Approfondimento

Nell’ambito dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) si intende per “approfondimento” un’azione volta a vincolare maggiormente gli Stati membri, consolidando e sviluppando gli elementi che li uniscono.

L’approfondimento, naturalmente, ha assunto significati diversi a seconda del periodo storico. Nel primo decennio di esistenza della Comunità (v. Comunità economica europea), durante gli anni Sessanta, il termine approfondimento designava il completamento del processo di costruzione dell’Unione doganale, con l’abbattimento delle barriere interne al commercio e l’istituzione della Tariffa esterna comune (TEC), nonché la messa in opera della Politica agricola comune (PAC). In pratica si trattava di dare attuazione alle misure previste dal Trattato di Roma (v. Trattati di Roma).

Col volgere del decennio, l’approfondimento assunse un significato che non ha più abbandonato nei decenni successivi. Esso divenne il contraltare dell’allargamento, cioè il processo che avrebbe dovuto fungere da antidoto ai rischi di diluizione dell’integrazione comportati dall’ingresso di nuovi partner, spesso assai tiepidi verso la componente sovranazionale della costruzione europea (si pensi ai casi di Regno Unito, Danimarca, Grecia). Il vertice dei capi di Stato e di governo tenutosi all’Aia nel dicembre1969 consacrò tale dialettica. Approfondimento e allargamento, infatti, furono, assieme al completamento, i termini del trittico che avrebbe dovuto esprimere gli obiettivi comunitari per il decennio a venire.

L’approfondimento, secondo i termini stabiliti all’Aia e precisati poi al Vertice di Parigi dell’ottobre 1972, avrebbe dovuto comportare un’intensificazione della cooperazione monetaria in vista dell’istituzione di un’Unione economica e monetaria, la ripresa della collaborazione tecnologica e l’istituzione di meccanismi di cooperazione in materia di politica estera (v. Politica estera e di sicurezza comune). Si venivano a delineare così le due direttrici principali che avrebbe seguito il processo di approfondimento negli anni seguenti: la moneta e la politica estera. Secondo i desiderata del governo di Parigi, che era stato promotore della conferenza, il completamento del mercato comune (v. Comunità economica europea), cioè in pratica l’adozione di un sistema definitivo per il finanziamento della PAC, e l’approfondimento avrebbero dovuto precedere l’allargamento della Comunità al Regno Unito; in effetti fu deciso che questi ultimi avrebbero proceduto di pari passo.

In pratica, le iniziative miranti a realizzare un’estensione e un’intensificazione dell’integrazione si risolsero in un insuccesso, travolte in campo monetario dalla crisi economica e, in politica estera, dalla scarsa volontà politica di procedere a una cessione di sovranità in un campo così delicato. Paradossalmente, fu proprio l’allargamento a provocare un approfondimento dell’integrazione attraverso l’istituzione, fortemente voluta dal Regno Unito, del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR). In maniera analoga, gli allargamenti della Comunità all’Europa mediterranea portarono a un’intensificazione dell’intervento comunitario nel campo della politica di coesione economica e sociale (v. Politica di coesione).

Una lettura in termini di dialettica tra allargamento e approfondimento può essere data riguardo alle vicende dell’unificazione tedesca (v. Germania). L’estensione ad Est della Repubblica federale, e in ultima analisi l’ingresso nella Comunità dei territori componenti l’ex Repubblica Democratica Tedesca, furono in pratica “scambiati” con l’intensificazione del processo di unione economica e monetaria e l’avvio della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) sull’unione politica. In altre parole, all’“allargamento” della Germania corrispose un approfondimento delle dinamiche di integrazione, in risposta ai timori e ai sospetti che il primo processo inevitabilmente sollevava.

Infine, l’allargamento dell’Unione (v. Unione europea) ai paesi dell’Europa centro orientale suscitò diffusi timori circa un annacquamento delle dinamiche di integrazione in una vasta area di libero scambio. Ancora una volta, per rispondere a tali timori, si avviò un processo che comportava non solo l’adeguamento delle istituzioni alle nuove dimensioni che l’Unione sarebbe venuta ad assumere, ma anche un approfondimento dell’integrazione soprattutto nell’ambito politico, una delle due direttrici dell’intensificazione dell’integrazione individuate all’inizio degli Settanta rimasta per gran parte incompiuta.

Francesco Petrini (2005)




Archivi Storici delle Comunità Europee

All’indomani della firma dei Trattati di Roma l’Italia avanzava l’ipotesi che il paese potesse accogliere una struttura delle Comunità, e in tale ambito venne elaborato il progetto per la costituzione di un’università europea. Il piano incontrò però la ferma opposizione di alcuni membri della Comunità economica europea (CEE), in particolare della Francia di Charles de Gaulle, il quale riteneva che l’educazione dovesse restare ambito di stretta competenza nazionale. Solo dopo l’uscita di scena del generale e a seguito del “rilancio europeo” avviato con il vertice dell’Aia del 1969 il progetto per un’istituzione europea di carattere universitario venne ripresa dalle autorità italiane, fino a quando nel 1976 vide alfine la luce l’Istituto universitario europeo (IUE), con sede a San Domenico di Fiesole nell’edificio della Badia Fiesolana. In realtà, l’IUE si qualificava come centro di ricerca destinato a laureati che avrebbero dovuto conseguire un dottorato e si articolava in quattro Dipartimenti (Economia, Diritto, Scienza della politica, Storia e Civiltà).

Con il trascorrere del tempo, a dispetto delle difficoltà iniziali, l’Università europea consolidava la sua posizione; nel frattempo la Comunità diveniva non solo un fattore determinante dello scenario continentale, ma cominciava ad avere anche un “passato”. Quasi nello stesso periodo si assisteva a una apertura degli archivi nazionali di vari paesi del mondo occidentale sulla base di regole più “liberali”, nella fattispecie la cosiddetta “regola dei trent’anni”. Agli inizi degli anni Ottanta le istituzioni comunitarie decidevano così di aprire i loro archivi a Bruxelles (Commissione, Consiglio, Comitato economico e sociale – CES) e a Lussemburgo (Parlamento) applicando tale regola. Traendo spunto dall’esistenza dell’IUE, nel 1984 la Commissione (v. Commissione europea), a nome delle altre istituzioni europee siglava una convenzione con l’Università europea per la creazione di un archivio a cui tutti gli organi comunitari erano tenuti a versare i loro documenti. Nascevano così nel 1985 gli Archivi storici delle Comunità europee (attualmente Archivi storici dell’Unione europea) con sede a Firenze, presso l’edificio Villa il Poggiolo, ai piedi della collina di Fiesole e a breve distanza dalla Badia Fiesolana.

Dopo un avvio faticoso, soprattutto a partire dagli anni Novanta e con il progressivo arrivo della documentazione dalle varie istituzioni comunitarie, gli archivi acquisivano rapidamente consistenza e rilievo. Va in primo luogo ricordato come gli archivi siano organizzati intorno a un nucleo centrale formato dai fondi della Commissione europea, del Consiglio (v. Consiglio dei ministri), del Parlamento (v. Parlamento europeo), del Comitato economico e sociale e della Corte dei conti. Tali fondi conservano anche le carte relative all’esperienza della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Alle carte delle Istituzioni comunitarie, si affiancano documenti provenienti da altri organismi di cooperazione, quali ad esempio l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (v. Organizzazione europea per la cooperazione economica) e l’Agenzia spaziale europea. Nel corso degli anni, grazie a un’attiva politica di acquisizione di altre fonti primarie, gli Archivi sono entrati in possesso e ne permettono la consultazione secondo le regole previste, di una serie di fondi di movimenti e associazioni non governative (ad esempio l’Unione europea dei federalisti, il Movimento europeo, ecc.), di carte di personalità che in vario modo hanno svolto un qualche ruolo nel processo di integrazione (da Altiero Spinelli a Émile Noël, da Pierre Uri a Étienne Hirsch). Infine, gli archivi hanno acquisito in copia collezioni provenienti da archivi nazionali (ministero degli Affari esteri francese, ministero degli Affari esteri italiano, ecc.) relative a questioni concernenti la costruzione europea, in particolare la nascita e gli sviluppi della CECA.

Gli Archivi storici possiedono una adeguata sala di lettura, una biblioteca specializzata, nonché una serie di supporti, anche di carattere informatico, che facilitano il compito dei ricercatori. Prosegue inoltre la politica di acquisizione, non solo dei fondi provenienti dalle istituzioni (fra le disponibilità più recenti va menzionato il fondo della Banca europea per gli investimenti), ma anche di carte che abbiano comunque rilievo per lo studio dell’integrazione europea. Gli Archivi, dunque, rappresentano ormai un punto di riferimento fondamentale per chiunque intenda affrontare lo studio della storia della costruzione europea.

Antonio Varsori (2008)




Armonizzazione

L’armonizzazione delle legislazioni nazionali è un concetto fondamentale del diritto comunitario, che presenta, però, dei contorni piuttosto sfumati. Il punto di partenza è costituito da un dato di fatto: le legislazioni degli Stati membri sono diverse e queste differenze possono ostacolare la realizzazione degli obiettivi previsti dal Trattato. L’armonizzazione è il mezzo attraverso il quale eliminare o ridurre tali disparità.

In assenza di una definizione nel diritto positivo, appare utile esaminare quali sono le attestazioni dell’uso del termine “armonizzazione” nel Trattato. Due sono gli usi ricorrenti: nel primo, è impiegato ad indicare il contenuto della competenza comunitaria (accezione positiva); nel secondo, designa il limite al contenuto della competenza stessa (accezione negativa).

In via preliminare, è necessario ricordare che le istituzioni comunitarie agiscono nei limiti delle competenze loro conferite dai Trattati (principio di attribuzione). Una competenza è una abilitazione ad agire in un determinato ambito, di solito al fine di conseguire un dato risultato. La “azione” comunitaria si traduce di regola (e sempre quando si tratta di armonizzazione) nell’adozione di atti normativi. Gli ambiti sono i settori materiali nei quali le istituzioni possono agire, e sono elencati all’art. 3 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) e specificati nella parte del Trattato stesso dedicata alle politiche. Gli scopi sono indicati sia nella specifica norma che costituisce la base giuridica dell’atto, sia più in generale in altre disposizioni del Trattato, quali l’art. 2 o altre norme di analoga portata.

Il termine “armonizzazione” compare in alcune disposizioni del Trattato come contenuto di un possibile atto comunitario. In questo senso, si possono richiamare le seguenti disposizioni: l’art. 93, relativo all’armonizzazione delle disposizioni nazionali relative alle imposte indirette, «nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno»; l’art. 95, contenuto nel capo intitolato Ravvicinamento delle legislazioni, relativo al «ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno», in cui il termine “armonizzazione” compare accanto a “ravvicinamento”.

Il termine è invece usato ad indicate il limite all’azione delle istituzioni in un’altra serie di articoli, di regola basi giuridiche introdotte o modificate in modo sostanziale a partire dal Trattato di Maastricht. Esse possono a loro volta essere divise in due gruppi. Nel primo possono essere comprese quelle basi giuridiche che non escludono l’armonizzazione, ma la sottopongono a condizioni, di tipo procedurale o contenutistico; nel secondo, l’armonizzazione è esclusa, e le istituzioni possono adottare nella materia atti che si limitino a incentivare o sostenere l’azione statale. Il primo sottogruppo comprende: l’art. 13, sulla non discriminazione per motivi diversi dalla nazionalità (la procedura per adottare atti di armonizzazione è delineata nel par. 1; il par. 2 stabilisce una diversa procedura che assicura un peso paritario a Consiglio e Parlamento, ma la limita alle ipotesi diverse dall’armonizzazione); l’art. 137, relativo alla politica sociale (se in tutti i settori della politica sociale le istituzioni possono adottare misure diverse dall’armonizzazione, solo in alcuni possono emanare direttive che definiscano «prescrizioni minime applicabili progressivamente»); e l’art. 152 relativo alla sanità pubblica («le misure di incentivazione destinate a proteggere e a migliorare la salute umana» non possono comportare l’armonizzazione delle disposizioni nazionali, ma altre disposizioni nazionali che rientrano nella nozione di “sanità pubblica” possono essere armonizzate). Al secondo sottogruppo appartengono: l’art. 129 relativo al settore dell’occupazione, l’art. 149 relativo all’istruzione, l’art. 150 relativo alla formazione professionale, l’art. 151 relativo alla cultura.

