Agence Europe

L’Agence Europe, l’agenzia di stampa europea, è indissolubilmente collegata al progresso dell’integrazione continentale e costituisce uno degli strumenti fondamentali per conoscere politiche, normative e attività dell’Unione europea (UE). Il primo numero del bollettino quotidiano uscì il 12 marzo 1953, quando l’allora presidente dell’ANSA, Lodovico Riccardi, intraprese l’avventura pionieristica della fondazione di un’agenzia nel cuore delle nascenti istituzioni comunitarie. Si trattava di un momento particolarmente significativo: nel luglio 1952 era entrato in vigore il Trattato di Parigi, che creava la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), ma le informazioni sull’effettiva portata di quello che stava realmente accadendo a Lussemburgo, sede dell’Alta autorità, erano ancora poche: bisognava dunque esortare il coinvolgimento dell’opinione pubblica attraverso un organo di stampa nuovo, indipendente e chiaro, con sede nel cuore delle neonate istituzioni (prima Lussemburgo, poi Bruxelles).

Il primo e “storico” direttore dell’agenzia fu il giornalista genovese Emanuele Gazzo (1908-1994), esperto in questioni economiche e marittime (si era laureato in Scienze economiche e commerciali) e con una vasta cultura letteraria, il quale si era avvicinato all’europeismo e al federalismo europeo (v. Federalismo) durante la Resistenza, essendo venuto a contatto con le opere di Carlo Rosselli.

Accolta inizialmente con diffidenza, l’Agence Europe divenne in poco tempo uno strumento valido e insostituibile per gli “addetti ai lavori” e non solo; ben presto, ai dispacci venne affiancato un editoriale giornaliero di commento ai fatti principali. La rigorosa deontologia professionale e lo stile sobrio e puntuale di Gazzo assicurarono al bollettino la collaborazione delle più importanti personalità – uomini politici e funzionari – coinvolti nel processo di edificazione della Comunità. Lo stesso direttore fu protagonista di molte iniziative nell’ambito dell’Associazione stampa europea – Giornalisti per l’Europa unita e, dopo la morte di Altiero Spinelli, fu tra i principali animatori del Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa, voluto dallo stesso federalista italiano.

Marina Gazzo è succeduta al padre nella direzione dell’Agenzia, sino al 2006. L’attuale editore responsabile ed editorialista è Ferdinando Riccardi; Helmut Brüls è a capo della redazione, affiancato da Olivier Jehin.

Ancora oggi l’Agence Europe, formata da un gruppo di giornalisti specializzati nelle diverse tematiche, forte di una lunga e profonda esperienza, costituisce la fonte principale d’informazioni sulla realtà dell’UE. Una sintesi della “Giornata politica” e il commento quotidiano “Al di là della notizia” sono disponibili anche online. Il Bollettino quotidiano viene distribuito in inglese, francese e italiano. Esistono inoltre alcuni supplementi: “Europe/Documenti”, circa quaranta numeri all’anno riproducenti studi e rapporti ufficiali; “Interpenetrazione Economica”, settimanale contenente informazioni riguardanti le imprese; “Biblioteca Europea” (sempre settimanale), finalizzata alla recensione e segnalazione di libri e riviste sull’integrazione europea e, in generale, la politica internazionale. Accanto al bollettino, vanno ricordati anche il bisettimanale “Europe Diplomacy & Defence” (edito in inglese e francese), incentrato sulle strategie di sicurezza europea e le relazioni fra UE e Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), sorto dall’esperienza di “Atlantic News”, bollettino bisettimanale pubblicato dal novembre 1967 e posto ora sotto la direzione di Marina Gazzo, con Olivier Jehin come redattore capo. Entrambi i bollettini, arricchiti da analisi di studiosi ed esperti, costituiscono un fondamentale complemento dell’Agence Europe.

Simona Calissano (2009)




Agenda 2000

Agenda 2000” è una comunicazione sul futuro delle politiche dell’Unione europea (UE) che la Commissione di Jacques Santer ha presentato al Parlamento europeo al termine della Conferenza intergovernativa (CIG) di Amsterdam, il 16 luglio 1997.

Essa nasce come risposta alle richieste formulate dal Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995, in relazione sia alla necessità di un approfondimento della strategia di preadesione elaborata in seguito alle domande d’ingresso nell’UE dei paesi dell’Europa centro orientale (PECO), sia all’evoluzione da imprimere alle politiche comunitarie di fronte alle sfide poste dalla prospettiva di un’Europa allargata (v. anche Allargamento).

Tuttavia, con “Agenda 2000” la Commissione europea va oltre tale mandato e propone una riflessione a tutto campo rivolta a due finalità: da un lato, compilare un primo bilancio della fase di rafforzamento del processo d’integrazione economica e politica dell’UE (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) e di riforma istituzionale dei Trattati avviata con l’Atto unico europeo (AUE) e, dall’altro, tracciare le prospettive future delle politiche comunitarie in un’Unione più grande.

Si tratta, dunque, di un documento di ampio respiro strategico, in cui si delinea lo scenario evolutivo dell’UE per l’inizio del nuovo millennio. In esso si individuano inoltre le linee di sviluppo delle politiche comunitarie in un contesto unico, in relazione alla loro compatibilità con i nuovi obiettivi e i nuovi principi di fondo dell’Unione e con il vincolo di bilancio imposto dal quadro finanziario definito per gli anni successivi al 2000 (v. Bilancio dell’Unione europea).

Nelle 1300 pagine del documento quadro, sono esaminate principalmente tre questioni: “il rafforzamento dell’Unione e il futuro delle principali politiche comunitarie”, “la sfida dell’ampliamento”, “il quadro finanziario per gli anni 2000-2006”.

In merito al rafforzamento dell’UE, riconoscendo l’insufficienza delle modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam, “Agenda 2000” stabilisce che la messa a punto delle riforme istituzionali e il riesame dell’organizzazione e delle modalità di lavoro della Commissione, lo sviluppo delle politiche interne e il proseguimento della riforma della Politica agricola comune (PAC) sono indispensabili per far fronte all’allargamento, garantire una crescita sostenibile, un aumento dell’occupazione e un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini europei (v. anche Cittadinanza europea); il documento afferma inoltre l’opportunità di convocare una conferenza intergovernativa per rivedere la composizione e il funzionamento delle istituzioni comunitarie almeno un anno prima che i membri superino il numero di 20. Di questo avrebbe cercato di occuparsi il Trattato di Nizza del dicembre 2000.

Riguardo alla sfida dell’ampliamento, la Commissione s’impegna a valutare l’impatto dell’allargamento sulle politiche dell’UE e proporre preparativi più incisivi, con l’introduzione – accanto agli accordi europei, alla partecipazione dei candidati ai programmi comunitari, al riavvicinamento delle legislazioni e ai gemellaggi – di nuovi strumenti, quali i partenariati per l’adesione (PA) e la conferenza europea, recepiti dal Vertice di Lussemburgo nel dicembre 1997. All’interno di questo secondo punto vengono inoltre presentati i pareri della Commissione sulle domande d’ingresso dei candidati: si raccomanda l’avvio dei negoziati di adesione con i PECO (a partire da Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Polonia e Slovenia) e Cipro, indicando il 2003 come data più probabile dei primi ingressi (v. anche Criteri di adesione).

Con riferimento al quadro finanziario 2000-2006, la Commissione propone un nuovo schema a partire dal 2000 costituito dal Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (Poland and Hungary aid for the reconstruction of the economy, PHARE), che viene integrato da due nuovi dispositivi finanziari: lo strumento strutturale di preadesione Instrument for structural policies for pre-accession (ISPA), per contribuire a migliorare le infrastrutture di trasporto e di salvaguardia dell’ambiente, e lo strumento agricolo di preadesione Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD), per favorire l’adeguamento a lungo termine del settore agricolo e delle zone rurali nei paesi candidati, dagli aiuti strutturali e dal sostegno allo sviluppo agricolo, così da coprire un periodo di tempo sufficientemente lungo da finanziare i bisogni fondamentali e da garantire la sana gestione delle finanze pubbliche; questo permetterebbe di concentrare le finanze su pochi programmi di comprovata utilità, anziché disperdere le risorse comunitarie in troppi aiuti esigui.

A oggi, “Agenda 2000” è il documento che maggiormente si avvicina a un Libro blu sull’allargamento e a essa occorre riconoscere il merito di aver individuato un processo graduale quale unica possibile via per l’assorbimento contemporaneo nell’Unione di un numero consistente di nuovi membri.

Lara Piccardo (2007)




Agenzia europea per la difesa

Struttura e compiti

L’Agenzia europea per la difesa (AED) è un’agenzia dell’Unione europea (UE) con sede a Bruxelles che promuove la collaborazione tra gli Stati membri nel settore della difesa. L’AED è stata istituita nel 2004 attraverso un’azione comune del Consiglio dell’UE che ne definisce lo scopo, i compiti, la struttura e il funzionamento. L’attuale base giuridica dell’Agenzia, che ne ha ampliato il mandato, risiede nell’art. 45 del Trattato sull’Unione europea, a cui è seguita una revisione dello statuto adottata tramite la decisione del Consiglio del 12 luglio 2011. Gli Stati membri dell’UE che fanno parte dell’Agenzia sono attualmente 27. Tra questi non vi è la Danimarca che, avvalendosi di una clausola di esenzione (opting out), non partecipa alle decisioni del Consiglio che hanno implicazioni per la difesa, e perciò non risulta membro dell’Agenzia.

L’AED, ai sensi dello statuto, opera con lo scopo di: sviluppare le capacità di difesa nel settore della gestione delle crisi; promuovere e intensificare la cooperazione europea in materia di armamenti; rafforzare la base industriale e tecnologica di difesa europea, e creare un mercato europeo dei materiali della difesa che risulti competitivo; promuovere le attività di ricerca al fine di rafforzare il potenziale industriale e tecnologico dell’Europa in questo settore. Per ognuna di queste attività la decisione del 2015 indica i principali compiti che le sono richiesti. Tra questi si possono citare, a titolo di esempio, il sostegno all’armonizzazione dei requisiti militari, le collaborazioni operative tra Stati, la valutazione delle priorità finanziarie nazionali ed europee in termini di capacità, la promozione di cooperazioni multilaterali unite al coordinamento di progetti tesi a soddisfare le esigenze della Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), lo sviluppo di politiche e azioni volte a rafforzare il mercato europeo della difesa, il lancio e il coordinamento di progetti di ricerca e sviluppo nel settore, e il coordinamento con le attività della Commissione. Nel concreto, tali compiti si realizzano attraverso la pubblicazione di studi e ricerche, la formulazione di proposte rivolte al Consiglio, e il lancio di iniziative congiunte e cooperazioni aperte agli Stati membri dell’UE nonché, talvolta, a paesi terzi. È importante peraltro sottolineare come le attività dell’Agenzia non pregiudichino in alcun modo le competenze degli Stati membri in materia di difesa.

A capo della struttura vi è l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è responsabile del funzionamento e dell’organizzazione generale dell’Agenzia, e presiede le riunioni del comitato direttivo. Quest’ultimo – composto dai rappresentanti degli Stati membri partecipanti a livello dei ministri della Difesa, e dalla Commissione – è l’organo decisionale dell’AED. Il comitato è solito decidere a Maggioranza qualificata seguendo gli orientamenti del Consiglio (formazione con i ministri della Difesa), ed è incaricato di approvare il programma di lavoro annuale dell’Agenzia, le relazioni e le raccomandazioni destinate al Consiglio, la realizzazione di progetti e programmi ad hoc, e di adottarne il bilancio entro il quadro finanziario fissato dal Consiglio. Tra le altre funzioni, il comitato nomina il direttore esecutivo dell’AED su proposta dell’Alto rappresentante. Il direttore dirige concretamente i lavori dell’agenzia, secondo le indicazioni del Comitato e dell’Alto rappresentante. Il bilancio operativo dell’Agenzia è assicurato dai contributi degli Stati partecipanti in base al loro reddito nazionale lordo, laddove i costi dei singoli progetti sono invece finanziati separatamente. Dalla sua creazione, il budget dell’Agenzia è cresciuto raggiungendo i 30 milioni di euro annui, mentre il personale conta circa 200 persone.

Un’idea che viene da lontano: le iniziative precorritrici dell’AED

L’idea di istituire un’agenzia internazionale che si occupasse di promuovere la cooperazione europea nel settore della difesa ha accompagnato gli sviluppi del processo d’integrazione per decenni. Dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (1954), la costruzione del mercato unico condotta dalla Comunità economica europea (CEE) aveva accuratamente evitato l’integrazione dei mercati nazionali della difesa, ritenuti per la loro natura strategica materia di esclusiva competenza nazionale. I primi tentativi di promuovere e coordinare la cooperazione sovranazionale nell’ambito dello sviluppo e dell’acquisizione di armamenti nascono così nel 1976 all’interno della NATO, con la creazione, da parte dei paesi europei, del Gruppo europeo indipendente di programmazione (GEIP), trasferito successivamente, nel 1993, nelle strutture dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), dove verrà ribattezzato Gruppo armamenti dell’Europa occidentale (GAEO). La dichiarazione relativa all’UEO annessa al Trattato di Maastricht (1992-1993), prendendo atto del lancio della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e della «definizione a termine di una politica di difesa comune» (art. J. 4 par. 1), menziona esplicitamente la possibilità di valutare il rafforzamento della cooperazione europea nel settore degli armamenti, attraverso l’istituzione di un’agenzia dedicata. L’impulso giunto da Maastricht unito però all’assenza delle precondizioni politiche necessarie (valutate da un gruppo di studio del GAEO) condussero nel 1996 alla creazione dell’Organizzazione degli armamenti dell’Europa occidentale (OAEO) – un organo sussidiario dell’UEO dotato di personalità giuridica al fine di poter dare seguito alle decisioni prese all’interno del GAEO – quale tappa intermedia verso la futura istituzione di un’agenzia europea. Nel frattempo, a partire dal 1995, venne istituito all’interno del Consiglio un gruppo di lavoro sulle Politiche europee degli armamenti (POLARM), con l’obiettivo di sostenere il dialogo intergovernativo e le iniziative politiche.

L’impulso della Politica europea di sicurezza e difesa

L’impegno a definire una progressiva politica di difesa comune, approfondito dalle disposizioni del Trattato di Amsterdam (1997-1999), riaffermò con maggior forza l’impegno dell’UEO nel sostenere la cooperazione nel settore degli armamenti, adoperandosi concretamente alla nascita di un’agenzia dedicata. Nel 1998, tale compito venne quindi affidato dai ministri della Difesa riuniti nel GAEO a un gruppo di esperti nazionali che, oltre a definire la struttura e le funzioni dell’agenzia, avrebbero dovuto presentare una tabella di marcia in vista di una decisione ministeriale in merito alla sua effettiva realizzazione, prevista per il 2001.

Tuttavia, le difficoltà riscontrate a livello politico e operativo nelle strutture dell’UE/UEO – sia a causa delle divergenti posizioni nazionali sul ruolo e sull’idea della difesa da assegnare all’Unione, sia per l’insufficiente flessibilità offerta dagli strumenti comunitari – favorirono il lancio di iniziative intergovernative guidate dai paesi dell’UE che potevano vantare i maggiori produttori ed esportatori nel mercato della difesa. L’Organizzazione congiunta per la cooperazione in materia di armamenti (OCCAR, 1996), la Lettera di intenti (LOI, 1998), e il suo Accordo quadro (2001), rappresentano i tentativi sorti al di fuori dell’UE di migliorare la gestione dei programmi di sviluppo realizzati in collaborazione, e di agevolare i processi di ristrutturazione industriale di settore.

Dal lato del settore privato, la mancanza di un efficace approccio comune che potesse favorire la ricerca e la produzione condusse a un’intensa attività di Lobbying a sostegno della creazione di un’agenzia per la difesa interna all’Ue. Il modello a cui alcune aziende si ispiravano era quello della Defense avanced research project agency (DARPA), l’agenzia governativa statunitense che attraverso l’erogazione di finanziamenti si occupa dello sviluppo di tecnologie per uso militare. Un modello che però non venne in seguito preso in considerazione dai governi degli Stati membri. Questi gli preferirono la visione di una agenzia più debole nella struttura e nelle risorse, che fungesse soprattutto da forum dei ministeri della Difesa dell’UE a favore di una maggiore armonizzazione dei requisiti e dello sviluppo coordinato di nuovi assetti militari, nonché di tutta una serie di forme di cooperazione sugli equipaggiamenti esistenti.

Lo sprint dei primi anni 2000 e la nascita dell’Agenzia

In assenza di un attivismo da parte dell’UEO, l’occasione per concretizzare questa idea si presentò nel 2002, quando nella Convenzione che lavorò sul testo del Trattato costituzionale europeo venne istituito un gruppo di lavoro sulla difesa presieduto dall’allora commissario Michel Barnier. Le conclusioni del gruppo recepirono le richieste dell’industria e le istanze degli Stati membri per una struttura decisionale meno complessa e rigida rispetto al GAEO/OAEO, e gettarono le basi per la nascita di «un’agenzia europea per gli armamenti e la ricerca strategica […] che promuovesse una politica d’acquisizione armonizzata tra gli Stati membri, […] e che sostenesse la ricerca in materia di tecnologia della difesa, compresi i sistemi spaziali militari» (Convenzione sul futuro dell’Europa, Rapporto finale del gruppo di lavoro VIII Difesa, par. 64, 16 dicembre 2002). L’agenzia avrebbe integrato al proprio interno le cooperazioni già poste in essere (OCCAR, LOI), e lavorato per il potenziamento dell’intera base industriale europea della difesa.

