Acheson, Dean Gooderham

Avvocato, diplomatico e uomo politico statunitense, A. (Middletown, Connecticut 1893-Harewood, Maryland 1971), figlio del vescovo della Chiesa episcopale del Connecticut, frequentò la scuola privata di Groton, si laureò a Yale nel 1915 e alla Harvard Law School nel 1918. Ufficiale di Marina per un breve periodo durante la Prima guerra mondiale, divenne segretario di Louis D. Brandeis, giudice della Corte suprema. A partire dal 1921 entrò nello studio legale Covington and Burling e, da allora e per circa cinquant’anni, divise la sua vita pubblica tra la professione forense e la politica. Roosevelt (v. Roosevelt, Franklin Delano) lo nominò sottosegretario al Tesoro nel 1933, ma A. si dimise nel giro di sei mesi, in polemica con alcune misure finanziarie decise dal Presidente. Tornò a occuparsi degli affari pubblici solo nel 1939, entrando nel Committee to defend America by aiding the Allies e battendosi per l’intervento in guerra degli Stati Uniti al fianco del Regno Unito contro la Germania hitleriana. Contribuì a tal fine a stilare il dispositivo legale necessario per la sottoscrizione dell’accordo con Londra per lo scambio tra concessioni a Washington di basi britanniche e cacciatorpediniere statunitensi da assegnare alla Marina britannica.

Roosevelt lo coinvolse di nuovo nell’amministrazione come segretario di Stato assistente, prima per gli affari economici, carica che coprì sotto Cordell Hull dal febbraio 1941 al novembre 1944, poi per le relazioni con il Congresso e le conferenze internazionali, sotto Edward R. Stettinius e James F. Byrnes, fino all’agosto 1945. In quegli anni seguì con attenzione la realizzazione del programma di aiuti collegato alla Legge affitti e prestiti, tenendo i necessari contatti politici e operativi con il Congresso e offrendo un contributo decisivo per la costruzione di alcuni pilastri della politica economica internazionale degli Stati Uniti nel periodo bellico e postbellico: l’United Nations relief and rehabilitation administration (UNRRA), la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Food and agriculture organization (FAO). Sebbene la Carta delle Nazioni Unite non lo convincesse appieno, A. si adoperò per indurre il Congresso ad appoggiare anche quel progetto. Fondamentale per la futura politica estera statunitense fu la sua persuasione che Washington dovesse garantire la pace mondiale attraverso l’aiuto alla ricostruzione economica dell’Europa, devastata dalla guerra. Oppositore dell’internazionalismo idealistico wilsoniano, persuaso che l’esercizio del potere non potesse che collegarsi a pragmatiche assunzioni di responsabilità, nel corso del conflitto A. definì la sua percezione dei rapporti internazionali in termini di politica di potenza. Quando, nel dopoguerra, si lanciò in una crociata contro l’espansione mondiale del comunismo, non esitò tuttavia a ricorrere anche a forme di retorica ideologica e moralistica per raggiungere gli obiettivi che riteneva prioritari per la politica statunitense.

Sottosegretario di Stato nel periodo 1945-47, poi segretario di Stato dal 1949 al 1953, A. fu uno dei principali collaboratori di Truman (v. Truman, Harry Spencer), di cui contribuì a forgiare la politica estera negli anni cruciali segnati prima dall’innesco della Guerra fredda e poi dall’apice della tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, con la rottura completa dell’intesa raggiunta durante il conflitto mondiale. Come sottosegretario, prestandosi con grande abilità a mediare le tensioni tra il presidente e il segretario di Stato Byrnes, e assumendosi gran parte delle responsabilità connesse alla conduzione operativa del Dipartimento, A. riuscì a creare una relazione di profonda fiducia e cooperazione reciproca con Truman, basata in particolare sulla convinzione di entrambi che occorresse negoziare con i sovietici da posizioni di forza e contenerne la spinta espansionistica, sfruttando un asse privilegiato di proiezione internazionale verso l’Europa occidentale. Unico punto di parziale divergenza tra i due fu la politica da adottare verso lo Stato di Israele, che Truman volle riconoscere senza indugi mentre A. avrebbe preferito al principio un atteggiamento di maggiore equidistanza, per potenziare le relazioni con i Paesi arabi.

