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Accordi di Bretton Woods

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A guerra ancora in corso, con le truppe alleate che entrano in Toscana e preparano lo sfondamento del fronte tedesco in Normandia dopo lo sbarco del 6 giugno, dal 1° al 22 luglio 1944 ben 730 delegati in rappresentanza di 44 paesi si riuniscono al Mount Washington Hotel di Bretton Woods (New Hampshire, USA). È la United nations monetary and financial conference, convocata per decidere l’assetto che il sistema economico e monetario internazionale avrebbe dovuto assumere alla fine del conflitto.

La conferenza fu dominata dal confronto fra due posizioni autorevoli e, di fatto, diametralmente opposte: quella della delegazione inglese, capeggiata da John Maynard Keynes, e quella della delegazione statunitense, rappresentata dal dirigente del Dipartimento del Tesoro americano Harry Dexter White.

I punti cruciali del dibattito erano due: a) come assicurare ai vari paesi la ripresa degli scambi necessaria per sostenere lo sforzo di ricostruzione post-bellica; b) come fornire al sistema monetario internazionale la liquidità sufficiente ad assicurare la crescita degli scambi e la ricostruzione (con sistemi economici strutturalmente diversi), al tempo stesso garantendo la stabilità dei tassi di cambio e la credibilità (quindi la tenuta) dell’intero sistema.

Il Piano Keynes puntava su un sistema cooperativo di creazione e gestione della liquidità, che assicurasse la possibilità di concertare una politica espansiva a livello internazionale. Il progetto si basava sul ruolo che avrebbe dovuto giocare una International clearing union (in sostanza una stanza di compensazione internazionale) nella creazione di una moneta parallela, il bancor, da utilizzare come moneta di scambio e compensazione dei saldi commerciali fra paesi. In questo modo, si sarebbero ottenuti tre vantaggi: il primo, che scambiando solo i saldi contabili complessivi, non era necessario adeguare l’offerta di moneta nazionale alle esigenze immediate del commercio internazionale, in questo modo riducendo l’impatto delle partite con l’estero sulla circolazione interna; il secondo era che la creazione di liquidità internazionale poteva essere accresciuta dalla banca mondiale stessa, rendendola più flessibile e reattiva alle mutevoli esigenze degli scambi internazionali; il terzo vantaggio era relativo al fatto che, prevedendo limiti e penalità per il mantenimento e l’accumulo di saldi in attivo e passivo presso la banca, il sistema risultava altamente simmetrico, e tendeva a scoraggiare squilibri esterni persistenti.

Il Piano White prevedeva invece l’adozione di un sistema asimmetrico di natura egemonica, basato sulla preminenza del dollaro come àncora della liquidità internazionale. Si trattava di un esplicito riconoscimento del fatto che l’egemonia statunitense emersa dalla guerra dovesse tradursi in un’egemonia anche sulla ricostruzione e sulla gestione dei rapporti economici e politici nei decenni a venire. Il dollaro, e solo il dollaro, avrebbe assicurato la piena convertibilità con l’oro a un tasso prestabilito. In questo modo, la regolazione del sistema monetario internazionale veniva a dipendere dalla volontà e dalla capacità degli USA di assicurare un equilibrio nelle emissioni di moneta tale da permettere la stabilità del rapporto di convertibilità.

Il risultato dei negoziati fu l’adozione di un sistema formalmente di compromesso tra le due posizioni, nella sostanza basato sulla proposta di White: il dollaro diventava il pivot del sistema monetario internazionale, assicurando la piena convertibilità un tasso prestabilito (35 dollari all’oncia, pari a poco più di 31 grammi), mentre le altre banche centrali avrebbero garantito parità stabili (fisse ma aggiustabili entro una soglia del ± 1%, sulla base di motivate richieste) col dollaro stesso. Le riserve nazionali e le transazioni internazionali avrebbero potuto aver luogo in oro o in dollari (gold-exchange standard).

Il sistema veniva completato con la creazione di due istituzioni, il Fondo monetario internazionale (per gestire situazioni temporanee di squilibrio nelle bilance dei pagamenti) e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (destinata a finanziare investimenti a lungo termine), poi denominata Banca mondiale. Esse divennero attive dal 1946, e furono affiancate l’anno successivo dall’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General agreement on tariffs and trade, GATT), poi trasformatosi nel 1995 nella World trade organization (WTO), per la liberalizzazione del commercio internazionale.

Nei primi quindici anni di vita del sistema di Bretton Woods, gli economisti erano fortemente preoccupati della possibilità che si verificasse un dollar shortage, ossia la carenza di dollari (essendo la loro emissione vincolata alla convertibilità e alle scelte di emissione da parte della FED), necessari per finanziare l’eccezionale aumento del commercio internazionale e la ripresa economica che seguirono la guerra. Il primo a denunciare invece che il problema sarebbe stato l’eccesso, non la carenza, di dollari fu all’inizio degli anni Sessanta Robert Triffin, economista belga trasferitosi negli Stati Uniti e all’epoca docente a Yale, in un noto discorso di fronte al Congresso americano, sulla base di una visione già maturata alla fine degli anni Cinquanta e poi elaborata e diffusa nel corso del decennio successivo.

La sua tesi era la seguente: un sistema monetario internazionale che si regge su una moneta nazionale presenta una debolezza intrinseca, legata al fatto che le autorità di politica monetaria del paese devono essere pronte a far fronte alle esigenze dettate dal ruolo internazionale della valuta, tramite persistenti deficit di bilancia dei pagamenti, mettendo però in questo modo a repentaglio l’impegno alla convertibilità e la stabilità complessiva del sistema. Nel corso degli anni Sessanta, durante le amministrazioni Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) e soprattutto Johnson (v. Johnson, Lyndon Baines), gli Stati Uniti aumentarono sia l’impegno bellico diretto nella guerra del Vietnam, sia le spese per lo Stato sociale, premendo in tal modo sulla politica monetaria per “accomodare” le scelte espansive di politica fiscale. Gli Stati Uniti non erano più in grado di garantire la convertibilità del dollaro in oro, e il 15 agosto 1971 il presidente Nixon dichiarò l’inconvertibilità del dollaro, decretando di fatto la fine del sistema di Bretton Woods.

Negli anni in cui il sistema di Bretton Woods sopravvisse, esso contribuì a determinare una cornice entro la quale fu possibile avviare l’integrazione economica e politica dell’Europa senza preoccupazioni riguardo alla volatilità dei tassi di cambio, che avrebbero reso ancora più complessa la gestione di un mercato continentale. Tutti i primi passi nel cammino dell’integrazione europea sono stati compiuti sotto l’ombrello dei cambi fissi sanciti a Bretton Woods, anche se inizialmente fu necessaria una fase di transizione (terminata nel 1958), gestita attraverso l’Unione europea dei pagamenti, che con i fondi del Piano Marshall agevolò la ricostruzione, nonostante livelli insufficienti di riserve.

Quando il sistema di Bretton Woods cessò di esistere, l’Europa si trovò nella necessità di stabilizzare i tassi di cambio intraeuropei per non mettere a repentaglio gli scambi tra i paesi della CEE (e l’esistenza del mercato unico), costringendo di fatto a individuare quelle soluzioni che portarono nel 1979 alla nascita del Sistema monetario europeo.

Fabio Masini (2017)