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Berlusconi, Silvio

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B. nasce a Milano il 29 settembre 1936. Imprenditore di successo soprattutto nel settore delle comunicazioni, immobiliare e delle assicurazioni, il “Cavaliere” – così chiamato in virtù dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro ricevuta nel 1977 – entra sulla scena della politica italiana all’età di cinquantotto anni, fondando nel gennaio 1994 una nuova formazione politica, Forza Italia, che vincerà le elezioni politiche nel marzo dello stesso anno. Da allora fino ai giorni nostri B. è rimasto alla ribalta senza soluzione di continuità, come leader della principale formazione politica del paese, oggi confluita nel partito Il Popolo della libertà (Pdl), e come Presidente del Consiglio, nella XII legislatura (1994), due volte consecutive nella XIV (20012005 e 20052006) e infine nell’attuale, la XVI (2008). Per periodi più o meno lunghi ha ricoperto ad interim anche gli incarichi di ministro degli Esteri, dell’Economia, della Salute e della Funzione pubblica e delle Attività produttive. Egli è senza dubbio il personaggio che più di ogni altro ha dato un’impronta omogenea e determinante alla vita politica italiana negli ultimi venti anni, rappresentando lo strumento offerto all’Italia che ha reso possibile la transizione verso un sistema basato sul meccanismo dell’alternanza al potere e, più precisamente, verso un bipolarismo, sia pure imperfetto e a tutt’oggi fluido, con due “partiti-coalizione” egemoni – il Pd a sinistra e il Pdl a destra – un partito territoriale – la Lega – e due poli minori, uno di centro e l’altro di sinistra radicale. Complessivamente B. detiene il record di durata in carica come Presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana e ha presieduto il gabinetto di governo più longevo della Repubblica italiana (Berlusconi II). La rilevanza del fenomeno berlusconiano (o “berlusconismo”) è dimostrata anche dall’attenzione crescente che esso ha suscitato a livello internazionale, soprattutto in Europa, a livello di dibattito pubblico, ma anche più recentemente nel campo della ricerca storica e politologica.

Le ragioni dell’ingresso in politica di B. sono strettamente connesse alla più grave crisi del sistema politico italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale dopo la fine della Guerra fredda, al quale quel terremoto passato alla storia con il nome di “Mani pulite” avrebbe voluto far assumere le sembianze di rivoluzione politico-giudiziario. Una classe dirigente fino a quel tempo incredibilmente longeva fu colpita da improvvisa moria; tanti onorevoli furono ospitati dalle patrie galere, alcuni di essi si suicidarono, altri giunsero a morte prematura. Lo scioglimento della Democrazia cristiana e la sua ricollocazione sul versante di centrosinistra furono la premessa perché nel sistema della rappresentanza italiana si creasse nel campo dei moderati un enorme potenziale politico-elettorale. Tale vuoto venne appunto riempito da B. Il suo approdo alla presidenza del Consiglio, nel maggio 1994, avvenne in un momento in cui l’Italia non aveva mai contato così poco in Europa e nel mondo: sia per le enormi difficoltà politiche, economiche e sociali connesse al crollo della Prima repubblica, ma soprattutto per il venir meno, con la fine della Guerra fredda, del ruolo strategico dell’Italia di paese di frontiera tra i due blocchi. Anche per questo all’estero la «discesa in campo» dell’imprenditore milanese – storicamente vicino al Partito socialista italiano di Bettino Craxi, ma di fatto esterno al ceto dei professionisti della politica – fu accolta con sentimenti contrastanti. All’epoca del suo primo mandato di governo B. non possedeva ancora un profilo definito in politica estera; aveva però come partner due forze politiche, che per impedire la vittoria scontata delle sinistre, era riuscito a mettere in contatto tra loro: Alleanza nazionale e Lega Nord, che, per le loro posizioni euroscettiche (v. Euroscetticismo), sollevarono più di un’apprensione negli ambienti internazionali, abituati alle morbidezze del periodo democristiano. La Lega, le cui posizioni autonomiste venivano percepite come venate di sentimenti xenofobi, aveva manifestato a più riprese il suo malcontento per i vincoli e i sacrifici chiesti dall’Europa per far quadrare i conti della finanza pubblica, laddove l’Msi, dal cui seno sarebbe nata Alleanza nazionale, non aveva votato la ratifica del Trattato di Maastricht.

