordinamento nazionale delle politiche si collocano dopo il 1977, quando il governo portoghese fece domanda di entrare nella Comunità europea. Due anni più tardi venne creato un apposito ufficio amministrativo dedicato agli affari europei, il Segretariato per l’integrazione europea. Fino al 1985 il governo portoghese non era sicuro su come organizzare i meccanismi di coordinamento delle politiche relativi ai negoziati con la Comunità europea. In un dato momento, il Segretariato fu assegnato sia al Consiglio dei ministri sia al ministero delle Finanze. Sebbene il governo portoghese fosse instabile tra il 1976 e il 1985, il Segretariato riuscì a guadagnarsi una buona reputazione quale importante struttura tecnocratica volta a portare il processo di integrazione del Portogallo nella Comunità europea a una conclusione positiva.

Fra il 1985 e il 1992, il nuovo DGAC spese molte energie per creare una struttura che avrebbe coordinato con successo il contributo dei differenti ministeri nel processo di decision-making. Decisiva rispetto a questo processo fu la scelta di affidare il monopolio del decision-making al Comitato interministeriale degli Affari europei (Comité interministerial de assuntos comunitários, CIAC), che comprendeva rappresentanti di tutti i ministeri e anche delle regioni autonome di Madeira e delle Azzorre. Fino alla fine degli anni Novanta, qualsiasi questione riguardante gli accordi di Schengen era gestita da un coordinatore nazionale specializzato in materia, ma presto l’acquis di Schengen sarebbe anche stato integrato nel processo decisionale del CIAC. Il DGAC sarebbe divenuta la principale struttura amministrativa di supporto del CIAC, benché fosse possibile che funzionari provenienti da altri ministeri venissero distaccati presso questa medesima struttura.

Il decision-making avrebbe anche ottenuto il supporto della Rappresentanza permanente (Representação èermanente, REPER) a Bruxelles, che consiste di circa 50 funzionari inviati da tutti i ministeri. Questo gruppo è composto da persone con eccellenti competenze linguistiche e professionali. Questo dimostra che il Portogallo ha inviato i suoi migliori funzionari sul fronte del coordinamento delle politiche. La liaison settimanale con il CIAC può condurre a decisioni che sono state proposte da questi funzionari al REPER, rendendole indispensabili ai fini della qualità generale del decision-making nazionale e di coordinamento delle politiche.

Negli ultimi vent’anni il DGAC ha conosciuto una notevole espansione: circa 165 membri lavorano al suo interno, organizzati per dipartimenti. Nel 2002 vi erano 12 dipartimenti: istituzioni comunitarie; relazioni intraeuropee; relazioni esterne regionali; relazioni bilaterali; relazioni multilaterali esterne; dipartimento per gli affari giuridici; questioni economiche e finanziarie; agricoltura e pesca; mercato interno; questioni scientifiche, tecnologiche e industriali; informazione, educazione e documentazione, e infine Giustizia e Interni. Il Segretario di Stato per gli Affari europei, che può essere considerato un viceministro che fa capo al ministro per gli Affari esteri, è responsabile del DGAC. È il segretario di Stato che dà forma al dinamismo del DGAC. Probabilmente i due più prestigiosi segretari di Stato furono Vitor Martins (1985-1995), che ebbe un ruolo importante nel costruire le strutture e la cultura del meccanismo di coordinamento delle politiche portoghese e Francisco da Seixas Costa (1995-2001), il quale fu animato dell’ambizione nazionale di far del Portogallo non un paese fra i tanti, ma un paese guida in talune circostanze, come durante lo straordinario Consiglio europeo di Lisbona nel marzo del 2000.

Uno dei principali problemi è l’incapacità di coordinare appropriatamente parlamento, gruppi di interesse e società civile in generale. Sebbene esista una Commissione per gli Affari europei ed esteri nel Parlamento portoghese, la quale valuta la politica UE e le decisioni del governo, questa non possiede sufficienti risorse per poter contestare i rapporti molto superficiali del governo. La valutazione annuale del rapporto è puntualmente accompagnata da forti critiche da parte della Commissione. Vi è stato un tentativo di includere la popolazione nel processo di consultazione per il nuovo Trattato costituzionale europeo, ma l’esito complessivo è stato scarso.

