Carter, James Earl

“Jimmy” C. (Plains, Georgia 1924) frequentò le scuole pubbliche di Plains e in seguito si iscrisse al Georgia Southwestern College e al Georgia Institute of Technology; nel 1946 si diplomò presso la United States Naval Academy di Annapolis, in Maryland. Durante il servizio in Marina, C. fu scelto per far parte del gruppo che lavorava al programma nucleare. Laureatosi in fisica nucleare presso l’Union College di Schenectady, nello stato di New York, prestò poi servizio sul sottomarino nucleare Sea Wolf. Nel 1953, a seguito della morte del padre, C. rassegnò le dimissioni dalla Marina, fece ritorno a Plains e prese a occuparsi dell’azienda agricola di famiglia, dimostrando notevoli attitudini imprenditoriali.

Risalgono a questo periodo gli esordi nella carriera pubblica e le prime esperienze nella politica locale di C. Fin da allora si distinse per le idee liberali e l’opposizione alla segregazione razziale che dominava in quegli anni il sud degli Stati Uniti: rifiutò di aderire al Comitato creato dalla comunità bianca di Plains per opporsi alla decisione della Corte suprema statunitense che aveva dichiarato incostituzionale la segregazione nelle scuole pubbliche, e subì per questa ragione il boicottaggio della sua attività economica; appoggiò in seguito un programma scolastico che, sospettato di favorire l’integrazione, fu sospeso dalle autorità locali.

La determinazione a intraprendere la carriera politica era ormai maturata, e C. presentò la propria candidatura alla carica di senatore dello Stato nelle elezioni del 1962, che vinse. Riconfermato nelle successive elezioni, fu senatore della Georgia fino al 1966, quando si candidò per la carica di governatore; sconfitto nelle primarie del Partito democratico, si ripresentò quattro anni più tardi. Ottenne la candidatura da parte del partito, che lo preferì al governatore uscente, Carl Sanders, e fu eletto nel novembre successivo. Come governatore della Georgia, sin dal discorso inaugurale C. pose al centro della sua azione la questione razziale e i diritti civili, sia attraverso atti simbolici (affisse nell’edificio che ospita il governo federale un ritratto di Martin Luther King), sia favorendo l’ingresso di afroamericani nella pubblica amministrazione. Procedette inoltre alla riorganizzazione delle strutture del governo locale e riformò la gestione del bilancio dello Stato; dimostrò inoltre una particolare sensibilità per il problema della trasparenza del dibattito politico, inaugurando un sistema che prevedeva la pubblicità delle riunioni di gabinetto, e per le tematiche legate alla salvaguardia dell’ambiente; si schierò a favore della reintroduzione della pena di morte.

Concluso il quadriennio da governatore, C. ricevette una preziosa opportunità di esporsi alla ribalta nazionale e internazionale con l’invito a far parte della Commissione trilaterale: fondata da David Rockfeller, presidente della Chase Manhattan Bank, essa riuniva influenti uomini di affari, accademici e politici e, in contrapposizione alla politica di Henry Alfred Kissinger, propugnava il dialogo tra gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone e la valorizzazione della dimensione economica della collaborazione.