Dopo la vittoria elettorale del 1994, per contrastare l’immagine negativa che aveva accompagnato la nascita della nuova coalizione di centrodestra, B. decise di affidare ad Antonio Martino – figlio dell’esponente liberale artefice dei Trattati di Roma (v. Martino, Gaetano) –, il dicastero degli Esteri e, successivamente, di designare Mario Monti ed Emma Bonino – il primo, un esperto di prestigio internazionale, notoriamente favorevole al processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della); la seconda, una rappresentante di spicco di un movimento le cui posizioni europeiste erano altrettanto note – quali nuovi rappresentanti italiani nella Commissione europea guidata da Jean Jaques Santer. La nomina di Martino agli Esteri fu, sotto altri aspetti, anche espressione della volontà del nuovo governo di imprimere una svolta all’europeismo tradizionale verso una visione meno idealistica dell’Europa, verso un’impostazione più assertiva nella esplicitazione e nella difesa dei propri interessi nazionali, che non avrebbe tardato a manifestarsi. Già prima di diventare ministro, Antonio Martino si era reso noto, nelle vesti di studioso, per alcune valutazioni molto critiche espresse nei riguardi delle ultime obbligazioni contratte dall’Italia con l’adesione al Trattato di Maastricht e, in particolare, nei confronti della moneta unica. D’altro canto, la rinazionalizzazione della politica europea, altra conseguenza diretta della fine della Guerra fredda, fu un fenomeno che all’epoca non rimase circoscritto al caso italiano. Particolarmente significativo per l’impatto negativo che esso avrebbe potuto avere per la penisola italiana fu il documento “Lamers-Schäuble” reso noto dal gruppo parlamentare della democrazia cristiana tedesca nel settembre 1994 (v. Lamers, Karl; Schäuble, Wolfgang), nel quale si individuava in maniera esplicita la possibilità che in futuro all’interno dell’Unione europea (UE) si formasse un’Europa a due velocità (v. Europa “a più velocità”), dal cui gruppo di testa l’Italia, per i suoi problemi economici, sarebbe rimasta esclusa. La proposta non andò in porto; nell’immediato contribuì tuttavia ad alimentare in Italia un più ampio dibattito sulla necessità di adeguare la propria politica estera ed europea a uno scenario internazionale ed europeo che appariva in rapida evoluzione. E in questo contesto si colloca la decisione di Forza Italia di costituire nel corso del 1994 un suo raggruppamento al Parlamento europeo, Forza Europa. La prima esperienza di B. al potere durò, tuttavia, solo pochi mesi. Nel dicembre 1994 il premier fu infatti costretto alle dimissioni per il venir meno del sostegno della Lega. Tornato all’opposizione, lo schieramento di centrodestra nel suo atteggiamento verso l’Europa fu mosso da considerazioni e pressioni contrastanti che, se da un lato indussero soprattutto la Lega a cavalcare i sentimenti antieuropeisti diffusi nel paese, dall’altro lato portarono Forza Italia a ricercare quella legittimazione negli ambienti comunitari e internazionali che la breve esperienza di governo non aveva permesso di acquisire. Dopo aver accarezzato l’idea di costituire insieme ai gollisti francesi e ai conservatori irlandesi un nuovo gruppo politico all’Assemblea di Strasburgo (v. Gruppi politici al Parlamento europeo), B. intravide nell’entrata nel Partito popolare europeo (PPE) l’opportunità di trasformare il suo partito in un moderno partito di centrodestra ideologicamente moderato. L’obiettivo venne raggiunto alla vigilia delle elezioni europee del 1999, superando non poche difficoltà poste da alcuni altri partiti membri del PPE. Si trattò a tutti gli effetti di un importante risultato anche sul piano della politica interna, in quanto ostacolò il tentativo del centrosinistra di Romano Prodi e Beniamino Andreatta di accreditarsi come il principale punto di riferimento dell’europeismo in Italia. L’ingresso di Forza Italia nel PPE venne approvato con 95 voti a favore, 35 contrari ed alcune astensioni e condusse alla fuoriuscita di Prodi dal PPE per protesta.