Fondamentale fu l’influenza di A. anche nella formulazione della politica nucleare statunitense. In chiara opposizione a quanti, come lo stesso Byrnes e il segretario alla Marina, James V. Forrestal, ritenevano che Washington dovesse approfittare del monopolio atomico per obbligare i sovietici al negoziato nelle principali questioni internazionali, A. si schierò con chi, come Henry L. Stimson, segretario alla Guerra dal 1940 al 1945, riteneva invece che tale monopolio non sarebbe durato a lungo e propendeva quindi per la creazione di un organismo internazionale per il controllo delle risorse mondiali di uranio, che potesse ostacolare lo sviluppo di una capacità atomica sovietica e, per quanto possibile, scongiurare il pericolo di una successiva corsa agli armamenti. Il 28 marzo 1946, una commissione ad hoc, presieduta da A. e formata, tra gli altri consulenti, anche da David E. Lilienthal, presidente della Tennessee Valley Authority, e dal noto scienziato J. Robert Oppenheimer, pubblicò un rapporto sul controllo internazionale dell’energia atomica, l’A.-Lilienthal Report, incentrato sulla proposta di creazione di una Atomic development authority. Inoltrato a Byrnes, il rapporto venne modificato da Bernard M. Baruch, delegato statunitense nella Commissione delle Nazioni Unite per l’energia atomica, che volle inserirvi, prima di presentarlo, una clausola per impedire che i membri del Consiglio di sicurezza esercitassero il diritto di veto sulle questioni atomiche. A. si oppose all’idea, convinto che Mosca avrebbe respinto di conseguenza l’intero progetto, come infatti avvenne in giugno. Quando poi, nel settembre 1949, i sovietici realizzarono con successo il primo esperimento atomico, A. si adoperò per il lancio di un programma per l’acquisizione della bomba all’idrogeno.

Incline, nei primi mesi da sottosegretario, a continuare gli sforzi compiuti da Roosevelt durante la guerra per garantire la collaborazione con Mosca, A. registrò con preoccupazione crescente le mosse dei sovietici nell’Europa centrorientale, in Grecia, in Turchia e in Iran. Nella primavera del 1946 era ormai persuaso, al pari di George F. Kennan, che occorresse controbilanciarle, ponendo in atto una politica di fermezza e contenimento. Dal punto di vista di A., assai meno sfumato di quello di Kennan, Mosca puntava con evidenza a forme di dominio globale: non la tolleranza statunitense in sede di negoziato, ma solo una chiara posizione di forza militare avrebbe potuto frenare il suo espansionismo. In base a queste convinzioni, negli ultimi sei mesi da sottosegretario, dopo che Truman ebbe nominato come nuovo segretario di Stato George C. Marshall (v. Marshall, George Catlett) – una figura di grande prestigio interno e internazionale, capace di controllare la politica estera anche delegandone con intelligenza l’elaborazione a chi, come A., aveva acquisito esperienza preziosa negli anni precedenti – A. continuò a svolgere una funzione essenziale nella definizione e nella gestione delle principali questioni attinenti alla proiezione globale degli Stati Uniti. Si adoperò per convincere la Casa Bianca e il Congresso della necessità di fondare la politica estera sul rafforzamento delle relazioni economiche, politiche e militari con l’Europa occidentale, in modo tale da sottrarla alle ambizioni dell’Unione Sovietica. Fu dunque tra i principali promotori della dottrina Truman, enunciata il 12 marzo 1947, e, in un memorandum inoltrato al presidente il 5 marzo, poi modificato nel dibattito interno all’amministrazione e confluito in un discorso pronunciato in Mississippi l’8 maggio, elaborò alcune linee di fondo del piano che Marshall, smorzandone alcuni toni, ma approvandone la sostanza, avrebbe poi annunciato a Harvard nel noto discorso del 5 giugno. In luglio, passate le consegne al suo successore, Robert A. Lovett, A. tornò ancora una volta alla professione legale ma mantenne la carica di vicepresidente nella commissione Hoover, incaricata di proporre alcune riforme della pubblica amministrazione, e continuò ad adoperarsi per la realizzazione del Piano Marshall.