Anticipando però la pubblicazione del Trattato costituzionale, nel giugno del 2003 si tenne a Salonicco un Consiglio europeo nel quale i capi di Stato e di governo decisero di accelerare la nascita di un’agenzia europea per la difesa. La scelta del Consiglio fu presa in maniera indipendente dalle conclusioni del gruppo di lavoro della Convenzione, e si basava sulle proposte contenute in due non-paper franco-britannici e sui contributi fatti circolare dalla presidenza di turno italiana. Il vertice europeo diede così il compito al Consiglio dell’UE di intraprendere le necessarie azioni per la creazione di «un’agenzia intergovernativa nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca, dell’acquisizione e degli armamenti» (Consiglio europeo di Salonicco, Conclusioni della Presidenza, par. 65, 19-20 giugno 2003). Di conseguenza venne costituito in seno al Consiglio un gruppo di lavoro che, dopo un non semplice negoziato, decise a sua volta di creare un team di progetto in grado di definire nei dettagli l’agenzia che sarebbe nata da lì a pochi mesi. A presiedere il team venne scelto dall’Alto rappresentante Javier Solana, il funzionario del ministero della Difesa britannico Nick Witney, che diventerà anche il primo direttore esecutivo dell’AED. Nell’aprile del 2004 la proposta del team di progetto giunse sul tavolo del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) per la sua discussione e la definizione degli ultimi aspetti, che portarono, infine, all’adozione da parte del Consiglio dell’azione comune che istituì l’AED nel luglio dello stesso anno. Dopo alcune minori modifiche all’azione comune, nel 2009, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha elevato la base legale dell’Agenzia a livello primario, ampliandone i compiti. Le successive decisioni del 2011 e del 2015 hanno infine abrogato l’azione comune, fissando il nuovo statuto e funzionamento dell’AED.

In vista dei futuri sviluppi dell’Agenzia, degno di nota risulta il piano d’azione europeo in materia di difesa lanciato dalla Commissione nel 2017. Il piano prevede l’istituzione di un fondo europeo a sostegno degli investimenti in attività di ricerca comune e dello sviluppo congiunto di attrezzature e tecnologie di difesa. Il finanziamento alla ricerca (90 milioni di euro fino al 2019) sarà attuato dall’AED per conto della Commissione. In questo modo, l’UE finanzierà direttamente la ricerca e l’acquisizione nel campo della difesa per la prima volta nella sua storia.

Lorenzo Vai (2017)




Agenzia spaziale europea

L’Agenzia spaziale europea (European space agency, ESA) è un’organizzazione europea intergovernativa nata nel 1975 dall’unione di due organizzazioni: la European launcher development organisation (ELDO) fondata all’inizio degli anni Sessanta (v. De Maria, The History, 1993) in seguito al progetto di sei paesi europei – Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito – di costruire un lanciatore pesante chiamato Europa, e la European space research organisation (ESRO), fondata nel 1962 (Id., Europe, 1993) per intraprendere programmi di satelliti scientifici e coprire tutti i settori dell’attività spaziale, dai satelliti di telecomunicazione ai lanciatori, proposti dai paesi membri. L’ESA è composta da 15 Stati membri: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia e Svizzera (v. Zabusky, 1995).

A eccezione di Norvegia e Svizzera, la totalità dei paesi membri dell’Agenzia è costituita dagli Stati membri dell’Unione europea. Ogni Stato membro, a prescindere dalle sue dimensioni e dal suo contributo finanziario, ha diritto a un voto in seno al Consiglio d’amministrazione (Council), che è l’organo direttivo dell’Agenzia e che definisce gli orientamenti politici generali in base ai quali l’ESA sviluppa la pianificazione del programma spaziale. Il Canada collabora ad alcuni progetti dell’Agenzia in conformità a un accordo di cooperazione, e fa altresì parte del Consiglio d’amministrazione (v. Dotto, 2002). Oltre a lavorare sui propri progetti indipendenti, l’ESA coopera regolarmente con altre agenzie spaziali e istituzioni a livello mondiale di Stati Uniti, Russia, Giappone, Argentina, Brasile, India, Cina e di alcuni paesi in via di sviluppo. Inoltre, l’ESA ha accordi bilaterali di cooperazione a livello governativo con paesi dell’Europa centrale e orientale.

Il mandato dell’ESA è quello di «sostenere e promuovere, per scopi esclusivamente pacifici, la cooperazione tra gli Stati Europei nella ricerca e tecnologia spaziale e nelle loro applicazioni» (Convenzione dell’Agenzia spaziale europea, art. 5). L’obiettivo principale è quello di coordinare i programmi spaziali europei con i programmi delle agenzie spaziali nazionali (come, per esempio, l’ASI, Agenzia spaziale italiana o il Centre national d’études spatiaux, CNES, in Francia), cui si aggiunge quello di garantire una competitività dell’industria spaziale europea a livello mondiale.

Le attività istituzionali dell’ESA (programmi scientifici spaziali e controllo del budget) sono finanziati da fondi erogati da tutti gli Stati membri e calcolati in funzione del prodotto interno lordo di ogni paese. Inoltre, l’Agenzia attua una serie di programmi opzionali in cui ogni paese decide di partecipare con un impegno finanziario equivalente al suo interesse prioritario per questo determinato settore (v. Politica della ricerca spaziale).

L’ESA opera sulla base del “principio del ritorno geografico”, ossia investendo in ogni Stato membro una somma quasi equivalente al contributo del paese stesso, attraverso contratti alle industrie nazionali per l’attuazione dei programmi spaziali. Mediamente, ogni cittadino di uno Stato membro dell’ESA versa in termini di imposte destinate alle attività correlate allo spazio cifre irrisorie (più o meno l’equivalente di un biglietto del cinema). L’investimento pro capite europeo nel settore spaziale risulta estremamente modesto se paragonato a quello degli Stati Uniti, dove vengono investite nel campo spaziale civile cifre sei volte superiori a quelle europee. Il budget annuale dell’ESA è di circa 3 miliardi di Euro, equivalenti grosso modo al budget annuale del programma quadro di ricerca dell’Unione europea.

I programmi dell’ESA includono programmi di scienza spaziale, programmi infrastrutturali e programmi applicativi. Nel quadro dei programmi scientifici si sviluppano satelliti per lo studio del sistema solare e dei pianeti, della magnetosfera, dei buchi neri, delle galassie e degli asteroidi. Missioni importanti dell’ESA in questo campo sono state Giotto, Hubble space telescope in cooperazione con la NASA, Huygens Cassini, Smart, Mars Express e Rosetta.

Tra i programmi di infrastruttura figura quello dei lanciatori, nell’ambito del quale l’ESA ha prodotto e sviluppato la famiglia europea dei lanciatori Ariane e sta sviluppando il piccolo lanciatore Vega, entrambi strutturati commercialmente da Arianespace.

L’Europa contribuisce attraverso l’ESA alla Stazione spaziale internazionale insieme ad americani, russi, giapponesi e canadesi, e fornisce un braccio robotico, un laboratorio europeo Columbus, che è stato lanciato nel 2005 e un modulo di trasporto Automated transfer vehicle (ATV).

I programmi applicativi includono il telerilevamento e la meteorologia con missioni come l’European remote sensing satellite (ERS) e l’Environment satellite (ENVISAT), satelliti di tecnologia avanzata per il monitoraggio ambientale, programmi di telecomunicazione satellitare come ARTEMIS e di applicazioni multimediali nei settori della telemedicina e della teleducazione.

Infine, l’ESA sviluppa congiuntamente con la Commissione europea il programma di navigazione satellitare Galileo, che sarà operativo nel 2008. Promuove inoltre attività di sviluppo di tecnologie spaziali, di standardizzazione, sostiene lo sviluppo di piccole e medie industrie e finanzia studi e progetti educativi.

Tutte le attività dell’ESA sono coordinate tramite gli uffici della direzione generale presso la sede centrale di Parigi, dalla quale vengono elaborati e approvati i progetti. L’Agenzia è presieduta da un direttore generale, eletto dal Consiglio ogni quattro anni, al quale fanno capo le direzioni di ogni singolo settore di ricerca. Vi è, inoltre, una serie di centri distribuiti in tutta Europa, ognuno dei quali copre determinate responsabilità (v. Politica della ricerca scientifica e tecnologica; Cooperazione scientifica e tecnica).

L’European space research institute (ESRIN) è il centro dell’ESA in Italia. Situato a Frascati, in provincia di Roma, si occupa principalmente dell’elaborazione, archiviazione e trasmissione dei dati provenienti dai satelliti di osservazione della Terra, europei e internazionali, attraverso il coordinamento di oltre 20 stazioni a terra e la cooperazione con altrettanti operatori del segmento terrestre in tutto il mondo; si occupa inoltre dei servizi informatici e della gestione del programma di piccolo lanciatore europeo Vega, che verrà utilizzato per mettere in orbita bassa satelliti scientifici e di osservazione della Terra di modeste dimensioni.

L’European space research and technology centre (ESTEC) è il più grande centro dell’Agenzia e si trova a Noordiwijk, in Olanda. Dispone di impianti completi di collaudo e simulazione ambientale che permettono di testare i componenti dei veicoli spaziali, la cui realizzazione è affidata all’industria spaziale europea. Il centro olandese si occupa inoltre della definizione dei programmi dei futuri satelliti scientifici o applicativi e dello sviluppo delle nuove tecnologie necessarie alla loro realizzazione. L’ESTEC è anche la base del direttorato per i voli spaziali abitati e del Dipartimento di scienza spaziale dell’ESA.

L’European space operations centre (ESOC) si trova a Darmstadt, in Germania, ed è il centro che assicura il funzionamento dei satelliti già in orbita, durante tutto il periodo della loro missione, attraverso il collegamento della struttura a stazioni terrestri presenti in tutte le aree del globo.

L’European astronaut centre(EAC) gestisce l’addestramento degli astronauti per le future missioni ed è situato a Colonia, in Germania. L’ESA dispone anche di una base di lancio a Kourou, nella Guyana Francese, il cosiddetto “Porto spaziale dell’Europa”, e tre stazioni terrestri a Kiruna (Svezia), Redu (Belgio) e Villafranca (Spagna), avvalendosi inoltre di diverse stazioni terrestri per il controllo dei satelliti dislocate in varie parti del mondo. Inoltre, l’ESA ha a sua disposizione una serie di uffici di rappresentanza a Washington (Stati Uniti), a Mosca (Russia) e a Bruxelles (Belgio), quest’ultimo più specificamente incaricato delle relazioni con l’Unione europea, con la quale l’ESA ha una stretta attività di cooperazione.

Tra i progetti nati dalla collaborazione tra l’ESA e l’UE ci sono: Global monitoring for environment and security (GMES), progetto che stabilisce la creazione di infrastrutture e servizi su scala globale e regionale che contribuiscano a prevenire e gestire in modo migliore i disastri ambientali; Galileo, primo sistema civile di navigazione attraverso satelliti che contribuirà a migliorare le varie tipologie di trasporto e dei servizi ad esso correlati che sarà operativo nel 2008; infine il Digital divide, progetto di integrazione con il satellite e di superamento del gap tecnologico dei paesi dell’Europa centrale e orientale.

L’ESA dispone di un corpo unico di 16 astronauti altamente qualificati in diverse aree scientifiche o tecniche, provenienti da 8 dei 15 paesi membri (Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera). Tutti gli astronauti per diventare “europei devono partecipare a un concorso nazionale e dopo averlo superato affrontare un periodo di addestramento presso l’EAC a Colonia. Dal 1998 l’addestramento presso l’EAC è mirato alla preparazione degli astronauti per le missioni spaziali alla Stazione spaziale internazionale, verso cui gli astronauti viaggiano regolarmente partecipando attivamente alle fasi di costruzione, e dove sostano per periodi di vari mesi, durante i quali procedono allo svolgimento di programmi sperimentali di molteplice natura (scienza, medicina, tecnologia, biologia, ecc.).

Oltre al team degli astronauti, presso l’ESA lavora un personale qualificato, proveniente da tutti gli Stati membri, che comprende ricercatori, ingegneri, specialisti informatici e personale amministrativo. Gli “staff”, funzionari europei che lavorano all’ESA, sono circa 1800.

Simonetta Cheli (2007)




Agenzie europee

Le agenzie europee sono organismi dotati di personalità giuridica propria e distinti dalle istituzioni comunitarie, creati allo scopo di rispondere a esigenze specifiche, di carattere tecnico, scientifico o di gestione di particolari attività dell’Unione europea (UE).

Le prime due agenzie furono create nel 1975, nell’ambito del primo programma di azione sociale varato dalla Comunità. Le difficoltà incontrate dall’economia europea a partire dai primi anni Settanta avevano stimolato un nuovo interesse degli organi comunitari verso la politica sociale, fino ad allora limitate a semplici misure di “accompagnamento” del mercato comune (v. Comunità economica europea). In tale contesto prendeva corpo l’idea di dar vita a due nuovi organismi: il primo, che le forze sindacali richiedevano da anni, avrebbe dovuto studiare i temi della formazione professionale (v. Politica della formazione professionale), aspetto ritenuto fondamentale per il miglioramento della competitività economica e per la realizzazione concreta del mercato unico europeo; il secondo avrebbe dovuto analizzare costantemente le condizioni di vita e di lavoro nella Comunità, per fornire orientamenti e pareri autorevoli ai responsabili delle politiche sociali, contribuendo così a migliorare la qualità della vita.

Con due regolamenti, del febbraio e del maggio 1975 furono così istituiti il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (CEDEFOP, acronimo del francese Centre européen pour le développement de la formation professionnelle) e la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (EUROFOUND), con sedi, rispettivamente, a Berlino ovest e a Dublino. Entrambe le agenzie erano finanziate con stanziamenti ad hoc dal bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea). Un consiglio d’amministrazione, composto da rappresentanti degli Stati membri, della Commissione europea e delle parti sociali, stabiliva gli orientamenti generali di gestione, la cui attuazione dettagliata era affidata a un direttore esecutivo assistito da una serie di comitati tecnici (v. Comitati e gruppi di lavoro).

CEDEFOP ed EUROFOUND rimasero le uniche agenzie della Comunità fino all’inizio degli anni Novanta, quando il cambiamento della situazione internazionale e le esigenze legate al completamento del mercato interno portarono alla creazione di una serie di nuovi organismi. In tale contesto, il Consiglio europeo di Bruxelles, nell’ottobre 1993, approvava l’istituzione di sette nuove agenzie specializzate, strutturate in modo analogo a quelle di “prima generazione”.

Gli sviluppi dell’ultimo decennio, dovuti sia all’inasprimento di determinati problemi sociali, sia alla brusca irruzione nell’agenda politica di tematiche in parte nuove (ad esempio i problemi della sicurezza seguiti agli eventi dell’11 settembre 2001), incrementavano ulteriormente il numero delle agenzie specializzate, alcune delle quali create per operare nel quadro della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) o del cosiddetto “terzo pilastro” (v. Pilastri dell’Unione europea) dell’UE (cooperazione in materia di Giustizia e affari interni) (v. anche Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).

Ciò permetteva, fra l’altro, di rispondere a esigenze di decentramento ripetutamente sottolineate da alcuni paesi “periferici” dell’Unione europea, che avevano richiesto in più occasioni di impiantare sul loro territorio la sede di istituzioni comunitarie. Così, non solo la sede del CEDEFOP nel 1995 fu spostata a Salonicco (la Germania era ampiamente “risarcita” dalla previsione di stabilire a Francoforte sul Meno la futura Banca centrale europea), ma la gran parte delle agenzie riceveva una collocazione periferica rispetto al classico triangolo istituzionale Bruxelles-Lussemburgo-Strasburgo. Per questo le agenzie sono comunemente conosciute anche come “organismi decentrati” dell’Unione.

Quasi tutte le agenzie hanno una rete di enti associati nei diversi Stati membri (composta di solito da organismi preesistenti specializzati nelle rispettive materie), che funzionano da canali per la raccolta di informazioni e per la diffusione di dati o notizie verso l’esterno. Le agenzie sono finanziate grazie a stanziamenti appositi dal bilancio generale dell’Unione, con l’eccezione dell’Agenzia europea di valutazione dei medicinali, dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno, e dell’Ufficio comunitario delle varietà vegetali, che si autofinanziano parzialmente attraverso la riscossione di diritti, e del Centro di traduzione degli organi dell’Unione europea, i cui servizi sono pagati dalle istituzioni e dalle altre agenzie.

Secondo la classificazione utilizzata dalla stessa UE, le agenzie possono essere suddivise nel modo seguente (accanto al nome di ogni agenzia è riportato l’anno di istituzione e la sede).

Agenzie comunitarie vere e proprie. Alcune delle agenzie comunitarie mirano alla promozione del dialogo sociale a livello europeo, e sono caratterizzate dalla presenza delle parti sociali nel loro consiglio di amministrazione (mentre i rappresentanti degli Stati membri e della Commissione sono presenti in tutte). Altre hanno funzioni di regolamentazione, e hanno in generale lo scopo di agevolare il funzionamento del mercato interno. Vi sono poi alcuni “osservatori” che raccolgono e divulgano dati su fenomeni sociali di particolare rilievo, mentre ad alcune agenzie sono affidati, quasi in una sorta di “subappalto”, determinati compiti dell’amministrazione comunitaria, come i servizi di traduzione degli stessi organi decentrati o alcune forme specifiche di assistenza ai paesi dei Balcani e dell’Europa orientale non membri dell’UE. Nel dettaglio, le agenzie comunitarie sono le seguenti:

– CEDEFOP (1975, a Berlino Ovest fino al 1995, in seguito a Salonicco). Ha il compito di raccogliere e diffondere informazioni su sistemi e politiche di formazione professionale e istruzione, per offrire un sostegno agli specialisti del settore di tutta l’Europa (v. Politica dell’istruzione).