Peraltro, la consultazione con i relativi gruppi d’interesse viene fatta sporadicamente e irregolarmente. Ciò può attribuirsi al fatto che i gruppi d’interesse portoghesi sono ancora troppo deboli per essere in grado di influenzare il processo di decision-making in merito a questioni europee. Ciò può far sì che gruppi d’interesse di portata europea attuino pressioni in nome delle proprie cause, nella speranza di raggiungere un maggiore successo.

Da ultimo, ma non meno importante, l’alto livello di centralizzazione rende superfluo per la pubblica amministrazione consultare i governi subregionali. In tal senso, la centralizzazione significa semplicità del decision-making, ma al contempo problemi in termini di Deficit democratico, trasparenza e attendibilità.

Il modello portoghese di policy-making non ha agende fisse o rigide ed è quindi abbastanza flessibile per quanto concerne le coalizioni con altri paesi. Vi sono alcune questioni che possono essere considerate come una red line per l’amministrazione pubblica portoghese. La questione più importante riguarda i fondi strutturali. Il Portogallo fa parte di quel gruppo denominato “i paesi della coesione”. A questo proposito, il Portogallo è parte di un’alleanza dell’Europa meridionale guidata dalla Spagna e sostenuta dall’Irlanda e, occasionalmente, dalla Germania per via dei Länder orientali.

Altre red lines sono la perdita di voti in seno al Consiglio dei ministri e la potenziale perdita del commissario nella Commissione europea.

Nel complesso, il processo d’integrazione europea è stato un fattore importante nel rimodellare il ministero per gli Affari esteri attraverso strutture efficienti e democratiche.

José M. Magone (2008)




Mladá Fronta Dnes

Attualmente nella Repubblica Ceca si pubblicano otto giornali nazionali: “Mladá Fronta Dnes”, “Lidové Noviny”, “Hospodářské Noviny”, “Pravo”, “Slovo”, “ZN Zemské Noviny”, “Sport” e “Blesk”. “Mladá Fronta Dnes” è la testata più diffusa nel paese, con il 22,3% di quota di mercato, e ogni giorno raggiunge oltre 1,3 milioni di lettori. In seconda posizione il tabloid “Blesk”, con una quota del 16,3%, seguito a distanza ravvicinata da “Pravo”, con una percentuale di poco superiore a 13. Tutti questi quotidiani sono pubblicati nella capitale. Anche se i giornali nazionali hanno i loro supplementi locali fuori da Praga, devono affrontare la concorrenza dei fogli regionali, che hanno una quota di mercato superiore al 26%. La componente regionale del mercato giornalistico sembra far parte del risveglio della società civile ceca.

La maggior parte dei giornali è schierata politicamente. Di fatto, i media cechi sono spesso stati accusati di essere troppo politicizzati. “Mladá Fronta Dnes” è una testata che tradizionalmente sostiene il partito di centrodestra ceco, il Partito democratico civico (Občanská demokratická strana, ODS) guidato da Václav Klaus. Per quanto riguarda gli affari europei, il giornale, nei suoi servizi ed editoriali sull’Unione europea (UE), è schierato a favore dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), seppur fornisca spesso opinioni “euro-realistiche”, espressione eufemistica utilizzata dall’ODS per esprimere il proprio “Euroscetticismo”. Negli articoli vengono spesso presentati temi minoritari, lontani dalle questioni politiche dominanti sull’Europa, simili a quelle espresse dal Partito conservatore britannico. Il giornale è comunque decisamente favorevole all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

La testata “Pravo”, schierata più a sinistra, è il più importante rivale di “Mladá Fronta Dnes” per diffusione e numero di lettori. Ha una posizione critica nei confronti della NATO e si è opposta all’intervento americano in Iraq. È stata, inoltre, la sostenitrice più convinta dell’Unione europea.

Durante e dopo lo svolgimento del referendum per l’ingresso della Repubblica Ceca nell’UE, tutti i giornali del paese hanno presentato l’esito elettorale come un momento di unificazione dei cechi sotto la bandiera del progetto europeo e la maggior parte delle testate, incluse quelle di centrodestra come “Mladá Fronta Dnes”, sono state critiche nei confronti di Klaus e dell’ODS per non aver preso posizione in occasione dello scrutinio popolare. Esiste tuttavia una differenziazione, nel pensiero dell’area di centrodestra ceca, tra il sostegno all’adesione alla UE e il sostegno a un’integrazione europea sempre più profonda: “Mladá Fronta Dnes” per lo più sostiene l’ingresso nell’Unione sulla base dell’adesione al Mercato unico europeo.

