Comunità europea del carbone e dell’acciaio

Nascita della Comunità

La fondazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) ha rappresentato per l’Europa una svolta storica, segnando l’avvio del processo d’integrazione comunitaria e il superamento del dissidio franco-tedesco. Ideata da Jean Monnet, proposta da Robert Schuman e istituita col Trattato di Parigi firmato il 18 aprile 1951, è la prima organizzazione europea di carattere sovranazionale (art. 9).

Alla fine degli anni Quaranta, il problema che più di ogni altro spinse gli europei a operare a favore dell’unità fu il futuro della Germania, attraverso il quale passava il mantenimento della pace sul continente. Questo paese era il caposaldo più avanzato ed esposto sul fronte del nuovo conflitto di potenza determinato dalla divisione del mondo in due zone d’influenza, il punto di maggior debolezza dello schieramento occidentale, ma la sua ricostruzione era controversa. Entrati rapidamente nell’ottica del bipolarismo, gli americani avevano cominciato da tempo a chiedere la normalizzazione della situazione tedesca e l’inserimento della Germania federale negli organismi di collaborazione europea. Questa politica suscitava profondi contrasti in Francia, dove la paura di un’eventuale nuova aggressione da parte tedesca si traduceva nella resistenza ad acconsentire a qualsiasi accordo che permettesse alla Germania di riappropriarsi delle due grandi basi della propria potenza: l’economia – in particolare l’industria pesante renana, la chiave della potenza economica e dell’arsenale bellico – e l’esercito. Non è certo casuale che i primi due progetti di Comunità europea sovranazionale – la CECA e la Comunità europea di difesa (CED) – riguardassero proprio questi due settori.

Avendo dovuto rinunciare ai suoi piani di smembramento della Germania e dovendo confrontarsi con una superiorità tedesca indiscussa nella produzione di acciaio, la Francia aveva concentrato i suoi sforzi sulla Saar – che non era compresa nella sua zona di occupazione, ma le era stata affidata in amministrazione fiduciaria e con la quale aveva stretto un’unione doganale e monetaria – e sulla Ruhr, ottenendo la creazione di un’Autorità internazionale della Ruhr, nell’aprile del 1949, le cui funzioni erano quelle di ripartire la produzione del bacino tra consumi interni ed esportazioni.

A più di quattro anni dalla fine della guerra, l’enorme fabbisogno francese di carbone tedesco non bastava più a giustificare un sistema di dominazione. Il governo francese, tuttavia, che mirava a porsi come centro nevralgico della ricostruzione europea, si ostinava a voler mantenere controlli sull’economia tedesca per evitare il ritorno all’insicurezza degli approvvigionamenti vitali di carbone e coke e quindi la subordinazione della siderurgia francese a quella tedesca. Nel 1950 si giunse a un momento di grave tensione, quando la Francia intensificò gli sforzi per staccare politicamente ed economicamente la Saar dalla Germania. In marzo, mentre Konrad Adenauer aveva proposto che le decisioni sul destino della Saar fossero rinviate al momento della stipulazione del trattato di pace con la Germania, governo della Saar e governo francese avevano firmato un protocollo che sanzionava il controllo cinquantennale della Francia sulle miniere della Saar e in cui si auspicava l’ingresso della regione nel Consiglio d’Europa. Quanto alla Ruhr, l’Autorità internazionale appariva ai francesi insufficiente, dal momento che non controllava le concentrazioni industriali e i piani di equipaggiamento e produzione e non prevedeva il diritto di veto, quindi la possibilità di opporsi a nuove richieste tedesche di aumentare la produzione di acciaio. I tedeschi, a loro volta, essendo gli unici ad essere sottoposti a controlli, consideravano l’autorità internazionale della Ruhr discriminatoria.