– EUROFOUND (1975, Dublino). Contribuisce all’elaborazione di strategie volte a migliorare le condizioni di vita e di lavoro nella Comunità.

– Agenzia europea dell’ambiente (1990, Copenaghen). Segue costantemente l’evoluzione della situazione ambientale nei suoi diversi aspetti (v. Politica ambientale). Grazie a una norma speciale del suo statuto, i tre paesi dello Spazio economico europeo non membri UE (Islanda, Norvegia e Liechtenstein), hanno aderito all’agenzia fin dalla sua fondazione, mentre nel 2002 sono entrati anche i 10 paesi allora in via di adesione, la Romania, la Bulgaria e la Turchia. Al momento sono in corso negoziati con la Svizzera.

– Fondazione europea per la formazione professionale (1990, Torino). Punta ad aiutare una serie di paesi partner dell’UE – oltre quaranta, fra i quali i beneficiari dei programmi Poland and Hungary aid for the reconstruction of the economy (PHARE), Technical assistance for the commonwealth of independent states (TACIS) e MEDA – a riformare e modernizzare i sistemi di formazione professionale.

– Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (1993, Lisbona). Come il precedente, ha funzioni di monitoraggio e opera in collaborazione con Stati non membri, oltre che con enti internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità.

– Agenzia europea di valutazione dei medicinali (1993, Londra). Garantisce il massimo di protezione a uomini e animali attraverso l’azione dei suoi comitati tecnici, che ricevono informazioni da una rete di esperti di tutti i paesi membri.

– Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (1994, Bilbao). Ha lo scopo di raccogliere e diffondere le conoscenze in materia di condizioni di salute e sicurezza sul lavoro.

– Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (1994, Alicante). Tutela i “marchi comunitari”, vale a dire il sistema di marchio unico istituito dall’Unione europea e riconosciuto da tutti gli Stati membri, che permette di offrire una tutela molto più rapida e forte.

– Ufficio comunitario delle varietà vegetali (1994, Angers). Tutela la privativa per i ritrovati vegetali (il corrispettivo dei diritti di proprietà industriale in materia di varietà vegetali).

– Centro di traduzione degli organi dell’Unione europea (1994, Lussemburgo). Fornisce i servizi di traduzione agli organi comunitari decentrati e fa fronte ai sovraccarichi di lavoro dei servizi ufficiali delle istituzioni. Oltre a rappresentanti degli Stati membri e della Commissione, nel suo consiglio di amministrazione siedono, in quanto “clienti” del Centro, anche esponenti delle altre agenzie.

– Agenzia europea per la ricostruzione (2000, Salonicco). Gestisce programmi di aiuto alla ricostruzione politica ed economica della Repubblica federale di Iugoslavia e della ex Repubblica di Macedonia. Ha centri operativi a Belgrado, Pristina, Podgorica e Skopje (v. Politica dell’Unione europea nei Balcani).

– Autorità europea per la sicurezza alimentare (2002, Parma). Creata a seguito dell’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (meglio nota come “mucca pazza”) per raccogliere informazioni e offrire consulenza specializzata alle autorità comunitarie su qualsiasi aspetto della sicurezza alimentare.

– Agenzia europea per la sicurezza marittima (2002, Lisbona). Creata dopo il disastro della petroliera Erika al largo delle coste spagnole, punta soprattutto a ridurre i rischi di incidenti marittimi e i conseguenti danni ambientali (v. anche Politica comune dei trasporti della CE).

– Agenzia europea per la sicurezza aerea (2002, Colonia). Ha compiti analoghi alla precedente, anche se è maggiormente sottolineato l’aspetto della sicurezza in senso stretto (v. anche Politica comune dei trasporti della CE).

– Agenzia europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (2004, Eraklion). Ha funzioni consultive e di coordinamento, di raccolta, analisi e diffusione dei dati in materia di sicurezza informatica.

– Agenzia ferroviaria europea (2004, Lille). Ha il compito di assistere la progressiva omogeneizzazione delle modalità di gestione dei sistemi ferroviari nazionali, nell’obiettivo, fissato dalle normative sulla politica comune dei trasporti, di uno “spazio ferroviario integrato” europeo, che possa garantire un incremento di efficienza e un rafforzamento della sicurezza generale (v. anche Politica comune dei trasporti della CE).

– Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne (2004, Varsavia). Mira a rafforzare e dare uniformità alla cooperazione fra gli Stati membri in materia di controllo delle frontiere esterne dell’Unione (v. anche Politica dell’immigrazione e dell’asilo).

– Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (2004, Stoccolma). In stretta cooperazione con i principali enti sanitari nazionali e internazionali, ha il compito primario di rafforzare la capacità europea di rispondere alla diffusione di malattie infettive particolarmente pericolose, quali l’influenza aviaria o l’AIDS (v. anche Politica della salute pubblica).

– Agenzia comunitaria di controllo della pesca (2005, Vigo – sede provvisoria a Bruxelles). Ha il compito di favorire l’applicazione della nuova normativa sulla Politica comune della pesca, riformata nel 2002, in particolare stimolando il coordinamento delle operazioni di ispezione e di controllo fra le istituzioni comunitarie e gli stati membri.

– Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (2007, Vienna). Lavorando in stretto contatto con altri organismi dedicati agli stessi fenomeni (su base nazionale o europea), ha il compito di raccogliere informazioni e dati su tutti gli aspetti legati al rispetto dei diritti fondamentali (v. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), allo scopo primario di fornire consulenza e assistenza alle istituzioni europee e nazionali nell’ambito dell’elaborazione e dell’attuazione del diritto comunitario (v. Diritto comunitario; Diritto comunitario, applicazione del). L’agenzia sostituisce l’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia, creato nel 1997, il cui oggetto rimane comunque uno dei suoi principali settori di attività.

– Agenzia europea delle sostanze chimiche (2007, Helsinki). Ancora in fase di organizzazione preliminare, avrà la funzione di fornire consulenza e informazioni a carattere tecnico-scientifico in materia di sostanze chimiche, nell’intento di garantire una gestione uniforme delle stesse in tutta l’Unione.

Agenzie operanti in ambito PESC. Nell’ambito della PESC operano organismi di natura strettamente tecnico/scientifica, due dei quali sono nati nell’ambito dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO) e integrati nell’Unione europea con due azioni comuni del Consiglio affari generali. Si tratta dei seguenti organismi:

– Istituto europeo per gli studi sulla sicurezza (2002, Parigi). Organismo di ricerca sui problemi di sicurezza e difesa, svolge, con piena indipendenza intellettuale, compiti di studio e di analisi a supporto dell’azione del Consiglio dei ministri e dell’Alto rappresentante per la PESC (v. Politica estera e di sicurezza comune).

– Centro satellitare dell’Unione europea (2002, Torrejón de Ardoz). Fornisce informazioni a supporto del processo decisionale della PESC e della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) attraverso l’analisi di immagini satellitari e aeree.

– Agenzia europea per la difesa (2004, Bruxelles). Promuove la collaborazione fra gli Stati membri soprattutto in materia di produzione di armamenti e di ricerca connessa alla stessa attività, nell’intento di rafforzare la «base industriale e tecnologica della difesa europea» e favorire la nascita di un vero e proprio mercato europeo dei materiali di difesa.

Organismi operanti nel quadro del “terzo pilastro”. Nell’ambito del “terzo pilastro” (v. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale) operano organismi che intendono favorire la collaborazione fra i paesi membri in materia di lotta alla criminalità organizzata internazionale (in parte ha lo stesso compito, ovviamente, la già citata Agenzia per la collaborazione in materia di frontiere esterne):

– Ufficio europeo di polizia (più conosciuto come EUROPOL, 1992, L’Aia). Agevola il coordinamento delle forze di polizia nazionali, soprattutto nella lotta contro determinati reati internazionali, quali la tratta degli esseri umani, il terrorismo, il traffico di stupefacenti o di sostanze radioattive e nucleari (v. anche Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga; Lotta contro il terrorismo).

– Accademia europea di polizia (2000, Hook). Promuovendo la cooperazione fa gli organismi interessati, punta a favorire la formazione di alti funzionari di polizia su base “transfrontaliera”, sempre più necessaria per far fronte ai problemi posti dalla criminalità internazionale negli ultimi anni.

– Organismo europeo per il consolidamento della cooperazione giudiziaria (più conosciuto come Eurojust, 2002, L’Aia). Favorisce il coordinamento fra le autorità giudiziarie nazionali, al fine di migliorare l’efficacia delle indagini e delle azioni penali.

Le “agenzie esecutive”. L’esistenza di una serie di agenzie è legata all’esecuzione di specifici programmi comunitari, e per questo esse hanno una durata limitata nel tempo. Sono attualmente attive le seguenti:

– Agenzia esecutiva per la competitività e l’innovazione (2005, Bruxelles), legata al programma “Energia intelligente – Europa”, la cui scadenza è prevista per il 2015.

– Agenzia esecutiva per la sanità pubblica (2005, Lussemburgo), che fino al 2010 gestirà il “programma pluriennale di sanità pubblica” della Commissione.

– Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura (2006, Bruxelles), col compito di gestire l’attuazione di una serie di programmi dell’Unione in materia didattica e culturale (v. Politica dell’istruzione).

Lorenzo Mechi (2009)




Aiuti di Stato

Il regime comunitario della concorrenza (v. Politica europea di concorrenza) si indirizza non solo alle imprese, ma anche agli Stati membri: questi ultimi, infatti, possono, con l’erogazione di fondi pubblici alle prime, distorcere il regolare funzionamento del mercato. Talvolta, tuttavia, l’intervento dello Stato è uno strumento di politica economica essenziale, ad esempio quando è volto a promuovere lo sviluppo economico e sociale del paese, a ridurre gli squilibri regionali, a sostenere la ricerca scientifica e tecnologica, a contrastare una concorrenza estera che beneficia di aiuti pubblici. La tutela della libera concorrenza si accompagna quindi, in tale caso, alla necessità di prevedere l’eventualità di un intervento pubblico nell’economia.

L’art. 87, par. 1 del Trattato istituivo della Comunità europea (TCE) (v. Trattati di Roma) dichiara «incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza». L’articolo vieta, pertanto, unicamente le misure statali che determinano un vantaggio a favore di alcune imprese o di determinati settori produttivi (criterio selettivo o carattere di specificità), mentre una misura generale di politica economica, volta a promuovere lo sviluppo dell’economia nazionale, salvo casi particolari, è lecita. È necessaria, inoltre, l’idoneità dell’aiuto a falsare o anche solo minacciare la concorrenza; occorre, infine, che la misura incida sugli scambi intracomunitari. In definitiva, il pregiudizio sussiste quando l’intervento statale rafforza la posizione di un’impresa nei confronti delle concorrenti negli scambi tra Stati membri; esso è accertato dalla Commissione (v. Commissione europea) caso per caso, valutando il mercato interessato, la posizione dell’impresa beneficiaria in tale mercato, il volume degli scambi effettivi intracomunitari dei prodotti interessati, le caratteristiche dell’aiuto, la situazione della concorrenza nel mercato comune prima dell’adozione del provvedimento.

L’art. 87, par. 1, si riferisce anche ad aiuti di ridotta entità o relativi a imprese di dimensioni limitate. Tuttavia, in virtù del principio de minimis, applicabile secondo il regolamento della Commissione n. 69/2001 del 12/01/01 anche in tale materia (con esclusione di alcuni settori, quali i trasporti o le attività connesse all’esportazione), gli aiuti sono consentiti se al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria.

La Corte di giustizia (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e la Commissione hanno accolto una nozione molto ampia di “aiuto”, che include ogni vantaggio, anche non gratuito, attribuito a un’impresa attraverso un intervento pubblico. Si considerano aiuti, quindi, non solo le sovvenzioni – ovvero attribuzioni patrimoniali prive di corrispettivo – ma anche le misure volte ad alleviare i costi finanziari di un’impresa che, pur non essendo sovvenzioni, ne hanno la natura e producono gli stessi effetti, quali le riduzioni di imposta, i prestiti agevolati, i servizi logistici e commerciali, la partecipazione al capitale di imprese pubbliche o private, i sostegni all’esportazione, i crediti preferenziali all’importazione. Tale nozione, poi, comprende anche gli aiuti concessi da enti territoriali, da organismi privati (quali un’impresa privata o un’impresa pubblica che operi in regime di diritto privato), da un organismo soggetto all’influenza preponderante dello Stato, di un ente pubblico o di un ente locale.

Il beneficiario dell’intervento deve essere un’impresa o un soggetto a essa assimilabile, incluse le imprese pubbliche, ossia quelle in cui lo Stato esercita, direttamente o indirettamente, un’influenza decisiva, in relazione, ad esempio, al controllo, alla partecipazione finanziaria o alla nomina degli amministratori.

L’art. 87, par. 1 non ha effetti diretti, non potendo quindi essere invocato dai singoli davanti ai giudici nazionali per contestare la liceità di un aiuto, che può essere mantenuto dallo Stato fintanto che la Commissione non accerti la sua incompatibilità con il mercato comune (v. Comunità economica europea).

Sono previste due tipi di deroghe: le eccezioni ipso iure e quelle discrezionali. Le prime, contemplate dall’art. 87, par. 2, riguardano aiuti considerati automaticamente compatibili, poiché perseguono obiettivi di interesse generale, quali: gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, senza discriminazione in relazione all’origine dei prodotti; gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali o da altri eventi eccezionali; gli aiuti previsti per determinate regioni della Repubblica federale di Germania per compensare gli svantaggi economici provocati dalla divisione del paese. Secondo il par. 3 dell’articolo, inoltre, la Commissione può autorizzare aiuti, altrimenti incompatibili, se, a seguito di un’apposita valutazione, risultino rispondere a esigenze indicate da tale paragrafo, quali gli aiuti volti a promuovere lo sviluppo di determinate attività o regioni, a favorire la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo, a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro, a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, altre categorie di aiuti, consistenti in sistemi generali di interventi, dichiarati compatibili con decisione del Consiglio (v. Consiglio dei ministri). In virtù del primo paragrafo dell’art. 87, infine, sono leciti gli aiuti nei settori per i quali è previsto un regime particolare, quali quelli relativi all’agricoltura, ai trasporti e alla sicurezza nazionale (disciplinati rispettivamente dagli artt. 36, 73 e 296 del TCE).

L’incompatibilità dell’aiuto può essere accertata esclusivamente dalla Commissione. L’art. 88 del TCE prevede a tal fine una diversa procedura, a seconda che si tratti di aiuti esistenti o di progetti diretti a istituire aiuti nuovi o a modificare quelli esistenti. Per quanto riguarda gli aiuti nuovi, gli Stati devono informare la Commissione in tempo utile, affinché essa possa fare le proprie osservazioni (c.d. obbligo di notifica), nonché sospendere l’attuazione delle misure progettate finché esse non siano state autorizzate a livello comunitario (c.d. obbligo di stand-still). L’obbligo di notifica dell’aiuto nuovo sussiste sempre, anche se esso è compatibile con il mercato comune. Sono esonerati da tale obbligo gli aiuti de minimis e quelli rientranti nelle categorie per cui sono stati adottati dalla Commissione regolamenti di esenzione, gli aiuti alla formazione e gli aiuti a favore delle piccole e medie e imprese che rientrano in massimali prestabiliti. Gli atti di esecuzione del progetto notificato adottati senza la decisione della Commissione sono invalidi; il controllo preventivo, quindi, è una condizione di efficacia del provvedimento nazionale che istituisce l’aiuto. L’art. 87, par. 3, relativo all’obbligo di notifica dei nuovi aiuti, ha efficacia diretta: sono attribuiti in tal modo agli interessati diritti che possono vantare davanti ai giudici nazionali, nel caso in cui abbiano subito un pregiudizio dall’aiuto concesso in violazione del divieto.

Per gli aiuti esistenti è previsto un esame permanente da parte della Commissione di intesa con gli Stati membri. Se la Commissione ritiene che un regime di aiuti esistente non sia compatibile, informa lo Stato interessato, il quale deve presentare le proprie osservazioni entro un mese; se, sulla base delle informazioni ottenute, la Commissione ritiene che l’aiuto violi il diritto comunitario, propone allo Stato di adottare le misure necessarie, domandando modifiche sostanziali del regime di aiuti esistente o la sua abolizione. Se lo Stato accetta le misure, ne informa la Commissione e vi dà esecuzione; se non si conforma alle raccomandazioni della Commissione, questa avvia il procedimento di indagine formale, dando inizio alla fase in contraddittorio. In deroga agli artt. 226 e 227 del TCE, la Commissione o uno Stato membro interessato, che ritengono vi sia stata una violazione del regime comunitario, possono adire direttamente la Corte di giustizia, senza che vi sia la fase precontenziosa. Non sussistendo per questa ipotesi l’obbligo di stand-still, lo Stato può continuare a erogare l’aiuto per la durata della procedura.

Maria Rosaria Mauro (2008)




Allargamento

Definizione e prime tappe

Il termine “allargamento”, o ampliamento, identifica il processo di adesione (v. Strategia di preadesione; Criteri di adesione) di uno o più Stati alle Comunità (ovvero all’Unione europea) dall’atto della presentazione della candidatura fino al riconoscimento della qualità di membro a pieno titolo, con tutti i diritti e gli obblighi relativi, salvo disposizioni transitorie.

Secondo l’art. 49 del Trattato sull’Unione europea (TUE) (v. Trattato di Maastricht; Criteri di convergenza), che regola la materia, i paesi candidati all’adesione, oltre a essere europei, devono rispettare l’art. 6, par. 1, che recita: «L’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello Stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri».

