Corte europea dei diritti dell’uomo

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Origine e storia della Corte internazionale

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è un organo giurisdizionale internazionale con sede in Strasburgo, che ha per scopo la tutela dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa è stata istituita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, conclusa a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata dall’Italia con Legge n. 848 del 4 agosto 1955), nell’ambito del Consiglio d’Europa. Quest’ultimo è un’organizzazione internazionale di tipo classico (intergovernativa, non sopranazionale); il suo Statuto, firmato a Londra il 5 maggio 1949 da dieci Stati europei occidentali (v. anche Congresso dell’Aia), costituisce la base storico-giuridica del meccanismo europeo di tutela dei diritti umani. Si citano al riguardo gli articoli 1 e 3, dai quali risulta l’impegno delle parti contraenti per la salvaguardia di tali diritti.

Ai dieci Stati fondatori si aggiunsero progressivamente altri paesi, sempre del gruppo occidentale. Dopo il crollo del Muro di Berlino (v. Germania) e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, sono entrati a far parte del Consiglio anche gli Stati dell’Europa centrale ed orientale, di talché il loro numero è giunto a 47. Quasi tutti, ormai, hanno aderito alla Convenzione di Roma, e ciò ha influito sulla composizione della Corte, la quale, annovera un numero di giudici uguale a quello delle parti contraenti (art. 20).

La Convenzione di Roma contempla una serie di diritti e di garanzie elencati nel testo e in vari protocolli integrativi, che a tutt’oggi sono giunti al numero di 14. La sua caratteristica innovativa sta nel fatto che essa non si limita a dichiarare astrattamente tali diritti e a prevedere i connessi divieti, ma istituisce organi di controllo in vista della loro tutela effettiva.

Questi controlli erano affidati in prima istanza alla Commissione europea dei diritti dell’uomo, alla quale potevano ricorrere sia gli Stati che gli individui e che effettuava un primo esame di ricevibilità dei ricorsi. A tale fine la Commissione si assicurava che i rimedi interni fossero stati previamente esauriti, e che non fosse stato oltrepassato il termine di sei mesi dal rigetto dell’ultimo ricorso interno. Superato questo esame, le richieste formavano oggetto di un tentativo di regolamento amichevole; se questo si rivelava infruttuoso, la Commissione redigeva un rapporto riassumendo i fatti e formulando un parere di merito. Il rapporto veniva trasmesso al Comitato dei ministri.

A questo punto, se lo Stato convenuto aveva accettato la giurisdizione obbligatoria della Corte (per l’Italia ciò avvenne nel 1973), la Commissione o qualsiasi Stato contraente interessato disponevano di tre mesi dalla data della trasmissione per sottoporre la questione al giudizio definitivo o vincolante della Corte. I privati, invece, non erano ammessi ad adire la Corte. In caso di non deferimento alla Corte, il Comitato dei ministri, se riteneva che v’era stata violazione della Convenzione, poteva accordare alla vittima un equo indennizzo.

Peraltro, il notevole incremento del numero dei ricorsi sottoposti alla Commissione e i ritardi accumulati in conseguenza, avevano indotto il Comitato dei ministri, nell’intento di accelerare la procedura, a redigere un Protocollo aggiuntivo (il n. 8) col quale venivano parzialmente modificate le strutture e la procedura della Commissione. Il Protocollo, firmato a Vienna il 19 marzo 1985, entrava in vigore il 1° gennaio 1990.

Storia recente della Corte e sua trasformazione in un organo permanente

Oggi la Commissione è stata totalmente soppressa dal Protocollo aggiuntivo n. 11, firmato a Strasburgo l’11 maggio 1994 ed entrato in vigore il 1° novembre 1998. Le ragioni di questo provvedimento risultano dal Preambolo al Protocollo stesso, che sottolinea «la necessità e l’urgenza di ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l’efficacia della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione, in ragione principalmente dell’aumento dei ricorsi e del numero crescente dei membri del Consiglio d’Europa», dal che discendeva come conseguenza l’opportunità di «emendare alcune disposizioni della Convenzione in vista, tra l’altro, di sostituire le esistenti Commissione e Corte europea dei diritti dell’uomo con una nuova Corte permanente».

Il Protocollo 11 mirava a conferire al meccanismo di protezione della Convenzione, una serie di nuove caratteristiche. In primo luogo, veniva abolita la clausola facoltativa del precedente art. 46 («Ciascuna parte contraente può dichiarare di riconoscere come obbligatoria la giurisdizione della Corte»). Storicamente questa clausola si è rivelata opportuna, perché ha lasciato agli Stati il tempo di riflessione necessario per passare dalla semplice adesione alla Convenzione, alla più vincolante accettazione della Corte. Ma dopo quasi mezzo secolo di funzionamento della Corte, e con il consolidarsi del prestigio e dell’autorità della sua giurisprudenza, tale clausola non aveva più ragione di esistere.