Nel novembre 1948, Truman gli propose la nomina a segretario di Stato. A. assunse formalmente la carica il 21 gennaio 1949 e la conservò fino al termine dell’amministrazione democratica, nel 1953. Alla guida del Dipartimento di Stato, si impegnò a fondo per dare continuità alle scelte compiute in Europa dall’amministrazione, favorendo via via la nascita dell’Alleanza atlantica, la costituzione e il riarmo della Repubblica Federale Tedesca, la sua adesione prima al progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e poi a quello della Comunità europea di difesa (CED), e la completa trasformazione del Patto atlantico nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), cioè in un’organizzazione tale da garantire l’indispensabile partecipazione statunitense a un esercito permanente in tempo di pace nell’Europa occidentale. Accusato di eccessivo eurocentrismo e di aver sottovalutato anche per tale motivo le conseguenze di una vittoria comunista nella guerra civile cinese, A. subì pesanti attacchi politici quando il conflitto si concluse con la proclamazione della Repubblica popolare, nell’ottobre 1949, e con la sconfitta di Chang Kai-Shek, che si rifugiò a Taiwan con le massime autorità nazionaliste alla fine dell’anno. In un discorso dedicato alle future responsabilità statunitensi in Asia, pronunciato nel gennaio 1950 al National press club di Washington, A. dichiarò tuttavia che l’amministrazione non era intenzionata a coprire tutto il Pacifico da attacchi militari e non citò la Corea del Sud come parte del perimetro di difesa previsto, confermando un atteggiamento ambiguo nei confronti del governo di Syngman Rhee. Sei mesi dopo, quando le truppe della Corea del Nord entrarono nella parte meridionale della penisola, i critici di A. sostennero che quell’omissione nel discorso doveva essere stata interpretata come un invito implicito all’invasione.

Nell’estate del 1949, mentre crollava la resistenza della Cina nazionalista, i sovietici avevano infranto il monopolio statunitense, facendo esplodere un ordigno nucleare. Truman annunciò l’evento in settembre e, il 31 gennaio 1950, dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero sviluppato la bomba all’idrogeno. Per aggiornare la politica estera e di sicurezza statunitense di fronte alle nuove minacce, A. dispose la preparazione di alcuni studi che confluirono poi nella risoluzione 68 approvata in aprile dal National security council (NSC). Ispirato soprattutto da Paul H. Nitze, successore di Kennan alla guida del Policy planning staff, il documento lanciava l’allarme rispetto alla “sfida mortale” costituita dall’Unione Sovietica e dai suoi progetti di dominio mondiale e sottolineava l’urgenza di una reazione organica a tutto campo: ideologica, politica, economica e militare. La risoluzione riteneva tra l’altro necessario che gli Stati Uniti destinassero alle spese militari il 20% del prodotto nazionale lordo. A. si trovò esposto alle critiche, anche all’interno dell’amministrazione, di coloro che ritenevano tali misure troppo incentrate sul concetto di superiorità militare e destinate a esacerbare lo scontro con Mosca. Lo stesso Truman esitò all’inizio rispetto alla possibilità di adottarle e A., per tutto il 1950 («l’anno in cui iniziò la mia immolazione al Senato», come scrisse nelle sue memorie), si adoperò per convincere gli oppositori e l’opinione pubblica della fondatezza della risoluzione NSC-68. La necessità di finanziare la guerra di Corea, peraltro, avrebbe presto agevolato l’introduzione delle raccomandazioni finanziarie suggerite dal documento: le spese militari statunitensi superarono i 22 miliardi di dollari già nel bilancio del 1951, raggiunsero i 44 miliardi l’anno successivo e culminarono nel 1953 a più di 50 miliardi.