La procedura relativa, sempre in base all’art. 49, presenta una marcata caratterizzazione intergovernativa, sia perché le condizioni per l’ammissione e i relativi “adattamenti” dei trattati richiedono la negoziazione e la firma di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente, sia perché è il Consiglio dei ministri a ricevere la domanda di adesione e a pronunciarsi su di essa, con Voto all’unanimità. Ciò non toglie che anche la Commissione europea e il Parlamento europeo, specie dall’entrata in vigore dell’Atto unico europeo, esercitino un’influenza rilevante, giacché la prima viene consultata in sede di esame delle richieste di adesione e agisce da rappresentante dell’Unione durante i negoziati, mentre il secondo è chiamato a esprimere, a maggioranza assoluta, il proprio parere conforme sull’ammissibilità della candidatura (v. Rizzo, 2004, p. 5). L’art. 49 non precisa peraltro chi abbia il compito di intavolare i negoziati (v. Beutler et al., 2001, p. 676).

Nel concreto, una volta presentata la domanda, ogni fase della procedura è affidata alla responsabilità del Consiglio sotto la guida della presidenza di turno (v. Presidenza dell’Unione europea), all’indispensabile valutazione e concorso negoziale della Commissione, nonché al consenso del Parlamento europeo, che viene costantemente informato. A conclusione dell’iter, raggiunto un accordo sul testo del trattato da parte di una conferenza diplomatica, avviene quanto segue: il Consiglio europeo decide di procedere all’allargamento; la Commissione esprime il proprio parere; il Parlamento europeo vota il parere conforme (che approva i contenuti del trattato stesso, non solo la candidatura, sancendo sul piano politico-istituzionale, almeno secondo alcune interpretazioni, il compimento dell’allargamento); il Consiglio, con propria decisione, si pronuncia favorevolmente sull’adesione. A quel punto i plenipotenziari degli Stati procedono alla firma del trattato, il quale, per entrare in vigore, esige comunque la ratifica di «tutti i paesi contraenti, conformemente alle rispettive norme costituzionali».

Il testo dell’accordo si articola di regola nel trattato internazionale vero e proprio; nell’atto di adesione a esso unito, contenente le condizioni di accesso e le modifiche ai trattati esistenti; in eventuali protocolli e dichiarazioni. Pur nella continuità dell’istituzione Comunità economica europea (CEE), oggi UE, i successivi trattati di accesso, da considerarsi diritto comunitario primario (v. Diritto comunitario), hanno comportato una serie di adeguamenti nel Processo decisionale – recepiti con l’Atto unico (v. Atto unico europeo) e il TUE, che hanno aumentato i casi di voto a Maggioranza qualificata in Consiglio e le competenze attuative della Commissione – «fino alla trasformazione dei principi generali di diritto che stanno a base del diritto comunitario e delle tecniche interpretative che ne improntano l’applicazione» (ivi, p. 677).

Nel corso della sua storia, la Comunità, oggi Unione, ha conosciuto quattro fasi di allargamento, che hanno consacrato il sostanziale successo della costruzione europea, sia pure con qualche appesantimento per la funzionalità delle sue istituzioni e il dinamismo del processo di integrazione (v. Integrazione, metodo della).

La prima tappa del passaggio dall’Europa dei Sei paesi fondatori a quella attuale dei Ventisette ha interessato una triade di paesi dell’Europa nord-occidentale a democrazia consolidata: Danimarca, Irlanda e Regno Unito, il cui ingresso effettivo risale al 1° gennaio 1973. Negli anni Ottanta si è aggiunto un terzetto di Stati mediterranei emancipatisi da regimi autoritari: Grecia (1° gennaio 1981), Portogallo e Spagna (1° gennaio 1986).

Alla caduta del Muro di Berlino e parallelamente alla nascita dell’Unione europea, sancita dal TUE (firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, in vigore dal 1° novembre 1993), l’Europa dei Dodici si è incamminata verso un imponente processo di allargamento in più direzioni. Il primo passo, relativamente agevole, ha portato all’ingresso di un’altra terna, rimasta fino ad allora soggetta ai condizionamenti della Guerra fredda: l’Austria e due Stati scandinavi, Finlandia e Svezia (1° gennaio 1995). Poi è stata la volta, estremamente impegnativa, dell’Europa centro-orientale, reduce dall’esperienza dei regimi comunisti, e del Mediterraneo.

Quest’ultima fase – che va comunque valutata in un quadro più ampio, contraddistinto dal parallelo ampliamento dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e anche del Consiglio d’Europa – si è solo parzialmente conclusa con l’entrata in vigore, il 1° maggio 2004, del Trattato di adesione di dieci nuovi paesi (Cipro, Estonia Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria). Di fatto il processo, ovvero la “sfida” (v. Landuyt, Pasquinucci, 2005, p. 9), non solo si è protratto fino al 1° gennaio del 2007, con l’ingresso di Romania e Bulgaria, ma prosegue tuttora nei riguardi dei paesi balcanici occidentali e della Turchia. Ed è precisamente su tale stagione di apertura a est e a sud, data la sua attualità ed importanza, che ci si soffermerà prioritariamente in questa sede, per poi ritornare in modo sintetico sugli ampliamenti precedenti, quelli avvenuti sino agli anni Novanta, proponendo infine un giudizio complessivo.

Il recente allargamento

Il recente inserimento dei Dodici (dieci più i due ultimi) nell’Unione è passato per tre momenti successivi, che si possono definire tipici della fase attuale di allargamento: gli accordi di associazione (strumento previsto nel Trattato CEE, finalizzato ad instaurare forme di collaborazione economico-commerciale e di relazioni istituzionali con singoli paesi) (v. Associazione); la verifica della capacità dei richiedenti di soddisfare i cosiddetti criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione), ovvero i requisiti politico-istituzionali ed economici per l’adesione, fissati dal Consiglio europeo del giugno 1993; la delicatissima procedura negoziale relativa al recepimento dei trentuno capitoli dell’Acquis comunitario, cioè di tutto il corpus dei trattati, della legislazione e degli atti dell’Unione, ivi compresa la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, da parte del candidato.

Per quanto riguarda gli accordi di associazione, allorché i primi vennero stipulati con Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria (16 dicembre 1991, in vigore dal 1° febbraio 1994), essi assumevano la denominazione di “Accordi europei”. Si trattava di forme di collaborazione economica e di dialogo politico strutturato, miranti a incoraggiare la convergenza socio-economica, giuridica e istituzionale dei Paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) verso il modello CEE. Gli accordi, peraltro preceduti da intese commerciali, prevedevano: l’instaurazione di un regime di libero scambio e di elementi di unione doganale, ispirati alle quattro libertà di circolazione, al fine di accelerare la transizione all’economia di mercato; l’attivazione di strumenti di assistenza tecnica, volti a favorire l’adeguamento legislativo e istituzionale ai parametri comunitari; un confronto permanente sulle questioni di maggiore attualità politica, con particolare riferimento ai temi della Politica estera e di sicurezza comune (PESC).

Non si escludevano peraltro, parallelamente all’avvicinamento alla CEE, forme di cooperazione tra i potenziali candidati. Il 15 febbraio 1991, i governi dei tre Stati sopra ricordati avevano sottoscritto a Višegrad una Dichiarazione che avviava un processo di integrazione regionale in grado di facilitare il dialogo politico-economico con la Comunità, in cui essi intendevano inserirsi. A tradire l’inadeguatezza di tale impostazione, pur nel sussistere del Gruppo di Višegrad, interveniva la divisione della Cecoslovacchia, che consigliava l’instaurazione di rapporti bilaterali con i paesi ex comunisti. Anche la dissoluzione della Iugoslavia, presumibilmente incoraggiata da taluni paesi dell’Unione, suggeriva le medesime scelte. Per parte sua, l’URSS di Michail Gorbačëv, fallito il tentativo di putsch militare dell’agosto 1991, il 21 dicembre del medesimo anno si trasformava nella Comunità degli Stati indipendenti (CSI), con conseguenti dimissioni del Presidente, che segnavano la fine di un’intera epoca.

Pertanto l’UE procedeva a siglare i successivi accordi europei, segnatamente con Romania e Bulgaria, il 1° febbraio e l’8 marzo 1993 (in vigore dal 1° febbraio 1995), con la Repubblica Ceca e la Slovacchia, il 4 ottobre 1993 (1° febbraio 1995), con i tre Stati baltici, il 12 giugno 1995 (1° febbraio 1998), con la Slovenia, il 10 giugno 1996 (1° febbraio 1999).

Le richieste di adesione all’UE giungevano invece a Bruxelles nei tempi seguenti: Ungheria (31 marzo 1994), Polonia (5 aprile), Romania (22 giugno 1995), Slovacchia (27 giugno), Lettonia (13 ottobre), Estonia (24 novembre) Lituania (8 dicembre), Bulgaria (14 dicembre), Repubblica Ceca (17 gennaio 1996), Slovenia (10 giugno).

Quanto agli aspiranti Stati mediterranei, Turchia, Cipro e Malta avevano già sottoscritto, rispettivamente nel 1963, nel 1972 e nel 1970, accordi di associazione con la Comunità (entrati in vigore l’anno successivo), mentre le domande di adesione erano state presentate dalla Turchia nel 1987 e nel luglio 1990 da Cipro e Malta (quest’ultima riattivava però la richiesta il 10 settembre 1998).

Sotto il profilo politico, nell’ambito degli accordi europei, si procedeva alla creazione di un apparato istituzionale stabile, formato da un Consiglio di associazione, l’organo principale con funzioni di coordinamento, coadiuvato da un Comitato di associazione e da un Comitato parlamentare permanente di associazione. Tali organismi, composti dai rappresentanti dell’UE e dei paesi associati, si riuniscono di regola almeno una volta l’anno e vigilano sull’attuazione delle norme contenute nei trattati di associazione.

L’assistenza economico-finanziaria, unita alla diffusione del know-how, costituiva lo strumento più efficace di preparazione all’adesione, favorendo il progresso dei partner nei settori chiave dell’acquis comunitario, tra cui la produzione agricola, l’efficienza degli apparati amministrativi e la tutela dell’ambiente.

Nel frattempo, come ricordato, interveniva la fissazione dei criteri di Copenaghen, fondamentali per l’impostazione del processo (v. Criteri di adesione). Dei tre criteri, i primi due venivano espressamente concepiti per i PECO, cui il Vertice riconosceva la legittimità a proporsi come candidati all’adesione. Il loro ingresso veniva condizionato alla sussistenza di istituzioni democratiche stabili, in grado di garantire il principio di legalità, i Diritti dell’uomo, il rispetto e la tutela delle minoranze, nonché all’esistenza di un’economia di mercato funzionante e capace di reggere alla pressione concorrenziale del Mercato unico europeo. Nei paesi entrati precedentemente tali condizioni costituivano già una realtà (v. Letta, 2006, p. 48).

Il terzo criterio comportava l’obbligo del recepimento dell’acquis comunitario nell’ordinamento interno. Il raggiungimento di tale obiettivo, pur dipendendo cronologicamente ed essenzialmente dai primi due, avrebbe richiesto gli sforzi maggiori da parte dei richiedenti, i quali, oltre a dover adottare principi, obiettivi e normative complessi e differenziati, si trovavano a confrontarsi con una realtà comunitaria in continua evoluzione. Il che si traduceva in un costante adeguamento degli ordinamenti, accompagnato da una profonda riforma del sistema burocratico-amministrativo.

Varati i criteri guida del processo, si passava a quel punto alla seconda fase, eminentemente tecnica, ma di grande interesse. Il 9-10 dicembre del 1994, il Consiglio europeo di Essen metteva a punto la cosiddetta strategia di preadesione, disponendo un sistema di interventi ispirati al principio della condizionalità, ossia subordinati alla reale disponibilità dei destinatari a proseguire sulla via delle riforme in conformità con i criteri di Copenaghen. Gli strumenti citati rientravano peraltro nelle politiche di coesione adottate dall’Unione (v. Politica di coesione).

Sempre il Consiglio europeo di Essen, al fine di instaurare rapporti “strutturati” con i potenziali candidati, incaricava la Commissione di elaborare un Libro bianco, approvato dal successivo Vertice di Cannes, contenente le disposizioni per l’adeguamento della legislazione dei PECO alla normativa del mercato interno. Il summit di Madrid, del 15-16 dicembre 1995, rafforzava ulteriormente la strategia di preadesione, invitando la Commissione a una valutazione dell’impatto dell’allargamento sulle politiche comunitarie e sul quadro finanziario dell’UE.

Grazie al programma di azione denominato “Agenda 2000”, risalente al 15 luglio 1997 e recepito dal Consiglio europeo di Berlino nel marzo del 1999, accanto alle misure riguardanti la Politica agricola comune (PAC), il Fondo sociale europeo, il Fondo di coesione e l’insieme del quadro finanziario dell’UE per il periodo 2000-2006, venivano potenziati gli strumenti di assistenza ai paesi dell’allargamento, adattandoli alle esigenze di trasformazione degli apparati istituzionali e burocratico-amministrativi.

Nel dettaglio, i principali programmi, alcuni predisposti fin dal 1989, erano i seguenti: Poland and Hungary action for the restructuring of the economy (v. Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale), esteso dal Vertice di Essen a tutti i PECO, finalizzato all’assistenza tecnica e al trasferimento di competenze in tema di recepimento dell’acquis comunitario, di decentramento burocratico e di sviluppo delle autonomie locali; Special accession programme for agriculture and rural development (SAPARD), lo strumento di preadesione istituito con “Agenda 2000” per integrare PHARE e dedicato al settore agricolo, di vitale importanza per le economie dei paesi candidati; Instrument for structural policies for pre-accession (ISPA), concepito anch’esso come strumento di preadesione nel contesto di “Agenda 2000”, con il fine di sostenere la tutela ambientale, pressoché sconosciuta nei paesi PECO, nonché la costruzione delle infrastrutture e delle reti transeuropee di trasporto. Da segnalare infine, dal settembre 2004, l’Instrument for pre-accession assistance (IPA), proposto dalla Commissione e mirante a raccogliere in un unico programma i diversi strumenti di preadesione, da quelli relativi agli aspetti istituzionali alle diverse strategie di assistenza allo sviluppo.

Sempre nel 1997, una parte dei richiedenti registrava buone prestazioni rispetto ai criteri di Copenaghen. Dalla relazione della Commissione, che inaugurava proprio allora la sua attività di screening, risultava che singoli paesi avevano compiuto grandi progressi non solo nel consolidamento delle istituzioni democratiche, ma anche e soprattutto nella modernizzazione e nel potenziamento della pubblica amministrazione. Meno incoraggiante invece il versante economico: a fronte di una crescita costante e di una sensibile riduzione dei tassi di inflazione, premessa di stabilità dei prezzi, persistevano forti squilibri sociali, dovuti a prolungata disoccupazione e incapacità di procedere con le riforme.

L’attività di screening consisteva in un attento monitoraggio, anche in contraddittorio con gli interessati, della compatibilità tra le legislazioni vigenti nei paesi interessati e le norme comunitarie. In base ai risultati emersi, e trasmessi al Consiglio, la Commissione procedeva peraltro a destinare i programmi di aiuto, assegnando al Technical assistance information exchange office (TAIEX) il compito di assistere le amministrazioni pubbliche nel recepimento e nell’attuazione dell’acquis comunitario.

Tale attività rappresentava l’anello di congiunzione tra la seconda e la terza fase del processo. Sulla base del giudizio generalmente positivo espresso dalla Commissione, il Consiglio europeo di Lussemburgo del 12-13 dicembre 1997, di poco successivo alla firma del Trattato di Amsterdam (2 ottobre), stabiliva di avviare entro marzo 1998 il processo di adesione con undici candidati, Malta esclusa, aprendo però i negoziati in forma di Conferenze intergovernative bilaterali con un gruppo di sei Stati soltanto: Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia e Ungheria, più Cipro.

Il Consiglio approvava inoltre i “partenariati di adesione” con i PECO, che riunivano in un quadro unico le priorità per la preparazione all’adesione risultanti dall’analisi della situazione di ciascuno Stato, nonché le risorse finanziarie per assistere il candidato nell’attuazione delle priorità individuate durante il periodo di preadesione.

La conferenza europea si apriva ufficialmente il 30 marzo 1998, con una riunione dei ministri degli Esteri dei Quindici e dei PECO, più Cipro, cui seguiva l’inizio dei negoziati bilaterali con i sei prescelti (prima riunione a livello di ministri degli Esteri, 6 ottobre 1998). Poco più tardi, il Vertice di Helsinki del 10-11 dicembre 1999 ammetteva al tavolo negoziale, su raccomandazione della Commissione, anche Slovacchia, Lettonia, Lituania e Malta, cui venivano aggiunte Bulgaria e Romania (seduta inaugurale della Conferenza ministeriale intergovernativa: 15 gennaio 2000). In pratica, a tutti i richiedenti si assicuravano identiche possibilità di adesione, mentre la Turchia, benché tenuta alla porta, otteneva comunque lo status di paese candidato (ivi, p. 44).

I risultati dello screening della Commissione costituivano la base programmatica delle conferenze intergovernative bilaterali, incaricate di preparare i trattati di adesione. Tali conferenze, condotte sotto la guida della presidenza di turno dell’UE (v. Presidenza dell’Unione europea), con una cadenza semestrale per i ministri e mensile per gli incontri tra i rappresentanti permanenti degli Stati membri (v. Rappresentanze permanenti presso l’Unione europea; Comitato dei rappresentanti permanenti) e gli ambasciatori o i capi negoziatori dei nuovi aderenti, si concentravano sulla capacità del singolo candidato di soddisfare il terzo criterio di Copenaghen, cioè di recepire l’acquis comunitario al momento dell’ingresso, specie in tema di estensione del mercato unico. Per ogni capitolo dell’acquis la Commissione, incaricata altresì di continuare il monitoraggio, presentava al Consiglio una relazione contenente le posizioni comuni, da approvare all’unanimità. Poi il Consiglio procedeva ai negoziati, un capitolo alla volta, a livello tanto politico che tecnico.