Due sono le caratteristiche principali, strettamente connesse, della stampa ceca: proprietà straniera e assenza di giornalismo critico. Questi due fattori hanno contribuito al dibattito sull’Europa. Il cambiamento più significativo dopo il 1989 è stato il passaggio dai giornali di proprietà del partito a una stampa più indipendente dalla supervisione dei partiti politici. I principali giornali cechi di proprietà dello Stato sotto il comunismo sono stati “confiscati” dai rispettivi membri dello staff, un’azione che equivaleva a rilevarne la gestione. In questo modo i giornali erano esclusi dagli schemi della privatizzazione. Editori e redattori hanno formato società private, hanno soppresso i fogli di proprietà statale e ne hanno creato di nuovi che in realtà erano gli stessi con un nome lievemente modificato. Questa privatizzazione portata avanti dai dirigenti ha reso possibile l’acquisizione dei marchi già consolidati dei giornali, facendo valere l’assunto che dal punto di vista legale i loro quotidiani costituivano entità nuove. In seguito queste testate sono state per lo più vendute a proprietari stranieri, ricavandone considerevoli profitti personali. Molti nuovi giornali hanno fatto la loro comparsa, seppur non siano destinati a sopravvivere alla dura competizione, eccetto il vecchio giornale dissidente “Lidové Noviny” e il tabloid “Blesk”.

Per quanto riguarda la proprietà, il mercato ceco dei media è dominato dalle catene editoriali tedesche. Queste case editrici controllano una larga maggioranza della stampa regionale e parte dei quotidiani nazionali, inclusi “Mladá Fronta Dnes” e “Lidové Noviny”. Soltanto “Pravo” continua a restare in mano ai cechi. Vi è stata quindi una tendenza ad esprimere opinioni particolari nei quotidiani cechi da parte dei proprietari stranieri. Nel caso di “Mladá Fronta Dnes”, per esempio, questi punti di vista non sempre sono stati favorevoli all’integrazione europea. Inoltre la proprietà straniera ha prodotto una cultura per la quale i profitti sono più importanti di un concreto giornalismo critico. Questa situazione ha fatto sì che i giornali fossero maggiormente orientati ad un giornalismo da tabloid e, in linea di massima, favorevoli all’establishment. I giornali cechi sono stati spesso accusati di ignorare gli scandali politici o di trascurare il giornalismo investigativo. A causa della proprietà straniera è accaduto anche che siano apparsi nei giornali cechi molti articoli delle agenzie di stampa, soprattutto provenienti dagli Stati Uniti. Questa fiducia negli articoli delle agenzie di stampa ha influenzato anche il dibattito nei media sull’adesione alla UE, e ne hanno risentito sia la qualità che la quantità degli articoli che commentavano le questioni comunitarie.

Inoltre, l’assenza di un giornalismo critico può essere ricollegata sia alla soppressione del pensiero critico dopo la “primavera di Praga” nel giornalismo ceco in generale, sia al fatto che gran parte dei giornalisti era legata al regime comunista. È stato difficile per la nozione di pluralismo penetrare nel mondo dei media cechi, che erano stati decimati durante i primi due decenni della dittatura comunista. Dopo la caduta del comunismo molti giornalisti hanno cambiato semplicemente fronte. Come un tempo producevano propaganda a favore del regime comunista, ora sostengono acriticamente il governo anticomunista. Fino alla metà degli anni Novanta i media più diffusi, con l’eccezione del quotidiano in precedenza comunista “Pravo”, non hanno criticato le politiche del primo ministro Václav Klaus e hanno etichettato chiunque lo facesse come comunista. Ad alcune persone è stato vietato di pubblicare a causa delle loro parentele o del loro passato.