La situazione era critica. Di fronte alla richiesta tedesca di aumentare la produzione di acciaio da 11 a 14 milioni di tonnellate, la Francia avrebbe rifiutato, ma gli americani avrebbero appoggiato la richiesta. Così, pur con riserve, la Francia avrebbe dovuto cedere. Le conseguenze erano facilmente immaginabili e Jean Monnet le descrive nelle sue memorie con grande incisività, dimostrando come problema economico e problema politico fossero strettamente intrecciati. L’economia tedesca si sarebbe sviluppata, creando le premesse per il dumping tedesco all’esportazione; gli industriali francesi, a loro volta, avrebbero fatto domanda di protezione, riportando la Francia sulla via di una produzione limitata e fortemente protetta; ciò avrebbe arrestato il processo di liberalizzazione degli scambi in corso nell’Europa occidentale a partire dall’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE); si sarebbero ricreati i cartelli d’anteguerra, ricadendo nelle logiche perverse del primo dopoguerra.

Questi erano i termini congiunturali di una sfida a più ampio raggio: quella di creare un legame tra Francia e Germania capace di neutralizzare le due maggiori fonti della potenza tedesca, l’industria pesante renana e l’esercito, e metterle a disposizione di una ricostruzione europea in cui la Francia avrebbe svolto un ruolo di primo piano. Ciò, a maggior ragione, in conseguenza dei mutati rapporti politici e militari verificatisi nel mondo alla fine del 1949, con il riconoscimento statunitense della special relationship con la Gran Bretagna (v. Regno Unito).

Il Piano Schuman

Occorreva una rivoluzione copernicana nei rapporti tra gli Stati europei. Fu Jean Monnet a proporla con un’iniziativa originale, non riconducibile a quei cartelli internazionali che pure ebbero un ruolo importante nella regione nel periodo tra le due guerre e di cui è stata sottolineata l’influenza positiva nell’avvio della prima Comunità, per la persistenza almeno a livello personale, al di là della guerra, dei legami che si erano creati tra gli ambienti siderurgici francesi e tedeschi.

Il Piano Schuman, come sottolinea Klaus Schwabe, fu un geniale compromesso fra il desiderio della Francia – che mirava a riottenere una posizione centrale in Europa – di continuare a controllare la Germania e lo sforzo tedesco di ottenere pari diritti e autonomia.

Per superare l’ostacolo occorrevano idee nuove, che rovesciassero gli schemi obsoleti d’anteguerra; il vicino, il nemico del passato, nel nuovo contesto geopolitico del bipolarismo doveva diventare il naturale partner del futuro. Una soluzione che mettesse l’industria francese sulle stesse basi di partenza dell’industria tedesca, eliminando la paura della dominazione industriale tedesca e liberando la Germania, a sua volta, dalle discriminazioni nate con la sconfitta, avrebbe ristabilito le condizioni economiche e politiche di un’intesa indispensabile all’Europa. Ma Monnet si spinse ancor più avanti, creando le premesse per l’avvio di una nuova fase della storia europea: il processo di unificazione.

In vista dell’incontro, fissato per il 10 maggio 1950 a Londra, tra il ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, il ministro degli Esteri britannico, Ernest Bevin, e il segretario di Stato americano, Dean Acheson, per sciogliere il nodo tedesco, il 28 aprile Jean Monnet indirizzava al Presidente del Consiglio francese, Georges Bidault, e allo stesso Schuman un memorandum in cui proponeva di creare un’autorità specializzata sovranazionale con poteri limitati al settore della produzione del carbone e dell’acciaio. Egli non nascondeva il proprio obiettivo: «questa proposta – affermava – realizzerà le prime assise concrete di una federazione europea indispensabile a preservare la pace» (v. Monnet, 1988, p. 353). In un secondo memorandum, datato 3 maggio, egli spiegava la propria teoria, gradualistica, ma nel contempo “radicale”, evidenziando che il problema dell’organizzazione europea avrebbe potuto essere affrontato e risolto soltanto con «un’azione risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi». Così si sarebbe potuto dare ai popoli dei paesi “liberi” un motivo di speranza per il futuro, suscitando in essi l’attiva determinazione di perseguirli (v. Federalismo; Funzionalismo).

