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Associazione

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Inserita nel Trattato Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) (v. anche Trattato di Parigi) per essere strumento di raccordo fra la Comunità carbosiderurgica e il Regno Unito (ma l’accordo firmato nel 1955 ebbe contenuti prettamente procedurali e di consultazione) l’associazione entrò nel trattato Comunità economica europea (CEE) (v. anche Trattati di Roma) – non nell’Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica) – sotto due forme. La prima riguardava i territori dipendenti degli Stati membri, che la parte IV destinava d’autorità a entrare in un’area di libero scambio euro-africana e rendeva destinatari di aiuti finanziari. L’articolo 238 (ora 310), ricalcato sul Trattato CECA pensando agli stati dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) rimasti fuori dal mercato comune, prevedeva invece che la CEE potesse stipulare accordi di associazione con «Stati, gruppi di Stati e organizzazioni internazionali», la definiva «caratterizzata da diritti e obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari», ponendola non accanto all’accordo commerciale (art. 113, ora 133) o all’accordo commerciale e di cooperazione economica (art. 228, ora 300), bensì accanto all’adesione (art. 236). Alcune dichiarazioni annesse al Trattato autorizzavano poi a stipulare accordi di associazione con gli ex-protettorati francesi Marocco e Tunisia, le ex-colonie italiane Libia e Somalia, i territori olandesi del Suriname e delle Antille olandesi. Considerando i destinatari in pectore e le caratteristiche, l’associazione nasceva dunque come strumento politico di relazioni esterne con paesi di particolare importanza per i Sei, canale per la proiezione di influenza internazionale del mercato comune (v. Comunità economica europea).

Nel caso della parte IV, l’obiettivo politico della creazione di una comunità euro-africana valse all’associazione l’accusa di neocolonialismo: Marocco e Tunisia rifiutarono di negoziare nel quadro di riferimento della parte IV e gli ambienti anticolonialisti stigmatizzarono il sapore neocolonialista del termine e la finalità politica del mantenimento del legame fra l’Europa e le ex colonie, cui la CEE subordinava la preferenza accordata loro. Nonostante l’ostilità di molti, lo scarso entusiasmo di alcuni Stati membri di orientamento mondialista e/o particolarmente vicini al movimento anticolonialista e i risultati economici limitati, le due Convenzioni di Yaoundé e le quattro Convenzioni di Lomé sottoscritte fra la CEE e le ex colonie fra il 1963 e il 1995 mantennero la denominazione di “associazione”. Solo con l’Accordo di Cotonou del 2000 il termine è stato abbandonato, anche se l’attuale progetto di Accordi di partnership fra l’UE e gruppi regionali di paesi degli Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico (ACP) è per alcuni versi la conferma del persistere dello spirito politicamente discriminatorio insito nell’associazione.

L’art. 238 non suscitò la stessa opposizione, ma l’attuazione concreta non fu pari alle attese. Nel dibattito dei primi anni Sessanta, l’associazione veniva definita addirittura come «una forma di adesione attenuata», ma solo il Trattato di Atene del 1961 ebbe spessore politico e economico, lanciando il processo di adesione della Grecia alla CEE. Le difficoltà istituzionali, politiche e economiche emerse durante questo primo negoziato, la scia di candidature di paesi europei non-CEE e di paesi del Mediterraneo accesero un dibattito su finalità e contenuti possibili degli accordi di associazione, condizionato dalla diffidenza verso i paesi europei che rifiutavano il sovranazionalismo, dalle diverse visioni di cosa la CEE dovesse diventare e di come dovesse rapportarsi al mondo esterno, dall’ostilità americana. Chi difendeva una concezione restrittiva e voleva riservare l’associazione ai potenziali full members, tutelava sì la coesione interna della CEE, ma ne sacrificava la proiezione esterna e dunque la rilevanza politica internazionale. Chi difendeva un’interpretazione ampia per fare dell’associazione lo strumento duttile in grado di soddisfare le richieste diversificate dei partner e rivendicava di lavorare per affermare la CEE come attore politico internazionale, era accusato di “diluire” la CEE e minacciarne l’integrità. L’incompatibilità fra visioni e interessi politici e economici finì per prevalere sulle ambizioni: il Trattato di Ankara del 1963 fu “associazione” solo in omaggio alla regola informale del parallelismo greco-turco, e in seguito la denominazione di associazione venne a riflettere un’affermazione di volontà più che la portata politica o economica dell’accordo. Le aree di elezione si confermarono essere l’Europa e il Mediterraneo. Dopo l’Austria, associazioni di prima generazione vennero stabilite nel Mediterraneo fra il 1968 e il 1972, ampliate poi in contenuto e in numero nel quadro della politica mediterranea globale. Dopo l’adesione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca, furono associazioni gli accordi di libero scambio stipulati con i rimanenti paesi dell’Associazione europea di libero scambio (European free trade area, EFTA): durata, stabilità e istituzioni comuni caratterizzavano questi accordi, che tuttavia, complice l’atrofia politica della CEE, rimasero accordi economico-commerciali nel caso del Mediterraneo poco significativi. Qualche sostanza pare dunque avere l’analisi più o meno critica di chi rileva come l’integrazione europea sia (anche) un processo costruito intorno a un “gergo” che legittima ideologicamente e insieme attribuisce unicità e pregnanza a fatti e politiche prive di ogni specificità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In effetti, molte associazioni hanno avuto contenuto economico limitato e assai scarso significato politico.