Con il suo ingresso nel PPE, Forza Italia portò in dote un numero elevato di europarlamentari. Forse anche per questo a Bruxelles, tra gli avversari dei popolari, continuarono a permanere forti le prevenzioni nei confronti del Cavaliere e dei suoi alleati. Tali prevenzioni, puntualmente, si manifestarono al momento del varo del secondo governo B., nel 2001. Già nel corso della campagna elettorale, le valutazioni di alcuni influenti organi di stampa europei erano state nel complesso negative (si ricordano, ad esempio, le prese di posizione critiche nei confronti di B. di organi di stampa quali “The Economist”1): al leader di Forza Italia veniva contestato un conflitto di interessi tra il suo ruolo di imprenditore e quello di politico, le molte inchieste giudiziarie apertesi dopo la sua discesa in politica, la presenza nella sua coalizione di forze quali la Lega, ritenuta influenzata da atteggiamenti xenofobi, o come AN che continuava a essere definita come partito neofascista o, tutt’al più, postfascista. Tali opinioni negative furono ampiamente utilizzate dalle forze del centrosinistra e dalla stampa a queste vicina per sostenere che un governo guidato da B. avrebbe “allontanato” l’Italia dall’Europa. La situazione appariva ancor più complicata a causa della presenza alla guida della Commissione di Romano Prodi, che era già stato leader del centrosinistra e che, nel volgere di breve tempo, sarebbe stato considerato come possibile candidato leader dell’opposizione. Anche a lui i più influenti giornali stranieri non riservarono certo una buona stampa. Ma, a differenza di B., le critiche nei confronti di Prodi non vennero amplificate all’interno dei confini nazionali. Si verificò, a questo punto, una singolare scissione. Mentre B. aumentava la sua influenza all’interno del PPE e i partner comunitari ritennero di accettare il nuovo governo italiano come un ovvio interlocutore, in influenti ambienti comunitari, in particolare nel Parlamento europeo, nonché in quei settori dei media europei più sensibili al processo d’integrazione, si cominciò a considerare l’Italia come una sorta di “sorvegliato speciale”. Fu probabilmente anche in considerazione di tale legittimazione “a geometria variabile” (v. Europa “a geometria variabile”) che nel secondo governo B. alla guida del ministero degli Affari esteri venne indicato l’indipendente Renato Ruggiero, esperto di questioni comunitarie, uomo vicino a influenti ambienti economici torinesi, noto e stimato a Bruxelles fin dai primi anni ’70 quando era stato capo di gabinetto dell’allora presidente della Commissione europea, Franco Maria Malfatti. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, nel governo si manifestarono linee contrastanti e contrarie al ministro degli Esteri e proprio sulla politica europea vennero prese decisioni che resero evidente la volontà di alcuni ministri del secondo governo B. di far valere in Europa, con maggiore assertività di quanto fosse stato fatto in passato, gli interessi nazionali dell’Italia. In particolare, su iniziativa dell’allora ministro della Difesa Antonio Martino e con la manifesta contrarietà di Ruggiero, l’Italia uscì dal consorzio Airbus per la costruzione di un unico aereo militare da trasporto per tutte le forze armate dell’Unione. Poco dopo, invece, l’Italia si oppose all’istituzione del cosiddetto “mandato d’arresto europeo”, un’iniziativa da molti considerata come funzionale alla creazione di uno spazio giuridico europeo ma che, d’altro canto, metteva a repentaglio garanzie di rango costituzionale in un ambito quanto mai sensibile, rischiando di affievolire tutele tradizionalmente connesse alla nozione di “Stato di diritto”.

Le divergenze sulla politica europea e le tensioni emerse in seno alla maggioranza indussero Ruggiero a rassegnare le dimissioni nel gennaio 2002. B., che in tutta la vicenda aveva cercato di svolgere un ruolo di mediazione, decise allora di assumere l’interim della Farnesina che sarebbe durato 11 mesi, per dare nuovo impulso alla politica estera italiana in un momento di certo non facile della politica internazionale.