Nel giro di pochi giorni, il progetto di Monnet trovava il consenso di Schuman, del Consiglio dei ministri francese e del cancelliere tedesco, Konrad Adenauer. Formalmente presentato da Schuman al Salone dell’Orologio, il 9 maggio, provocava una vivace irritazione in Bevin e sostegno in Acheson.

La prima Comunità europea era ormai abbozzata. L’avvenimento era epocale, poiché inseriva nel contesto della politica mondiale un soggetto nuovo: l’Europa integrata, sia pure solo parzialmente, tanto sotto il profilo territoriale quanto sotto quello politico (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

Per studiare il progetto e attuarlo venne convocata a Parigi, il 20 giugno 1950, una Conferenza diplomatica (v. Conferenze intergovernative) cui aderirono Francia, Repubblica federale di Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, mentre il Regno Unito, dove il governo era impegnato a nazionalizzare carbone e siderurgia e diffidava delle visioni liberiste, non intendendo mettere in comune le proprie risorse e subordinarle a un’Alta autorità con poteri sovrani come il progetto di Monnet prevedeva, declinava l’invito. L’impegno richiesto dissipava ogni equivoco sul concetto di unità europea e indicava con chiarezza quali Stati intendevano agire concretamente a favore dell’unificazione. Si determinava così una nuova limitazione dell’Europa del “possibile”, attraverso una scissione tra quei paesi – i Sei – che erano disposti ad andare avanti sul piano inclinato dell’unificazione sovranazionale e quelli – Regno Unito, paesi Scandinavi – che non erano ancora pronti a rinunce di sovranità.

I lavori della Conferenza diplomatica: contrasti e problemi

Presieduta da Monnet, la Conferenza era composta da 60 delegati in rappresentanza dei sei paesi aderenti. Le delegazioni erano guidate da Max Suetens (Belgio), Dirk Spierenburg (Paesi Bassi), Albert Wehrer (Lussemburgo), Walter Hallstein (Repubblica federale di Germania), Paolo Emilio Taviani (Italia). Monnet avrebbe voluto un negoziato breve, di poche settimane, con l’obiettivo d’installare un’Alta autorità che avrebbe provveduto poi a risolvere le questioni tecniche. Le resistenze dei rappresentanti del Benelux lo impedirono, facendo prolungare i lavori, che si articolarono in gruppi e sottogruppi.

I lavori della Conferenza, cui è indubbio che la guerra di Corea impresse una notevole accelerazione a causa del riarmo e della conseguente impennata della domanda di prodotti siderurgici, possono essere sintetizzati in tre fasi: la discussione del Document de travail di 40 articoli predisposto da Monnet (giugno), l’elaborazione dei contenuti del Trattato all’interno dei gruppi di lavoro (luglio-ottobre), la preparazione del testo da sottoporre ai governi (novembre-dicembre).

Il punto di maggior contrasto – cui era collegato, sul coté economico, lo scontro tra concezione dirigistica e liberistica della nuova Comunità – furono i poteri da affidare all’Alta autorità. Furono soprattutto Suetens e Spierenburg a volerne arginare i poteri decisionali, sostenendo la costituzione e il primato di un organo di rappresentanza intergovernativa: il Consiglio dei ministri. Ma anche la Germania federale era favorevole a circoscrivere la libertà d’azione dell’Alta autorità in materia di investimenti. Nasceva così il metodo comunitario, non caratterizzato, come avrebbe voluto Monnet, da accentramento decisionale, bensì da un articolato dialogo istituzionale.

Il problema più spinoso e che più a lungo rimase sul tappeto riguardava la legislazione antitrust, che rappresenterà per certi versi, con i suoi articoli 65 e 66, il fiore all’occhiello della Comunità.

