Andreotti, Giulio

A. (Roma 1919-ivi 2013) è un politico, scrittore e giornalista italiano. È stato uno dei principali esponenti della Democrazia cristiana. Durante gli anni del regime fascista studiò al liceo Tasso di Roma, frequentando assiduamente fin da giovinetto gli ambienti cattolici romani. Iscrittosi alla facoltà di Giurisprudenza, aderì già a 18 anni alla Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), allacciando contatti – poi rivelatisi durevoli – con altri esponenti delle formazioni cattoliche. A 23 anni subentrò ad Aldo Moro quale presidente nazionale della stessa FUCI (1942-1944). Durante gli anni della guerra, A. incontrò Alcide De Gasperi presso la Biblioteca vaticana, dove il politico trentino aveva trovato rifugio dalle persecuzioni fasciste. Nel 1944, A. fu eletto nel Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, divenendo, con la cessazione delle ostilità, responsabile del settore giovanile del partito.

Terminata la guerra e iniziata l’epoca repubblicana, A. fu eletto nel 1946 all’Assemblea costituente. De Gasperi lo volle segretario del Consiglio dei ministri (31 maggio 1947), carica che detenne fino al 12 gennaio 1954. Alle elezioni del 18 aprile 1948 entrò alla Camera dei deputati per la circoscrizione di Roma-Latina-Viterbo-Frosinone. Da allora fu sempre riconfermato deputato fino alla nomina (1991) a senatore a vita.

In quanto segretario del Consiglio dei ministri nei difficili anni del secondo dopoguerra, A. dedicò un ridotto interesse alle tematiche europeiste, consacrando gran parte delle proprie attenzioni ai problemi legati alla governabilità e alla ripresa economica del paese. Del resto, in quegli anni, sia la Democrazia cristiana (al pari della maggioranza dei partiti italiani) sia gran parte del movimento cattolico prestarono scarso interesse al Federalismo europeo e ai suoi progetti, recependo solo parzialmente il sostegno dato dall’allora papa Pio XII a una Europa unita, portavoce del messaggio della Chiesa e baluardo contro il comunismo, ma, al contempo, soggetto non appiattito sulla politica USA.

Quale segretario del Consiglio dei ministri, A. poté assistere in prima persona al primo cambio di passo da parte della politica italiana rispetto all’unificazione del continente, avvenuto in occasione del lancio del Piano Schuman (per la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, CECA, 9 maggio 1950) e del Piano Pleven (per la nascita della Comunità europea di difesa, CED, 24 ottobre 1950) (v. Pleven, René). La scelta di De Gasperi e di alcuni politici, economisti e diplomatici di sostenere i due piani non rispose solo alle sollecitazioni degli Stati Uniti a favore di una struttura europea che unificasse il continente, ma anche alla convinzione che le ipotesi di lavoro di Robert Schuman e René Pleven fossero una opportunità preziosa per il paese. Pur non svolgendo un ruolo di primo piano nella vicenda, A. poté assistere e meditare sulle vicende che videro il primo tentativo della classe dirigente nazionale di dare all’Italia un ruolo di primo piano entro il continente. Su queste esperienze egli tornò più volte negli anni seguenti. La speranza di De Gasperi e degli altri sostenitori dei progetti di Europa unita era di superare le debolezze e le arretratezze economiche, politiche e militari dell’Italia, rendendola parte integrante di una struttura più grande, dando una risposta strategica al grande timore della politica estera del paese: il sospetto che, senza un processo di integrazione continentale entro il quale inquadrare l’alleanza franco-tedesca, Bonn e Parigi potessero egemonizzare il panorama europeo, ponendo l’Italia ai margini (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Si trattò, in sostanza, di una sorta di fuga in avanti, che più volte venne ritentata dall’Italia in seguito.