La fase negoziale, scandita dalle relazioni annuali della Commissione, evidenziava i progressi compiuti da ciascun candidato in quello che può essere definito un epocale adeguamento dei regimi interni al modello dell’Unione: dalla riforma del sistema giudiziario e di polizia, specie in tema di trasparenza della pubblica amministrazione (in realtà corruzione, frodi e criminalità risultano tutt’altro che estirpate), alla protezione delle minoranze e al rispetto dei diritti umani mediante una legislazione antidiscriminazione; alle privatizzazioni, giunte ai livelli dell’Unione; alle trasformazioni ragguardevoli in materia di mercato interno e nel settore finanziario; all’allineamento agli standard comunitari, sia pure con ritardi, nei campi alimentare e ambientale, sanitario, delle qualifiche professionali e soprattutto sul terreno fiscale, nonché del cosiddetto “terzo pilastro” del TUE (v. Pilastri dell’Unione europea; Trattato di Maastricht), Giustizia e affari interni (GAI). Ulteriori sforzi venivano infine richiesti nei capitoli della politica agricola e di quella regionale, mentre dal punto di vista economico, tra il 2001 e il 2002, i candidati continuavano a mostrare una tendenza costante alla crescita, anche a fronte di segnali di crisi del quadro politico-economico internazionale.

Il 2002 segnava l’effettivo giro di boa dell’iter negoziale. Il 21-22 giugno, il Consiglio europeo di Siviglia ribadiva la previsione del vertice di Laeken, dell’anno precedente, secondo cui i negoziati in corso con Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria si sarebbero chiusi entro la fine dell’anno. In tale prospettiva, un gruppo di lavoro, convocato dalla presidenza spagnola, si incaricava di predisporre i testi giuridici contenenti le posizioni comuni raggiunte dai Quindici e dai singoli candidati su ciascuno dei trentuno capitoli dell’acquis.

Il successivo 9 ottobre la Commissione sottoponeva all’esame del Consiglio un “documento di strategia”, favorevole alla chiusura positiva delle trattative con i dieci individuati a Siviglia. Consigliava invece, per il momento, l’esclusione di Bulgaria e Romania. Di qui la decisione del Vertice di Copenaghen, del 12-13 dicembre 2002, di annunciare ufficialmente l’allargamento. Tanto che il 16 aprile 2003, nel Vertice straordinario di Atene – ottenuti nel mese precedente il parere favorevole della Commissione e le risoluzioni legislative del Parlamento contenenti il parere conforme di accettazione della richiesta di adesione dei singoli paesi, nonché la decisione formale del Consiglio sull’ammissione dei richiedenti, adottata il 14 aprile – i plenipotenziari dei Venticinque (nell’occasione i primi ministri e i ministri degli Esteri, ma anche altri) procedevano alla firma del Trattato di adesione, poi ratificato sia dai Quindici che dai paesi aderenti. Il 1° maggio 2004 segnava l’entrata in vigore del testo.

In sé, il Trattato di adesione constava soltanto di tre articoli, attestanti: l’ingresso dei nuovi Stati nell’Unione europea; il conferimento al Consiglio della facoltà di modificare singole parti del Trattato, nel caso di mancata ratifica da parte di uno o più richiedenti: cosa che non avrebbe pregiudicato, è bene precisarlo, l’ingresso degli altri; il deposito del testo negli archivi della Repubblica italiana, al cui governo è affidato il compito di trasmetterne copia autentica a ciascuno degli Stati firmatari, nelle rispettive lingue nazionali.

Ben più corposo, l’Atto di adesione, unito al Trattato e parte integrante di esso, elenca gli obblighi assunti dai singoli candidati; le modifiche apportate ai precedenti trattati; gli adattamenti permanenti delle diverse voci dell’acquis comunitario in riferimento all’ingresso dei nuovi membri (ripartite in allegati); le misure transitorie e le deroghe temporanee alle disposizioni dei trattati UE, causa anche le modifiche introdotte dai Trattati di Amsterdam e di Nizza (v. Trattato di Amsterdam; Trattato di Nizza) nel corso dei negoziati; le regole relative all’applicazione dell’Atto stesso. Seguono i Protocolli, contenenti disposizioni particolareggiate, e le Dichiarazioni, che riflettono le posizioni assunte dagli Stati, sia membri, sia candidati, tanto singolarmente che collettivamente, su specifici aspetti degli accordi, sotto i più diversi profili.

Le circa cinquemila pagine del Trattato di Atene, con l’ingente mole di misure transitorie e clausole di salvaguardia, rivelano le difficoltà incontrate nel negoziato, soprattutto nei capitoli Schengen, PAC, GAI e PESC, nonché in tema di libera circolazione dei lavoratori (v. Rizzo, 2004, p. XV) (v. Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea).

Sul piano istituzionale, le disposizioni introdotte non apportano modifiche rilevanti. Mentre il Trattato di Nizza, varato dal Consiglio europeo nel dicembre 2000 ed entrato in vigore il 1° febbraio 2003, fissava il numero dei parlamentari a 732, compresi i 17 di Bulgaria e i 33 di Romania (presenti con osservatori), lo stesso numero veniva suddiviso fra i Venticinque, laddove Sofia e Bucarest, una volta accolte nell’UE, avrebbero ottenuto 18 e 36 parlamentari, portando così il numero totale a 786 (il recente Trattato di Lisbona prevede però un numero complessivo di 750 deputati, più il presidente). Un’altra variazione riguarda la riponderazione dei voti in Consiglio, ai fini della formazione della maggioranza qualificata e della minoranza di blocco.

In conclusione, del nuovo allargamento risultano evidenti i vantaggi economici soprattutto in riferimento all’estensione del mercato unico. Nonostante le difficoltà di una rapida liberalizzazione del movimento delle persone e dei lavoratori provenienti dai nuovi membri, non meno che dei servizi – con negative ripercussioni per i referendum francese e olandese sul Trattato costituzionale – è prevedibile un aumento della competitività interna dell’UE, nonché un miglioramento sensibile dei sistemi produttivi, legato anche alle delocalizzazioni e al trasferimento tecnologico (ivi, pp. 150-158). Inoltre, accanto all’intensificazione degli scambi, un effetto positivo deriverà dall’abbattimento dei costi e dei tempi di attesa attribuibili ai controlli doganali (v. Letta, 2006, pp. 65-70).

Di grande attualità, infine, le questioni di bilancio, soprattutto in materia di Politica agricola comune e di fondi strutturali (v. Fondo europeo di sviluppo regionale; Fondo sociale europeo). Per quanto riguarda il primo aspetto, è stato rivisto il sistema di finanziamenti, con il fine di promuovere lo sviluppo rurale nei paesi aderenti, piuttosto che erogare somme ingenti in favore degli agricoltori. Tale decisione, dovuta sia alla non volontà dei Quindici di aumentare il bilancio dell’UE, sia al gran numero di occupati in agricoltura nei Dieci, ha suscitato parecchi risentimenti, soprattutto in Polonia. Tuttavia potrebbe contribuire a evitare che i finanziamenti comunitari ritardino il necessario ridimensionamento e la ristrutturazione del settore primario nelle economie dei nuovi entrati.

Relativamente alle politiche di coesione, esse hanno costituito, come accennato, la voce del Bilancio dell’Unione europea di gran lunga più utilizzata nel quadro dell’allargamento ai PECO. Data la centralità dei programmi di sostegno alla convergenza, l’UE ha stabilito di rafforzare tali strumenti, nonché di indirizzarli verso settori specifici, risultati di prioritario interesse al vaglio della Commissione. Un caso particolare è quello della sicurezza nucleare (si pensi alle controversie tra Austria e Repubblica Ceca sulla centrale nucleare di Temelín), ma non meno spinoso è il tema del controllo alle frontiere esterne, specie nell’area di Kaliningrad, la Königsberg di Kant, oggi enclave russa al confine tra Polonia e Lituania (v. Rizzo, 2004, pp. 30-31; Letta, 2006, pp. 63-64, 78-85).

Sulla ripartizione dei fondi strutturali si accendono peraltro le tensioni interne all’UE, dal momento che aree fin qui beneficiarie dei finanziamenti comunitari, quali il Mezzogiorno italiano e ampi territori spagnoli e portoghesi, lamentano la perdita degli aiuti. Le dispute sottolineano le profonde disparità di sviluppo tra i paesi membri, divario che l’Unione, proiettata oltretutto verso ulteriori ampliamenti, è chiamata a colmare.

Un aspetto accessorio, ma al tempo stesso fondamentale, del processo di allargamento, su cui si era già soffermato il Consiglio europeo di Copenaghen, è stato l’impulso alla riforma istituzionale della UE per far fronte a una situazione tanto mutata. Un’esigenza fattasi addirittura pressante nel dopo Helsinki: come è noto, i problemi lasciati aperti dal Trattato di Amsterdam trovavano una soluzione insoddisfacente nel ricordato Trattato di Nizza, per poi dare il via, nel Consiglio europeo di Laeken, tenutosi il 14-15 dicembre 2001, alla Convenzione europea incaricata di elaborare la proposta di Trattato costituzionale (v. Costituzione europea), il cui testo, varato a Roma dai governi il 29 settembre 2004, sarebbe stato sostituito da quello che va sotto il nome di Trattato di Lisbona (v. Rapone, 2005, p. 121).

L’entrata dei Dieci comportava un aumento del territorio dell’Unione di circa 730.000 kmq, portandolo a 3.970,450 milioni complessivi, mentre la popolazione passava da 380,4 a 457 milioni di cittadini (dati UE). Sul piano economico, date le difformità di sviluppo tra i Quindici e i nuovi membri, si calcolava un aumento non superiore al 5% del PIL complessivo, stimato nel 2003 a 9755,4 miliardi di euro, pari a quello degli USA. Peraltro prospettive confortevoli emergevano dal dinamismo delle economie dei nuovi entrati, con tassi di crescita notevolmente più elevati rispetto a quelli dei vecchi membri. In tale contesto, si segnala la decisione del Vertice europeo di Bruxelles, del 16 giugno 2006, di accettare l’ingresso della Slovenia nella zona euro a partire dal 1° gennaio 2007.

Romania e Bulgaria, Turchia e Balcani occidentali

Come accennato, il processo di allargamento ha visto il recente ingresso nell’Unione dei due ultimi Stati facenti parte del gruppo di Helsinki: Romania e Bulgaria. A rallentare l’iter hanno concorso i sensibili ritardi nello sviluppo economico, soprattutto in campo agricolo e nei settori ambientale, delle infrastrutture e dei trasporti. A ciò si sono aggiunte le difficoltà di recepimento dell’acquis da parte delle strutture burocratico-amministrative, anche a causa di gravi episodi di corruzione registratisi a livello locale e nazionale. L’impegno dei governi di Bucarest e Sofia nel proseguire sulla strada delle riforme, ampiamente sostenute dai programmi di preadesione, ha comunque consentito ad entrambi di giungere alla firma del Trattato di adesione il 25 aprile del 2005.

Fino al 1° gennaio 2007, data dell’entrata effettiva dei due paesi, in accordo con la lettera del Trattato, profonde incertezze permanevano all’interno delle istituzioni dell’Unione. Di fatto, il 25 ottobre 2005, la Commissione presentava un rapporto nel quale si esprimevano perplessità circa la capacità dei due paesi di completare l’adeguamento all’acquis entro la data prevista. E ancora, il 17 maggio 2006, il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, causa anche una certa “fatica” da allargamento presente nelle forze politiche e nell’opinione pubblica, annunciava la scelta dell’esecutivo UE di rinviare a ottobre un pronunciamento definitivo, raccomandando al contempo ai due governi di adottare urgenti provvedimenti nel campo della legislazione anticorruzione, del riciclaggio del denaro sporco (v. Lotta al riciclaggio di denaro sporco), delle frodi, nonché della tutela dei diritti umani e dell’integrazione interetnica.

Tali nodi problematici, gli stessi intorno ai quali si sono concentrate le resistenze verso l’ingresso dei paesi balcanici occidentali, restano a tutt’oggi motivo di preoccupazione e di qualche diffidenza verso i nuovi membri (v. Politica dell’Unione europea nei Balcani).

La questione della candidatura turca, ammessa dal Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999, ha infiammato per decenni il dibattito comunitario, coinvolgendo opinioni pubbliche nazionali non meno che élites governative. Si tratta in effetti del processo di convergenza più lungo e complesso che la storia dell’integrazione abbia mai conosciuto. Come accennato, la firma dell’accordo di associazione tra Turchia e CEE risale al 12 settembre 1963, mentre la richiesta di adesione all’UE, notoriamente sostenuta da Regno Unito e dagli USA, porta la data del 14 aprile 1987.

Tuttavia il governo di Ankara, che guida un paese di più di 70 milioni di abitanti solo in minima parte inserito nell’Europa geografica, è rimasto a lungo escluso dai negoziati, causa le gravi insufficienze registrate in tema di rispetto dei diritti umani e di tutela delle minoranze (v. Letta, 2006, pp. 112-113). Soltanto il 6 ottobre 2004 la Commissione ha dichiarato che la Turchia soddisfa sufficientemente i criteri politici di Copenaghen, raccomandando l’apertura delle trattative, seppur soggette a particolari condizioni, in primis la prosecuzione inalterata delle riforme, con relativa applicazione. Preso atto delle proposte della Commissione e del voto favorevole del Parlamento, il Consiglio europeo del 16-17 dicembre 2004 ha fissato l’inizio delle trattative per il 3 ottobre 2005, per ora condotte con molta lentezza.

A determinare residue resistenze a ogni livello dell’UE concorrono molteplici ragioni, di carattere storico-politico e anche religioso-culturale. Tra le prime, occupa una posizione preminente il mancato riconoscimento da parte di Ankara della repubblica di Cipro, con relativi problemi doganali, malgrado la recente ammissione di questa nell’UE. Persistono inoltre gravi insufficienze in tema di rispetto dei diritti umani, amministrazione giudiziaria e carceraria, tutela delle minoranze, con particolare riferimento al problema curdo.

Sul piano culturale, ancora nel 2002, l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing sottolineava l’alterità della Turchia rispetto all’Europa, mettendo in guardia dagli effetti destabilizzanti di un eventuale ingresso nell’UE. Una riforma della Costituzione francese stabiliva peraltro che dopo l’adesione di Bulgaria, Romania e Croazia, la ratifica di qualsiasi altro trattato d’adesione, compreso quello della Turchia, debba richiedere un referendum popolare. Recentemente alcuni governi hanno auspicato un “partenariato privilegiato” con Ankara, ma non un’ammissione a pieno titolo.

Più apprezzabili, pur in presenza di fenomeni persistenti di corruzione, risultano invece le riforme attuate nel campo dell’economia, che registra del resto performance sostenute. Al momento, l’ingresso della Turchia nell’UE è previsto per una data piuttosto lontana e, per quanto resti ipotesi concreta, appare tema controverso in riferimento ai valori e all’eredità culturale condivisa dell’Europa, nonché alla rivendicazione delle radici cristiane dell’identità comune (ivi, pp. 110-118).

Non facile risulta anche l’allargamento alla Croazia e ancor più alla Macedonia, uscite dalla drammatica esperienza della disgregazione della Iugoslavia. Il 21 ottobre 2001, Zagabria avviava relazioni formali con l’UE mediante un nuovo tipo di accordo, detto di stabilizzazione e associazione (ASA), concepito nel contesto del Processo di stabilizzazione e associazione, consacrato dal summit di Zagabria del 24 novembre 2000 fra capi di Stato e di governo dell’UE, dei paesi dell’ex Iugoslavia e dell’Albania.

L’accordo con la Croazia, sottoscritto dalle Comunità e dagli Stati membri, entrava in vigore il 1° febbraio 2005, mentre la domanda di adesione giungeva il 21 febbraio 2003. Nel giugno di quell’anno, il Vertice di Salonicco confermava le prospettive di accesso nell’UE dei paesi balcanici occidentali. Nell’aprile 2004, la Commissione si esprimeva positivamente sulla candidatura croata, accettata in giugno dal Consiglio europeo. Dopo alcuni rinvii, il 3 ottobre 2005 il Consiglio europeo di Lussemburgo decideva e avviava, insieme all’apertura dei negoziati della Turchia, anche quelli con la Croazia, subito seguiti dallo screening della Commissione, a condizione che Zagabria continuasse a cooperare con il Tribunale internazionale per i crimini di guerra nell’ex Iugoslavia. Alcuni capitoli dell’acquis sono stati aperti nel corso del 2006. Recentemente, il presidente Barroso ha annunciato che i negoziati potranno chiudersi entro il 2009.

L’ex repubblica iugoslava di Macedonia, che il 9 aprile 2001 ha sottoscritto per prima l’accordo di stabilizzazione e associazione, preceduto da altri di carattere economico, ha presentato formale richiesta di adesione il 22 marzo 2004, ottenendo, il 17 dicembre 2005, lo status di candidato da parte del Consiglio. L’ingresso nell’Unione richiede tuttavia una soluzione delle tensioni diplomatiche tra Skopje e Atene, segnate da ripetuti episodi di attrito, tra cui l’embargo imposto nel 1993 dalla Grecia, alla quale la denominazione di Macedonia appare violazione del patrimonio culturale ellenico. Lungi dal costituire una pregiudiziale all’ammissione di Skopje, la questione evidenzia però un ulteriore fattore di contrasto nel processo.