Da questa breve disamina si ricava che l’armonizzazione è il contenuto dell’azione delle istituzioni, che si contrappone e si differenzia rispetto ad altri possibili contenuti, quali il sostegno o l’incentivazione dell’azione statale. L’armonizzazione nell’accezione positiva non è limitata alle sole ipotesi in cui è espressamente prevista. Dal momento che si tratta di una tecnica normativa, che si traduce nell’imporre modifiche alle legislazioni nazionali per ridurre le disparità, allora, è possibile tutte le volte in cui il Trattato attribuisce un potere normativo alle istituzioni e non la esclude espressamente. In questo senso, altre espressioni che il Trattato impiega, quali ravvicinamento delle legislazioni (come ad es. all’art. 94), coordinamento delle disposizioni nazionali (come all’art. 47, ma non come all’art. 99, che riguarda il diverso concetto del coordinamento delle politiche nazionali, in quel caso in materia di politica economica), sono equivalenti ad “armonizzazione”.

L’armonizzazione non è neppure una prerogativa del pilastro comunitario, ma anzi è utilizzata anche nel c.d. terzo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea) ed è estesa a tutti i settori che rientrano nella cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Può essere realizzata solo con decisioni-quadro (v. Decisione), atti che hanno per scopo precipuo «il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri» (a differenza delle decisioni, che hanno «qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del presente titolo, escluso qualsiasi ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri»: art. 34 del Trattato sull’Unione europea). L’armonizzazione non è invece possibile nel c.d. secondo pilastro (Politica estera e di sicurezza comune), non perché espressamente esclusa, ma come conseguenza dell’assenza di competenza normativa in capo alle istituzioni.

Nell’economia generale del Trattato di Roma come concepito dagli Stati che lo sottoscrissero, l’intervento normativo delle istituzioni comunitarie attraverso atti di armonizzazione delle legislazioni nazionali era essenziale per rendere concretamente operanti le c.d. quattro libertà fondamentali (libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali) (v. Libera circolazione delle merci; Libera circolazione delle persone; Libera circolazione dei servizi; Libera circolazione dei capitali). Tuttavia, in molti settori le istituzioni non riuscirono ad adottare gli atti nei casi previsti dal Trattato, circostanza che avrebbe potuto impedire la realizzazione del mercato comune, se non fosse intervenuta la Corte di giustizia a valorizzare altre disposizioni del Trattato. La Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) infatti, sin dal caso Van Gend & Loos (sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62, in “Raccolta”, p. 1 e ss.), ha elaborato la dottrina degli effetti diretti delle norme del Trattato. In particolare, ha affermato che le disposizioni del Trattato che sono chiare, precise e incondizionate possono far sorgere diritti in capo ai singoli. La diretta applicabilità comporta che le disposizioni nazionali siano disapplicate se contrastano con il Trattato. Questa dottrina ha consentito di superare l’inerzia delle istituzioni, che per vari motivi non riuscirono ad adottare atti di armonizzazione. La Corte ha così realizzato una sorta di “integrazione negativa”, che ha permesso di superare alcune delle barriere all’instaurazione delle quattro libertà. È utile ricordare quanto la Corte affermò nel caso Reyners: «dopo la fine del periodo transitorio [scaduto il 31 dicembre 1969], le direttive contemplate dal capitolo relativo al diritto di insediamento sono divenute superflue per l’attuazione della norma del trattamento nazionale, dato che quest’ultima è ormai sancita, con efficacia diretta, dal trattato stesso. Tali direttive non hanno tuttavia perduto ogni interesse, in quanto conservano un campo di applicazione importante nel settore delle misure dirette a favorire ed a facilitare l’effettivo esercizio del diritto di libero stabilimento» (sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74, in “Raccolta”, p. 631, parr. 30-31). In altri termini, la Corte chiarisce il rapporto tra atti che le istituzioni devono adottare e disposizioni del Trattato sulle libertà fondamentali. Il trattamento nazionale o il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità si impongono agli Stati in quanto norme chiare, precise e incondizionate. Gli atti delle istituzioni possono e devono facilitare l’esercizio delle libertà, ma non ne sono la fonte.

Questa giurisprudenza ha cambiato il rapporto tra diritto nazionale e diritto comunitario. Da quel momento, la contrarietà al Trattato di una disposizione nazionale ha potuto essere fatta valere da chiunque ne avesse interesse attraverso un ricorso al giudice nazionale. La misura statale è considerata incompatibile con il Trattato, e quindi disapplicabile, a meno che non sia giustificata da esigenze imperative, nei casi stabiliti dal Trattato quando la misura nazionale è discriminatoria, oppure nei casi previsti dalla giurisprudenza Cassis de Dijon se la misura è indistintamente applicabile. Le esigenze di armonizzazione non sono però venute meno. Anzi, trovano un campo di intervento in relazione ai settori nei quali gli Stati possono invocare le esigenze imperative, in quanto l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in quei settori agevola le quattro libertà fondamentali. In questo senso, si può parlare di “integrazione positiva” realizzata attraverso atti di diritto derivato.

In altri settori, diversi dalle quattro libertà, il rapporto tra integrazione negativa e positiva non si pone negli stessi termini. L’armonizzazione è allora indipendente alla diretta applicabilità e diventa contenuto della misura comunitaria.

Il sistema comunitario, fondato, come già ricordato, sul principio delle competenze di attribuzione, comporta che per ogni atto normativo, in questo caso di armonizzazione, sia necessario identificare una base giuridica. Il Trattato prevede due possibilità a questo fine: basi giuridiche generali e speciali. Sono generali le basi giuridiche costituite dagli art. 94, 95 e 308. Sulle prime due si ritornerà diffusamente nel paragrafo successivo. L’art. 308 definisce una procedura per l’adozione di atti per realizzare obiettivi comunitari nel caso in cui il Trattato non abbia attribuito alle istituzioni specifici poteri di azione. La disposizione può allora essere utilizzata per emanare atti di armonizzazione. Il Trattato di Lisbona del 2007 modifica però l’art. 308 stabilendo che per questa via non è possibile realizzare l’armonizzazione dei diritti nazionali nei casi in cui il Trattato espressamente la esclude. Questa limitazione è comunque ricavabile in via interpretativa, se solo si considera che si tratterebbe di una modifica del Trattato che non può essere realizzata per mezzo dell’art. 308, ma richiede una specifica procedura (parere 2/94 del 28 marzo 1996, in “Raccolta”, p. I-1759 e ss.).

Le basi giuridiche specifiche sono quelle previste dai Trattati in relazione a specifiche materie, alle quali si deve ricorrere se la misura di armonizzazione incide su quella materia. Il rapporto tra le prime e le seconde è retto dal principio di specialità: alle basi giuridiche generali si ricorre soltanto se non esiste una base giuridica specifica e, viceversa, le basi giuridiche specifiche sono da preferire a quelle generali (sentenza 23 febbraio 1988, causa 131/86, Regno Unito contro Consiglio, in “Raccolta”, p. 905 e ss. Sul problema della scelta della base giuridica con riferimento alle misure di armonizzazione, v. Fallon, 2002, p. 216 e ss.; Barnard, 2007, p. 581 e ss.).

Determinare la base giuridica dell’atto è questione interpretativa di capitale importanza nel sistema comunitario. La scelta deve essere guidata da alcuni principi, elaborati dalla Corte di giustizia. Secondo costante giurisprudenza, l’elemento che guida la scelta è costituito dallo scopo principale dell’atto in progetto, quale si ricava dal suo contenuto. Solo se l’atto è destinato a perseguire contemporaneamente più obiettivi tra loro inscindibili e di pari importanza, esso dovrà basarsi su più basi giuridiche.

La base giuridica dell’atto è fondamentale anche sotto un profilo più specifico: l’ammissibilità di misure nazionali derogatorie dipende dalla base giuridica posta a fondamento dell’atto di armonizzazione ed è in relazione ad essa che la questione deve essere esaminata e risolta (v. oltre, § 5).

L’art. 94 era già contenuto nella versione originaria del 1957 e le modifiche che vi sono state apportate dal Trattato di Maastricht hanno riguardato la procedura di adozione degli atti, ma non la sua sostanza. La disposizione prevede che il Consiglio dei ministri, all’unanimità (v. Voto all’unanimità), possa adottare direttive per il ravvicinamento delle disposizioni nazionali «che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune». In origine, il Consiglio doveva consultare il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale solo nel caso in cui l’attuazione dell’atto in progetto comportasse una modifica di atti legislativi in uno o più Stati membri. Ora la consultazione è sempre obbligatoria, benché non vincolante.

L’idea alla base della disposizione è quella secondo la quale la differenza tra le legislazioni nazionali in materie relative al mercato comune può produrre distorsioni che ne ostacolano il funzionamento, mentre l’identità delle regolamentazioni non è un requisito indispensabile per il funzionamento del mercato comune (v. Draetta, 1965, p. 785).

Il ravvicinamento è quindi un mezzo per realizzare il fine costituito dal funzionamento del mercato comune. Di conseguenza, non ogni divergenza tra le disposizioni nazionali deve essere eliminata attraverso il ravvicinamento, perché la competenza che l’art. 94 assegna alle istituzioni si limita all’eliminazione per mezzo del ravvicinamento delle sole differenze che abbiano un’incidenza e perlopiù diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune.

L’art. 95 è stato invece inserito dall’Atto unico europeo (AUE), e modificato in modo significativo dai successivi Trattati di revisione. È anch’essa una base giuridica generale, ma si pone come subordinata rispetto all’art. 94. L’art. 95 consente l’adozione di misure secondo la Procedura di codecisione, per il ravvicinamento delle disposizioni nazionali «che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno», ma a esclusione delle disposizioni fiscali, di quelle relative alla libera circolazione delle persone e a quelle relative ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti (par. 2). Le materie escluse possono comunque essere oggetto di ravvicinamento, ma ricorrendo ad una diversa base giuridica, speciale (per es. l’art. 93 in tema di armonizzazione delle imposte indirette: sentenza 26 gennaio 2006, causa C-533/03, Commissione contro Consiglio, in “Raccolta”, p. I-1025 e ss.) oppure generale (e il riferimento principale è all’art. 94).

In ogni caso, presupposto per l’applicazione dell’art. 95, come anche dell’art. 94, è la presenza di norme nazionali da armonizzare. In assenza di disposizioni nazionali in una certa materia, esso non è base giuridica appropriata per l’introduzione di istituti nuovi. In questa ipotesi, l’unica base giuridica generale utilizzabile è l’art. 308 (in questo senso, v. sentenza della Corte 2 maggio 2006, causa C-436/03, Parlamento europeo contro Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-3733 e ss.).