Anche per A. come per tutta la classe dirigente italiana, la fine della CED costituì un momento di svolta importante. L’alleanza militare tradizionale che scaturì dal progetto di esercito europeo (la Unione dell’Europa occidentale, UEO), era fondata su un binomio franco-britannico che poneva l’Italia ai margini del sotto-sistema europeo inserito nel più grande sistema occidentale. Questi anni, tra l’altro, furono importanti anche per A. Lasciata la funzione di segretario del Consiglio dei ministri al termine del governo di Giuseppe Pella (12 gennaio 1954), A. ottenne il suo primo incarico ministeriale con il primo governo di Antonio Segni (6 luglio 1955-6 maggio 1957), divenendo ministro delle Finanze (carica che mantenne anche con il successivo governo Zoli, 19 maggio 1957-19 giugno 1958). Fu da via XX Settembre che A. assistette e partecipò ai negoziati per la nascita della Comunità economica europea (CEE). A. condivise l’impegno posto dai governi italiani a partire dalla Conferenza di Messina (1-3 giugno 1955) fino ai Trattati di Roma (25 marzo 1957) che portarono alla creazione della CEE. Durante i lavori, i rappresentanti italiani fecero di tutto perché non si creassero direttori di sorta, sfruttando anche il momento di difficoltà nel quale si trovavano le altre potenze europee. Questo prudente sostegno si accompagnò in A. con uno scrutinio molto attento dedicato alle altre opzioni strategiche a disposizione dell’Italia, in primo luogo il neoatlantismo sostenuto da Amintore Fanfani. Questa posizione nasceva dalle competizioni tutte interne alla Democrazia cristiana. Ad A., che era comunque un sostenitore della linea filoamericana nella politica estera italiana, non sfuggirono le prospettive incerte della strategia fanfaniana, che cercava di giocare sull’amicizia con gli Stati Uniti per far acquisire all’Italia maggiore peso nel Mediterraneo o per portarla a svolgere un ruolo centrale di mediazione nel confronto tra Est e Ovest, facendole acquisire anche un ruolo preminente entro la CEE. Come emerge dalla lettura degli editoriali e delle pagine della rivista bisettimanale della destra democristiana “Concretezza” (1 gennaio 1955-16 gennaio 1976) di cui era fondatore e direttore, A. non escludeva affatto che l’Italia potesse assumere tali posizioni internazionali. Per esempio, in qualità di ministro della Difesa (carica che aveva assunto in occasione del varo del secondo governo Segni, 15 febbraio 1959, e che gli era stata confermata entro il terzo e il quarto governo Fanfani, 26 luglio 1960), A. garantì il proprio sostegno al viaggio compiuto da Fanfani in URSS nel 1961, deciso anche allo scopo di accreditare l’Italia quale plausibile mediatore tra Mosca e Washington. Nello stesso tempo, però, A. non mancò di considerare che eccedere in una politica autonoma rischiasse di creare fratture tra l’Italia e gli stessi USA, oltre a porre in pericolo i rapporti con i partner comunitari, da cui il paese non poteva prescindere.

Appreso fin dall’inizio degli anni Sessanta come le ambizioni neoatlantiche italiane avessero poca consistenza, A. scelse di sostenere una linea palesemente filostatunitense, anche dentro la stessa CEE. È in quest’ottica che deve essere letta la disponibilità di A. all’accoglimento della richiesta di partecipazione del Regno Unito alla CEE (9 agosto 1961), compiacendo Washington, che di un Regno Unito nella CEE era il principale sostenitore. Il suo favore alla domanda inglese aveva le stesse basi politiche che lo spinsero a sostenere il progetto di Multilateral force (MLF) proposto dagli USA per la difesa nucleare integrata dell’Europa: ovverosia la ricerca di iniziative politiche che potessero garantire vantaggi politici all’Italia, facendole superare limiti economico-politici nazionali altrimenti non valicabili, ponendo – nel contempo – un freno alle iniziative egemoniche continentali di Francia e Germania. Il contrasto ai progetti di Charles de Gaulle e alla preminenza dell’asse franco-tedesco nella compagine comunitaria, però, non doveva spingersi fino a porre in pericolo l’impalcatura europea, vitale per gli interessi italiani, di cui la Francia era pur sempre cardine portante. Sulla base di ciò, A. comprese la sostanziale contraddittorietà di qualsiasi iniziativa che cercasse di far acquisire indipendenza d’azione all’Italia entro la CEE a spese dell’asse Bonn-Parigi. Il veto di de Gaulle (14 gennaio 1963) all’entrata di Londra nella Comunità privò l’Italia del possibile contrappeso all’amicizia franco-tedesca inducendola a riconsiderare le linee della propria politica comunitaria. A quel punto, in qualità di ministro della Difesa del primo governo Leone (21 giugno 1963-4 dicembre 1963) e dei primi due governi Moro (4 dicembre 1963-23 febbraio 1966) A. condivise la scelta dell’Italia di porsi quale mediatore dei veti incrociati tra le singole potenze comunitarie, ridando senso alla partecipazione italiana alla CEE, garantendole anche vantaggi concreti. In tale ottica va visto l’atteggiamento del governo italiano in occasione della “crisi della sedia vuota” e del Compromesso di Lussemburgo. Sapendo di disporre di un relativo spazio d’azione, Roma, più che provare a piegare i partner europei ad accogliere le sue richieste, preferì lavorare per mantenere in vita la Comunità, mediando tra le divaricantesi politiche di Francia e Germania occidentale.