In secondo luogo, a differenza del precedente sistema (ex art. 44: «Solo le alte parti contraenti e la Commissione hanno veste per presentarsi davanti alla Corte»), il nuovo art. 34 sui ricorsi individuali dispone che la Corte possa «essere investita da una domanda fatta pervenire da ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppo di privati che pretende di essere vittima di una violazione da parte di una delle alte parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le alte parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’effettivo esercizio efficace di tale diritto».

È stata altresì introdotta una semplificazione, che si è tradotta nella soppressione delle preesistenti strutture, sostituite da un’istituzione unica.

Il nuovo sistema è ormai interamente giudiziario a seguito dell’abolizione delle attribuzioni giurisdizionali del Comitato dei ministri, organo politico del Consiglio d’Europa. Infine, mentre in passato la Corte si riuniva in seduta plenaria almeno una volta l’anno, oggi, come si è visto, essa siede a tempo pieno.

A questo carattere di organo giurisdizionale permanente, indispensabile per il raggiungimento dei fini di cui sopra, l’attuale disciplina perviene mediante alcune disposizioni innovative. Queste sono contenute nell’art. I del citato Protocollo 11, che sostituisce alla normativa precedente il nuovo titolo II della Convenzione (articoli da 19 a 51), denominato appunto “Corte europea dei diritti dell’uomo”. L’art. 19 termina con un’indicazione prima non esistente: «Essa [la Corte] funziona in maniera permanente». Il concetto è rafforzato all’art. 21, comma 3: «Per tutta la durata del loro mandato, i giudici non possono esercitare alcuna attività incompatibile con le esigenze di indipendenza, di imparzialità o di disponibilità richieste da una attività esercitata a tempo pieno».

Ulteriori innovazioni della Corte europea

Altre innovazioni vanno poi proprio al cuore del meccanismo di amministrazione della giustizia da parte della Corte. V’è dapprima da osservare che il plenum della Corte, dato il suo numero rilevante, non esercita funzioni giudiziarie: la Corte si riunisce in Assemblea plenaria solo per alcune limitate incombenze, come quella di eleggere il presidente ed uno o due vice presidenti, di costituire le Camere e di eleggerne i presidenti, di adottare il regolamento e di eleggere il cancelliere ed uno o più vice-cancellieri (art. 26).

Per la vera e propria trattazione delle questioni, sono previsti raggruppamenti di diverso numero e tipo: Comitati di tre giudici, Camere composte da sette giudici e una Grande camera di diciassette giudici (art. 27, n. 1).

Una prima “scrematura” dei numerosissimi ricorsi individuali, in passato assicurata dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo, è ora effettuata dai Comitati di cui sopra: è sufficiente il voto unanime del Comitato per dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo uno di tali ricorsi, con decisione definitiva (art. 28). Normalmente ciò accadrà quando, prima facie, il Comitato constaterà il verificarsi di una delle situazioni previste all’art. 35: mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, qual è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti; proposizione del ricorso in una data eccedente il termine di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva; anonimità del ricorso; coincidenza della domanda con una precedentemente esaminata dalla Corte o già sottoposta ad un’altra istanza internazionale d’inchiesta o di regolamentazione e non contenente fatti nuovi; incompatibilità della domanda con le disposizioni della Convenzione o dei suoi protocolli, manifestamente infondata o abusiva.

Se questa prima selezione non avviene da parte del Comitato, il ricorso viene assegnato ad una delle Camere, la quale deciderà dapprima sulla ricevibilità e poi sul merito, emettendo una sentenza (art. 29).

Nell’intento di assicurare, per quanto possibile, la costanza e l’uniformità della giurisprudenza della Corte, è previsto che se la questione oggetto del ricorso all’esame di una Camera solleva gravi problemi d’interpretazione della Convenzione o dei suoi protocolli, o se la sua soluzione rischia di condurre ad una contraddizione con una sentenza pronunciata anteriormente dalla Corte, la Camera, fino a quando non abbia pronunciato la sua sentenza, può spogliarsi della propria competenza a favore della Grande camera, a meno che una delle parti non vi si opponga (art. 30).

Oltre che in questo caso, la Grande camera è competente a giudicare in sede di appello, rivedendo la sentenza di una Camera. Non sempre, però, ciò avverrà: il rinvio del caso alla Grande camera, a richiesta di ogni parte alla controversia, sarà ammesso su decisione di un collegio di cinque giudici della Grande camera quando la questione oggetto del ricorso sollevi gravi problemi d’interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi protocolli, o di carattere generale (art. 43). Se il rinvio alla Grande camera non viene concesso, o se nessuna delle parti lo richiede, la sentenza della Camera diviene definitiva (art. 44).