Quando le truppe nordcoreane invasero la Corea meridionale, oltrepassando il 25 giugno il 38° parallelo, A. dichiarò che Washington avrebbe dovuto impegnarsi in guerra per difenderla e salvarla, anche per dimostrare ai paesi dell’Europa occidentale che gli Stati Uniti sarebbero davvero corsi in loro aiuto in circostanze analoghe, rispettando gli impegni assunti con l’Alleanza atlantica. Truman dispose subito l’invio di truppe e l’intervento trovò presto collocazione all’interno di un’operazione delle Nazioni Unite, che il Consiglio di sicurezza pose sotto il comando del generale Douglas MacArthur. I successi militari conseguiti grazie alla sua brillante conduzione della guerra lasciarono intravedere a fine settembre la possibilità di applicare le raccomandazioni dell’ONU per la riunificazione delle due Coree. A. riteneva che il momento fosse propizio, sottovalutando, al pari di Truman e di MacArthur, la possibilità che la Cina popolare entrasse nel conflitto. Parte dell’opinione conservatrice statunitense, sostenuta anche dagli sforzi della cosiddetta China lobby, era attratta addirittura dalla possibilità di rovesciare in toto la situazione del 1949, con un tentativo di sbarco di Chang sul continente, appoggiato da Washington. A metà ottobre, reparti di “volontari” della Cina popolare cominciarono però a concentrarsi nella Corea del Nord e il conflitto entrò in una fase critica. Alla fine di novembre aumentarono le pressioni di MacArthur perché si concedesse alle forze dell’ONU di varcare il fiume Yalu, che segnava il confine tra Cina e Corea. L’alleanza sino-sovietica rendeva molto pericolosa l’estensione del conflitto: quando il generale, nel marzo 1951, compì alcuni gesti di insubordinazione, Truman lo destituì, pagando un prezzo politico molto alto, dati il prestigio e la grande popolarità di MacArthur.

Poco prima dell’apertura delle ostilità in Corea, il 4 giugno 1950, A. aveva inviato chiare disposizioni alle ambasciate degli Stati Uniti in Europa, sottolineando come Washington attribuisse la massima importanza alla dichiarazione solenne rilasciata il 9 maggio, a nome del governo di Parigi, dal ministro degli Esteri Schuman (v. Schuman, Robert), in merito a una durevole riconciliazione franco-tedesca, mediata dalla condivisione delle risorse di carbone e acciaio, nell’ambito di una nuova organizzazione aperta all’adesione di tutti i paesi europei (v. Piano Schuman). Il piano, ispirato da Jean Monnet e destinato a sfociare in breve nella CECA, era stato presentato in anticipo, il giorno 7, da Schuman ad A. e all’ambasciatore David K. Bruce, che contribuì a guadagnare il favore degli Stati Uniti al progetto e, più in generale, ai vantaggi complessivi della costruzione europea dal punto di vista americano. A., legato a Monnet da una solida relazione di collaborazione e stima reciproca costruita negli anni di guerra, in particolare nel contesto dell’UNRRA, reagì con cautela, non sottovalutando le valenze negative del progetto francese nel medio e nel lungo termine, quali ad esempio la possibile costituzione di un grande cartello del carbone e dell’acciaio o di un’Europa non allineata, incline a definirsi come “terza forza” e dunque a sganciarsi dalla tutela statunitense per salvaguardare i propri interessi, magari anche in contrapposizione con quelli americani. Intravide, però, anche gli indubbi vantaggi del progetto – in termini di composizione del conflitto franco-tedesco, integrazione della Germania nell’Occidente, aggregazione delle forze economiche e politiche degli Alleati euroccidentali in funzione di contenimento della spinta sovietica – e ne agevolò la realizzazione. La necessità di non guastare le relazioni con la Gran Bretagna, che rese pubblica l’intenzione di non aderire al piano, consigliò però prudenza e l’amministrazione statunitense seguì i negoziati tra i Sei (Francia, Germania federale, Italia e i tre paesi del Benelux) in modo discreto, non esitando comunque a intervenire in alcuni casi per facilitare le trattative.