Sul piano complessivo, il 13 marzo 2006, i ministri degli Esteri dell’UE hanno riaffermato la “prospettiva europea” di Croazia, Albania, Serbia-Montenegro, Bosnia-Erzegovina ed ex Repubblica iugoslava di Macedonia, precisando che l’“obiettivo finale” degli accordi di stabilizzazione e di associazione è l’adesione all’Unione. Il 12 giugno 2006 l’Albania è stato il terzo paese a siglare l’accordo, gli altri negoziati sono ancora in corso.

Si prevede peraltro la conclusione di un accordo di libero scambio fra i paesi balcanici occidentali, al posto degli attuali 31 accordi bilaterali.

Gli allargamenti del XX secolo: dai Sei ai Nove: 1973

Se l’ultima ondata di adesioni ha conferito al concetto di allargamento un significato epocale, suggellando la riconciliazione tra le due metà del continente e consolidando la percezione dell’integrazione quale strumento di pace e di prosperità, gli ampliamenti iniziali delle Comunità, condotti in base agli artt. 237 CE (abrogati dal Trattato di Amsterdam), 98 CECA e 205 Euratom, risentirono delle problematiche proprie dell’Europa occidentale postbellica.

Il primo ingresso di nuovi partner, guidati dall’Inghilterra, rappresentò uno dei momenti più delicati per il cammino appena intrapreso dai Sei paesi fondatori. Allorché infatti, il 10 agosto del 1961, il premier conservatore Harold Macmillan inoltrò la richiesta di adesione al Mercato comune (MEC) (v. Comunità economica europea), la questione dell’ingresso britannico divenne il nodo intorno al quale la Comunità ridiscusse per un decennio i propri equilibri interni, nonché gli approcci teorici alla base del suo funzionamento.

Anche tralasciando il fatto che il governo di Londra aveva fino a quel momento avversato i Trattati di Roma la richiesta esigeva di ripensare i meccanismi economici e istituzionali del MEC, peraltro ancora in fase di assestamento, per adattarli a una struttura più ampia e più complessa. Sulla scia britannica, anche la Danimarca, l’Irlanda e, a breve distanza, la Norvegia avevano presentato domanda di adesione. Il che appariva indicativo della capacità di attrazione esercitata dal mercato comune: economie sviluppate come quelle nordiche non solo si ripromettevano di godere, grazie al MEC, di ulteriore crescita e stabilità, ma cominciavano a paventare i rischi dell’esclusione (v. Rapone, 2005, p. 45).

La prospettiva dell’ingresso britannico suscitava particolari apprensioni in Charles de Gaulle, presidente della Quinta repubblica francese. Ai suoi occhi, la partecipazione del Regno Unito, potenza mondiale dalla spiccata vocazione atlantica, avrebbe compromesso la costruzione di un’Europa a leadership parigina, in grado di rappresentare una forza autonoma nel contesto occidentale e un’alternativa al bipolarismo della Guerra fredda (v. Craveri, Quagliariello, 2003, pp. 95-134).

Del resto, una volta seduta al tavolo delle trattative nell’autunno del 1961 – primo e unico caso in cui i negoziati furono condotti dagli Stati membri in quanto tali – la delegazione britannica, per quanto guidata da un europeista come Edward Heath, espresse forti reticenze verso gli obblighi comunitari, in primis i regolamenti della politica agricola. A tutt’oggi capitolo nevralgico dei negoziati per l’adesione, la PAC, inaugurata nel 1962, era ispirata al principio della preferenza comunitaria. Pertanto la Gran Bretagna avrebbe dovuto rinunciare alle forniture agricole provenienti dai paesi terzi, non meno che ai rapporti commerciali privilegiati con il Commonwealth, stante l’approccio protezionista del MEC, incarnato dalla Tariffa esterna comune. Nella tornata negoziale del luglio-agosto 1962, Heath chiese con insistenza di ottenere alcune deroghe al regime tariffario e alla PAC.

Dal canto suo, de Gaulle non soltanto rifiutava di riplasmare il MEC sulla base degli interessi del Regno Unito, ma temeva il rischio, una volta entrata l’Inghilterra, della soggezione dell’Europa comunitaria ai voleri di Washington, nel contesto della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), dal cui comando militare la Francia sarebbe uscita agli inizi del 1966. Pertanto, il 14 gennaio del 1963, in una celebre conferenza stampa, il generale annunciò il suo veto, sottolineando l’inconciliabilità economico-commerciale fra Regno Unito e CEE. Una decisione che chiudeva le porte anche a Danimarca, Irlanda e Norvegia.

Il diniego francese suscitò risentimenti e disappunto nei Cinque, malgrado la preoccupazione per la deriva intergovernativa patrocinata da Londra. Soprattutto Italia e Olanda (v. Paesi Bassi) nutrivano speranze nella capacità riequilibratrice della Gran Bretagna nel contesto comunitario, in cui andava consolidandosi il cosiddetto asse franco-tedesco. Le tensioni non provocarono comunque alcuna rottura. Troppi interessi legavano i Sei alla Comunità per metterne in discussione l’esistenza, così come era impensabile fare a meno della Francia.

Una nuova domanda di adesione fu presentata l’11 maggio 1967 dal governo laburista di Harold Wilson, sempre seguito dagli altri tre paesi. Londra appariva orientata a una maggiore flessibilità, soprattutto in materia di regolamenti comunitari e di rapporti euroatlantici, ma ancora una volta incontrò la netta chiusura di de Gaulle. Il 27 novembre, senza neanche attendere l’apertura dei negoziati, il presidente pose nuovamente il veto, sostenendo l’incompatibilità della situazione economica del Regno Unito, allora attraversato da una forte crisi, con gli standard comunitari.

Soltanto dopo il ritiro del generale e l’elezione alla presidenza di Georges Pompidou, l’ingresso di nuovi paesi nella CEE fu posto all’ordine del giorno della riunione dei capi di Stato e di governo tenutasi all’Aia nel dicembre del 1969. A indurre Pompidou al cambiamento concorreva, non da ultima, la crescita economica, ma anche politica della Repubblica Federale Tedesca (v. Germania). Sulla scia dei segnali di distensione tra USA e URSS, seguiti nel 1972 dall’accordo sulla limitazione degli armamenti strategici, il cancelliere socialdemocratico Willy Brandt, eletto nell’ottobre 1969, aveva inaugurato la cosiddetta Ostpolitik, prospettando un ruolo di ponte della RFT tra Est e Ovest (v. Rapone, 2005, pp. 54-56). Di riflesso, il presidente francese individuò nell’adesione britannica un fattore di bilanciamento, oltre che una garanzia contro le “tentazioni della sovranazionalità” presenti negli altri partner (v. Landuyt, Pasquinucci, 2005, p. 79).

Pompidou poté ottenere sempre all’Aia (e con il Trattato di Lussemburgo del 22 aprile 1970) una migliore regolamentazione del regime delle “risorse proprie” della PAC, da sempre caposaldo della politica europea di Parigi. Pertanto la Gran Bretagna avrebbe dovuto adattarsi a un sistema strutturato di norme fissate e condivise.

Riprese le trattative nell’estate del 1970 a Lussemburgo, le principali questioni concernevano ancora l’adattamento dei paesi candidati alle regole della PAC, alle disposizioni tariffarie CEE, al sistema di finanziamento delle politiche comuni e al principio delle risorse proprie (v. Olivi, Santaniello, 2005, p. 69). Il nodo più spinoso fu il contributo britannico al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), dato che il governo di Londra mal tollerava di sostenere politiche come la PAC, di cui beneficiava in misura minima. Altra fonte di controversia era lo status privilegiato della sterlina, al quale la Francia desiderava porre fine. Solo dopo un incontro a porte chiuse tra il premier Heath e Pompidou il primo diede il suo assenso, a patto di fissare autonomamente modalità e tempi di riforma della valuta nazionale (ivi, p. 70).

Fissato un periodo transitorio quinquennale per l’adeguamento tariffario in tema di importazioni dai paesi extracomunitari, e settennale per le disposizioni fiscali, nonché una deroga temporanea all’applicazione integrale della PAC, il 22 gennaio 1972, nella capitale belga, si giunse alla firma dei Trattati di adesione, entrati in vigore il 1° gennaio 1973. Ne restò tuttavia esclusa la Norvegia, causa l’esito negativo del referendum popolare di ratifica, tenutosi il 25 settembre 1972, mentre quelli di Irlanda e Danimarca, del 10 maggio e 2 ottobre, diedero risultati positivi. Durante la fase negoziale, la CEE aveva adottato un regolamento sulla politica comune della pesca che liberalizzava l’accesso alle acque territoriali degli Stati membri, suscitando la reazione degli interessi norvegesi nel settore.

Ma le difficoltà non erano finite, sia per l’aggravarsi della crisi economico-finanziaria internazionale, sia per il faticoso adattamento inglese alla nuova dimensione europea e ai costi dell’integrazione. Tra le prime risoluzioni del nuovo governo laburista, guidato ancora da Wilson, figurò la rinegoziazione dell’adesione, i cui risultati dovevano essere sottoposti a referendum popolare. Gli esiti del secondo negoziato, scarsamente significativi, produssero comunque l’effetto auspicato dal primo ministro: la maggioranza dei votanti sancì l’irreversibilità della partecipazione britannica (v. Rapone, 2005, p. 59). L’adesione alle Comunità e relativo diritto (v. Diritto comunitario), ivi compresa la subordinazione alla giurisprudenza della Corte di giustizia, ha comportato profonde modifiche dell’ordinamento interno inglese, disposte mediante lo European communities act, votato dal Parlamento nel 1972.

L’ingresso dei paesi mediterranei, 1981-1986

Nella prima metà degli anni Ottanta, l’integrazione si orientò verso i cosiddetti paesi “mediterranei”, Grecia, Portogallo e Spagna, comportando vistose modifiche per la configurazione economica comunitaria. Diverse concause furono all’origine del fenomeno, seguito al ripristino delle istituzioni democratiche dopo l’esperienza dei colonnelli in Grecia, del franchismo in Spagna e della dittatura di António de Oliveira Salazar e Marcelo Caetano in Portogallo. L’ingresso nella CEE inseriva i tre paesi nel sistema occidentale e atlantico, assicurando peraltro notevoli vantaggi economici, a cominciare dagli aiuti a economie arretrate come quelle mediterranee.

Pur con analoghe condizioni di partenza, il processo di adesione si compì secondo modalità e tempi differenti. La tradizione di rapporti economici con la Grecia, risalenti all’accordo di associazione del 1962, agevolarono i negoziati, apertisi il 27 luglio 1976 (domanda di accesso, 12 giugno 1975) e conclusi il 28 maggio del 1979 con la firma del Trattato di adesione, entrato in vigore i 1° gennaio 1981. Il governo greco sottoscrisse clausole non poco onerose, fra cui cinque anni di periodo transitorio, prima dell’entrata ufficiale nel MEC, per adattarsi pienamente alle norme comunitarie e alla PAC. Per taluni prodotti agricoli e sulla libera circolazione dei lavoratori l’attesa fu di sette anni.

Gli oneri per la CEE si ripartirono tra interventi a sostegno dei prezzi agricoli e finanziamenti per le politiche regionali e sociali. Un carico destinato ad accrescersi, insieme all’aumento della pressione migratoria, con l’ingresso del Portogallo e della Spagna, i cui governi avevano presentato domanda di adesione il 28 marzo e il 29 luglio del 1977.

L’apertura dei negoziati, avvenuta il 6 giugno 1978 per il Portogallo e il 5 febbraio 1979 per la Spagna, pose subito in rilievo le difficoltà di armonizzazione. Al di là della loro arretratezza sociale e politica, motivo di seria preoccupazione fra i Nove, entrambi gli Stati non solo entravano in concorrenza con le agricolture mediterranee di Francia e Italia, ma apparivano temibili anche nella pesca, avendo la Spagna una capacità produttiva seconda soltanto a quella norvegese (ivi, p. 78).

Le resistenze, per lo più francesi, cedettero alla valutazione politica. Tra le finalità essenziali del progetto comunitario spiccava infatti la diffusione della pace e dei valori democratici. La firma dei Trattati di adesione, il 12 giugno 1985, diede il via all’Europa a Dodici, il 1° gennaio 1986. Permanevano tuttavia gli aspetti problematici riscontrati nella fase negoziale. Un articolato schema di misure transitorie, da applicarsi in un periodo compreso tra i sette e i dieci anni, favorì l’adeguamento dei due paesi iberici al meccanismo comunitario.

I tre nuovi membri divenivano i principali beneficiari dei programmi di sviluppo regionale, nonché del sostegno della PAC, con l’effetto di accelerare l’adeguamento economico-produttivo, specie di Portogallo e Spagna, al contesto della CEE. Più defilato l’atteggiamento greco nel periodo compreso tra il 1981 e il 1989, allorché il paese, guidato dal premier socialista Andreas Papandreu, accentuò la caratterizzazione nazionale del proprio indirizzo politico (ivi, pp. 78-79).

L’ingresso automatico della Repubblica Democratica Tedesca, 1990

Per ragioni di completezza, oltre che per l’impatto esercitato sul funzionamento e sulle dinamiche della CEE, non va dimenticato l’allargamento sui generis verso la Repubblica Democratica Tedesca (RDT), compiutosi il 3 ottobre 1990 con la riunificazione della Germania. Il “miniallargamento” determinava un improvviso mutamento degli assetti comunitari, conferendo alla Bundesrepublik una marcata preminenza di tipo territoriale, demografico, economico e per certi aspetti politico. Si trattò peraltro del primo episodio di apertura a est, che prefigurava, accanto alle potenzialità, tutte le difficoltà e i costi dell’incontro tra Occidente avanzato e Oriente arretrato (v. Letta, 2006, pp. 37-39). Non a caso, sempre nel 1990, il presidente francese François Mitterrand prospettava la creazione di una Confederazione europea da parte di un gruppo di paesi, fra cui i fondatori delle Comunità, la quale agisse da “nucleo duro” e motore propulsivo, guidando il processo di convergenza dei nuovi arrivati con la realtà comunitaria. A prevalere fu tuttavia la linea tradizionale degli accordi di associazione, riconosciuti dal Consiglio europeo di Strasburgo del dicembre 1989, all’indomani cioè della caduta del muro, come lo strumento più idoneo a fissare una cornice di rapporti stabili in cui avviare un nuovo processo di allargamento.

Per parte sua, il cancelliere Helmut Josef Michael Kohl, che aveva deciso di avvalersi della legge costituzionale tedesca per incorporare rapidamente la Germania orientale, indipendentemente dalla sorte degli altri paesi ex socialisti, si trovava di fronte alle sfide della riunificazione nazionale. Un impegno che richiedeva enormi investimenti e trasferimenti dalla Germania occidentale alle aree orientali mediante un massiccio ricorso al debito pubblico, ma non senza immediati riflessi sulla politica regionale comunitaria. La Germania, maggior contribuente del bilancio CEE, diveniva il terzo beneficiario degli aiuti comunitari, dopo Spagna e Italia. (ivi, p. 102).

L’allargamento nordico ai paesi dell’EFTA, 1995

Come accennato, alla caduta del Muro e al successivo disfacimento dell’Unione Sovietica la CEE rispondeva con il decisivo approfondimento dell’unificazione politica ed economico-monetaria, sancito dal TUE. Nel frattempo veniva sommersa di richieste di adesione, non soltanto da parte degli Stati mediterranei ricordati e, più tardi, dai PECO, ma anche di Austria (18 luglio 1989), Svezia (1° luglio 1991), Finlandia (18 marzo 1992) e Norvegia (25 novembre 1992), nonché Svizzera (20 maggio 1992), aderenti con Liechtenstein e Islanda all’Associazione europea di libero scambio (EFTA), nata il 4 gennaio 1960 su iniziativa del Regno Unito – vi partecipava anche la Danimarca – come contraltare alla CEE.

Di fronte a istanze così eterogenee e numerose, il Consiglio europeo di Dublino, riunitosi nel giugno del 1992, seguì la via del pragmatismo privilegiando i paesi EFTA, in quanto caratterizzati da economie ed apparati politico-istituzionali più idonei a recepire le normative comunitarie. Del resto, a escludere i medesimi Stati dall’integrazione avevano contribuito ragioni strategiche, quali la neutralità, poco consona alla caratterizzazione occidentale della CEE, o le riserve dell’URSS.

Di fatto, l’intensità prolungata dei rapporti commerciali intereuropei, sancita dagli accordi di libero scambio del 1972-1973, dalla Dichiarazione di Lussemburgo del 9 aprile 1984, nonché dal Trattato di Oporto, firmato il 2 maggio del 1992, che istituiva dopo due anni di trattative lo Spazio economico europeo (SEE), testimoniava l’affinità dei candidati con i parametri normativi e produttivi comunitari. Inoltre l’ingresso di economie forti prometteva di contribuire al rafforzamento del bilancio brussellese, piuttosto pesantemente gravato dagli allargamenti degli anni Ottanta, dalla riunificazione tedesca e dagli sforzi inevitabilmente crescenti di sostegno ai PECO.