Un’altra ipotesi in cui le nuove norme attribuiscono una specifica competenza alla Grande camera, è quella dell’art. 47, il quale, in sostituzione dell’ex Protocollo 2 che è stato soppresso, prevede che la Corte può, su richiesta del Comitato dei ministri, fornire pareri consultivi su questioni giuridiche relative all’interpretazione della Convenzione e dei suoi protocolli.

Quella dell’emanazione di pareri consultivi è una tipica attività di una Corte internazionale, che normalmente viene svolta non su domanda di parte, bensì su richiesta dei principali organi dell’Organizzazione dalla quale la Corte dipende. Così, ad esempio, la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite (di solito su richiesta dell’Assemblea generale o del Consiglio di sicurezza), e la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) (su richiesta del Consiglio dell’Unione europea). La Convenzione di Roma del 4 novembre 1950 non aveva attribuito tale competenza alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e si rimediò alla lacuna mediante il citato Protocollo 2.

Oggi l’art. 47 disciplina l’esercizio della suddetta competenza, disponendo che i pareri consultivi non devono vertere su questioni inerenti al contenuto o alla portata dei diritti e libertà definiti nel Titolo I della Convenzione e nei protocolli, né su altre questioni che la Corte si troverebbe a dover giudicare per via della presentazione di un ricorso previsto dalla Convenzione. Sul punto decide la stessa Corte (art. 48). Il parere della Corte è motivato; se esso non esprime in tutto o in parte l’opinione unanime dei giudici, ogni giudice avrà diritto di unirvi l’esposizione della sua opinione individuale (art. 49).

Questa possibilità, da parte di un giudice, di far conoscere la propria opinione individuale, è una caratteristica tipica del diritto anglosassone, e, per citare un esempio, i giudici della Corte internazionale di giustizia dell’Aia se ne servirono ampiamente, sia tra le due guerre che dopo. Il diritto di unire alla sentenza la propria opinione individuale esisteva già, per la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la normativa precedente (ex art. 51), ed è stato ora confermato dall’art. 45, il quale riprende altresì la disposizione secondo cui le sentenze e le decisioni che dichiarano i ricorsi ricevibili o non ricevibili devono essere motivate.

Nella sentenza di merito la Corte può dichiarare che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli. In tal caso, se il diritto interno dello Stato autore della violazione non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa (art. 41).

Come si vede, l’individuo, la persona fisica i cui diritti sono stati lesi, è al centro del sistema. Ma ancora di più lo è l’esigenza che, in nome di un superiore interesse, nulla possa compromettere l’osservanza dei diritti umani. Ciò risulta chiaro dalla lettura dell’art. 37 sulla cancellazione dei ricorsi, che la Corte può decidere in caso di rinuncia del ricorrente. Ma, al di là dell’interesse individuale del ricorrente (che potrebbe anche aver ceduto a delle pressioni) v’è l’interesse superiore della giustizia: e quindi la Corte prosegue l’esame del ricorso qualora ciò sia richiesto dal rispetto dei diritti umani garantiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli.

Conclusioni

Nell’esaminare il significato e la portata delle norme relative alla Corte europea dei diritti dell’uomo, un altro importante aspetto è dato dalla questione dell’esecuzione delle sue sentenze. Come, per prassi secolare, pacta sunt servanda, così le sentenze internazionali devono essere eseguite dalle parti in causa. Questo principio è comune agli Statuti delle principali Corti, e la CEDU non fa eccezione: in base all’art. 46, le parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti; tali sentenze sono trasmesse al Comitato dei ministri, che ne sorveglia l’esecuzione.

Sotto questo riguardo, peraltro, la situazione non appare pienamente soddisfacente, al punto che l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, con risoluzione 1226 (2000) del 28 settembre 2000, ha rilevato «con inquietudine che l’esecuzione di alcune sentenze solleva oggi problemi considerevoli che minacciano i risultati ottenuti dalla Convenzione dopo cinquant’anni di esistenza» e che «alcune sentenze della Corte non sono ancora eseguite dopo diversi anni».

Dal canto suo il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, pervaso da analoga preoccupazione, ha approvato la Raccomandazione n. 2 (2000) sul riesame o la riapertura di taluni casi a livello interno in seguito a sentenze della Corte. Il Comitato invita le parti contraenti ad «assicurarsi che esistano a livello interno delle possibilità adeguate di realizzare, nella misura del possibile, la restitutio in integrum», e osserva che a tal fine il riesame di un caso o la riapertura di un procedimento è apparso essere il mezzo più efficace. Il Comitato raccomanda perciò in particolare agli Stati di esaminare i loro sistemi giuridici nazionali al fine di assicurarsi che esistano al riguardo delle possibilità appropriate.

L’avvenire del meccanismo europeo di protezione dei diritti umani dipenderà in notevole misura dal grado di accettazione e di esecuzione delle sentenze della Corte.

Giorgio Bosco (2008)

Bibliografia

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