Solo quattro mesi prima c’era stato l’11 settembre, un evento destinato a cambiare la storia della politica internazionale e la sua percezione nel mondo. Con gli attacchi terroristici contro le Torri gemelle e il Pentagono, si infransero nello spazio di un mattino gran parte delle illusioni del decennio precedente circa l’instaurazione di un più equo e pacifico ordine internazionale; si aprì invece una nuova fase caratterizzata dalla cosiddetta “Guerra del terrore” e dai timori di un possibile “scontro di civiltà”. L’attacco subito spinse l’amministrazione Bush jr. a sviluppare una politica estera imperniata sulla lotta al terrorismo e ai cosiddetti “Stati canaglia”, che rivalutava la nozione dell’interesse nazionale, eventualmente anche a fronte delle determinazioni assunte da organismi sovranazionali. Di questa nuova fase la prima espressione fu la guerra contro l’Afghanistan la quale, in ogni caso, trovò l’iniziale sostegno di quasi tutti gli Stati occidentali e dell’Onu. Il governo B. si schierò immediatamente e senza esitazioni a fianco degli Stati Uniti, garantendo l’appoggio politico e militare e aderendo con convinzione alle posizioni dell’amministrazione americana. In questo frangente, B. fu inoltre testimone e propiziatore della nuova intesa strategica Nato-Russia contro il terrorismo internazionale, siglata il 28 maggio 2002 a Pratica di Mare. Sia con George W. Bush che con Vladimir Putin il premier riuscì a instaurare rapporti di collaborazione e di amicizia personale, che gli consentirono di acquisire peso e visibilità in ambito internazionale.

Se in una prima fase il filoatlantismo, che comunque rispondeva alla tradizione della politica estera italiana, non parve creare eccessive difficoltà, perché in apparenza condiviso dai maggiori partner europei, esso si rivelò ben presto, tra il 2002 e il 2003, foriero di significative divergenze, in particolare con la Francia di Jacques Chirac e la Germania di Gerhard Schröder, che si rifiutarono di condividere la strategia del governo americano mirante all’attuazione di una “guerra preventiva” contro l’Iraq di Saddam Hussein. Una volta scoppiata la guerra, Francia e Germania si fecero infatti promotrici di un documento di protesta contro l’intervento militare in Iraq, che ebbe l’effetto di portare in superficie le divisioni interne all’Unione europea, suscitando la reazione di otto paesi, tra cui l’Italia, che, in dissenso, ritennero opportuno esprimere una posizione filoamericana. Divenne chiaro allora – e lo si sarebbe compreso ancora meglio dopo la campagna elettorale congiunta di Chirac e Schröder nel referendum francese per la ratifica della nuova Costituzione europea – che l’asse franco-tedesco, storico motore dell’integrazione, non avrebbe avuto nell’Europa allargata la legittimazione a governare che aveva avuto in passato. L’Italia di B. giocò allora un ruolo determinante nel favorire il tramonto dell’asse franco-tedesco e, per questo, pagò senza dubbio lo scotto di un peggioramento nei rapporti con l’Europa, soprattutto con quella delle istituzioni comunitarie, come emerse con evidenza all’inizio del semestre italiano di presidenza della Unione europea, che si svolse tra il luglio e il dicembre 2003. Incalzato nel giugno 2003, durante il discorso inaugurale del semestre italiano, dagli attacchi e dalle accuse di alcuni membri del Parlamento europeo, il Presidente del Consiglio reagì indirizzando al vicepresidente del gruppo parlamentare socialista Martin Schulz una frase rimasta memorabile:

“Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto”.

Ancor più emblematico per il clima di tensioni venutasi a creare tra l’Italia di B. e le istituzioni europee fu l’affare Buttiglione, la cui candidatura a commissario alla Giustizia, libertà e sicurezza venne bocciata dal voto della Commissione, dopo che lo stesso Buttiglione, a ciò sollecitato, aveva espresso le sue opinioni etico-religiose sul tema della omosessualità.

Sullo sfondo, intanto, sembrava delinearsi un direttorio a tre con Francia, Germania e Regno Unito attivo sia su temi di politica estera (Iran) che su questioni comunitarie (vertice anglo-franco-tedesco di Gand dell’ottobre 2001 sulla situazione internazionale e il futuro militare dell’Europa, incontro dei tre a Berlino nel febbraio 2004 su vari temi riguardanti l’UE): un direttorio che tuttavia alla fine non riuscì a decollare, come emerse anche durante le trattative per il progetto di trattato costituzionale, evidenziando come un nuovo assetto europeo non potesse nascere attraverso una “revisione” del vecchio asse franco-tedesco che, per di più, declassasse l’Italia.