Austria, Svezia e Finlandia inviarono le proprie delegazioni a Bruxelles nel febbraio 1993, la Norvegia il 5 aprile a Lussemburgo, mentre la Svizzera (in cui il 6 dicembre 1992 era fallito il referendum di ratifica dell’accordo SEE) si ritirò in anticipo per l’ostilità dell’opinione pubblica. Le trattative, come prevedibile, si conclusero in tempi eccezionalmente brevi e senza misure transitorie. Ancora una volta, tuttavia, mentre i referendum degli altri tre paesi risultavano positivi, quello norvegese, tenuto il 28 novembre 1994, sortiva esito negativo, impedendo l’accesso di Oslo. Il 1 gennaio 1995 nasceva ufficialmente l’Unione a Quindici. Benché i paesi aderenti non avessero taciuto le proprie perplessità ad abbandonare le tradizioni neutraliste per adottare le disposizioni della PESC, era pur vero che la politica estera e di sicurezza comune, almeno al momento, esisteva solo sulla carta del Trattato, per cui i tre finirono per sottoscriverlo.

Un particolare curioso, ma non trascurabile. Almeno un paese o, meglio, una regione autonoma della Danimarca, la Groenlandia, usciva dalla CEE, il 1° febbraio 1985, grazie a un trattato che le assicurava comunque lo statuto di paese e territorio d’oltremare. A norma dell’art. 48 del TUE, ossia con il consenso degli Stati membri, casi analoghi sono possibili (v. Beutler et al., 2001, p. 675).

Considerazioni conclusive

In estrema sintesi, il fortunato processo di allargamento ha visto l’antico “club dei vinti”, costituito dai sei paesi fondatori delle Comunità, trasformarsi in una grandiosa istituzione politico-economica, chiamata a farsi carico delle sorti dell’intera Europa, una volta che essa, tramontata l’età degli imperi, ha ritrovato la sua antica, instabile libertà, caratterizzata da una vivace pluralità di nazioni e di Stati. Addirittura, e non senza impulsi del governo USA, in taluni ambienti si ipotizza un’Unione europea estesa anche alla Russia.

Per contro, soprattutto con l’ultima fase di ampliamento a est e al Mediterraneo, non solo si è allontanata nel tempo la prospettiva della federazione europea ipotizzata dalla Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman) del 9 maggio 1950, ma è emersa tutta la difficoltà della formula, coniata da Jacques Delors, che vorrebbe l’Unione come federazione di Stati-nazione in divenire.

Nell’Europa a Ventisette sussistono infatti realtà statuali profondamente diverse e con eredità storiche variegate: alcune sono entità mononazionali e di grandi dimensioni, come la Francia, ovvero, seppur più composite, la Germania e l’Italia; altre risultano di tipo plurinazionale, sia di notevole entità, quali la Gran Bretagna e la Spagna, sia più ridotte, come il Belgio; altre ancora sono Stati nazionali di media grandezza, di consistenza spesso analoga a province o regioni degli Stati più grandi, sia mono che plurinazionali, che sono state anch’esse potenze sovrane in un passato relativamente recente; altre ancora, dalle proporzioni in taluni casi addirittura minuscole, non sono mai state potenze e tanto meno Stati nazionali in tutta la loro storia.

Questa complessità, in parte presente fin dai tempi dell’Europa a Sei, è risultata evidentissima con l’ingresso dei paesi PECO e delle isole mediterranee, ovvero con l’imminente arrivo degli Stati balcanici. Il fenomeno appare dovuto in parte alle caratteristiche proprie dell’Europa centro-orientale, in parte ai modi con cui è stato condotto l’allargamento. L’accettazione della divisione della Iugoslavia e il riconoscimento di Stato nazionale sovrano a ognuna delle sue repubbliche (per non parlare della divisione della Cecoslovacchia, o di altri casi) ha fatto sì che con i prossimi allargamenti il numero degli Stati nuovi possa superare quello dei Quindici.

In sé il processo potrebbe risultare politicamente gestibile, sia pure rivalutando l’Europa delle regioni contenute negli Stati più grandi, qualora l’UE fosse retta con istituzioni federali simili a quelle svizzere, o degli Stati Uniti, caratterizzati dalla compresenza di 50 Stati grandi e piccoli. Di fatto esso appare assai distorsivo per le istituzioni dell’UE, anche qualora il Trattato costituzionale venisse approvato. Infatti, il conferimento della prerogativa di Stati nazionali sovrani a realtà scarsamente significative, dovuto alla mancata messa in discussione del principio di sovranità nazionale, ha fatto sì che ognuna di esse disponga all’interno dell’UE del diritto di veto su materie fondamentali, nonché di esigere la presenza di un proprio cittadino nella Commissione europea, nella Corte di giustizia, nella Corte dei conti e in altre sedi, con effetti delegittimanti sulla composizione delle maggioranze in tali organi, rispetto alla consistenza dell’Europa reale. Senza contare l’alterazione dei rapporti di rappresentanza all’interno del Parlamento europeo.

Un ripensamento sulle scelte finora compiute, al di là di recenti prese di posizione di esponenti francesi, traspare dal crescente dibattito sulle “capacità di assorbimento” dell’Unione. Il Vertice europeo del 15-16 giugno 2006 ha affermato, nelle sue conclusioni, che tutte le adesioni successive a quella della Romania, della Bulgaria e della Croazia esigeranno di «verificare che l’Unione sia in grado di funzionare politicamente, finanziariamente e istituzionalmente».

Francesco Gui (2006)




Alleanza libera europea – Partito democratico dei popoli d’Europa

L’ALE (Alleanza libera europea) nasce il 1° luglio 1981 con la sottoscrizione della Dichiarazione della convenzione di Bruxelles da parte dei rappresentanti di alcuni partiti e movimenti nazionalitari e regionalisti di ispirazione democratica e di orientamento federalista (v. Federalismo) o autonomista.

Le origini di quella che nel suo atto costitutivo è definita «un’associazione di cooperazione che riunisce partiti politici che si distinguono dagli schemi del pensiero politico tradizionale in quanto pongono in primo piano un regionalismo integrale, cioè una concezione basata sull’interazione positiva tra identità individuale e identità di popolo, la quale trova la propria espressione strutturale nelle decisioni democratiche armonizzate secondo il modello federale, e che riconosce il valore della diversità e della giustizia sociale», risalgono al 1979.

In occasione delle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo, la Volksunie, il partito democratico fiammingo, si presenta alle urne con un programma orientato verso un federalismo europeo democratico, basato su regioni e nazionalità (i popoli d’Europa), proponendo la costituzione di un’alleanza tra organizzazioni politiche di analoga ispirazione (l’Alleanza libera europea, appunto, alla quale si riferisce anche la denominazione della propria lista elettorale: Volksunie in de Vrije Europee Alliantie). Tra i fondatori dell’ALE figurano anche Plaid Cymru (Partito nazionale gallese), Fronte autonomista di liberazione di Alsazia e Lorena, Partito dei germanofoni del Belgio (PDB), Partito nazionale frisone (FNP), Convergencia democratica de Catalunya, Partito federalista europeo di Alsazia e Lorena (EFP), Unione di u populu corsu, Union valdôtaine (UV) e Movimento giovanile del Partito popolare sudtirolese (SVP).

Oltre a federalismo integrale e dimensione regionale, la piattaforma programmatica dell’ALE contempla la valorizzazione del pluralismo culturale e delle lingue minoritarie, lo sviluppo economico equilibrato e sostenibile e la concertazione sociale, la solidarietà interna (europea) e con i paesi in via di sviluppo. L’ALE riconosce nella creazione di un’Europa federale un fattore essenziale per instaurare la pace nel mondo e mostra anche un’attenzione speciale nei confronti di tutela dei diritti delle minoranze, accoglienza degli immigrati extraeuropei e riconoscimento delle loro identità culturali.

La condivisione di questi orientamenti è fondamentale per l’ammissione nell’ALE di nuove organizzazioni politiche. Su queste basi, inoltre, a livello sia locale che continentale i partiti che aderiscono all’Alleanza si trovano a condividere una parte significativa del proprio percorso con i movimenti ecologisti. Ciò accade anche nel Parlamento europeo, dove nel 1984 nazionalitari, regionalisti e Verdi costituiscono il gruppo Arcobaleno e dove nel 1999 danno poi vita al gruppo Verdi/Alleanza libera europea.

Nel corso degli anni altre forze politiche aderiscono all’ALE, che nel 1994 consolida il proprio profilo costituendosi ufficialmente in federazione di partiti politici, conformemente con le disposizioni dell’articolo 138A del Trattato di Maastricht, con la denominazione di ALE-PDPE (Partito democratico dei popoli d’Europa), e dandosi infine una profilo di vero e proprio partito europeo (v. Partiti politici europei), ufficialmente riconosciuto il 13 ottobre 2004. Le finalità espresse dal nuovo Statuto sono coerenti con gli orientamenti espressi nella Dichiarazione di Bruxelles di tredici anni prima. Particolare rilievo è attribuito a principi democratici, giustizia sociale, Lotta al razzismo e alla xenofobia, non violenza, sussidiarietà (v. anche Principio di sussidiarietà) e promozione della diversità linguistica e culturale, nonché alla funzione dell’ALE-PDPE di favorire la partecipazione alla politica europea di quei partiti che per la loro dimensione o per le dimensioni del territorio che rappresentano si troverebbero ad esserne perentoriamente esclusi.

Nel 2010 sono trentasei i partiti e movimenti nazionalitari o regionalisti, presenti in tredici dei ventisette stati membri dell’UE, che aderiscono all’ALE e sette i suoi rappresentanti al Parlamento europeo.

Marco Stolfo (2010)




Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

Ruolo e funzioni

L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (Ar) è una figura istituzionale incaricata di guidare la Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), contribuendone all’elaborazione e all’attuazione insieme agli Stati membri, e assicurando l’unità, la coerenza e l’efficacia dell’azione esterna dell’UE nel suo complesso. Attualmente la carica è ricoperta da Federica Mogherini (dal 2014), succeduta a Catherine Margaret Ashton (2009-2014).

Il ruolo e le funzioni dell’Ar sono state introdotte dal Trattato di Lisbona (2007-2009), che ha ampliato i compiti del precedente Alto rappresentante previsto dal Trattato di Amsterdam (1997-1999). Ai sensi dell’art. 18 del Trattato sull’Ue (Tue), l’Ar è nominato dal Consiglio europeo a Maggioranza qualificata in accordo con il presidente della Commissione. L’Ar presiede il Consiglio dell’Ue in formazione Affari esteri, nominando a sua volta il presidente del Comitato politico e di sicurezza, e le presidenze dalla maggior parte dei gruppi di lavoro del Consiglio che si occupano di materie riconducibili alle relazioni esterne (le altre presidenze del Consiglio spettano alla presidenza di turno dell’UE, v. Presidenza dell’Unione europea). In aggiunta – questa la principale differenza rispetto al passato – l’Ar è, ex officio, uno dei vicepresidenti della Commissione (Vp). Quest’ultimo incarico obbliga l’Ar nominato dal Consiglio europeo a partecipare alle audizioni del Parlamento europeo previste per i commissari designati, prima del voto di approvazione collettivo a cui sono soggetti i membri della Commissione dinanzi al Parlamento.

In qualità di presidente del Consiglio Affari esteri, l’Ar ne conduce i lavori con la possibilità di sottoporre al Consiglio questioni, iniziative e proposte riguardanti la Pesc e la Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc). L’Ar rappresenta l’UE nei riguardi delle materie Pesc/Psdc, e conduce il dialogo politico con terzi, esprimendo le posizioni dell’Ue (laddove presenti), e assicurando il coordinamento tra gli Stati membri in seno alle organizzazioni e conferenze internazionali. Al fine di sostenere un raccordo tra gli orientamenti strategici del Consiglio europeo e le decisioni operative del Consiglio, l’Ar prende parte ai vertici europei.

Come vicepresidente della Commissione, l’Ar è responsabile del settore relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell’azione esterna che fanno capo a questa istituzione (ovvero tutte le politiche da essa condotte che hanno una proiezione esterna, come ad esempio la cooperazione allo sviluppo).

Per quanto riguarda i rapporti con il Parlamento europeo, l’Ar/Vp, nella veste di Alto rappresentante, è tenuto a consultarlo regolarmente in merito ai principali aspetti e alle scelte fondamentali della Pesc/Psdc. All’Ar spetta di tenere informata la Camera sull’evoluzione di tali politiche, e di prendere in considerazione le opinioni del Parlamento, che può a sua volta rivolgergli interrogazioni e raccomandazioni. Agendo come vicepresidente della Commissione, l’Ar/Vp è soggetto agli obblighi e alle procedure che regolano il funzionamento di quest’ultima, tra cui la responsabilità collettiva davanti al Parlamento e una sua possibile mozione di censura, con conseguenti dimissioni di tutti i membri della Commissione. In tal caso, all’Ar/Vp sarebbe richiesto di dimettersi esclusivamente dalla carica di vicepresidente della Commissione, potendo continuare a esercitare le funzioni che gli derivano dall’essere Alto rappresentate (ad es. presiedere il Consiglio Affari esteri).

Nell’esecuzione delle sue funzioni l’AR è assistito dal Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), di cui è a capo, insieme alle agenzie dell’UE che si occupano di materie riconducibili alla PESC/PSDC: l’Agenzia per la difesa europea, il Centro satellitare dell’UE, e l’Istituto dell’UE per gli studi sulla sicurezza.

L’origine e le ragioni di una figura istituzionale sui generis

L’idea di dotare l’UE di un Alto rappresentante nasce di fronte allo sviluppo di una politica estera comune, e alla necessità di dotare l’Unione di una rappresentanza istituzionale più stabile, in grado di rispondere alle difficoltà che gli interlocutori internazionali trovavano nell’identificare un’univoca figura istituzionale di riferimento per il dialogo politico. Infatti, il compito di rappresentare l’UE per le materie che rientravano nella PESC fu inizialmente assegnato alla presidenza rotatoria che, cambiando ogni sei mesi, non riusciva ad assicurare la necessaria continuità (nei lavori e nelle persone) che si richiede a una rappresentanza politico-diplomatica. Per risolvere questa debolezza, il Trattato di Amsterdam affiancò alla presidenza di turno il Segretario generale del Consiglio nella veste di Alto rappresentante per la PESC (da qui il soprannome giornalistico Mr. Pesc, carica assunta sin dalla sua nascita da Javier Solana), a cui era richiesto di assistere la Presidenza contribuendo alla preparazione, formulazione, e attuazione delle decisioni politiche, conducendo ove richiesto un dialogo politico con terzi, e collaborando con la Commissione (in particolare con il Commissario per le relazioni esterne).

Tuttavia, è proprio nei riguardi del coordinamento richiesto tra la PESC e le politiche comunitarie che l’operato dell’Alto rappresentante per la PESC mostrò dei significativi limiti istituzionali. A differenza di ciò che avviene negli Stati membri, nell’UE, le azioni riconducibili alla costituzione di politica estera sono divise tra la Commissione e il Consiglio, che operano con organi e procedure decisionali differenti. In breve, la Pesc/Psdc, politica intergovernativa che vede principalmente coinvolti nei processi decisionali gli Stati membri riuniti nei due Consigli, è solita occuparsi di questioni definite di “alta politica estera”, dalle crisi diplomatiche alle missioni civili o militari. Le politiche comunitarie con proiezione esterna, affidate alla Commissione sotto la supervisione del Parlamento e del Consiglio, riguardano temi considerati di “bassa politica estera” quali la cooperazione allo sviluppo, l’aiuto umanitario o la politica commerciale. La coerenza tra quello che persegue e fa la Commissione attraverso le sue politiche, e ciò che decide il Consiglio nella Pesc, risulta quindi essenziale per l’efficacia dell’attivismo internazionale dell’Unione.

Sulla base di queste considerazioni – la ricerca di una maggior visibilità e razionalizzazione della rappresentanza, unita a una maggiore coerenza tra le politiche Ue –, la Convenzione che redasse il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa (2002-2003) propose di riformare il ruolo dell’Alto rappresentate, creando un ministro degli Affari esteri dell’Ue che riunisse in un’unica persona le funzioni di Mr. Pesc e del Commissario per le relazioni esterne. A seguito dell’esito negativo dei referendum in Francia e Paesi Bassi, il Trattato costituzionale non entrò in vigore, ma le innovazione in esso contenute vennero poi inserite nel Trattato di Lisbona. Tra queste vi era anche l’istituzione del ministro degli Affari esteri, rinominato Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (il nome venne edulcorato poiché ritenuto sensibile per la sovranità nazionale di alcuni Stati membri), ma identico in tutti gli altri aspetti.

L’Ar/Vp è oggi dotato di un doppio cappello, che lo pone “nel mezzo” dell’architettura istituzionale della politica estera dell’Ue: come Ar presiede il Consiglio Affari esteri e si occupa della Pesc/Psdc, partecipando attivamente alla sua definizione e cercando di facilitare la cooperazione tra i paesi; come VP svolge invece un’opera di coordinamento interno al collegio dei Commissari, e ha assunto le responsabilità prima detenute dal Commissario per le relazioni esterne (la Direzione generale per le relazioni esterne della Commissione è stata conseguentemente trasferita in toto nelle nuove strutture del Seae). La ratio di questo posizionamento è chiara: rafforzare la coerenza della politica estera bicefala dell’UE, supervisionando sia la Pesc che le politiche comunitarie. All’Ar/Vp è perciò richiesto un lavoro di coordinamento e shuttle diplomacy interistituzionale. Nel concreto, questo doppio cappello permette all’Ar/Vp di condurre negoziazioni a nome dell’Ue – come avvenuto per l’accordo sul programma nucleare iraniano, materia Pesc – attuando al contempo la revisione di una politica comunitaria – è il caso della Politica europea di vicinato, gestita dalla Commissione. Nel 2016, significativa è stata la pubblicazione da parte dell’Alto rappresentante Mogherini di una Strategia globale dell’UE che, per la prima volta, offre un documento di indirizzo strategico unitario per le relazioni internazionali dell’Unione.