Ben diverso, almeno in prima battuta, fu l’atteggiamento di A., favorevole al collegamento diretto tra il riarmo e l’inserimento della Germania federale nella NATO, rispetto al cosiddetto Piano Pleven, anch’esso d’ispirazione monnetiana, avanzato nell’ottobre 1950 dal governo francese per la creazione di una difesa integrata all’interno di una nuova Comunità europea: «costernazione e sconforto», tanto per lui quanto per Marshall e per Truman, di fronte a un progetto ritenuto «irrealizzabile», come lo avrebbe definito A. nelle sue memorie. A partire dal Consiglio atlantico tenuto a Bruxelles in dicembre, si decise pertanto di considerare in modo separato il tema del riarmo tedesco, la costituzione di un esercito europeo nella CED e l’organizzazione di un esercito atlantico. Mentre quest’ultimo decollava rapidamente, il governo di Londra dichiarò che non avrebbe interferito con i negoziati per la CED e gli Stati Uniti si dichiararono favorevoli al loro avvio. Solo nell’estate del 1951, tuttavia, il governo di Washington si impegnò più a fondo per il successo delle trattative, grazie all’interesse tributato all’iniziativa, tra gli altri, da A. e da Bruce, così come da John J. McCloy, Alto commissario per la Germania, amico e fondamentale alleato di Monnet nella sua lotta per l’unità europea, da W. Averell Harriman, da poco nominato da Truman assistente speciale per la sicurezza nazionale, e dal generale Eisenhower (v. Eisenhower, Dwight David), comandante in capo delle forze atlantiche in Europa, che lo stesso Monnet aveva indotto a pronunciare un chiaro discorso sull’opportunità di una costruzione federale nel continente (v. anche Federalismo). Firmato dai governi dei sei paesi membri della CECA nel maggio 1952, il trattato istitutivo della CED incontrò il pieno favore della nuova amministrazione repubblicana, presieduta dallo stesso Eisenhower, ma non avrebbe poi superato la fase di ratifica, due anni dopo. Nel dicembre 1952, quando partecipò a Parigi alla riunione del Consiglio atlantico, per l’ultima volta come segretario di Stato, A. espresse a Monnet l’opinione che in Europa, nonostante i grandi progressi compiuti dagli Stati Uniti per cooperare anche con le iniziative partite dagli alleati, si fosse perso ormai lo slancio. Solo se, viceversa, gli Europei si fossero dimostrati capaci di costruire una «comunità unita dal punto di vista politico e forte sotto il profilo economico e militare», gli americani avrebbero potuto continuare a impegnarsi oltreoceano come negli ultimi sei anni: proprio perché quella comunità essi «avrebbero potuto e voluto sostenere come un punto centrale della loro politica estera».