Dal punto di vista dei poteri delle istituzioni, due sono le principali differenze tra gli articoli 94 e 95. In primo luogo, la scelta dell’atto che l’art. 95 conferisce alle istituzioni non è limitata, come nell’art. 94, alle direttive, con la conseguenza che anche un regolamento potrà essere utilizzato al fine di realizzare il ravvicinamento. Tuttavia, una dichiarazione allegata all’AUE stabiliva che la Commissione europea avrebbe privilegiato la direttiva «se l’armonizzazione comporta in uno o più Stati membri una modifica di disposizioni legislative». Il favore per le direttive è espresso anche in termini più generali dal Protocollo sull’applicazione del principio di sussidiarietà e del principio di proporzionalità, allegato al Trattato comunitario e parte integrante di esso. Le direttive devono essere attuate dagli Stati. La Corte, tuttavia, non esclude che misure di armonizzazione non recepite entro il termine di scadenza possano essere invocate dai singoli per opporsi a norme nazionali incompatibili (uno dei casi fondamentali per lo sviluppo della dottrina degli effetti diretti delle direttive verteva su misure di armonizzazione, adottate in base all’art. 100, ora 94: v. sentenza della Corte 5 aprile 1979, causa 148/78, Ratti, in “Raccolta”, p. 1629 e ss.).

In secondo luogo, la procedura di adozione degli atti prevista dall’art. 95 garantisce, rispetto a quella di cui all’art. 94, un migliore bilanciamento dei poteri di Parlamento e Consiglio: il primo assurge al ruolo di colegislatore e il peso del secondo è ridotto, non essendo prevista l’unanimità come regola di voto. Tale risultato è frutto di due fenomeni concomitanti: da un lato, la progressiva sostituzione alla procedura di cooperazione (prevista dalla versione originaria dell’articolo) di quella di codecisione (modifica apportata con il Trattato di Maastricht); dall’altro, il perfezionamento della procedura di codecisione, realizzata con il Trattato di Amsterdam, che ha effettivamente equiparato i poteri del Parlamento e del Consiglio.

Per quanto riguarda il campo di applicazione dell’art. 95, essenziale è il riferimento alla giurisprudenza comunitaria. Il Trattato, infatti, si limita a richiedere che le legislazioni da armonizzare debbano avere per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. L’interpretazione secondo la quale la sola disparità tra le normative nazionali giustifica il ricorso all’art. 95, è stata infatti respinta dalla Corte di giustizia. Una misura di armonizzazione è giustificata solo se le disparità sono tali da ostacolare le libertà fondamentali o da creare distorsioni di concorrenza, incidendo così direttamente sul funzionamento del mercato interno, e solo se la misura comunitaria è effettivamente diretta all’eliminazione o alla prevenzione di quegli ostacoli o di quelle distorsioni (la giurisprudenza sul punto è consolidata. La formula è espressa con particolare chiarezza nella sentenza 12 dicembre 2006, causa C-380/03, Germania contro Parlamento europeo e Consiglio, in “Raccolta”, p. I-11573 e ss. Per un’analisi della coerenza della Corte nell’applicazione di questa formula, v. Barnard, 2007, p. 578). Questa interpretazione valorizza il legame tra armonizzazione e mercato interno, letto alla luce degli articoli 2 e 3 del Trattato.

In ogni caso, se l’obiettivo che la misura persegue rientra in una base giuridica specifica che esclude l’armonizzazione, il ricorso all’art. 95 è precluso (sentenza 5 ottobre 2000, causa C-376/98, Germania contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-8419 e ss.).

A bilanciare l’assenza dell’unanimità del Consiglio (che riduce il peso dei singoli Stati membri) stanno due previsioni dell’art. 95: da una parte, alcune indicazioni quanto al contenuto dell’atto; dall’altra, la facoltà per gli Stati di mantenere o introdurre disposizioni nazionali in deroga alla misura comunitaria.

Sotto il primo profilo, le istituzioni devono basarsi su «un livello elevato di protezione» in materia di «sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori» (par. 3) e devono, se del caso, contemplare l’introduzione di clausole di salvaguardia nelle singole misure di armonizzazione, per autorizzare gli Stati «ad adottare, per uno o più dei motivi non economici di cui all’articolo 30, misure provvisorie soggette ad una procedura comunitaria di controllo» (par. 10).

Sotto il secondo profilo, è utile premettere che le direttive adottate in base all’art. 94 non consentono deroghe agli Stati, a meno che ciò non sia previsto dall’atto stesso (v. sentenza 25 aprile 2002, causa C-183/00, González Sánchez, in “Raccolta”, p. I-3901 e ss.). Al contrario, un atto che ha per base giuridica l’art. 95 può essere derogato dagli Stati nel rispetto delle procedure previste in termini generali dalla disposizione stessa. Al fine di evitare un uso abusivo di tali facoltà, è previsto il controllo della Corte di giustizia, che può essere adita direttamente dalla Commissione o da un altro Stato membro, in deroga alla procedura ordinaria di infrazione (par. 9).

Il par. 4 è relativo all’ipotesi in cui uno Stato membro voglia mantenere disposizioni già esistenti che siano giustificate da una delle esigenze di cui all’art. 30 (deroghe al divieto di restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione delle merci) o relative alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro. Il par. 5 riguarda l’introduzione di nuove norme, cioè l’adozione, dopo la misura comunitaria di armonizzazione, di «disposizioni nazionali fondate su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, giustificate da un problema specifico a detto Stato membro insorto dopo l’adozione della misura di armonizzazione». Il Tribunale di primo grado ha interpretato in modo restrittivo il requisito del “problema specifico”, escludendo che uno Stato possa beneficiare della deroga del par. 5 per far fronte ad un rischio, per esempio ambientale, che presenta un carattere generale e tocca tutti gli Stati membri (v. sentenza 27 giugno 2007, causa T-182/06, Paesi Bassi contro Commissione, in “Raccolta”, p. II-1983 e ss.).

In entrambi i casi, lo Stato deve notificare alla Commissione l’intenzione di mantenere o introdurre norme nazionali, motivandola in base ai requisiti sostanziali indicati.

La versione dell’AUE era molto più ambigua, sia poiché faceva riferimento alla possibilità per gli Stati di “applicare” norme nazionali, senza specificare se precedenti o successive alla misura comunitaria, sia perché non chiariva i poteri della Commissione, ed ha così dato adito a dubbi interpretativi, chiariti dalla Corte di giustizia (v. Condinanzi, 2001, p. 499) e superati grazie alla modifica della disposizione in senso conforme alla giurisprudenza, realizzata con il Trattato di Amsterdam.

In base alla versione attuale dell’art. 95, la Commissione, ricevuta la notifica, dispone di sei mesi di tempo (eventualmente prorogabili di ulteriori sei mesi) per approvare o respingere la richiesta (il silenzio equivale ad approvazione), valutando se le disposizioni nazionali, oltre a soddisfare i requisiti previsti, costituiscono o no «uno strumento di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata nel commercio tra gli Stati membri» e se rappresentano o no «un ostacolo al funzionamento del mercato comune» (par. 6). Le condizioni previste ai par. 4 o 5 e al par. 6 devono essere cumulativamente soddisfatte (v. sentenza della Corte 20 marzo 2003, causa C‑3/00, Danimarca contro Commissione, in “Raccolta”, p. I‑2643 e ss.). La procedura non ha carattere contraddittorio, perché la Commissione si limita a valutare gli argomenti prodotti dallo Stato, che non deve pertanto essere sentito prima della decisione (v., a proposito del par. 4, sentenza della Corte 20 marzo 2003, causa C‑3/00, Danimarca contro Commissione, in “Raccolta”, p. I‑2643 e ss., e del par. 5, sentenza della Corte 13 settembre 2007, cause riunite C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich e Austria contro Commissione, in “Raccolta”, p. I-7141 e ss., punti 37-38). In pendenza dell’autorizzazione, lo Stato non può applicare le norme nazionali derogatorie, perché la decisione della Commissione ha valore costitutivo (sentenza 17 maggio 1994, causa C-41/93, Francia contro Commissione, in “Raccolta”, p. I-1829 e ss.).

Nell’ipotesi in cui uno Stato sia stato autorizzato a mantenere o a introdurre disposizioni nazionali derogatorie, la Commissione deve verificare se non sia opportuno proporre una modifica della misura comunitaria di armonizzazione (par. 7). La Commissione, inoltre, esamina l’opportunità di proporre una modifica della misura comunitaria, qualora uno Stato sollevi un problema attinente alla pubblica sanità (par. 8), anche se non chiede di mantenere o introdurre disposizioni nazionali derogatorie.

La Corte ha riconosciuto che le istituzioni godono di un certo margine di discrezionalità nel determinare quale sia la tecnica di armonizzazione più appropriata per ottenere il risultato auspicato. Ne consegue che le misure di ravvicinamento delle legislazioni nazionali che pure presentano la stessa base giuridica possono avere caratteristiche molto diverse. Per esempio, in relazione all’art. 95 sono state considerate valide sia una direttiva che vietava la commercializzazione di un prodotto in tutti gli Stati membri (sentenza 14 dicembre 2004, causa C-434/02, Arnold André, in “Raccolta”, p. I-11825 e ss.), sia una direttiva che prevedeva una procedura comunitaria per l’autorizzazione di certi prodotti alimentari (sentenza 6 dicembre 2005, causa C-66/04, Regno Unito contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-10553 e ss.).

La dottrina suole classificare le misure di armonizzazione secondo il grado di intensità (v. Fallon, 2002, p. 227 e ss.; Dubouis, Blumann, 2004, p. 268 e ss.; Barnard, 2007, p. 591 e ss.).

L’armonizzazione è completa, quando la misura comunitaria disciplina tutti gli aspetti di una materia, senza lasciare spazio a disposizioni nazionali e sostituendosi ad esse. Nel caso di prodotti, si tratta di disciplinare le caratteristiche che una merce deve presentare per essere prodotta e commercializzata nella Comunità. La produzione di beni difformi dagli standard comunitari non è possibile.

L’armonizzazione è parziale, se riguarda solo alcuni aspetti; in questo caso, gli Stati sono liberi di regolare le questioni non disciplinate a livello comunitario (v. sentenza 22 giugno 1993, causa C-222/91, Philip Morris Belgium e a., in “Raccolta”, p. I-3469 e ss.).

L’armonizzazione è minima, quando la misura comunitaria stabilisce quali sono le caratteristiche che un prodotto o servizio deve possedere per essere commercializzato nella Comunità, ma lascia agli Stati la possibilità di prevedere standard diversi e più severi per i prodotti o servizi nazionali. Ciò significa che ogni Stato deve accettare la commercializzazione sul suo territorio di beni o servizi che rispettano lo standard comune, ma può imporre ai prodotti o servizi nazionali standard diversi e più severi. Il limite alla libertà degli Stati è data dal Trattato stesso, e in particolare dalle disposizioni sulle quattro libertà. Lo standard minimo non è quello proprio dello Stato che prevede le norme meno rigorose (v. sentenza 12 novembre 1996, causa C-84/94, Regno Unito contro Consiglio, in “Raccolta”, p. I-5755 e ss., par. 17), ma può essere determinato dalle istituzioni in base all’obiettivo perseguito. Questa forma di armonizzazione si impone laddove il Trattato stabilisce che le istituzioni possano adottare solo prescrizioni minime (come nel caso dell’art. 137), ma è preclusa nel caso dell’art. 94 (v. sentenza 25 aprile 2002, causa C-154/00, Commissione contro Grecia, in “Raccolta”, p. I-3879 e ss.).

Con riferimento alle norme relative ai prodotti, si suole anche distinguere l’armonizzazione “tradizionale” dall’armonizzazione realizzata secondo il c.d. “nuovo approccio”. Non si tratta di una distinzione operata dalla dottrina, ma dalle stesse istituzioni comunitarie. L’armonizzazione tradizionale garantisce condizioni identiche in ogni Stato membro per quanto riguarda ogni aspetto della produzione e commercializzazione dei prodotti, ma è molto onerosa e tanto più difficile da realizzare quanti più sono gli Stati membri (per una critica a questo tipo di approccio, v. Weatherill, 2006, p. 623 e ss.). Il “nuovo approccio” comporta che siano oggetto di armonizzazione completa soltanto le disposizioni relative alla definizione dei requisiti essenziali di sicurezza, salute, tutela dell’ambiente che i prodotti devono soddisfare per poter essere immessi sul mercato e circolare nella Comunità. Le specifiche tecniche per produrre beni conformi alle esigenze essenziali sono elaborate dagli enti di certificazione e sono volontarie. I prodotti conformi alle suddette specifiche devono essere riconosciuti dagli Stati membri come idonei a tutelare le esigenze essenziali. Questo meccanismo è assai più duttile del precedente e ha il merito di focalizzarsi sugli obiettivi (tutela delle esigenze essenziali e della circolazione delle merci) e non sugli strumenti per conseguirli (specifiche tecniche).