Una tradizione di giornalismo investigativo è tuttora assente. Molto del lavoro editoriale nei giornali cechi è apertamente allineato, sul piano politico e ideologico, alle opinioni dell’élite politica o dei partiti più importanti. Una svolta radicale si è verificata nel 2000 con la crisi vissuta dalla televisione ceca (Česká Televize), quando la maggior parte dei giornali ha preso posizione contro la leadership dei due principali partiti cechi, quello socialdemocratico (Česká strana sociálně demokratická, ČSSD) e quello di centrodestra. Anche il giornale della destra “Mladá Fronta Dnes” ha sostenuto la protesta contro le interferenze dei partiti nella nomina dei direttori della televisione pubblica ceca.

Christian C. van Stolk (2006)




Mondo agricolo francese e la Politica agricola comune

È universalmente riconosciuto il ruolo fondamentale che il mondo agricolo francese svolge nella Politica agricola comune (PAC), sia per quanto attiene alla fase costituente della prima grande politica comunitaria, sia per i benefici che il paese seppe e sa ottenere dalla PAC. Questa situazione è dovuta sia alla centralità della Francia nella prima fase del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), durante la quale fu creata la PAC, sia alla capacità di questo paese di negoziare, imporre e concertare con gli altri paesi membri una politica che si adattasse alle necessità francesi. Tale capacità si è mantenuta inalterata dalla firma dei Trattati di Roma sino agli attuali tentativi di riformare la PAC stessa, così che il rapporto tra il mondo agricolo francese e la PAC è di stretta connessione e correlazione.

L’attitudine francese verso i negoziati europei che, dal 1945 in poi, cercavano di creare organizzazioni di mercato agricolo fu di preoccupazione. Soltanto negli anni Cinquanta si comprese che la politica agricola francese, i cui obiettivi furono disegnati dal “Plan de modernisation et equipement, 1947-1950” (conosciuto come Piano Monnet, in quanto fu Jean Monnet che ne diresse l’elaborazione), poteva essere sostenuta nelle sue finalità, e anche economicamente, dalla Comunità economica europea. Da quel momento gli interessi agricoli francesi e comunitari hanno spesso coinciso. I governi francesi iniziarono a rendersi conto dell’importanza che il settore primario comunitario avrebbe potuto avere per le campagne francesi durante le prime fasi del processo di integrazione, poco prima della fine dei lavori della Commissione Spaak; divenne convinzione condivisa da tutti i governi francesi dopo che, nel 1958, nacque la PAC durante la Conferenza di Stresa e si comprese che il ruolo giocato dalla Francia era tale da poter creare i presupposti di una politica strettamente funzionale alle esigenze nazionali, basate sulla trasformazione dell’agricoltura francese in un settore di esportazione. Infatti, la riduzione della produzione agricola dell’Europa orientale, l’aumento di popolazione dell’Europa occidentale e i problemi monetari che avevano ridotto la capacità di ottenere forniture dall’area del dollaro incoraggiarono un nuovo dinamismo dell’agricoltura francese nel mercato europeo, che avrebbe permesso un ampliamento della produzione interna, accompagnata da mercati di sbocco sicuri e ad alti prezzi. Era questa una condizione che il governo francese da solo non poteva garantire in alcun modo, se non stabilendo accordi duraturi per l’esportazione delle eccedenze.

Le preoccupazioni dell’agricoltura francese non erano limitate alla ricerca di mercati di sbocco per aumenti provvisori della produzione agricola, necessari a una momentanea ripresa della bilancia dei pagamenti, ma erano anche quelle di provvedere nel lungo periodo all’individuazione di mercati che permettessero una risoluzione definitiva dei problemi agricoli del paese. In questo modo l’interazione tra politica economica interna e politica economica internazionale divenne di importanza cruciale, e si iniziò a pensare che mercati di sbocco garantiti e preferenza europea per eccedenze ad alti costi dovevano essere salvaguardati da un mercato comune agricolo sulla falsa riga del Piano Schuman. Inoltre, alla metà degli anni Cinquanta la situazione mondiale agricola era caratterizzata da una parte da una continua espansione della produzione, dall’altra dall’accumulazione di eccedenze di alcuni prodotti in un numero ristretto di paesi, tra i quali, in primo luogo, gli Stati Uniti che, nel tentativo di contenere le giacenze della sovrapproduzione, sostenevano l’esportazione di tali prodotti. La preoccupazione dei governi europei di un dumping sul mercato mondiale era elevata. Inoltre, a fronte di un limitato aumento della domanda di prodotti agricoli, l’espansione della produzione era pronunciata in quasi tutti gli Stati europei.