La nascita dell’Unione europea (UE), la fine della separazione formale fra CEE e Comunità politica europea (CPE) e le nuove condizioni politiche internazionali rilanciarono nei primi anni Novanta il significato politico dell’associazione e la sua specificità fra le tipologie di accordo internazionale stipulabili dalla UE – accordi commerciali, accordi di cooperazione e accordi appunto di associazione. Essa è connotata dalla durata, dalla forte istituzionalizzazione e dai meccanismi di dialogo politico particolarmente sviluppati. L’associazione ha assunto per i paesi europei la funzione di accordo di preadesione (v. Strategia di preadesione), mentre per i paesi extraeuropei cui è preclusa l’adesione, spesso paesi in via di sviluppo, essa esprime l’appartenenza alla schiera – del resto assai ampia – di paesi con cui la UE intrattiene rapporti di intensità politica ed economica particolare. Nella maggior parte dei casi, l’associazione tende alla costituzione di un’area di libero scambio in vista della quale i mercati della CEE vengono aperti anche in maniera unilaterale per favorire lo sviluppo dei partner, avvantaggiati anche con vari tipi di cooperazione economica e tecnica, quasi sempre con aiuti finanziari e forme di dialogo politico istituzionalizzato.

In Europa l’UE ha stipulato diversi gruppi di accordi di associazione. Gli “Europe agreements” furono firmati a metà anni Novanta con i PECO (paesi dell’Europea centro orientale) per favorire la trasformazione economica e politica e l’adeguamento ai requisiti necessari per l’apertura di negoziati di adesione (v. Accordi europei). Accordi di associazione furono firmati con Cipro, Malta e la Turchia, e divennero anch’essi cornice del processo di preadesione. La Norvegia e l’Islanda hanno rinegoziato l’accordo per lo Spazio economico europeo e i loro accordi di associazione sono i più estesi dal momento, includendo anche la libera circolazione dei servizi, dei capitali (v. Libera circolazione dei capitali) e delle persone (v. Libera circolazione delle persone). Alla schiera dei paesi si è aggiunto anche il Liechtenstein. Infine, la categoria più recente è costituita dagli accordi stabilizzazione e di associazione offerti ai paesi dei cosiddetti “Balcani occidentali”, cioè le repubbliche dell’ex Iugoslavia e l’Albania (v. Politica dell’Unione europea nei Balcani): alla cooperazione commerciale e settoriale, essi aggiungono la giustizia e gli affari interni (v. Giustizia e affari interni) e la cooperazione regionale e mirano a svolgere una funzione di catalizzatore della riconciliazione regionale, aprendo ai destinatari la prospettiva futura e condizionata dell’adesione. Accordi di associazione sono stati firmati anche con tutti paesi partecipanti al partenariato euromediterraneo, in sostituzione degli accordi prima generazione firmati negli anni Settanta, e associazioni, anche multilaterali, sono state costituite con l’America Latina, al primo accordo stipulato con il Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay) si sono aggiunti quello con il Messico (1997) e con il Cile (2002); gli accordi per il dialogo politico e la cooperazione con la Comunità andina e con l’America centrale sono anch’essi in predicato per la promozione ad accordi di associazione.

Elena Calandri (2007)