Alessandra Lang (2007)




Assise

La prima iniziativa per gli “stati generali” dell’Europa fu lanciata, in particolare dai rappresentanti del Partito radicale, nella seduta del 10 febbraio 1988 della commissione Affari esteri della Camera dei deputati. In termini solenni, le Assise europee furono proposte dal Presidente della Repubblica francese François Mitterrand nella sua allocuzione dinanzi al Parlamento europeo a Strasburgo il 25 ottobre 1989, anno in cui ricorreva il bicentenario della Rivoluzione francese, e in particolare della convocazione degli stati generali. L’idea era di rilanciare il processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) attraverso la convocazione di una Conferenza dei parlamenti degli allora 12 Stati componenti la Comunità (v. Comunità economica europea) e il Parlamento europeo. Si trattava di contrastare la tendenza fino ad allora affermatasi di vedere come protagonisti esclusivi i governi, di far regredire la “deriva” della cooperazione intergovernativa e di fare partecipare direttamente i parlamenti alla creazione di una vera unione europea. Questa iniziativa fu appoggiata a più riprese dalla Camera italiana, con due risoluzioni del 21 marzo e del 31 luglio 1990, e sostenuta con forza dal Parlamento europeo. Essa fu realizzata con la convocazione – decisa dalla Conferenza dei presidenti dei parlamenti dei paesi membri della Comunità e del Parlamento europeo – della Conferenza sull’“Avvenire dell’Europa”, tenutasi a Roma dal 27 al 30 novembre 1990. Vi presero parte delegazioni del Parlamento europeo e dei 12 parlamenti nazionali. Già la data scelta assumeva un particolare significato, perché si collocava quindici giorni prima del Consiglio europeo di Roma, che avrebbe dovuto dare l’avvio alla convocazione delle due Conferenze intergovernative (CIG) per la realizzazione dell’Unione economica e monetaria e dell’Unione politica – che avrebbero elaborato il Trattato sull’Unione europea (TUE), meglio noto come Trattato di Maastricht.

Questa Conferenza si configurò subito come un “contrappeso” parlamentare nei confronti delle Conferenze intergovernative, adottando una Dichiarazione finale nel cui preambolo si diceva espressamente che «la costruzione europea non può essere unicamente frutto della concertazione diplomatica e governativa, ma che i parlamenti della Comunità europea debbono partecipare pienamente alla definizione dei suoi orientamenti». Questa Dichiarazione – che si poneva nella scia del progetto di Trattato sull’Unione europea approvato il 14 febbraio 1984 dal Parlamento europeo (meglio noto come “progetto Spinelli”) (v. Spinelli, Altiero) – affermava nettamente l’esigenza di «trasformare la Comunità in una Unione europea costruita su basi federali». Essa conteneva molti degli elementi che si ritrovano non solo nel TUE, ma anche negli sviluppi successivi fino al “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa” (v. Costituzione europea). In proposito il punto 12 della Dichiarazione prefigurava, anche nel metodo, un’Unione europea ottenuta con una Costituzione «elaborata attraverso procedure alle quali partecipino il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali». Si indicavano i tratti fondamentali delle singole istituzioni e del complessivo assetto istituzionale: un Parlamento con tutti i poteri propri di ogni istituzione parlamentare, in particolare di tipo legislativo; una Commissione (v. Commissione europea), vero governo dell’Unione; un Consiglio (v. Consiglio dei ministri) ricondotto alla sua giusta dimensione con il voto a maggioranza generalizzato; un corretto ruolo dei parlamenti nazionali, chiamati a esercitare la loro influenza sulla definizione delle posizioni del proprio governo in materia di politica comunitaria; la presenza delle regioni; l’introduzione del principio di sussidiarietà (v. Principio di sussidiarietà); il rafforzamento delle politiche esistenti e in particolare di quelle sociali e di coesione (v. Politica sociale; Politica di coesione); infine, l’introduzione di nuove fondamentali politiche come quella monetaria. L’importanza di questa Dichiarazione non è stata sufficientemente sottolineata, nonostante il seguito che essa ha avuto nei vari Trattati che si sono succeduti, iniziando dal TUE. Quest’ultimo non solo contiene alcune delle richieste formulate nella Dichiarazione del 30 novembre, ma nella Dichiarazione n. 14, ad esso allegata, “sulla Conferenza dei parlamenti”, fa riferimento esplicito a questo tipo di riunioni, al quale, peraltro, si dà anche il nome di “Assise”, specificando che, «fatte salve le competenze del Parlamento europeo e i diritti dei parlamenti nazionali», la Conferenza dei parlamenti «è consultata sui grandi orientamenti dell’Unione europea».

Vincenzo Guizzi (2008)




Assistenza Tecnica ai nuovi Stati Indipendenti

Technical aid to the commonwealth of independent States (TACIS) è un programma comunitario (v. Programmi comunitari) che ha lo scopo di aiutare gli Stati indipendenti emersi dal crollo dell’ex Unione Sovietica (Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldova, Federazione Russa, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina, Uzbekistan) e la Mongolia a compiere la transizione verso un’economia di mercato e a rafforzare la democrazia e lo stato di diritto.

In vigore dal 1991 (a seguito dei Consigli europei di Dublino e di Roma del 1990 (v. Consiglio europeo), TACIS trova il suo fondamento giuridico per il periodo 2000/2006 nel regolamento della Comunità europea (CE) n. 99/2000 del Consiglio (“Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee”, L 12 del 18 gennaio 2000), che prevede un ammontare complessivo di risorse pari a 3138 milioni di Euro.

Gli Stati beneficiari del programma stabiliscono, di concerto con la Commissione europea, una serie di programmi indicativi che definiscono le aree prioritarie d’intervento e, successivamente, programmi d’azione che danno attuazione ai programmi indicativi. In seguito la Commissione europea adotta le relative decisioni (v. Decisione) di finanziamento e assegna i contratti per la realizzazione dei progetti a un’organizzazione, privata o pubblica, selezionata tramite gara ristretta, gara aperta o trattativa privata. In generale il supporto ai paesi beneficiari è fornito sotto forma di trasferimento di conoscenze, cooperazione industriale e partenariati, forniture, sostegno agli investimenti.

Tra le finalità del programma TACIS vi è il supporto alle riforme istituzionali, giuridiche e amministrative. Molti dei progetti finanziati prevedono la riscrittura dei testi di legge, il rafforzamento dell’efficacia dei processi decisionali (v. Processo decisionale), la riforma delle amministrazioni pubbliche e l’assistenza tecnica agli organi esecutivi e legislativi. Un altro ambito di intervento è il sostegno al settore privato e gli aiuti allo sviluppo economico. L’assistenza in questo campo prevede il rafforzamento del settore privato, attraverso lo sviluppo della capacità delle piccole e medie imprese di acquisire nuove conoscenze e competenze, la formazione di consulenti d’impresa locali e un migliore accesso ai finanziamenti, il potenziamento dell’ambiente economico, attraverso un’assistenza tecnica agli organi esecutivi e legislativi in materia di macroeconomia, di politica industriale, fiscale e commerciale, il miglioramento delle condizioni in cui operano le imprese e lo sviluppo di nuovi mercati, nonché la promozione di nuovi programmi d’investimento. TACIS prevede altresì aiuti finalizzati al superamento della crisi sociale causata dal processo di transizione verso un’economia di mercato. Molti progetti si concentrano sul miglioramento dei sistemi di cura e sulla prevenzione, nonché sul sostegno all’aumento dell’occupazione e alla riqualificazione. Lo sviluppo delle reti infrastrutturali, con il miglioramento dei trasporti terrestri e aerei, dell’approvvigionamento energetico e l’ampliamento del sistema di telecomunicazioni, la sicurezza nucleare e la protezione ambientale attraverso la promozione di interventi di sviluppo sostenibile e il miglioramento della sicurezza degli impianti nucleari sono altri due obiettivi del programma TACIS. Un ambito di intervento prioritario è infine lo sviluppo dell’economia rurale attraverso l’incremento della produzione alimentare, il miglioramento della qualità dei prodotti, delle condizioni igieniche e il potenziamento dei canali di distribuzione.

I programmi TACIS si articolano in due categorie principali: i programmi nazionali, che prevedono interventi in due o più dei principali settori prioritari descritti, e i programmi multinazionali. Questi ultimi prevedono interventi di cooperazione regionale tra gli Stati beneficiari nei settori relativi alla creazione di reti, alla tutela dell’ambiente e al miglioramento dei sistemi giudiziari; interventi di cooperazione transfrontaliera a favore degli Stati beneficiari che confinano con i paesi dell’Unione europea o con i paesi candidati, per promuovere lo sviluppo economico, la protezione dell’ambiente, la creazione e il potenziamento dei valichi di frontiera, nonché interventi finalizzati a promuovere la sicurezza nucleare.

Silvia Vaccaro (2009)




Associazione

Inserita nel Trattato Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) (v. anche Trattato di Parigi) per essere strumento di raccordo fra la Comunità carbosiderurgica e il Regno Unito (ma l’accordo firmato nel 1955 ebbe contenuti prettamente procedurali e di consultazione) l’associazione entrò nel trattato Comunità economica europea (CEE) (v. anche Trattati di Roma) – non nell’Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica) – sotto due forme. La prima riguardava i territori dipendenti degli Stati membri, che la parte IV destinava d’autorità a entrare in un’area di libero scambio euro-africana e rendeva destinatari di aiuti finanziari. L’articolo 238 (ora 310), ricalcato sul Trattato CECA pensando agli stati dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) rimasti fuori dal mercato comune, prevedeva invece che la CEE potesse stipulare accordi di associazione con «Stati, gruppi di Stati e organizzazioni internazionali», la definiva «caratterizzata da diritti e obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari», ponendola non accanto all’accordo commerciale (art. 113, ora 133) o all’accordo commerciale e di cooperazione economica (art. 228, ora 300), bensì accanto all’adesione (art. 236). Alcune dichiarazioni annesse al Trattato autorizzavano poi a stipulare accordi di associazione con gli ex-protettorati francesi Marocco e Tunisia, le ex-colonie italiane Libia e Somalia, i territori olandesi del Suriname e delle Antille olandesi. Considerando i destinatari in pectore e le caratteristiche, l’associazione nasceva dunque come strumento politico di relazioni esterne con paesi di particolare importanza per i Sei, canale per la proiezione di influenza internazionale del mercato comune (v. Comunità economica europea).

Nel caso della parte IV, l’obiettivo politico della creazione di una comunità euro-africana valse all’associazione l’accusa di neocolonialismo: Marocco e Tunisia rifiutarono di negoziare nel quadro di riferimento della parte IV e gli ambienti anticolonialisti stigmatizzarono il sapore neocolonialista del termine e la finalità politica del mantenimento del legame fra l’Europa e le ex colonie, cui la CEE subordinava la preferenza accordata loro. Nonostante l’ostilità di molti, lo scarso entusiasmo di alcuni Stati membri di orientamento mondialista e/o particolarmente vicini al movimento anticolonialista e i risultati economici limitati, le due Convenzioni di Yaoundé e le quattro Convenzioni di Lomé sottoscritte fra la CEE e le ex colonie fra il 1963 e il 1995 mantennero la denominazione di “associazione”. Solo con l’Accordo di Cotonou del 2000 il termine è stato abbandonato, anche se l’attuale progetto di Accordi di partnership fra l’UE e gruppi regionali di paesi degli Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico (ACP) è per alcuni versi la conferma del persistere dello spirito politicamente discriminatorio insito nell’associazione.