Vale la pena di ripercorrerne la genesi. Il primo straniero ad essere informato del Piano Schuman, due giorni prima della sua presentazione ufficiale, era stato Dean Acheson, di passaggio a Parigi il 7 maggio. La sua reazione è importante per comprendere l’impegno di Monnet nel dare un’impostazione anticartellistica al Piano. Acheson, infatti, faticò a intuire la portata del progetto e non ne fu particolarmente entusiasta, sospettando che nascondesse la creazione di una sorta di grande cartello del carbone e dell’acciaio, un desiderio nostalgico degli industriali europei. Egli inoltre temeva che l’Antitrust division del Department of justice potesse incoraggiare commenti critici al progetto. Il malinteso fu presto chiarito, ma Monnet si ripropose da quel momento di vigilare per allontanare anche solo il sospetto che la Comunità avesse l’obiettivo di creare un cartello. Da gennaio a marzo del 1951, l’attenzione della Conferenza fu quindi focalizzata sul piano di decartellizzazione e smembramento delle industrie di carbone e acciaio tedesche.

Il grande fautore della decartellizzazione, da parte americana, fu l’Alto commissario americano John McCloy. Mc Cloy era amico di Monnet e ne condivideva le posizioni: era convinto che nessuna organizzazione europea sarebbe stata possibile se la Germania avesse mantenuto posizioni industriali di predominio. Al suo fianco era Robert Richardson Bowie, un giovane professore della Harvard University, che a quei tempi assisteva McCloy nell’amministrazione dell’Autorità internazionale della Ruhr e che era considerato il miglior specialista di legislazione antitrust negli USA. Bowie era stato incaricato da McCloy di por mano alla legge 27, una ordinanza adottata dall’Alta commissione alleata per metter fine alla concentrazione dell’industria tedesca di carbone e acciaio. Monnet chiese a lui di redigere gli articoli antitrust per il Trattato della CECA.

Le prime proposte vennero presentate il 27 ottobre e suscitarono una reazione immediata. Gli ambienti dirigenti tedeschi, in particolare, faticavano ad accettare i poteri che l’Alta autorità (indipendente dai governi) avrebbe avuto in materia di antitrust. Il problema, in effetti, era quello di spezzare le eccessive concentrazioni delle industrie siderurgiche e carbonifere della Ruhr, dove i vecchi cartelli che erano stati alla base della potenza militare del Reich tedesco si stavano naturalmente ricostituendo. Gli americani, sensibili alle tematiche del libero scambio, chiedevano che l’organizzazione unica di vendita del carbone tedesco – il famoso DKV Deutsche Kohle-verkaufs Gesellschaft (DKV) perdesse la sua struttura di monopolio e che le industrie dell’acciaio non possedessero più miniere di carbone. Si trattava di una misura che avrebbe toccato il cuore della potenza della Germania. Non si poteva realizzare sul continente un equilibrio tra gli Stati se i magnati della Ruhr avessero continuato a gestire l’intera produzione di carbone, necessaria sia alla loro industria che a quella dei francesi. Se i proprietari di coke della Ruhr avessero ripreso il controllo della produzione degli altiforni francesi, l’insicurezza sarebbe di nuovo regnata in Francia. Si giunse infine a un compromesso, che distingueva tra “good” and “badcartel, prevedendo la possibilità per prodotti determinati e in casi eccezionali di «accordi di specializzazione o accordi d’acquisto o di vendita in comune» (art. 65).

Dopo la liberazione, nel febbraio 1951, di Alfred Krupp, condannato al processo di Norimberga a 12 anni di carcere, il governo tedesco avanzò proposte ragionevoli in tema di antitrust: i 12 ex trust dell’acciaio sarebbero stati smembrati in 28; il DKV sarebbe stato soppresso entro il mese di ottobre 1952 così come gli organismi dello stesso tipo; le compagnie siderurgiche non avrebbero potuto possedere miniere di carbone se non per il massimo del 75% delle loro necessità. Queste proposte furono approvate all’unanimità dagli Alleati a condizione che il Piano Schuman entrasse in vigore. Il piano di decartellizzazione venne infine accettato da Adenauer, il 14 marzo. Gli articoli 71, 72, 73, 74 e 75 relativi alla politica commerciale, poi, prevedevano con chiarezza libertà di scambio anche con i paesi esterni. In realtà le politiche antitrust avrebbero dimostrato scarsa aggressività. Presto i gruppi tedeschi si sarebbero riconcentrati, seppur sotto forme diverse, permettendo in breve alla siderurgia tedesca di recuperare la propria leadership.