Il 12 dicembre 1974 C. annunciò la propria intenzione di correre per la presidenza nelle successive elezioni. Durante la Convenzione del Partito democratico, svoltasi nel 1976 a New York, forte del sostegno dei delegati del Sud, ottenne la nomination e scelse il senatore del Minnesota, Walter Mondale, come candidato alla vicepresidenza, assicurandosi in tal modo l’appoggio dei settori liberal del Nord. C. si affacciava alla competizione elettorale, che lo opponeva al presidente in carica Gerald Ford, senza alcuna esperienza significativa di governo nazionale e dopo aver seguito un cursus honorum inusuale: era dunque sconosciuto a gran parte dell’opinione pubblica e dell’elettorato, tanto che si coniò per lui il soprannome Jimmy Who? Egli seppe però trasformare il suo più evidente limite in una preziosa risorsa: facendo leva sul diffuso disincanto e sulla sfiducia dell’opinione pubblica statunitense nei confronti del governo federale, alimentati dalla guerra del Vietnam, dalla vicenda del Watergate e dalla crisi economica, enfatizzò la propria estraneità al sistema e propose una nuova politica. La “questione morale”, l’impegno alla trasparenza e alla gestione efficiente del governo nazionale, la riforma del budget e la decentralizzazione furono al centro della campagna elettorale del candidato democratico. Tra i temi affrontati, la politica estera rivestì un’importanza cruciale. Anche a questo proposito, C. espresse un netto rifiuto della Realpolitik che aveva caratterizzato gli anni delle amministrazioni repubblicane di Richard Nixon e Gerald Ford. Nel bicentenario dell’indipendenza, e dopo gli scandali che avevano avvelenato la vita politica statunitense, C. si fece interprete della necessità di rinsaldare la fiducia del popolo americano nel proprio sistema di valori e nel “destino manifesto”. Secondo C., gli Stati Uniti erano stati eccessivamente condizionati dalla paura del comunismo che li aveva spinti a sostenere governi dittatoriali e sanguinari purché presentassero garanzie di anticomunismo. Al contrario, egli proponeva una politica estera fondata sulla difesa dei Diritti dell’uomo. Ribadì inoltre la necessità di procedere lungo la politica del disarmo intrapresa dal Nixon e Kissinger, e sostenne l’urgenza di negoziare una nuova intesa sulla riduzione degli armamenti nucleari, lo Strategic arms limitation talks (SALT) II, migliorando l’accordo raggiunto da Ford e da Leonid Brežnev nel 1974: si trattava, con tutta evidenza, di proposte in parte contraddittorie, che presupponevano una politica ambivalente nei confronti dell’Unione Sovietica, pressata sul piano dei diritti umani e riconosciuta come interlocutore affidabile nei negoziati per la riduzione degli armamenti nucleari. Cogliendo il disagio suscitato dalla condotta di Nixon, C. aveva inoltre annunciato di voler migliorare i rapporti con gli alleati europei, e si era impegnato ad abbandonare la politica unilaterale e a consultarli sulle materie di comune interesse. Sotto questo profilo, la precedente militanza di C. e del consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski nella Commissione trilaterale e la scelta di inviare all’indomani del giuramento il vicepresidente Mondale in visita ufficiale presso le capitali europee sembravano garantire una maggiore attitudine al confronto. Sul piano dei rapporti con la Comunità economica europea, ancor più significativa apparve la visita compiuta dallo stesso C. presso la Commissione europea: Nixon e Kissinger avevano accettato di consultare regolarmente la presidenza del Consiglio europeo, segnalando in tal modo la disponibilità al dialogo con l’istituzione rappresentativa dei governi; al contrario, la scelta di recarsi in visita presso la sede della Commissione europea a Bruxelles indicava un nuovo atteggiamento, confermato dall’impegno assunto in quell’occasione a incoraggiare gli sviluppi dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Altrettanto promettenti sembravano l’invito rivolto alla Commissione a partecipare agli annuali incontri del G 7 e la fine dell’ostinata opposizione alla Politica agricola comune (PAC) della Comunità economica europea, che favorì il corso dei negoziati del Tokyo Round e la conclusione dell’accordo nel 1979.