Nei primi anni di esistenza, l’incarico di Ar/Vp si è rivelato alquanto complesso e impegnativo, sia per l’alto numero di compiti richiesti a una sola persona (i Trattati non permettono la nomina di un vice), sia per le difficoltà quotidiane incontrate nello sviluppare la PESC e nell’accrescere la coerenza generale (su questo aspetto gli eventi internazionali succedutisi a partire dal 2011 non hanno aiutato). Questi problemi hanno generato critiche rivolte alla figura dell’Ar/Vp, accusato di non essere in grado di esercitare con efficacia tutti i compiti assegnatigli dai Trattati, di essere poco attivo e presente sulla scena internazionale, e di rimanere nell’ombra di altri attori istituzionali, quali il Presidente del Consiglio europeo o il Presidente della Commissione. A tale riguardo, è indubbia l’ampiezza del ruolo assegnato all’Alto rappresentante, la cui interpretazione personale di chi ne assume la carica può condurre a una maggiore attenzione per le prerogative in ambito PESC o per quelle relative alle politiche comunitarie. Peraltro, è doveroso ricordare che l’Ar/Vp è spesso impossibilitato ad agire in assenza di una decisione del Consiglio o della Commissione, e le funzioni di rappresentanza esterna dell’UE a esso assegnate si affiancano a quelle detenute dal presidente del Consiglio europeo (per la PESC) e dal presidente del Consiglio (per le politiche comunitarie) al livello di capi di Stato e di governo.

Lorenzo Vai (2017)




Appalti

Il contesto normativo di riferimento del diritto europeo degli appalti pubblici

La finalità di garantire la concorrenza in mercati tradizionalmente protetti (v. Politica europea di concorrenza) e di non discriminare tra operatori economici nazionali e quelli degli altri paesi membri costituiscono gli obiettivi prioritari perseguiti dalle numerose direttive comunitarie intervenute nel settore degli appalti pubblici a partire dagli anni Settanta. Tali direttive di armonizzazione, che tendono ad assicurare l’attuazione della libertà di prestazione dei servizi e del diritto di stabilimento contenuti nel Trattato istitutivo della Comunità europea (v. Trattati di Roma), non pervengono tuttavia a disciplinare l’intero settore e a sostituirsi integralmente alle preesistenti discipline nazionali, ma conoscono alcuni limiti di carattere soggettivo e oggettivo, concentrandosi particolarmente sulla fase di scelta del contraente e quindi sugli aspetti procedurali che precedono la stipula del contratto, nonché sui criteri dell’aggiudicazione; esse, inoltre, si riferiscono solo ad appalti di una certa soglia, la c.d. soglia comunitaria.

Un’ulteriore ragione che ha spinto il legislatore comunitario a disciplinare la materia è rappresentata dal rischio che si verifichino attività criminose di frode e corruzione. Al fine di prevenire tali fenomeni si spiegano dunque l’introduzione nelle direttive di dettagliate previsioni di pubblicità e trasparenza delle procedure nonché, come emerge nelle direttive di ultima generazione, l’individuazione, come causa soggettiva di esclusione dalla possibilità di partecipare a gare comunitarie, l’essere stati condannati con sentenza definitiva per certi tipi di reato.

La portata di tali direttive non si esaurisce tuttavia su di un piano meramente procedimentale, in quanto attraverso alcune direttive di taglio processuale (dir. n. 89/665/CEE e dir. n. 92/13/CEE), si introducono nei vari ordinamenti, con una portata talora fortemente innovatrice rispetto agli ordinamenti processuali nazionali, alcune norme volte a garantire uniformi livelli di tutela e garanzie di effettività e celerità nella resa della giustizia in materia di aggiudicazione degli appalti. L’importanza di tale ulteriore aspetto non può essere sottaciuta in quanto, attraverso tali direttive settoriali, si è giunti a incidere in modo sostanzialmente innovativo nell’ambito delle discipline processuali dei rapporti tra privati e pubblici poteri, limitando così il dogma della sovranità processuale degli Stati.

Tralasciando gli interventi normativi precedenti e facendo riferimento alla penultima stagione di direttive, che già contengono un certo grado di coordinamento e sistematicità, possiamo ricordare agli inizi degli anni Novanta le seguenti: direttiva n. 92/50/CEE sugli appalti pubblici di servizi (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee”, 24 giugno 1992, L 209); direttiva n. 93/36/CEE sugli appalti pubblici di forniture (GUCE, 9 agosto 1993, L 199); direttiva n. 93/37/CEE sugli appalti pubblici di lavori (GUCE, 9 agosto 1993, L 199); direttiva n. 93/38 CEE sugli appalti degli enti erogatori di acqua e di energia, e degli enti che forniscono servizio di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni (c.d. settori esclusi; GUCE, 9 agosto 1993, L 199).

Tali direttive sono state oggetto di un recente intervento riformatore con lo scopo, da un lato, di semplificare e razionalizzare la normativa e dall’altro di dare spazio alle nuove esigenze che erano state espresse sia nel Libro verde (v. Libri verdi) del 1996 Gli appalti pubblici nell’Unione europea. Spunti di riflessione per il futuro (COM/96/583, def., del 27 novembre 1996), sia nella comunicazione Gli appalti pubblici nell’Unione europea (COM/98/143, def., dell’11 marzo 1998), con particolare riferimento alle modifiche tecnologiche e alle liberalizzazioni intervenute in alcuni settori dei servizi pubblici (quale ad esempio il settore delle telecomunicazioni (v. Politica europea delle telecomunicazioni) che è stato così sottratto all’ambito di applicazione delle direttive comunitarie (v. Diritto comunitario).

Allo stato attuale, quindi, le quattro direttive sopra ricordate sono state sostituite dalle seguenti due: direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004 relativa al “Coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi” (GUCE, 30 aprile 2004, L 134, p. 114 e ss.); direttiva 2004/17/CEE del 31 marzo 2004 relativa al “Coordinamento delle procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali” (GUCE, 30 aprile 2004, L 134, p. 1 e ss.).

Tali direttive, oltre che comportare una significativa riduzione del numero delle norme, con ricadute fortemente positive per gli operatori del settore, contengono novità importanti anche su un piano sostanziale, con particolare riguardo ai criteri di aggiudicazione degli appalti, all’individuazione di meccanismi di committenza per via elettronica, alla disciplina del dialogo competitivo e di altri strumenti di flessibilità nelle procedure negoziali ed all’introduzione di meccanismi di committenza per via elettronica.

L’applicazione delle direttive comunitarie dipende, come si è ricordato, dalla verifica del superamento della soglia di rilevanza comunitaria dell’appalto. Alla base di tali previsioni vi è infatti la considerazione che appalti di importo inferiore a un certo valore non siano appetibili per le imprese estere, e quindi esulano dall’ambito di applicabilità delle direttive. Occorre tuttavia ricordare come anche negli appalti c.d. sotto soglia le amministrazioni aggiudicatrici non possono esimersi dal rispetto dei canoni generali di parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, riconoscimento reciproco (v. Protto, 2006, pp. 356-357).

L’individuazione delle soglie comunitarie fa riferimento a parametri economici predeterminati; allo stato attuale esse sono individuate per i settori “classici” nei seguenti valori: 137.000 Euro per gli appalti pubblici di forniture e servizi aggiudicati da autorità governative centrali (ministeri ed enti pubblici nazionali); 211.000 euro per gli appalti pubblici di lavori e servizi aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici diverse da quelle centrali o aventi a oggetto determinati prodotti o servizi; 5.278.000 euro per gli appalti pubblici di lavori.

Mentre con riferimento ai c.d. settori speciali dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali troviamo le seguenti soglie: 422.000 euro per gli appalti di forniture e servizi; 5.278.000 euro per gli appalti di lavoro.

L’ambito oggettivo e le procedure di scelta del contraente

Le direttive comunitarie in materia di appalti sono intervenute a disciplinare esclusivamente gli appalti pubblici, quelli cioè in cui figuri come parte necessaria del rapporto, nella posizione di committenza, lo Stato, un ente pubblico o altri enti a essi assimilati (c.d. organismi di diritto pubblico; v. Salvatore, 2003, p. 3).

La figura dell’appalto pubblico viene ora definita con formula forse più ampia rispetto al passato, ma nella sostanza non molto diversa, come un «contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ai sensi della presente direttiva» (art. 1, comma 2 lett. a, direttive 17 e 18).

Per la prima volta viene inoltre prevista in entrambe le direttive del 2004, al fine poi di escludere tendenzialmente tale figura dall’ambito di applicabilità delle stesse, la nozione di “concessione di servizi”, figura dai contorni non sempre chiari, che viene ora definita come «un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, a eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato dal prezzo» (art. 1, comma 4 dir. 2004/18/CE e art. 1 comma 3 lett. b dir. 2004/17/CE).

La limitazione soggettiva agli “appalti pubblici” nasce sia dalla considerazione della loro rilevanza economica, sia dal fatto che il soggetto pubblico appare quello maggiormente in grado di condizionare il mercato, orientando le proprie politiche di acquisto a favore di imprese nazionali. Tale atteggiamento era stato favorito, soprattutto in passato, dalla presenza in molti paesi europei, tra cui l’Italia, di penetranti forme di intervento pubblico in economia che si esplicavano con moduli diversificati, ma comunque incompatibili con il quadro concorrenziale imposto dai trattati comunitari (v. Aiuti di Stato).

Per evitare quindi qualsiasi forma di distorsione della concorrenza e di lesione del principio di non discriminazione tra imprese comunitarie, le direttive sugli appalti prevedono una dettagliata procedimentalizzazione degli appalti sopra soglia, che si fonda sui principi di massima trasparenza dei bandi di gara, di ampia diffusione degli stessi e di tipicità e nominatività delle modalità di scelta del contraente.

Occorre inoltre ricordare come attualmente, a seguito dell’adozione delle nuove direttive del 2004, i mezzi elettronici nel settore degli appalti pubblici siano completamente parificati agli strumenti tradizionali non solo, come già in parte avveniva, ai fini della pubblicazione dei bandi e per la presentazione delle domande, ma anche nelle successive fasi di aggiudicazione. Un esempio dell’applicazione degli strumenti telematici si ritrova nel modello del sistema dinamico di acquisizione di beni di uso corrente, ove la procedura è interamente elettronica, sempre nel rispetto però dei principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza.

Per quanto concerne la scelta del contraente, le direttive comunitarie di ultima generazione (v. Direttiva; Strumenti giuridici comunitari) prevedono tre modalità di procedure: la procedura aperta, che non prevede limiti di partecipazione, al di là dei comuni requisiti soggettivi o professionali e di onorabilità; la procedura ristretta, che si fonda su un sistema di preselezione o di inviti purché venga garantita un’idonea concorrenzialità; la procedura negoziata (con o senza pubblicazione del bando di gara), ossia una procedura residuale che consente, in alcuni casi rigidamente prefissati, la individuazione diretta dell’impresa.

Accanto a tali modalità, la nuova direttiva 18/2004, al fine di introdurre elementi di flessibilità nel sistema, aggiunge, tra le procedure negoziate, la possibilità, nel caso di appalti particolarmente complessi, di fare ricorso al c.d. “dialogo competitivo” tra le amministrazioni aggiudicatici e i concorrenti, sempre nel rispetto però della parità di concorrenza e della parità di trattamento (art. 29 dir. 18/2004).

Quanto invece ai criteri di aggiudicazione, questi debbono essere già specificati nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, e sono il prezzo più basso o l’offerta economicamente più vantaggiosa. In questo secondo caso vengono valutati diversi criteri collegati all’oggetto dell’appalto, tra cui la qualità, il prezzo, il pregio tecnico, le caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche ambientali, il costo d’utilizzazione, la redditività, il servizio successivo alla vendita e l’assistenza tecnica, la data di consegna, il termine d’esecuzione. A seguito delle direttive del 2004 viene inoltre precisato che l’amministrazione aggiudicatrice deve indicare già nel bando di gara o nel capitolato d’oneri la ponderazione relativa di ciascun criterio.

Da sottolineare, infine, l’importante apertura, che si ritrova nelle direttive del 2004, a istanze di carattere sociale e ambientale, sia in sede di definizione dei criteri di aggiudicazione, sia nelle previsioni speciali relativamente all’edilizia residenziale a carattere sociale.

L’ambito soggettivo

Particolare rilievo assume inoltre, ai fini di determinare l’ambito di applicazione delle direttive, l’individuazione della nozione di “amministrazioni aggiudicatrici”. Tali soggetti sono riconducibili allo Stato, agli enti locali, gli organismi di diritto pubblico e alle loro associazioni.

Al fine di evitare che le amministrazioni possano eludere il rispetto degli obblighi previsti nelle direttive comunitarie e dovendosi disciplinare un settore ove i diversi sistemi amministrativi nazionali hanno sovente dato luogo a figure organizzative diversificate tra loro, fin da subito è prevalso da parte del legislatore comunitario un criterio di tipo sostanziale, mediante l’utilizzo della nozione di “organismo di diritto pubblico”.

Le direttive comunitarie sono pervenute a identificare in modo più preciso i requisiti che in via cumulativa (anche se per la terza categoria è sufficiente uno dei tre requisiti enunciati) sono richiesti per tali figure, identificando come organismo di diritto pubblico qualsiasi organismo istituito per soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale e commerciale, dotato di personalità giuridica, e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, da enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi o il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.

L’organismo di diritto pubblico è dunque un soggetto, anche di natura privata, che è caratterizzato da forti legami organizzativi e funzionali con la pubblica amministrazione e per questo solo ai fini dell’applicazione delle normative in materia di appalti è assimilato a un soggetto pubblico.

Risulta evidente che, al di là del dettato testuale, l’esatta individuazione dei confini di tale figura è un’attività assai complessa, nella quale si sono esercitate le Corti nazionali (v. Corti costituzionali e giurisprudenza) e, con funzione unificante del diritto, la Corte di giustizia comunitaria (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), specificando nel corso di importanti decisioni l’interpretazione dei criteri formulati dalle direttive (tra le varie sentenze cfr. Corte di giustizia 15 gennaio 1998, causa C-44/96 Mannesmann Anlagenbau Austria AG c. Strohal Rotationsdruck GesmbH e sent. 10 maggio 2001, cause riunite C-223/99 e C-260/99, Agorà s.r.l. c. Ente autonomo Fiera di Milano).

La tutela giurisdizionale nell’aggiudicazione degli appalti

Come si è ricordato, le direttive comunitarie non incidono solo sull’ambito procedimentale, ma mediante le due fondamentali direttive, c.d. direttive ricorsi – la n. 89/665/CEE del 21 dicembre 1989 (GUCE, 30 dicembre 1989, L 395/89, p. 33) e la successiva direttiva n. 92/13/CEE del 25 febbraio 1992 (GUCE, 23 marzo 1992, L 76/92, p. 14) relativa ai settori di pubblica utilità – si introducono anche alcuni principi di matrice processuale che in via generale tendono a garantire ai soggetti che si ritengano lesi da un provvedimento di aggiudicazione una tutela efficace e celere. In modo più specifico, si precisa inoltre che gli organi competenti in materia di ricorsi devono adottare in via d’urgenza provvedimenti provvisori, annullare le decisioni illegittime ed accordare un risarcimento del danno.

Tali disposizioni assumono una portata fortemente innovatrice in un ordinamento giuridico come il nostro che, avendo accolto il sistema di dualità di giurisdizione, ordinaria ed amministrativa, a seconda della situazione giuridica soggettiva che si riteneva lesa, attribuiva al giudice amministrativo la competenza a decidere sulla legittimità degli atti in materia di appalti pubblici nell’ambito di un giudizio a carattere impugnatorio ove l’esito del ricorso era volto tipicamente all’annullamento dell’atto, anziché al risarcimento (che invece si poteva ottenere solo, successivamente alla sentenza del giudice amministrativo, di fronte al giudice ordinario).

Oltre a questo aspetto, che appariva già di per sé assai problematico, alla luce dei principi comunitari di pienezza e celerità della tutela, il modello tradizionale di processo amministrativo era inoltre caratterizzato da notevoli differenze rispetto a quello civile, attinenti principalmente ai mezzi probatori assai limitati e alla tutela cautelare, che in ambito amministrativo veniva tipicamente intesa nei ristretti confini della sospensione del provvedimento.

La prima svolta verso un approfondimento del grado di tutela dei privati che si verifica nel settore si ritrova proprio a seguito del recepimento dell’art. 2 della direttiva 89/665 nell’art. 13 della legge n. 142 del 19 febbraio 1992, ove si ammette la possibilità per i soggetti di chiedere il risarcimento del danno subito nell’ambito delle procedure di aggiudicazione di appalti. Tale articolo, unitamente agli importanti interventi dottrinari già sul punto espressi, aprirà la strada a una serie di profonde modifiche che, sia a livello giurisprudenziale (in particolare con la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili n. 500 del 1999), sia a livello normativo (cfr. l. n. 205/2000) avvicineranno il nostro sistema processuale amministrativo agli standard di tutela imposti anche dalle normative europee.

A conferma di tale tendenza per così dire “apripista” del settore degli appalti, rispetto alla modifica in senso innovativo degli istituti processuali occorre, da ultimo, ricordare come mediante l’art. 245 del d. legisl. n. 163 del 12 aprile 2006 (c.d. Codice degli appalti), sia stata introdotta, recependo le indicazioni provenienti dall’ordinamento comunitario (v. Diritto comunitario), la possibilità, per i privati legittimati al ricorso, di presentare domanda di tutela cautelare ante causam, istituto finora sconosciuto al nostro sistema processuale amministrativo, che consente di chiedere, in caso di eccezionale gravità e urgenza, provvedimenti cautelari prima della proposizione del giudizio di merito.

Lucia Musselli (2008)