Disposizioni del Trattato e compiti della CECA

Nonostante i numerosi problemi affrontati, la Conferenza di Parigi si concluse rapidamente. Il progetto di trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio fu parafato il 19 marzo e firmato il 18 aprile 1951. Il Trattato constava di 100 articoli, tre allegati (riguardanti, rispettivamente, l’individuazione dei prodotti assoggettati al regime CECA, la regolamentazione del mercato del rottame, quella degli acciai speciali) e tre protocolli concernenti privilegi e immunità della Comunità, Statuto della Corte di giustizia, relazioni con il Consiglio d’Europa. Erano inoltre annesse al Trattato le lettere tra Adenauer e Schuman circa il territorio della Saar. C’era infine una Convenzione relativa alle disposizioni transitorie, inserite per venire incontro alle richieste di tutela e sovvenzioni speciali da parte dei settori più deboli della Comunità (miniere belghe, siderurgia italiana).

Il Trattato prevedeva la creazione di un mercato comune del carbone e dell’acciaio, la libera circolazione delle merci con divieto di aiuti di Stato, discriminazioni e pratiche restrittive. Tra i compiti della CECA vi erano: assicurare un’offerta stabile di carbone e acciaio sul mercato, garantire equo accesso alle fonti di produzione per tutti i consumatori e una razionale distribuzione, favorire l’espansione, la modernizzazione e l’aumento della produzione, monitorare i prezzi, promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera del settore carbosiderurgico.

Nel preambolo, le Alte parti contraenti si dicevano risolute a creare «la prima assise d’una comunità più vasta e più profonda tra popoli per lungo tempo opposti da divisioni sanguinose» e a «porre le basi di istituzioni capaci di indirizzare un destino oramai comune».

I Sei conferivano a istituzioni comuni, di carattere sovranazionale, tutti i poteri in materia di carbone e acciaio (v. anche Istituzioni comunitarie). Le istituzioni chiamate a gestire le nuove competenze comunitarie erano: un’Alta autorità, composta di nove membri nominati dagli Stati per un periodo di sei anni, ma indipendenti nell’esercizio delle loro funzioni, con sede nominalmente provvisoria a Lussemburgo, che avrebbe svolto una funzione esecutiva; un Consiglio dei ministri, composto dai rappresentanti dei governi degli Stati membri e incaricato di armonizzare l’azione dell’Alta autorità con quella degli Stati; un’Assemblea comune (v. anche Parlamento europeo), formata da rappresentanti nominati dai parlamenti nazionali con poteri “di controllo” (unico potere: censurare il resoconto annuale dell’Alta autorità); una Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), formata da sette giudici nominati dai governi e incaricata di assicurare il rispetto del diritto nell’applicazione e interpretazione delle norme del Trattato. L’Alta autorità era assistita da un Comitato consultivo, aperto alle categorie produttrici e agli utilizzatori (v. Comitati e gruppi di lavoro).

Il Trattato istitutivo della CECA entrò in vigore il 25 luglio 1952, con lo scambio dei documenti di ratifica. L’Alta autorità entrò in funzione il 10 agosto 1952 e rimase in vita fino al 1967 quando, con la fusione degli esecutivi, le sue prerogative furono assunte dalla Commissione delle Comunità europee (v. anche Commissione europea). In questi anni ebbe cinque presidenti: Jean Monnet, René Mayer, Paul Finet, Piero Malvestiti, Rinaldo Del Bo (detto Dino).