Nonostante simili premesse, C. non fu in grado di fornire un supporto attivo all’integrazione: come ha osservato Geir Lundestand, è significativo che le memorie di C., del segretario di Stato Cyrus Vance e di Brzezinski non contengano alcun cenno all’Europa comunitaria (v. Lundestad, 1998). Le tiepide relazioni con le Istituzioni comunitarie erano la conseguenza e il riflesso delle relazioni tra gli Stati Uniti e gli alleati europei, che furono attraversate da profonde tensioni, determinate dalle gravi divergenze emerse a proposito delle principali scelte dell’amministrazione. Anzitutto, la politica di C. nei confronti dell’Unione Sovietica suscitò il disappunto e il dissenso dei governi europei. Nel primo biennio tale politica fu sostanzialmente coerente rispetto agli impegni assunti durante la campagna elettorale. C. non risparmiò al governo di Mosca aspre critiche a causa delle violazioni dei diritti umani, e sostenne apertamente la causa dei dissidenti politici, spingendosi ai limiti dell’ingerenza negli affari interni, ma parallelamente proseguì i negoziati avviati per un accordo sulla limitazione degli armamenti nucleari. A partire dal 1979, di fronte alla ripresa della collaborazione militare con Cuba e all’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica, prevalse all’interno dell’amministrazione statunitense la linea di Brzezinski, fautore di una politica di fermezza: venne dunque enunciata pubblicamente la “dottrina C.”, che estendeva l’area degli interessi vitali degli Stati Uniti al Golfo Persico; il presidente chiese al Congresso di procrastinare, di fatto di sospendere sine die, la ratifica del trattato SALT, decise il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca e impose sanzioni economiche che prevedevano restrizioni al diritto di pesca in acque costiere statunitensi, un embargo sui cereali e la sospensione degli scambi che comportavano il trasferimento di tecnologia all’Unione Sovietica.

Gli europei, e in particolare il governo francese e quello tedesco, denunciarono nella prima fase il carattere “ideologico” e di inutile provocazione che la politica dei diritti umani assumeva nei confronti dell’Unione Sovietica, e il rischio che comportava di compromettere la distensione. Ugualmente critico fu il giudizio nei confronti della politica di maggiore fermezza adottata dall’amministrazione C. dal 1979. In particolare, la prospettiva di una risposta comune dell’occidente all’invasione sovietica dell’Afghanistan, sollecitata dagli Stati Uniti, era minata dalla sensibile differenza nella percezione e nella valutazione dell’azione sovietica: gli americani vi leggevano un’espressione della volontà espansionistica già emersa alla metà degli anni Settanta in Africa, mentre gli europei tendevano a considerarla nel quadro della politica regionale, come una scelta dettata dalla necessità di allontanare la minaccia che il fondamentalismo religioso di matrice islamica si diffondesse nelle repubbliche musulmane dell’Unione. Nemmeno l’accordo SALT II, firmato a Vienna nel giugno 1979, fu comunque esente da critiche: da un lato gli europei temevano che la neutralizzazione reciproca degli arsenali nucleari potesse compromettere la credibilità del deterrente statunitense; dall’altro evidenziavano come i limiti imposti dal trattato autorizzassero una nuova corsa agli armamenti piuttosto che vietarla; infine, il cancelliere tedesco Helmut Schmidt sottolineò che il SALT II ometteva ogni riferimento ai missili a media gittata che minacciavano l’Europa. I contrasti più insidiosi e profondi emersero, in seno all’Alleanza atlantica, proprio sul piano della politica di difesa. I timori che gli Stati Uniti volessero procedere a un disimpegno dall’Europa furono riacutizzati dal dibattito, divenuto di pubblico dominio, relativo all’inadeguatezza dell’apparato di difesa convenzionale della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), né furono ridimensionati dalla decisione di C. di avviare un ampio programma di riarmo a lungo termine, che contravveniva agli impegni assunti in campagna elettorale. Ulteriori tensioni furono provocate dalla incerta e ondivaga risposta dell’amministrazione C. all’installazione dei missili SS 20 da parte dell’Unione Sovietica, che provocò nei confronti del governo statunitense l’immeritata accusa di mantenere un atteggiamento di benign neglect verso gli alleati europei: dapprima C. annunciò di voler autorizzare la produzione della bomba a neutroni, quindi sollecitò gli alleati a concedere preventivamente il proprio assenso, e infine ritirò la proposta; in seguito, la decisione di dislocare missili Cruise e Pershing II in Europa assunta durante il vertice NATO del dicembre 1979, se da un lato rassicurò i governi europei, dall’altro li pose in una posizione difficile a causa del diffuso movimento antinucleare. Indicativa della tensione che caratterizzava i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa negli anni dell’amministrazione C. fu inoltre la vicenda della fornitura di uranio arricchito: nell’ambito di una politica volta ad arginare i rischi di proliferazione nucleare, gli Stati Uniti denunciarono nel 1978 un accordo precedentemente concluso con la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) e chiesero di rinegoziarne i termini, ma si dovettero confrontare con il netto e compatto rifiuto da parte dei governi europei. Il Medio Oriente e il Golfo Persico furono teatro del maggiore successo – gli accordi di Camp David – e della più scottante sconfitta della presidenza C. – la caduta dello scià, l’ascesa di Khomeini, il sequestro del personale dell’ambasciata americana di Teheran e il fallimento del tentativo di trarre in salvo gli ostaggi. Anche questi aspetti della politica carteriana diedero luogo a incomprensioni, e addirittura contribuirono ad accrescere la distanza, tra i governi europei e l’amministrazione statunitense. Invero, nei primi anni della presidenza di C., la sua politica mediorientale era parsa favorire una convergenza: dichiarandosi in favore di una homeland per il popolo palestinese, il presidente statunitense sembrava propenso a abbracciare una linea prossima a quella da tempo adottata dalla Comunità economica europea; al contrario, la dichiarazione finale del Consiglio europeo di Venezia, in cui gli Stati della Comunità affermarono il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, provocò una brusca reazione da parte dell’amministrazione C. e il raffreddamento dei rapporti. In relazione alla crisi iraniana, il governo statunitense rimproverò agli alleati europei la scarsa solidarietà dimostrata.