L’art. 238 non suscitò la stessa opposizione, ma l’attuazione concreta non fu pari alle attese. Nel dibattito dei primi anni Sessanta, l’associazione veniva definita addirittura come «una forma di adesione attenuata», ma solo il Trattato di Atene del 1961 ebbe spessore politico e economico, lanciando il processo di adesione della Grecia alla CEE. Le difficoltà istituzionali, politiche e economiche emerse durante questo primo negoziato, la scia di candidature di paesi europei non-CEE e di paesi del Mediterraneo accesero un dibattito su finalità e contenuti possibili degli accordi di associazione, condizionato dalla diffidenza verso i paesi europei che rifiutavano il sovranazionalismo, dalle diverse visioni di cosa la CEE dovesse diventare e di come dovesse rapportarsi al mondo esterno, dall’ostilità americana. Chi difendeva una concezione restrittiva e voleva riservare l’associazione ai potenziali full members, tutelava sì la coesione interna della CEE, ma ne sacrificava la proiezione esterna e dunque la rilevanza politica internazionale. Chi difendeva un’interpretazione ampia per fare dell’associazione lo strumento duttile in grado di soddisfare le richieste diversificate dei partner e rivendicava di lavorare per affermare la CEE come attore politico internazionale, era accusato di “diluire” la CEE e minacciarne l’integrità. L’incompatibilità fra visioni e interessi politici e economici finì per prevalere sulle ambizioni: il Trattato di Ankara del 1963 fu “associazione” solo in omaggio alla regola informale del parallelismo greco-turco, e in seguito la denominazione di associazione venne a riflettere un’affermazione di volontà più che la portata politica o economica dell’accordo. Le aree di elezione si confermarono essere l’Europa e il Mediterraneo. Dopo l’Austria, associazioni di prima generazione vennero stabilite nel Mediterraneo fra il 1968 e il 1972, ampliate poi in contenuto e in numero nel quadro della politica mediterranea globale. Dopo l’adesione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca, furono associazioni gli accordi di libero scambio stipulati con i rimanenti paesi dell’Associazione europea di libero scambio (European free trade area, EFTA): durata, stabilità e istituzioni comuni caratterizzavano questi accordi, che tuttavia, complice l’atrofia politica della CEE, rimasero accordi economico-commerciali nel caso del Mediterraneo poco significativi. Qualche sostanza pare dunque avere l’analisi più o meno critica di chi rileva come l’integrazione europea sia (anche) un processo costruito intorno a un “gergo” che legittima ideologicamente e insieme attribuisce unicità e pregnanza a fatti e politiche prive di ogni specificità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In effetti, molte associazioni hanno avuto contenuto economico limitato e assai scarso significato politico.

La nascita dell’Unione europea (UE), la fine della separazione formale fra CEE e Comunità politica europea (CPE) e le nuove condizioni politiche internazionali rilanciarono nei primi anni Novanta il significato politico dell’associazione e la sua specificità fra le tipologie di accordo internazionale stipulabili dalla UE – accordi commerciali, accordi di cooperazione e accordi appunto di associazione. Essa è connotata dalla durata, dalla forte istituzionalizzazione e dai meccanismi di dialogo politico particolarmente sviluppati. L’associazione ha assunto per i paesi europei la funzione di accordo di preadesione (v. Strategia di preadesione), mentre per i paesi extraeuropei cui è preclusa l’adesione, spesso paesi in via di sviluppo, essa esprime l’appartenenza alla schiera – del resto assai ampia – di paesi con cui la UE intrattiene rapporti di intensità politica ed economica particolare. Nella maggior parte dei casi, l’associazione tende alla costituzione di un’area di libero scambio in vista della quale i mercati della CEE vengono aperti anche in maniera unilaterale per favorire lo sviluppo dei partner, avvantaggiati anche con vari tipi di cooperazione economica e tecnica, quasi sempre con aiuti finanziari e forme di dialogo politico istituzionalizzato.

In Europa l’UE ha stipulato diversi gruppi di accordi di associazione. Gli “Europe agreements” furono firmati a metà anni Novanta con i PECO (paesi dell’Europea centro orientale) per favorire la trasformazione economica e politica e l’adeguamento ai requisiti necessari per l’apertura di negoziati di adesione (v. Accordi europei). Accordi di associazione furono firmati con Cipro, Malta e la Turchia, e divennero anch’essi cornice del processo di preadesione. La Norvegia e l’Islanda hanno rinegoziato l’accordo per lo Spazio economico europeo e i loro accordi di associazione sono i più estesi dal momento, includendo anche la libera circolazione dei servizi, dei capitali (v. Libera circolazione dei capitali) e delle persone (v. Libera circolazione delle persone). Alla schiera dei paesi si è aggiunto anche il Liechtenstein. Infine, la categoria più recente è costituita dagli accordi stabilizzazione e di associazione offerti ai paesi dei cosiddetti “Balcani occidentali”, cioè le repubbliche dell’ex Iugoslavia e l’Albania (v. Politica dell’Unione europea nei Balcani): alla cooperazione commerciale e settoriale, essi aggiungono la giustizia e gli affari interni (v. Giustizia e affari interni) e la cooperazione regionale e mirano a svolgere una funzione di catalizzatore della riconciliazione regionale, aprendo ai destinatari la prospettiva futura e condizionata dell’adesione. Accordi di associazione sono stati firmati anche con tutti paesi partecipanti al partenariato euromediterraneo, in sostituzione degli accordi prima generazione firmati negli anni Settanta, e associazioni, anche multilaterali, sono state costituite con l’America Latina, al primo accordo stipulato con il Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay) si sono aggiunti quello con il Messico (1997) e con il Cile (2002); gli accordi per il dialogo politico e la cooperazione con la Comunità andina e con l’America centrale sono anch’essi in predicato per la promozione ad accordi di associazione.

Elena Calandri (2007)




Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale

Fin dagli anni Cinquanta furono numerosi i tentativi di creare organizzazioni regionali nel Sudest asiatico principalmente a fini di sicurezza antisovietica, tra i quali l’Associazione del Sudest asiatico (ASA), comprendente Filippine, Tailandia e Malesia, che tuttavia fallì a causa di dispute territoriali tra i paesi membri. Tali precedenti evidenziavano la necessità di un’organizzazione cui partecipassero anche i paesi più potenti della regione, come ad esempio l’Indonesia. Con la Bangkok declaration del 1967 nacque così l’ASEAN (Association of South East Asian nations), fondata da Indonesia, Tailandia, Malesia, Singapore e Filippine con obiettivi principalmente politici: promuovere la stabilità regionale, assicurare la sopravvivenza dei paesi membri, in particolare tutelando la regione da interventi esterni (soprattutto sovietici) e limitare la competizione tra di essi. La nuova organizzazione sarebbe servita anche a promuovere la cooperazione economica e il benessere sociale dei paesi membri attraverso programmi comuni e alla creazione di uno spazio di incontro e di confronto per la soluzione di eventuali divergenze tra i membri. La Dichiarazione di Bangkok prevedeva inoltre una “cooperazione funzionale” che avrebbe dovuto coprire i settori di scienza e tecnologia, ambiente, cultura e informazione, sviluppo sociale, controllo di droghe e narcotici, servizio civile.

Per una descrizione sintetica dell’azione dell’ASEAN, che al 2008 comprende 10 paesi (oltre ai paesi fondatori, Vietnam, Cambogia, Brunei, Laos e Birmania), è utile distinguere tre settori rilevanti: la cooperazione politica e di sicurezza, la cooperazione economica e le relazioni esterne.

Nonostante la sicurezza fosse un obiettivo primario, all’ASEAN non furono inizialmente assegnate competenze dirette su controversie politiche o questioni di sicurezza militare. Il collasso dei regimi antisovietici in Vietnam del Sud e in Cambogia nel 1975 indusse tuttavia a uno sviluppo politico dell’organizzazione, al fine di contenere il pericolo espansionista e destabilizzante del Vietnam comunista. Così, dopo l’approvazione già nel 1971 della “dichiarazione” che definiva il Sudest asiatico come una Zona di pace, libertà e neutralità, (Zone of peace, freedom and neutrality, ZOPFAN), nel 1976 la Conferenza di Bali dei capi di Stato e di governo produsse due accordi su altrettante dimensioni della sicurezza: la Dichiarazione della concordia dell’ASEAN (Declaration of ASEAN concord), imperniata sull’aspetto economico della sicurezza, che definì le aree su cui costruire la cooperazione economica; il Trattato di amicizia e cooperazione (Treaty of amity and cooperation, TAC) che, oltre a promuovere la cooperazione in diverse aree per lo sviluppo economico, la pace e la stabilità nella regione, obbligava i firmatari a risolvere in modo pacifico le controversie attraverso la consultazione reciproca.

L’occupazione della Cambogia da parte del Vietnam, dal 1978 al 1990, pose l’ASEAN al centro dell’attenzione mondiale, dato che a essa venne riconosciuto un importante ruolo diplomatico e di stabilizzazione nella contrapposizione tra due comunismi, quello sovietico e quello cinese, rappresentati rispettivamente da Vietnam e Cambogia. Il maggior successo raggiunto dall’organizzazione fu proprio l’adesione di entrambi i paesi un tempo nemici, nel 1995 e nel 1999. Per effetto di questa crisi regionale e della minaccia vietnamita, si consolidò nell’ASEAN l’abitudine alla consultazione e alla cooperazione, che ne rafforzò l’efficacia rispetto agli obiettivi perseguiti. L’ulteriore sviluppo, dunque, fu ancora una volta effetto di variabili esterne all’ASEAN, che subì l’influenza cogente delle grandi potenze da cui voleva difendere i suoi membri.

Il crollo del Muro di Berlino (v. Germania) e la soluzione della crisi cambogiana ridefinirono il contesto internazionale d’azione per l’ASEAN, che reagì tentando di ritagliarsi un ruolo finalmente importante dal punto di vista politico e promuovendo nel 1994 la costituzione dell’ASEAN regional forum (ARF), un contesto di dialogo regolare ed informale tra i ministri degli Esteri di 25 paesi ASEAN e non (tra cui Australia, Canada, Stati Uniti, India, Giappone, Cina, Russia e Unione europea) su questioni legate alla sicurezza della regione, promuovendo fiducia e trasparenza.

Quanto al settore economico, i primi tentativi ASEAN di facilitare la cooperazione per sostenere lo sviluppo dei paesi membri fallirono a causa della competizione eccessiva tra di essi, nonostante già dal 1968 la Comunità economica europea li incoraggiasse ad agire come un attore unitario. La cooperazione economica ASEAN fu determinata dalla dialettica tra due elementi differenti e in parte contrastanti: da un lato l’esigenza di evitare la marginalizzazione dei paesi del Sudest asiatico nel contesto della globalizzazione, con particolare riferimento all’attrazione di investimenti esteri diretti; dall’altro il timore di tali paesi di essere dominati dall’esterno, sia con riferimento alla potenza egemonica statunitense che con riferimento ai capitali globali. Dopo l’adesione nel 1989 all’Asia-Pacific economic cooperation (APEC), forum interregionale a guida statunitense, l’ASEAN lanciò dunque nel 1992 l’Area ASEAN di libero scambio (ASEAN free trade area, AFTA) che, stimolata dall’emergere di iniziative quali l’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA) e il Mercato unico nel contesto dell’integrazione europea (v. Mercato unico europeo), si poneva l’obiettivo di creare le condizioni migliori affinché i propri paesi membri potessero reggere il confronto con la Cina nell’attrarre investimenti esteri. Inizialmente l’AFTA si diede l’obiettivo di armonizzare le tariffe doganali a un livello tra zero e 5% in 15 anni, poi questo termine venne considerato troppo lungo e ridotto a 10 anni nel settembre 1994. Lo schema della Tariffa preferenziale effettiva comune (Common effective preferential tariff, CEPT) veniva firmato a Singapore il 28 gennaio 1992 ed entrava in vigore il 1° gennaio 1993. Si può dire che a partire dalla fine del 1995 l’AFTA ha realizzato in buona misura un’integrazione del mercato, andando oltre il precedente concetto di “cooperazione”. Dal 2005 non sono praticamente più applicate tariffe superiori al 5%, e per più del 60% dei prodotti le tariffe sono state abolite.