Il 10 febbraio 1953 si apriva il mercato comune per il carbone, il minerale di ferro e il rottame, in maggio quello dell’acciaio. L’eccezione più importante era rappresentata dall’Italia, a cui fu concesso di proteggere la propria siderurgia con barriere doganali decrescenti per un periodo transitorio, sino al 1958.

L’applicazione del Trattato dovette scontrarsi nel tempo con molti ostacoli. Le finalità federaliste previste da Monnet e la speranza di un rapido percorso federalista dovettero fare i conti, da un lato, con la difficoltà pratica di far funzionare un organismo sovranazionale che si doveva sovrapporre a pratiche nazionali molto diverse, dall’altro, con l’ingerenza degli Stati nazionali, sia attraverso l’azione frenante del Consiglio dei ministri, sia attraverso quella di alcuni membri dell’Alta autorità. Fu la forza dei nazionalismi a produrre l’incapacità di gestire a livello comunitario la crisi dell’industria carbonifera belga iniziata nel 1958, che finì con l’affrettare il declino dell’industria carbonifera europea. Altri limiti derivavano dall’integrazione parziale e dall’impossibilità di agire in campi contigui a quelli dei carbone e acciaio, quali trasporti, politiche energetiche, politiche commerciali.

La CECA introdusse tuttavia nuove regole e standard nei mercati carbosiderurgici europei: liberalizzazione dei mercati, definizione di pratiche concorrenziali più trasparenti, politiche sociali, incentivi alla ricerca e agli investimenti.

Successo e conclusione dell’esperienza della prima Comunità

Tra il 1953 e il 1957, la Comunità, godendo di una congiuntura economica favorevole, conobbe un incremento produttivo nell’industria siderurgica pari al 50%. Se non è facile stabilire in quale misura esso sia imputabile direttamente alla CECA, è un fatto che essa ne favorì l’ampiezza, agendo anche efficacemente sul meccanismo delle aspettative e sul vertiginoso aumento delle relazioni commerciali. Negli anni Sessanta, sia nel campo del carbone sia in quello della siderurgia, emersero problemi di sovrapproduzione e difficoltà. Il momento di massima efficacia del Trattato CECA può essere individuato nella gestione della lunga crisi siderurgica europea apertasi a metà anni Settanta e culminata fra il 1980-1985, fino al 1988. La Commissione si assunse il compito di guidare il processo di ristrutturazione (fissare prezzi, allocare quote alle imprese), tagli, riconversioni produttive, ma anche aiuti pubblici alle imprese, regolamentati da Bruxelles attraverso un codice specifico. Ciò evitò la guerra di tutti contro tutti. La Commissione fu in grado di pilotare in modo graduale il drastico ridimensionamento del settore, con misure di aiuto ai lavoratori per attutire i costi sociali. Superata la fase critica, il dirigismo viene abbandonato anche se il risanamento non poteva dirsi del tutto completato (ad esempio per quanto riguarda l’Italia).

A partire dagli anni Novanta, l’industria siderurgica conobbe cambiamenti di tale portata da farle perdere quel ruolo strategico che aveva avuto alla nascita: nel giro di pochi anni, le principali aziende siderurgiche pubbliche furono privatizzate, venne avviato un processo di concentrazione attraverso una serie di fusioni e acquisizioni transnazionali. Nel frattempo, i grandi gruppi si mondializzavano, intensificando la specializzazione transnazionale.

Nel 1992, il Consiglio dei ministri dell’Unione europea decise di lasciar morire la CECA di morte naturale, alla sua scadenza nel luglio 2002, anche se, verso la fine degli anni Novanta, è stato ritenuto opportuno mantenere in vita almeno alcuni aspetti dell’esperienza della CECA (la ricerca, l’istituzionalizzazione del dialogo settoriale), mentre il Comitato consultivo è stato inserito all’interno del Comitato economico e sociale dell’Unione europea.

Daniela Preda (2008)