Dal luglio al dicembre 2003, l’Italia di B. si trovò così a guidare la vita dell’Unione europea in un momento oggettivamente delicatissimo: il primo semestre dopo il conflitto iracheno, quello dell’apertura della conferenza intergovernativa sui risultati della Convenzione europea, l’ultimo prima del nuovo passaggio per il Parlamento europeo che avrebbe allargato il club dell’Unione a dieci nuovi membri (v. Allargamento). Fu questa l’occasione che consentì a B. di rinnovare il tradizionale impegno europeista dell’Italia. In realtà, già in precedenza, grazie agli sforzi profusi durante i lavori della Convenzione europea, l’Italia e i suoi rappresentanti erano riusciti a dare un contributo significativo all’interno di un progetto di trattato costituzionale che, quanto meno nelle intenzioni iniziali annunciate nel Consiglio Europeo di Laeken del dicembre 2001, ambiva a: definire con chiarezza competenze e responsabilità delle istituzioni europee, semplificare l’Europa, renderla più trasparente e democratica, e più coesa, autorevole e incisiva sulla scena internazionale. Se alla fine non fu possibile trovare un accordo entro la fine del semestre di presidenza italiana ciò fu principalmente dovuto alle crescenti difficoltà di coordinamento all’interno dell’Europa a venticinque, ai dissapori tra le cosiddette “vecchia” e “nuova” Europa e all’indisponibilità di alcuni partner europei, tra cui in particolare Germania e Francia, da un lato, e Spagna e Polonia, dall’altro, a rivedere le proprie posizioni al ribasso. Alla fine del semestre B. poté comunque ritenersi soddisfatto per essere riuscito a ridimensionare i tanti giudizi negativi che avevano accompagnato fino a quel momento l’analisi della politica europea italiana e soprattutto per aver ottenuto la concessione da parte degli altri paesi membri affinché il trattato istituivo della Costituzione europea, sia pure in un momento successivo a quello inizialmente previsto, venisse firmato a Roma, in Campidoglio, cosa che puntualmente avvenne il 29 ottobre 2004. Le bocciature referendarie di Francia e Paesi Bassi ne avrebbero d’altra parte interdetto l’entrata in vigore, rivelando peraltro l’importanza della mancanza di una qualche convergenza sul concetto di identità europea nonché sulle origini, le finalità e i principi di riferimento. In particolare, mentre alcuni Stati, tra cui anche l’Italia di B., insieme alla Germania di Angela Merkel e alla Spagna di José María Aznar avevano cercato, invano, di valorizzare anche solo simbolicamente il debito di civiltà che il patrimonio storico e culturale aveva contratto con la tradizione cristiana, altri, e specialmente la Francia, sostennero l’esclusione di riferimenti alle radici cristiane. L’esito di quel dibattito come è noto fu una formula molto generica, in cui non compariva nessun richiamo alle radici giudaico-cristiane d’Europa. Dopo la bocciatura referendaria di Francia e Olanda del 2005 ci sarebbero voluti ancora due anni prima che i 27 riuscissero a raggiungere un compromesso, meno ambizioso ma ragionevolmente ispirato da un notevole grado di realismo politico.

Da questa fase convulsa, B. uscì con una linea di politica estera che segnava una contenuta rottura con il passato rivendicando, per questo, una inedita coerenza che il Presidente del Consiglio espresse con queste parole: «L’Italia non è più il Paese degli opportunismi, della volatilità in politica estera e di difesa, il Paese delle retromarce precipitose» (S. Berlusconi, Iraq, la mia linea, in «Il Foglio», 17 marzo 2005, p. 1). La tragedia di Nassiriya e la reazione che il Paese ebbe in quella tragica occasione giunsero a suggellare un nuovo modo dell’Italia d’esser presente sulla scena internazionale e di assumersi tutte le sue responsabilità.

Il 14 aprile 2008 la coalizione formata da Popolo della libertà, Lega Nord e Movimento per l’autonomia a sostegno della candidatura di B. a Presidente del Consiglio vinceva le elezioni politiche con circa il 47% dei voti, ottenendo un’ampia maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Il successivo 8 maggio, con il giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, B. inaugurava il suo quarto governo.