Questa situazione portò a una netta divisione tra i governi europei riguardo agli obiettivi per l’agricoltura comunitaria; divisione che, anche se in forme diverse, tuttora sussiste e resiste. Ci sono i paesi importatori, con a capo il Regno Unito, contrari alla nascita di una politica agricola europea chiusa alla concorrenza mondiale e i paesi esportatori, guidati dalla Francia, ora come nel 1957, che nella nascita della PAC vedevano la possibilità di una salvaguardia continentale alla sovrapproduzione internazionale e l’apertura di un mercato interno che sostenesse, in qualche modo, la necessità di smerciare o sostenere le sovrapproduzioni agricole europee. Ed è proprio in questo periodo che gli Stati Uniti allentarono il sostegno incondizionato degli anni immediatamente successivi al conflitto per la creazione di un mercato agricolo europeo e che, inoltre, ebbe inizio la contrapposizione con gli interessi francesi anche nel settore agricolo, difesi strenuamente dai sindacati agricoli, i quali cominciarono i loro veementi attacchi alla politica agricola statunitense, tutt’ora frequenti.

La Francia scelse alla fine degli anni Cinquanta di perseguire la difesa dei paesi esportatori, temendo non soltanto la concorrenza americana, ma anche quella interna al continente, dovuta ai prezzi competitivi di alcune agricolture europee, come quelle olandese e danese. Per la Francia la necessità di sostenere l’elevatissimo onere economico delle sue eccedenze si trasformò da necessità nei primi anni a imperativo nei decenni successivi, date le scelte operate dai governi a sostegno delle richieste avanzate dalle principali categorie agricole, di intervenire sulla competizione non attraverso l’aumento della competitività mediante l’abbassamento dei costi, ma con il sostegno indiscriminato (dal 1962 al 1992 indipendente da quantità e qualità) delle produzioni.

Anche attualmente la Francia gioca un ruolo predominante nell’agricoltura europea, in quanto ne rappresenta circa il 25% ed è il secondo esportatore mondiale di prodotti agroalimentari, nonostante sia il quinto paese industrializzato del mondo ed esporti prodotti industriali in quantità dieci volte maggiore di quelli agroalimentari. Gli agricoltori francesi sono i maggiori beneficiari della PAC, con 9,5 miliardi di euro ricevuti nel 2004, quasi un quarto del totale delle spese agricole comunitarie, che, a loro volta, rappresentano il 40-42% dell’intero Bilancio dell’Unione europea. Gli aiuti rappresentano il 93% degli stipendi netti dell’azienda agricola francese e l’80% del sostegno agli agricoltori francesi proviene da Bruxelles, 8 miliardi di euro all’anno sino al 2013; inoltre ogni anno vengono accordati alla Francia 900 milioni di euro per lo sviluppo rurale. Purtroppo, però, le 2530 più grandi aziende agricole francesi (pari a meno dell’1% del totale) ricevono più sovvenzioni delle 182.270 più piccole e più povere (che sono circa il 40% del totale).

Questi dati spiegano in parte i motivi che portano la Francia a essere uno dei principali paesi a creare problemi all’Organizzazione mondiale del commercio durante il ciclo di Doha, volto alla liberalizzazione del commercio mondiale. I negoziati, infatti, si concentrano sulla riduzione del sostegno all’agricoltura; molto spesso la Francia si è opposta anche alle proposte effettuate durante i negoziati dalla Commissione europea, reputandole troppo pesanti, nonostante siano giudicate assolutamente insufficienti dai paesi extraeuropei. Sicuramente la Francia è il paese più interessato al mantenimento del sistema di aiuti e sostegno, ma è appoggiata dalla maggioranza degli altri paesi dell’UE, anch’essi interessati al mantenimento del sistema. L’accanimento protezionistico francese ha creato dei veri e propri blocchi ai negoziati internazionali, anche se l’agricoltura rappresenta meno del 10% del commercio mondiale. Il problema è diventato, però, di carattere politico perché crea tensioni tra il Nord e il Sud del mondo, dato che l’agricoltura costituisce il reddito primario per i paesi in via di sviluppo, nei quali risiede circa l’80% degli agricoltori del mondo.

Giuliana Laschi (2012)