In qualità di ministro dell’Industria, commercio e artigianato nel terzo governo Moro e nel secondo governo Leone (23 febbraio 1966-12 dicembre 1968), A. assistette al declino della politica gollista e della vecchia Europa a Sei, e alle rinnovate speranze di un rilancio della Comunità. Tra il 1969 e i primi mesi del 1972, A. non tenne cariche di governo, ma diede un certo consenso alla breve ma intensa opera riformista che si consumò tra il dicembre 1969 e l’aprile 1970, mesi durante i quali la Comunità a Sei riuscì ad approvare un complesso di norme di grande importanza economica e politica (rapida adozione del regolamento per il finanziamento della Politica agricola comune (PAC), i cui negoziati risalivano al 1965, stanziamento delle risorse proprie della Comunità, rafforzamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo, lancio dell’unione economica e monetaria e, infine, messa a punto di un sistema di cooperazione nel campo della politica estera (L’Aia 1-2 dicembre 1969) (v. anche Cooperazione politica europea). Identico consenso fu mostrato da A. all’apertura del negoziato con il Regno Unito (30 giugno 1970), sia perché soddisfaceva un punto sul quale A. aveva speso qualche sforzo in passato sia perché sembrava poter riaprire spiragli per un rinnovato attivismo italiano in ambito comunitario e mediterraneo.

Egli visse in prima persona, in qualità di Presidente del Consiglio (17 febbraio 1972-7 luglio 1973) gli ultimi passaggi attuati per l’entrata della Gran Bretagna nella Comunità. Poi ebbe modo di toccare con mano, in quanto ministro del Bilancio e della programmazione economica nel quarto e quinto governo Moro (23 novembre 1974-26 luglio 1976) e poi ancora quale Presidente del Consiglio (29 luglio 1976-4 agosto 1979), la grave sclerosi che colpì l’istituzione comunitaria durante la seconda parte degli anni Settanta, manifestatasi con l’interruzione del processo di integrazione comunitaria che era stato previsto dalla Conferenza di Parigi del 19-21 ottobre 1972. A. dovette subito percepire, al pari dei suoi colleghi, un senso crescente di delusione per come il processo di integrazione europea stava proseguendo. Il disappunto maggiore ruotò attorno alla presa d’atto che la presenza della Gran Bretagna nella Comunità non si stava traducendo in un maggiore spazio d’azione politica per l’Italia, mentre il Regno Unito – attore debole nel contesto internazionale durante gli anni Settanta – tendeva a porsi in posizione di critica globale delle strutture comunitarie. Queste difficoltà finivano per rendere più acuti sull’Italia gli effetti della crisi politico-economico-sociale, al punto da costringerla a uscire dal serpente monetario, favorendo anche un periodo di riflusso del suo tradizionale filoeuropeismo.

Furono proprio le esperienze acquisite in questi anni che rafforzarono in A. l’impressione che la Comunità dovesse essere difesa con ogni mezzo. Per A., come per gli altri politici democristiani, la presenza del paese nella CEE costituiva una sorta di àncora che teneva il paese legato al blocco occidentale evitandone la marginalizzazione rispetto alle grandi potenze del blocco. Tra l’altro, l’evoluzione delle posizioni della CGIL (Confederazione generale italiana del lavoro) e del PCI (Partito comunista italiano) a partire dalla metà degli anni Settanta sul tema della costruzione europea fece sì che l’argomento comunitario divenisse materia di consenso entro l’arco costituzionale, favorendo una maggiore compattezza istituzionale di fronte alla politica europea del governo italiano. Fu anche per questo che, rispetto al passato, l’Italia – al pari degli altri paesi europei più importanti – scelse di assumere posizioni anche intransigenti di fronte a iniziative comunitarie che rischiavano di tradursi in svantaggi evidenti per il paese. Per esempio, pur accogliendo di buon grado l’idea che la CEE potesse allargarsi a Spagna e Portogallo, A. – tornato a rivestire la carica di Presidente del Consiglio (1976-79) – non tacque le perplessità sue e del governo di fronte a scelte che rischiavano di danneggiare gli interessi italiani entro la CEE. Fu solo dopo aver ricevuto adeguate garanzie – e prima di essere sostituito a Palazzo Chigi da Cossiga – che egli diede il proprio assenso all’apertura dei negoziati a Bruxelles tra la CEE e i due paesi iberici.