Lo scoppio della crisi economica asiatica nel 1997 da un lato sfidò la credibilità interna e internazionale dell’ASEAN dato che, sopraffatta dagli interessi nazionali dei singoli paesi, essa non riuscì a fornirvi risposte unitarie ed efficaci; dall’altro evidenziò la ritrosia degli Stati Uniti ad offrire soccorso alle economie della regione in difficoltà. L’ASEAN si dotò dunque di nuove politiche e di nuovi strumenti economico-politici: il Piano di azione di Hanoi del 1998, da implementarsi in sei anni, prevedeva l’accelerazione dell’AFTA, l’implementazione dell’accordo su un’Area di investimenti ASEAN (AIA), in grado di attrarre investimenti esteri, la liberalizzazione dei servizi; i meeting “ASEAN+3”, iniziati nel 1996 tra i 10 paesi ASEAN e Giappone, Corea del Sud e Cina per discutere l’architettura finanziaria dell’Asia Pacifico, furono rilanciati – e oggi costituiscono uno degli interessi maggiori dei paesi del Sudest asiatico – per aumentare la forza economica della regione e offrire un contrappeso asiatico all’egemonia statunitense esercitata nel contesto dell’APEC.

Nel campo delle relazioni esterne, va menzionato innanzitutto il rapporto con l’Unione europea (UE), che rappresenta il partner più antico dell’ASEAN. Il dialogo tra le due organizzazioni iniziò informalmente nel 1972 e fu formalizzato il 7 marzo 1980 con la firma dell’Accordo di cooperazione ASEAN-Comunità europea a Kuala Lumpur. Il Comitato misto di cooperazione ASEAN-UE (Joint cooperation committee, JCC) tenne la sua prima riunione a Manila il 28-29 novembre 1980 per poi riunirsi regolarmente ogni 18 mesi e dare vita ad una serie di sottocomitati settoriali che si riuniscono annualmente. I ministri degli Affari esteri dell’ASEAN e dell’UE tennero invece una prima conferenza congiunta nel giugno 1978 a Pattaya, in Tailandia, e da allora si incontrano ogni due anni. Attraverso il JCC, l’UE ha collaborato ai programmi dell’ASEAN di coordinamento istituzionale per l’ambiente, per lo sviluppo delle risorse umane, degli scambi scientifici e tecnici, e nel controllo degli stupefacenti. La cooperazione in questi settori implica una maggiore partecipazione delle istituzioni finanziarie europee e un più ampio accesso dell’ASEAN alla tecnologia europea.

Oltre alle relazioni esterne normalmente condotte dai paesi ASEAN attraverso i canali diplomatici, i Comitati nazionali e l’ARF, l’Associazione ha stretto nel tempo rapporti speciali con alcuni soggetti di diritto internazionale denominati “Dialogue partners”, o “Soci di dialogo”. Il primo ad essere riconosciuto come tale fu l’UE (1972), seguita da Nuova Zelanda (1975); Australia, Canada, Giappone e Stati Uniti (1977); Corea del Sud (1991); India (1995); Cina e Russia (1996). Un ulteriore “socio di dialogo” è rappresentato dallo United Nations development programme (UNDP), che dal 1977 fornisce all’Associazione assistenza a progetti per l’ambiente, per il trasferimento delle tecnologie, lo sviluppo delle risorse umane, lo sviluppo sociale, la cultura e l’informazione e per il controllo sugli stupefacenti. Il Programma sub-regionale ASEAN-UNDP (ASEAN-UNDP Sub-regional programme, ASP) assiste gli Stati membri dell’ASEAN nella cooperazione regionale. L’UNDP ha infine fornito al Segretariato dell’ASEAN assistenza tecnica e nella creazione dell’Unità di cooperazione ASEAN (ASEAN cooperation unit, ACU).

La cosiddetta “ASEAN way” al regionalismo, sviluppatasi a causa del timore di una parte dei paesi coinvolti di subire un’intrusione negli affari nazionali, indica l’assenza di una solida struttura organizzativa, un sistema basato su reti di rapporti informali e poco istituzionalizzati tra i paesi coinvolti, consultazioni costanti, un processo decisionale basato sul consensus e l’assoluta centralità della sovranità dei paesi membri nella vita dell’organizzazione. In risposta a sfide e a minacce esterne, tuttavia, l’ASEAN andò gradualmente istituzionalizzandosi.

Al tempo della Bangkok Declaration, al vertice dell’organizzazione vi era il Meeting ministeriale annuale che riuniva i ministri degli Esteri per la produzione delle decisioni più rilevanti; esso veniva supportato dal Comitato permanente ASEAN (ASEAN standing committee, ASC) che si occupava degli affari quotidiani dell’ASEAN, ed entrambi dai Segretariati ASEAN in ogni paese membro, che si riunivano periodicamente. Dopo il summit di Bali del 1976, cominciarono a tenersi incontri informali periodici dei capi di Stato e di governo e nacque il Meeting dei ministri economici; cominciarono a tenersi anche meeting dei direttori generali dei ministeri degli Esteri, che pur non essendo espressamente previsti erano molto rilevanti; fu istituito un debole Segretariato centrale con sede a Giacarta. Il Vertice di Singapore del 1992 introdusse nuovi mutamenti nella struttura: i vertici dei capi di Stato e di governo vennero istituzionalizzati e da allora si tengono ogni tre anni, con incontri informali negli intervalli; venne migliorato lo status del segretario generale, ora nominato per 5 anni, che poteva avviare, consigliare, coordinare ed implementare attività dell’ASEAN; fu istituzionalizzato un Meeting dei direttori generali dei ministeri della Difesa e degli Esteri per trattare temi di sicurezza regionale. Un nuovo potenziamento del Segretariato, infine, fu prodotto in conseguenza della crisi economica del 1997.

Un nuovo futuro per l’organizzazione, dal punto di vista delle sue attività e della sua struttura, è stato progettato nel novembre 2007, quando i leader dei paesi ASEAN hanno firmato la “ASEAN Charter”, documento di portata costituzionale che affonda le sue radici in una serie di documenti precedenti, il primo dei quali è rappresentato dalla cosiddetta “ASEAN vision 2020”, prodotta a Kuala Lumpur nel 1997, che fissò un insieme di punti programmatici mirati a guidare l’evoluzione dell’organizzazione e dei suoi paesi membri: l’ASEAN veniva concepita come un concerto di nazioni del Sudest asiatico aperto verso l’esterno, pacifico, stabile e prospero, una vera e propria comunità di caring societies solidali nel perseguire un comune e dinamico sviluppo. Il Summit di Bali del 2003, con la seconda Dichiarazione di concordia dell’ASEAN (Declaration of ASEAN concord II) riaffermò la volontà dei paesi membri di perseguire tali obiettivi con responsabilità condivisa e con un «più forte senso di comunità» e contestualmente lanciò il progetto costituzionale di una “ASEAN Charter” che formalizzasse l’istituzione di un’“Asean Community”. La Carta, che entrerà in vigore quando tutti i dieci paesi membri avranno depositato la loro ratifica (ad aprile 2008 le ratifiche sono sei), incardina la nuova Comunità su tre pilastri: una Comunità economica ASEAN (ASEAN economic community, AEC), che dovrebbe portare alla creazione di un mercato unico e realizzare l’obiettivo di un’integrazione economica che implichi la libera circolazione non solo delle merci, ma anche dei servizi, delle persone e dei capitali; una Comunità di sicurezza ASEAN (ASEAN security community, ASC) che, rafforzando la cooperazione politica e di sicurezza, si propone di garantire rapporti pacifici tra i paesi membri attraverso nuovi meccanismi per la risoluzione delle controversie e un approccio “comprensivo” alla sicurezza, secondo una concezione multidimensionale che leghi tra loro l’aspetto politico, economico, sociale e culturale; una Comunità socio-culturale ASEAN (ASEAN socio-cultural community, ASCC), che rafforzi la cooperazione in diversi settori (dalla salute pubblica all’aumento della popolazione, dall’ambiente alla disoccupazione) in modo che i cittadini della Comunità siano posti nella condizione di beneficiare al meglio dell’integrazione regionale (v. Integrazione, metodo della).

La Carta per la prima volta codifica un’organica diplomazia del Sudest asiatico e fissa i principi e gli obiettivi chiave dell’organizzazione: in particolare, accanto al tradizionale principio dell’assoluto rispetto della sovrana eguaglianza e del consensus nel processo decisionale, viene formalmente introdotto tra le priorità (il che costituisce una novità assoluta nella storia dell’ASEAN) il rispetto dei diritti umani, dei valori democratici e delle libertà fondamentali, che trova a proprio corollario l’istituzione (anch’essa novità assoluta) di un organo ASEAN per i diritti umani (v. Diritti dell’uomo). È previsto inoltre il conferimento all’organizzazione della personalità giuridica e vengono introdotti formalmente diversi obiettivi che sono focalizzati sui bisogni fondamentali dell’essere umano, introducendo una concezione focalizzata sulla persona umana anziché statocentrica nella vita dell’ASEAN e nei rapporti tra i paesi membri. Dal punto di vista istituzionale, le riunioni dell’ASEAN Summit diventano annuali e vengono previsti un Consiglio della comunità di sicurezza, uno della Comunità economica e uno della Comunità socio-culturale dell’ASEAN, ognuno dei quali ha il compito di assicurare l’implementazione delle decisioni dei summit dei capi di Stato e di governo e di sottoporre ad esso raccomandazioni nei settori di propria competenza; viene istituito a Giacarta il Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri, che sostiene il lavoro dei Consigli della Comunità dell’ASEAN e coordina i segretariati nazionali con gli organi di livello ministeriale; viene individuata una singola presidenza per tutti gli organi chiave dell’organizzazione e le riunioni dei ministri degli Affari esteri vengono istituzionalizzate nel Consiglio di coordinamento dell’ASEAN, che si riunisce ogni sei mesi. Nell’ambito della cooperazione economica, la Carta introduce la partecipazione flessibile, cioè la possibilità dell’opting-out da parte di uno o più paesi da impegni economici che essi possono comunque concorrere a determinare. Infine, al fine di creare un’identità regionale comune nel contesto dell’ASEAN, vengono individuati un motto comune (One vision, one identity, one community), una bandiera dell’organizzazione, un simbolo, una ricorrenza dell’ASEAN (8 agosto) e un inno.

Tali sviluppi rendono evidente in che misura si sia verificato in tempi recenti un avvicinamento al modello europeo di regionalismo basato, tra l’altro, sui principi dei diritti umani, dello Stato di diritto e della democrazia, sulla sicurezza umana e multidimensionale e sulla centralità del diritto e delle istituzioni.