Il primo consiglio dei Ministri del quarto governo B. si tenne a Napoli dove l’esecutivo si trovò a dover affrontare una nuova emergenza spazzatura nella regione Campania. Una crisi che peraltro aveva caratterizzato buona parte della campagna elettorale e per la soluzione della quale B. si era personalmente impegnato. In quell’occasione il governo varò la costruzione di quattro nuovi inceneritori e l’apertura di dieci nuovi discariche, avviando in questo modo la fine di uno stato di emergenza che si protraeva dal 1994.

Ma le capacità pragmatiche e operative del capo del Governo dovevano ancora essere messe alla prova, cosa che avvenne in modo drammatico con il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 che fece più di 300 morti, migliaia di feriti e oltre circa 65.000 sfollati.

L’impegno di B. sul fronte del dopo terremoto fu molto visibile e costante, con numerose visite sui luoghi maggiormente colpiti e l’avvio di una rapida fase di costruzione di new town per accogliere i moltissimi abruzzesi rimasti senza casa, prima dell’arrivo del successivo inverno. Il culmine dell’impegno del governo sul fonte della ricostruzione fu certamente la decisione di spostare il vertice del G8, inizialmente previsto all’Isola della Maddalena, proprio nella città dell’Aquila, dove dall’8 al 10 luglio 2009 convennero le delegazioni degli 8 Grandi, oltre a molti altri leader internazionali a cui il governo italiano aveva esteso l’invito.

Il G8 dell’Aquila era stato preceduto da molte polemiche in particolare per la gestione italiana del vertice, ritenuta improvvisata e poco coerente, al punto che il quotidiano inglese “The Guardian” si spinse ad ipotizzare un accordo per espellere l’Italia dal G8 (http://www.guardian.co.uk/world/2009/jul/06/g8-considers-expelling-italy).

Furono le parole che il neoeletto Barack Obama pronunciò, incontrando nei giorni del vertice il Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, a spazzar via la gran parte delle polemiche: «L’Italia ha mostrato per il G8 una straordinaria leadership», nella preparazione del vertice in Abruzzo.

In realtà la politica estera italiana, con il ritorno di B. al governo, era tornata sotto attenta osservazione sia in USA che in Europa. In particolare, lo speciale rapporto tra B. e Vladimir Putin, da un lato, e quello con il leader libico Muhammar Gheddafi, dall’altro, era guardato con sospetto da molte cancellerie occidentali.

Inquietarono in particolare gli accordi in materia di approvvigionamento energetico che l’Italia stipulava sia con la Russia che con la Libia. Nel primo caso il governo B. decise di sostenere il gasdotto russo Southstream, in cui l’ENI entrava come partner, contro la soluzione europea sponsorizzata dagli USA del gasdotto Nabucco; nel secondo siglava un importante trattato con la Libia che, tra l’altro, avrebbe dovuto garantire e stabilizzare le forniture di gas naturale da quel paese verso l’Italia. Come spiegarono a più riprese sia B. che l’Ad di ENI, Paolo Scaroni, l’Italia era stata ammaestrata dalla crisi energetica dell’inverno 2006, quando i contrasti tra Russia e Ucraina avevano messo a rischio le forniture di gas verso molta parte dei paesi europei, Italia compresa. In questo senso la diversificazione, attraverso Southstream – che serve a bypassare l’Ucraina – e attraverso gli accordi con la Libia, doveva essere letta come coerentemente iscritta nell’interesse nazionale di un paese che, pur essendo la settima potenza industriale del mondo, è quasi interamente dipendente dalle importazioni per il suo fabbisogno energetico. E nello stesso senso, dunque, andava letto anche il rilancio da parte del quarto governo B. di un piano di sviluppo per nuove centrali nucleari in Italia.

A riportare in primo piano le presunte divergenze tra Italia e USA sui rapporti con la Russia e con la Libia furono anche i “cablogrammi” diplomatici rivelati da Wikileaks nell’inverno 2010. In molti di questi dispacci segreti veniva infatti evidenziata la preoccupazione di funzionari e diplomatici americani riguardo agli interessi italiani in quei paesi e alla particolare amicizia di B. con i loro leader. Una lettera dell’ex ambasciatore USA in Italia, Ronald Spogli, al “Corriere della Sera” del 25 febbraio 2010 avrebbe tuttavia contribuito a stemperare le molte polemiche che erano state alimentate da certi giornali vicini al centrosinistra:

«Ci sono state divergenze di opinione su alcune questioni, per lo più riguardanti la Russia, ma non solo. Nel corso degli anni, tuttavia, queste differenze sono state in gran parte superate o sono diventate irrilevanti. Ma nulla di tutto ciò – e tanto meno l’attenzione morbosa dei media su alcuni commenti espliciti contenuti nei cosiddetti cablogrammi segreti – potrà mai mettere in dubbio la stretta alleanza che accomuna l’America e l’Italia, unite nello sforzo di trovare soluzione ai più spinosi problemi del mondo. Per il suo spirito collaborativo, l’America ha un debito di gratitudine nei confronti del premier Silvio Berlusconi» (http://www.corriere.it/esteri/11_febbraio_25/spogli-lettera-grati-all-italia_4545108a-40d6-11e0-a0e9-e3433e14003f.shtml).

Anche durante il suo quarto governo, B. sembra peraltro confermare e rafforzare una tendenza fondamentale delle sue scelte in politica estera: l’aperto sostegno nei confronti di Israele in cui è incluso il diritto dello stato ebraico a garantire la sua propria sicurezza, rispetto alle linee tradizionali della politica mediorientale italiana che mirava ad un ruolo più di mediazione con i paesi arabi. Tale sostegno aveva indotto già in passato l’allora primo ministro Ariel Sharon a definire l’Italia «il miglior alleato di Israele in Europa». Significativo in questo quadro è stato il discorso di B. alla Knesset nel febbraio del 2010 – la prima volta che un Presidente del Consiglio italiano parlava davanti al parlamento israeliano – quando il premier definì «giusta» la reazione israeliana in risposta ai missili di Hamas partiti da Gaza verso Israele e rilanciò l’idea di un ingresso di Israele nell’Unione europea. In quell’occasione il presidente israeliano Shimon Peres rivolse parole di grande apprezzamento a B.: «Non è importante quello che i giornali scrivono, ma quello che gli italiani votano. E votandola, gli italiani hanno dimostrato di avere buon gusto».

Il fatto è che, se si continua a considerare le categorie politiche del Novecento, la politica estera seguita da B. – e in questo quadro la sua posizione nei confronti dell’Europa – appare difficilmente classificabile. Dal 1948 fino alla fine dei partiti storici avvenuta nel 1992, infatti, nel contesto di una sostanziale continuità atlantica, è possibile evidenziare due sensibilità: la prima, che ha come capostipite Alcide De Gasperi, la si potrebbe definire “dell’atlantismo filologico”; e l’altra, che s’inaugura proprio quando lo statista trentino esce di scena, “del revisionismo moderato”, comportando invece una maggiore disponibilità al dialogo diretto con Mosca, una particolare attenzione al mondo arabo al fine di valorizzare la vocazione mediterranea dell’Italia, la sottolineatura delle distanze culturali e geopolitiche tra l’ambito continentale e quello anglosassone. Queste sensibilità, però, hanno smarrito gran parte del loro senso con la fine dell’equilibrio bipolare: basti considerare a proposito come molte delle politiche di apertura nei confronti di Mosca e del mondo arabo perseguite da uomini quali Amintore Fanfani, Giovanni Gronchi, Enrico Mattei, considerate al limite della legittimità in vigenza di Guerra fredda, avrebbero acquisito nel mondo di oggi un differente significato. E lo stesso riferimento all’Europa, dopo gli allargamenti successivi, non può più essere declinato con la coerenza del passato.

In questo mutato contesto, la politica estera di B. appare come una sintesi inedita delle linee che hanno attraversato il periodo repubblicano dal 1948 al 1992: sul tronco di un indiscusso atlantismo, si sono innestate alcune “aperture” revisionistiche verso la Russia e il mondo arabo, coerenti con l’interesse nazionale e in grado di qualificare in modo peculiare la posizione dell’Italia in un ambito europeo ormai privo dei vecchi assi d’orientamento. Questa inedita prospettiva impedisce allo storico giudizi scontati, al di là del segno che ad essi si vorrebbe assegnare. E impone d’attendere che il tempo faccia il suo corso, per far sedimentare il senso effettivo di scelte innovative in un equilibrio mondiale che continua a modificarsi.

Gaetano Quagliariello (2010)


1. Why Berlusconi is unfit to run Italy era stato il titolo di una velenosa copertina dell’Economist alla vigilia delle elezioni politiche del 2001.

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