L’influenza della politica carteriana sul processo di integrazione europea fu indiretta e involontaria, per quanto profonda e duratura: per risolvere la crisi economica mondiale, l’amministrazione C. adottò una politica espansiva e, confidando che la ripresa potesse essere trainata dalle tre locomotive, Giappone, Stati Uniti e Germania, esercitò notevoli pressioni sul governo di Bonn affinché abbandonasse la tradizionale politica restrittiva basata sul contenimento dell’inflazione a favore di una strategia di deficit-spending. L’insistenza del governo statunitense e il rifiuto tedesco provocarono una profonda spaccatura tra i due paesi. Di fronte alla crisi nei rapporti con il tradizionale alleato, e al rischio di isolamento che ne conseguiva, il cancelliere tedesco Schmidt rafforzò l’asse con la Francia, e impresse alla politica europea l’accelerazione che condusse all’accordo istitutivo del Sistema monetario europeo.

Concluso il mandato, nonostante le difficoltà legate all’insuccesso nella gestione della crisi degli ostaggi in Iran e alla perdurante crisi economica, e malgrado i sondaggi indicassero un diffuso malcontento nei confronti del suo operato, C. si candidò alle elezioni presidenziali, e alla Convenzione nazionale ottenne l’investitura da parte del Partito democratico.

A seguito della sconfitta elettorale subita a opera di Ronald Reagan nel novembre del 1980, C. si ritirò dalla politica attiva, ma non rinunciò all’impegno pubblico. Oltre che nell’insegnamento presso l’Università di Atlanta, C. si impegnò in numerose fondazioni, e istituì il Carter Center con l’obiettivo di contribuire a sostenere la causa dei diritti umani, promuovere la democrazia e risolvere i conflitti; negli anni Novanta condusse, su mandato del Presidente Bill Clinton, delicate mediazioni nelle crisi di Haiti e della Corea del Nord.

In considerazione dell’azione svolta attraverso la sua fondazione, C. fu insignito nel 2002 del Premio Nobel per la pace.

Daniela Vignati (2009)