Giovanni Finizio (2008)  




Associazione Europea degli Insegnanti

La bocciatura della Comunità europea di difesa (CED) da parte dell’Assemblea nazionale francese (30 agosto 1954) chiudeva la fase caratterizzata dalla “fretta” nella costruzione dell’unità dell’Europa occidentale. Sotto questo aspetto il triennio dal 1950 al 1953 fu attraversato da fondate speranze di giungere al traguardo, ma fu sufficiente la morte di Stalin, il dittatore sovietico che esercitava pressioni gravide di minacce sul continente europeo, per passare dalla fretta ― che aveva come strumento l’istituzionalismo per la creazione nel più breve tempo possibile degli Stati Uniti d’Europa secondo il modello americano ― alla riflessione su tempi lunghi. Questo approccio, senza rinnegare il programma della fondazione della “casa europea”, lo veicolava nei binari del “funzionalismo” che privilegia il momento economico e sociale rispetto a quello culturale, politico e militare. Pertanto, dopo il Piano Marshall (1947), il Patto di Bruxelles (1948) (v. Unione dell’Europa occidentale), il Patto Atlantico (1949) (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico), la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, 1950-1951), la CED, qualora fosse stata approvata, (1952), gli Stati Uniti d’Europa già negli anni Cinquanta avrebbero dovuto costituire l’ultimo anello della catena destinata a costituire una solida barriera di fronte alle pressioni ideologiche, politiche, sociali e militari provenienti da oriente.

Allontanata nel tempo la realizzazione integrale di questo programma, i protagonisti della sua prima fase, che rimasero al loro posto anche dopo lo scacco della CED, ritennero necessario colmare il vuoto apertosi adoprandosi per la formazione di una coscienza europea con un appello rivolto soprattutto alla popolazione giovanile, secondo il metodo di una stratificazione che, se da un lato mirava a lottare contro gli ancora forti residui di nazionalismo, dall’altro tendeva a istituire un sistema scolastico che avesse come valore centrale e condiviso l’umanesimo dalle origini ebree e greco-romane al cristianesimo. In questa direzione si mossero soprattutto i francesi, che in un certo senso dovevano rimediare al fatto che la bocciatura della CED era stata provocata proprio dal voto parlamentare del proprio paese, gli italiani, che costituivano il gruppo nazionale più numeroso tra tutti quelli che aderivano ai vari movimenti per l’unità europea (v. Movimenti europeistici), e i belgi. Dopo un fallito tentativo degli italiani, furono i francesi a giungere nel 1956 alla meta di un’istituzione che si occupasse di questi problemi. Prima il Centre international de formation européenne (CIFE) promosse a marzo, a La Brevière, un incontro preliminare di insegnanti europei che ebbe quali animatori i francesi Alexandre Marc e Alain Frechet, il belga André Alers e l’italiana Elena Sonnino; quindi, dal 13 al 18 luglio, si tenne, nella prestigiosa e significativa sede del Lycée Louis le Grand a Parigi, il congresso istitutivo di quella che seduta stante venne chiamata Association européenne des enseignants (ADE). La prima decisione presa dagli intervenuti, prima ancora di entrare nel vivo dei lavori, fu quella di riconoscere, sia pure in modo provvisorio, la costituzione di quattro sezioni: francese, italiana, belga e tedesca. Tre esigenze emersero nel congresso: la professionalità, l’esclusività (i membri dovevano essere insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado) e l’indipendenza da qualsiasi altra organizzazione federalistica. Finalità principale dell’associazione fu dichiarata quella di promuovere negli insegnanti e, conseguentemente, negli studenti la conoscenza dei problemi europei nonché dei metodi e delle iniziative per consentire la rapida realizzazione dell’unità europea nella forma federale (v. Federalismo) e per comprendere i caratteri fondamentali della civiltà europea assicurandone la difesa.

La sede centrale dell’AEDE fu fissata a Bruxelles. L’associazione fu dotata di un Congresso, di un Comitato europeo e di un Bureau executif come organi centrali, e di sezioni nazionali dei sei paesi aderenti quali organi periferici. Il nucleo dirigente era costituito dal presidente (il primo fu Alers) e da due segretari generali, il belga Hendrik Brugmans, cattolico, e il francese André Biedermann, calvinista. Un ruolo importante fu esercitato da Alexandre Marc che, al pari dei suoi correligionari Brugmans e Denis de Rougemont, si dichiarava erede di Proudhon quale promotore della “comunità”. Diverso invece fu il ruolo esercitato da Biedermann, complementare a quello di Brugmans in quanto, all’interno della stessa tradizione cristiana, procedeva analiticamente alla valorizzazione della persona umana. Tuttavia, già allora cominciava a delinearsi uno spostamento dalla centralità del cristianesimo verso altre proposte, tra cui quella di dare spazio alle istanze della scienza e della tecnica, proposta sostenuta in modo particolare dall’italiano Fabio Morchio. Il baricentro culturale dell’AEDE si spostava così sempre di più dal cristianesimo confessionale di Brugmans, de Rougemont, Marc e Biedermann al cristianesimo senza dogmi di Mazzini e infine alla centralità dell’Olocausto.

A questo traguardo approdava infatti la Carta europea dell’insegnante, approvata nel IV congresso statutario dell’Unione, tenuto a Bruxelles nell’agosto 1968. Essa ribadiva in primo luogo la specificità di una paideia europea, distinta sia dal modello americano sia da quello sovietico come fondazione di una democrazia quale funzione della diversità che è la caratteristica più importante della persona umana. Così, nell’ordinamento democratico, per gli europei «la formazione e la promozione della persona umana permangono lo scopo principale dell’educazione», la quale «deve mettere l’uomo in condizione di compiersi nella diversità, attraverso l’assunzione delle responsabilità professionali, civiche e morali che conferiscono significato e dignità alla sua vita». In questo orizzonte democratico dove avviene la sintesi tra persona e società, la scuola non deve limitarsi a offrire a tutti «uguali possibilità di accesso a ogni ordine e grado di istruzione, ma deve rafforzare gli ideali di pace, di tolleranza e di cooperazione» che stemperano la rigidità della collocazione internazionale. Dal punto di vista del metodo pedagogico l’impostazione del federalismo deve fondarsi sulla “partecipazione”. Allo scopo di coordinare i vari elementi di una scuola veramente europea, la Carta proponeva di istituire, in seno all’AEDE, un Istituto europeo di scienze dell’educazione.

La fluidità e la flessibilità della situazione consentivano all’AEDE, all’inizio degli anni Settanta, da una parte di appoggiarsi all’Ostpolitik di Willy Brandt e, dall’altra, di favorire il ricambio dei suoi gruppi dirigenti tanto centrali quanto periferici. Così furono prima indebolite e poi liquidate le rendite di posizione delle presidenze “lunghe” che, dal 1956 al 1981, avevano permesso la permanenza in carica di due presidenti, Alers e Jean-Charles Kech, eletti e sostenuti dall’alleanza – diventata ormai permanente – tra la sezione italiana, che contava il maggior numero di iscritti, e la sezione belga, attiva ma certamente meno ricca di soci. Da allora in poi si succederanno un paio di presidenti che non potranno più contare su maggioranze precostituite: il francese Jean-François Maury (1981-1982) e l’austriaco Alwin Westerhof, i quali poi, limitati nella rappresentatività, erano limitati anche nell’incidenza. Per recuperare un minimo di stabilità si tornò allora, nel 1985, a una presidenza belga, quella di Pierre van Bergen, veicolata da un’alleanza che tendeva a riportare la posizione culturale e pedagogica dell’AEDE nell’area cristiana, con un’operazione che cercava il suo consolidamento nel collegamento della sezione italiana con l’UCIIM (Unione cattolica italiana degli insegnanti medi). Tuttavia, il declino in tutta l’Europa occidentale della leadership cristiana, la crescente affermazione di una secolarizzazione congiunta a una pluralità di concezioni che molti etichettavano già come nichilismo e, soprattutto, la crescente connessione della questione europea con la questione più generale della globalizzazione rendono difficile il riconoscimento di un’identità europea nei termini cui era stato posto al termine degli anni Ottanta e quindi la stessa esistenza dell’AEDE.

Danilo Veneruso (2008)




Associazione Europea di Libero Scambio

Alla fine del 1955 il rappresentante britannico nel Comitato Spaak (istituito alla Conferenza di Messina) abbandonò i negoziati che avrebbero portato alla firma del trattato istitutivo della Comunità europea (v. Trattati di Roma). Hugh Ellis-Rees, Presidente del Consiglio dei Ministri dell’OECE (Organizzazione europea per la cooperazione economica) spiegò ai capi delegazione le ragioni che avevano condotto gli inglesi a questa decisione: «Mentre noi abbiamo lavorato per l’adozione di principi generali per una maggiore libertà negli scambi e nei pagamenti su basi sempre più ampie, la creazione del Mercato comune europeo (v. Comunità economica europea), come predisposto attualmente, costituirebbe un gruppo esclusivo e in questa veste potrebbe portare alla costituzione di un blocco discriminatorio» (v. Ducci, 1970). Il governo britannico, in realtà, non sentiva allora forti affinità con il continente europeo, mentre più intensi legami lo univano agli Stati Uniti e all’impero.

Pertanto, dopo la pubblicazione del Rapporto Spaak, accettato dai sei membri quale base per i loro futuri negoziati, nel luglio del 1956 il Consiglio dell’OECE decise di istituire, su proposta britannica, uno speciale comitato di lavoro – il Working party n. 17 – al fine di studiare le forme e i metodi di associazione tra i Sei e il resto dell’OECE. La prima proposta ufficiale per la costituzione di un’area di libero scambio (European free trade association – EFTA) fu infatti avanzata da Harold Macmillan (allora ministro dell’Economia) in sede OECE nell’ottobre del 1956. Nei mesi successivi Macmillan prese contatti con i singoli membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per sondare eventuali aperture, mentre il negoziato venne avviato in forma ufficiale nel febbraio del 1957.

Dato che gli inglesi non potevano accettare la possibilità di condividere una parte di sovranità con le altre nazioni europee o siglare con esse un’unione doganale soggetta a un controllo sopranazionale, la loro idea era quella di elaborare un piano alternativo, nella speranza che potesse rappresentare un progetto verso il quale sarebbero potuti convergere i Sei di Messina. Tale progetto venne però percepito come un tentativo di minare la costituenda Comunità economica europea («una macchinazione inglese per sabotare i negoziati CEE») ed essendo per di più dotato di clausole economiche insoddisfacenti non rappresentò in nessun momento una probabile alternativa o un potenziale accordo complementare a quello del Mercato comune (MEC; v. Fauri, 1996). Contrariamente alle speranze britanniche, che contavano seriamente sull’effetto EFTA per destabilizzare i negoziati, i Sei condussero a termine con successo le trattative per la Comunità economica europea e firmarono nel marzo del 1957 i Trattati di Roma (v. Kaiser, 1996).

I negoziati per l’istituzione di un’area di libero scambio proseguirono, ma su basi alquanto fragili: ai Sei non piaceva l’idea di un accordo che escludesse l’agricoltura e non prevedesse una Tariffa esterna comune (TEC). L’agricoltura andava lasciata fuori dall’accordo EFTA in quanto il Regno Unito preferiva continuare a rifornirsi di beni agricoli dall’impero. L’agricoltura inglese soddisfaceva solo per metà le richieste dei consumatori britannici; il resto veniva importato, per la gran parte dai paesi del Commonwealth, i quali vantavano un accesso agevolato al mercato inglese grazie alle preferenze imperiali. L’altra caratteristica peculiare alla base dell’accordo di libero scambio era quella di non prevedere una tariffa esterna comune. In questo modo, date le diverse aliquote daziarie, i beni potevano entrare nell’EFTA a prezzi differenti, con il rischio di essere successivamente rivenduti nei paesi membri con tariffe più elevate, a prezzi più convenienti. A rimetterci sarebbe stato il MEC che aveva una TEC più elevata, mentre la Gran Bretagna avrebbe beneficiato dei bassi dazi e, in certi casi, addirittura nulli, sulle materie prime importate dall’impero. Il ministro italiano Guido Carli suggerì un complicato piano (noto come “Carli plan”) per trovare un compromesso sulla TEC e avviare una lenta armonizzazione tariffaria, ma era troppo macchinoso per avere successo.