Fu con gli anni Ottanta, comunque, che A. ebbe modo di acquisire meriti per la sua attività politica a favore dell’Europa comunitaria. Entrato in carica quale ministro degli Affari esteri con il primo governo del socialista Bettino Craxi il 1° agosto 1983, A. tenne l’ufficio ininterrottamente fino al 22 luglio 1989, lasciandolo solo per divenire Presidente del Consiglio (22 luglio 1989-28 giugno 1992). Durante questo lungo periodo, A. poté dare continuità alla sua politica e alla sua intuizione. Dimostratesi prive di concretezza le alternative politiche come il cosiddetto “eurosocialismo”, inutile ai bisogni del paese e slogan adatto al solo ambito interno quale risposta a certe ambizioni comuniste, A. fece propria l’idea che fosse fondamentale per l’Italia lasciare da parte le velleità di “onesto sensale” delle tensioni comunitarie e optare per la ricerca di un rapporto privilegiato con un grande partner comunitario, allo scopo di conferire forza alla propria presenza e ai propri interessi nella CEE. Va detto che per un anno e mezzo almeno A. non colse fino in fondo la novità offerta al panorama comunitario dall’accordo raggiunto tra il 1983 e il 1984 tra il presidente francese François Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmut Kohl; accordo che poneva – di nuovo – Francia e Germania al centro della CEE. L’accordo sanciva un direttorio ansioso di imprimere una svolta alle vicende comunitarie, ponendosi alla testa di una riforma della Comunità che consentisse all’Europa di affrontare la sfida economica posta dalla “reaganomics” e dalla “rivoluzione informatica”. In ogni caso, dalla seconda metà del 1984. seppure in ritardo, A. comprese quanto stava accadendo e cercò di recuperare il tempo perduto. Di fatto, A. – agendo in sintonia con il suo presidente Craxi – fece di tutto per fare in modo che l’Italia si affiancasse, su basi paritarie, a Germania e Francia, provando perfino a scavalcarle. Fu l’Italia a favorire l’accelerazione dei negoziati per l’adesione alla CEE di Spagna e Portogallo, dopo averli rallentanti per diverso tempo. Furono A. e Craxi che ebbero parte non trascurabile nel superare, durante il famoso vertice dei capi di Stato e di governo di Milano (28-30 giugno 1985), l’ostacolo posto dal primo ministro inglese Margaret Thatcher, contraria a qualsiasi riforma dei Trattati che portasse al rafforzamento della Comunità.

Sulla base degli studi fino a oggi compiuti, si ha però la persuasione che A. non riuscisse a comprendere fino in fondo come fosse proprio l’Europa comunitaria il contesto in cui Roma avrebbe potuto disporre delle maggiori opportunità d’azione. Egli continuò a coltivare ambizioni mediterranee e la speranza di porsi quale mediatore tra i due blocchi, in una fase di cambiamenti internazionali molto profondi che stavano andando al di là delle effettive possibilità di manovra del paese. In questi frangenti, l’Italia non comprese come gli Stati Uniti fossero perfettamente in grado di agire autonomamente nella gestione di problemi quali quello palestinese o il dialogo diplomatico con l’URSS di Michail Gorbačëv. Ciò fece sì che dall’allargamento europeo traessero maggiori vantaggi i paesi di nuova entrata nella compagine comunitaria, che divennero – a quel punto – più concorrenti che non alleati di Roma, privandola dell’aiuto che questa si sarebbe attesa nel suo sempre attuale tentativo di contrastare il binomio franco-tedesco.

Proprio a causa di queste delusioni, che fecero perdere al paese parte del terreno guadagnato nel contesto europeo in occasione degli eventi verificatisi nel biennio 1985-1986, alla fine degli anni Ottanta A. e i politici italiani tornarono a dare il giusto peso al ruolo che la CEE (ora incamminatasi sulla strada che avrebbe portato, il 7 febbraio 1992 alla firma del Trattato di Maastricht e, il 1 gennaio 1993, alla nascita ufficiale dell’Unione europea) avrebbe potuto avere nella politica italiana. I due Consigli di Dublino (uno straordinario il 28 aprile 1990 e il secondo ordinario del 25-26 giugno) che rilanciarono l’impegno dei membri della Comunità per la nascita di una Unione politica europea videro i rappresentanti italiani – e tra questi in primo luogo lo stesso A., per l’ultima volta tornato a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio – impegnati a inserire l’Italia nel cosiddetto inner circle dell’Europa. La ragione fu duplice: da un lato, A. era convinto, al pari di altri, che l’evoluzione delle vicende europee avrebbe di certo inciso in modo radicale non solo sul futuro della costruzione europea stessa, ma anche sul ruolo internazionale dell’Italia. In secondo luogo, egli condivideva la certezza che aderire all’unione economica e monetaria avrebbe permesso alla classe dirigente nazionale di ricondurre il paese sulla via del risanamento economico.

Di fatto, fu con la firma del Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992) da parte del suo governo che A. concluse la sua lunga carriera politica attiva, pur continuando a mantenere un seggio al Senato quale senatore a vita. Per certi versi, è stato osservato come Maastricht finì per rappresentare una sorta di suggello sia personale sia dei partiti che avevano guidato la Repubblica italiana dal secondo dopoguerra in avanti attraverso la politica europeista iniziata nel 1950 e proseguita tra alti e bassi fino a quel momento, prima che i vecchi gruppi dirigenti fossero travolti dagli scandali di Tangentopoli.

Lucio Valent (2013)