Le vicende e le difficoltà create dalle questioni asiatiche nei rapporti tra il Congresso e il Presidente avevano contribuito a portare A. al centro della crociata anticomunista promossa da Joseph R. McCarthy. Quando tentò di proteggere alcuni diplomatici e funzionari del Dipartimento di Stato che il senatore repubblicano aveva definito in pubblico comunisti o simpatizzanti del comunismo, accusandoli di aver reso di proposito inefficace la strategia asiatica del Segretario, A. si espose a un attacco frontale, volto ad accollargli la responsabilità della “perdita della Cina” e a ottenere – invano – che Truman lo privasse dell’incarico. Nel gennaio 1953, quando ancora infuriavano le iniziative di McCarthy, A. lasciò dunque il Dipartimento mentre la sua figura era bersaglio di polemiche sulla conduzione della politica asiatica sotto l’amministrazione Truman. Tornato a esercitare la professione legale, non abbandonò l’attività politica e, durante i due mandati del presidente repubblicano Eisenhower, criticò apertamente la politica estera del segretario di Stato, John Foster Dulles. Dal 1957 al 1960, l’anno in cui i democratici riconquistarono la Casa Bianca, fu presidente della Commissione affari esteri del partito.

Negli anni Sessanta, A. intrattenne importanti rapporti di collaborazione con il governo, prima con John F. Kennedy (1961-63), di cui contribuì a elaborare soprattutto la politica europea, poi con Lyndon B. Johnson (1963-68). Agevolando con efficacia l’azione di Monnet, del sottosegretario di Stato Ball (v. Ball, George Wildman), e di altri elementi dell’amministrazione sensibili ai temi dell’integrazione – o, per alcuni, della costruzione federale – europea o atlantica, fu tra gli ispiratori del discorso pronunciato da Kennedy a Filadelfia il 4 luglio 1962, in vista del lancio della nuova partnership atlantica. Nominato membro del Comitato esecutivo del NSC che il Presidente creò in ottobre per gestire la crisi dei missili, A. raccomandò l’opzione di un attacco aereo alle basi sovietiche nell’isola, ma il Presidente preferì la soluzione del blocco navale e inviò A. in missione nelle principali capitali europee per informare gli alleati delle decisioni assunte dalla Casa Bianca e per sollecitarli a manifestare la loro solidarietà. Nella questione vietnamita, A. favorì nei primi anni l’intervento, schierandosi con i cosiddetti “falchi” dell’amministrazione. Per ottenere la piena cooperazione del governo francese alla politica europea degli Stati Uniti nel 1950, infatti, egli aveva cominciato ad appoggiarne la politica indocinese di scontro con il Vietnam a partire dalla primavera di quell’anno, dapprima con qualche esitazione, poi con crescente intensità dopo lo scoppio della guerra in Corea. Quando però Ball, nell’aprile 1965, chiese il suo aiuto per rielaborare e firmare insieme un memorandum da sottoporre a Johnson in vista di una soluzione politica del conflitto, A. accettò. Il piano fu discusso in maggio con lui e con Ball dal Presidente, dal segretario di Stato Dean Rusk e dal segretario alla Difesa Robert S. McNamara, ma venne scartato. Consultato ancora da Johnson nel 1968, A. gli suggerì di procedere al ritiro appena possibile, per evitare che la presidenza perdesse del tutto il consenso interno. Il consiglio contribuì alle importanti decisioni assunte dalla Casa Bianca nei mesi successivi.

Amareggiato e preoccupato dall’ondata di proteste sociali che aveva scosso gli Stati Uniti negli ultimi anni, A. ritenne che la presidenza repubblicana di Richard M. Nixon potesse contribuire a stabilizzare il paese e a districarlo dalla situazione vietnamita. Non si sottrasse dunque alle sue richieste di collaborazione e, tramite Kissinger (v. Kissinger, Henry Alfred), offrì la propria esperienza per l’elaborazione della politica atlantica e africana della nuova amministrazione. La relazione si incrinò però nel 1970, quando la Casa Bianca decise di estendere il conflitto indocinese alla Cambogia. L’anno prima, A., scrittore elegante e prolifico, aveva pubblicato con successo il suo sesto libro, Present at the creation: il volume, dedicato agli anni trascorsi al Dipartimento di Stato, vinse il premio Pulitzer.

Massimiliano Guderzo (2010)