Da una parte, quindi, vi era la Gran Bretagna che non voleva accettare l’idea di una tariffa esterna comune che avrebbe indubbiamente aumentato il costo dei prodotti alimentari provenienti dal Commonwealth, dall’altra, vi erano i Sei che non ammettevano la possibilità che gli inglesi importassero prodotti agricoli e materie prime dall’impero a un prezzo più conveniente rispetto al resto d’Europa. I negoziati fra i membri del MEC, la Gran Bretagna e gli altri paesi interessati (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera), continuarono sino al novembre del 1958, quando i francesi dichiararono apertamente che senza un’unica tariffa comune attorno ai confini dei futuri membri e senza la possibilità di un’armonizzazione nella sfera economica e sociale, non sarebbe stato possibile continuare i negoziati. Il rifiuto francese condizionò tutti i membri della CEE, i quali, in realtà, si appoggiarono volentieri al categorico rifiuto francese in quanto nessuno di loro aveva mai considerato l’eventualità di mettere in crisi il Tratto di Roma scegliendo la soluzione britannica.

L’atto istitutivo dell’EFTA venne infine firmato il 4 gennaio 1960 da Gran Bretagna, Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera, con l’obiettivo di creare un’area priva di restrizioni al commercio interstatale. Nel 1961 vi aderì la Finlandia e nel 1970 l’Islanda, mentre negli anni successivi lasceranno l’area di libero scambio per accedere alla CEE: Gran Bretagna, Danimarca, Portogallo, Austria, Finlandia e Svezia.

Al 2008 l’EFTA è composta da soli quattro membri: Liechtenstein (dal 1991), Islanda, Norvegia e Svizzera. All’interno di quest’area possono circolare liberamente prodotti agricoli e industriali, incluso il pesce. Elemento portante di tale istituzione, in mancanza di una TEC, è la possibilità di stabilire l’origine dei singoli prodotti esportati da un paese membro all’altro. Le regole preposte a tale scopo indicano quali beni possono circolare liberamente fra gli Stati membri. Solo prodotti “interamente fabbricati” o “sufficientemente lavorati” in uno Stato membro possono godere dell’accesso preferenziale agli altri mercati, anche se la globalizzazione del processo produttivo ha reso oggi sempre più difficile l’identificazione del paese di origine di un prodotto e pochi beni sono fabbricati senza input di origine esterna. Di conseguenza, una delle funzioni principali delle regole di origine è determinare in quale proporzione il bene di produzione nazionale può contenere materiali importati da paesi al di fuori dell’EFTA. Solo se il prodotto rientra nei parametri stabiliti dalle regole di origine esso non perde lo status preferenziale all’interno dell’area di libero scambio, altrimenti, se gli input esterni sono determinanti, non può circolare liberamente. Per concludere, va notato che nel 2005 il commercio intra-EFTA sul totale degli scambi dei quattro paesi membri aveva una incidenza modesta, pari allo 0,63% (v. EFTA, 2006).

Francesca Fauri (2008)




Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa

L’Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni d’Europa (AICCE, dal 1984 AICCRE, Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa) fu fondata a Roma, il 26 e 27 gennaio 1952, come Sezione italiana del Consiglio delle Comunità europee (CCE), di cui rispetta integralmente le stesse finalità: favorire la creazione di una Federazione europea, basata su autonomi ed efficienti enti locali e regionali. In analogia con l’organizzazione sovranazionale, ha successivamente preso la denominazione di Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa.

Al congresso costitutivo parteciparono numerosi sindaci e amministratori locali, convocati da un Comitato promotore composto dai delegati che avevano partecipato all’Assemblea costitutiva del CCE a Ginevra (28-30 gennaio 1951) (v. Comunità economica europea).

Il Congresso, presieduto dall’assessore del Comune di Milano, Lamberto Jori, si svolse sulla base delle relazioni di Umberto Rossi, sindaco di Ivrea, Renato Brugner, della giunta provinciale di Roma, e Umberto Serafini, che aveva tenuto la segreteria per incarico del CCE. Egli ricordò la storia dell’organizzazione, sottolineando in particolare l’importanza, per la nascita dell’AICCE, della collaborazione dell’Unione europea dei Federalisti e del Movimento federalista europeo che, nella sua risoluzione del Congresso nazionale di Torino (6-8 dicembre 1952), infatti, aveva affermato: «Constatata la concreta politica federalista che l’AICCE […] ha svolto […] sul terreno nazionale ed europeo, combattendo in entrambi campi per l’immediata costituzione di un’autorità politica europea e per la convocazione di un’Assemblea costituente, impegna il Comitato centrale e tutti i federalisti […] a dare la loro opera senza riserve per l’adesione dei consigli comunali, provinciali e regionali […] all’Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni d’Europa».

All’origine dell’unità di intenti tra l’AICCRE e i federalisti vi era il sostegno dato dai sindaci alla campagna per un Patto federale per l’Unione federale, lanciato a livello europeo da un comitato internazionale, del quale facevano parte i massimi esponenti del mondo politico, economico, culturale e scientifico dei paesi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). La petizione era importante non solo per il valore dei promotori, ma anche perché il suo successo convinse il Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, a sostenere rigorosamente la concezione federalista, dopo un periodo di incertezza in cui si dichiarò indifferentemente per una confederazione o una federazione, posizione che qualificherà tutta la sua azione politica, dalla Comunità europea di difesa (CED) fino alla fine dei suoi giorni.

Nell’ambito delle numerose iniziative del CCE, l’azione della Sezione italiana ha spesso rivestito un’importanza decisiva, come per le sessioni degli Stati generali tenute in Italia a Venezia (1954), a Roma (1964) e a Torino (1984).

In particolare, la VII sessione, svoltasi dal 14 al 17 ottobre al Palazzo dello Sport di Roma, dove, sotto lo slogan “Per l’Europa dei popoli”, campeggiavano i ritratti di eroi della Resistenza europea, a ricordare lo stretto legame tra il federalismo europeo e la lotta armata contro il nazi-fascismo (v. Federalismo). Presenti 5000 amministratori locali e regionali delle varie Sezioni del CCE, nonché 2000 dirigenti delle organizzazioni europeiste e federaliste (tra cui Altiero Spinelli) e delle forze vive europee (rappresentanti di organizzazioni politiche, sindacali, culturali e scientifiche), parteciparono alla sessione anche esponenti della Comunità europea, sia del Parlamento europeo che della Commissione esecutiva (v. Commissione europea), guidata dal presidente Walter Hallstein, e il Presidente del Consiglio italiano, Aldo Moro. Assistevano ai lavori 8000 giovani delle scuole romane.

La manifestazione era stata preceduta da una serie di riunioni, a livello europeo, di tutti i più importanti movimenti europei e federalisti (v. Movimenti europeistici) e delle organizzazioni sindacali, che si erano dichiarati d’accordo con l’idea lanciata dalla Sezione italiana del CCE, di un «Fronte democratico europeo».

Nella risoluzione si leggeva: «La costruzione europea è bloccata. I governi nazionali, aggrappati a gretti egoismi e competenze sorpassate, si oppongono ad ogni sviluppo e compromettono quanto è stato costruito così faticosamente. L’Europa è gravemente minacciata nelle sue fondamenta democratiche e nella sua indipendenza economica e politica […I. L’integrazione economica europea, così felicemente iniziata dalle Comunità esistenti, potrà registrare progressi sostanziali solo se compirà un passo decisivo verso l’organizzazione federale: estensione progressiva delle competenze comunitarie nei campi della politica estera, della difesa, della cultura e, in un prossimo avvenire, costituzione di un governo federale europeo. Coscienti della gravità della situazione, i VII Stati generali del Consiglio dei Comuni d’Europa fanno appello a tutti i cittadini europei, a tutti i poteri locali, agli organismi politici, economici, sociali e culturali e ai movimenti della gioventù, affinché sia costituito un Fronte democratico per un’Europa federale […]».

Di notevole rilievo per la politica futura dell’Associazione fu il III Congresso nazionale, tenuto a Frascati dal 2 al 4 dicembre 1957, presente il segretario generale europeo, Jean Bareth. Nella risoluzione approvata si definiva il giudizio sui Trattati di Roma, che verrà fatto proprio anche da tutto il CCE: malgrado la loro inadeguatezza, i Trattati avrebbero trasferito la lotta per la Federazione europea dal piano diplomatico a quello popolare.

Sin dalla sua costituzione, l’AICCRE ha dato un’indispensabile contributo, non solo all’azione politica del CCE e alla elaborazione dei documenti fondamentali del CCE, a partire dalla Carta europea delle libertà locali, elaborata a Palermo il 1° febbraio 1953 dall’esecutivo sopranazionale, ma anche ad alcuni iniziative settoriali di primario interesse per gli enti territoriali locali, visti sempre nel quadro dell’unità dell’Europa a struttura federale. In primo luogo quello della politica regionale e della pianificazione del territorio, oggetto, tra l’altro, delle relazioni di Gaspare Ambrosini agli Stati generali di Cannes del 1960, e, soprattutto, di Gianfranco Martini, segretario generale aggiunto dell’AICCE, agli Stati generali di Londra (1970), il quale contribuì ai numerosi studi in materia (pubblicati in vari numeri del mensile “Comuni d’Europa”), facendo assumere al tema un ruolo centrale per il CCE, nella logica che tale politica è il punto di riferimento di tutte le politiche settoriali nel processo di sviluppo politico ed economico della Comunità europea. Un’attenzione continua è stata data ai fondi comunitari, soprattutto al Fondo sociale europeo (FSE), oggetto di un opuscolo curato dall’AICCE, che per prima in Italia ha dato un’informazione adeguata sul Fondo e sulla sua utilizzazione da parte dei Comuni e degli altri enti locali territoriali e regionali

In secondo luogo, ricordiamo il contributo in materia di federalismo fiscale, considerato uno degli elementi centrali di un sistema federale, a livello interno e a livello sovranazionale, basato sui principi di autonomia, coordinamento, sussidiarietà (v. Principio di sussidiarietà) e solidarietà. In particolare, l’attività si è indirizzata, oltre all’approfondimento del tema (v. Esser, 1981), a dare una soluzione alle richieste dei Comuni e degli altri enti locali di cooperare finanziariamente, al di sopra delle frontiere.

Un’altra azione importante ha riguardatogli enti locali e la scuola, ed è stata svolta in stretta collaborazione con l’Associazione europea degli insegnanti (AEDE), allo scopo, tra l’altro, di approfondire i problemi dell’educazione della gioventù europea alla sovranazionalità, di facilitare gli scambi di studenti “al di sopra delle frontiere”, di favorire una preparazione professionale atta a creare i “quadri” di una nuova Europa, per sopperire alle richieste produttive e sociali di un’Europa in via di integrazione.          

La Politica agricola comune è stata presa in esame fin dalla nascita della Comunità economica europea, spesso al centro delle critiche del CCE, che contestava la forte prevalenza del finanziamento ai prezzi, piuttosto che alle strutture.

Infine, particolare attenzione è stata data alla politica dell’ambiente, i cui principi sono stabiliti dalla Carta approvata a Bruges dal CCE, cui, tra l’altro, si afferma: «l’urgenza dell’attuazione di una politica dell’ambiente richiede una informazione e una educazione di tutti i cittadini e più specialmente degli amministratori locali e regionali […]. Una politica dell’ambiente […] deve integrarsi in un processo simultaneo di programmazione economica e di pianificazione del territorio (di cui i poteri locali sono uno dei centri decisionali) […]. L’attuazione di una necessaria politica sovranazionale dell’ambiente non potrà essere effettivamente compiuta senza un potere politico europeo» (v. Politica ambientale).

Edmondo Paolini (2008)