Costituzione europea

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Brevi considerazioni preliminari sul concetto di “costituzione” in generale

Il tema della “costituzione europea” è da tempo al centro di dibattiti a livello non solo politico ma anche giuridico. Ogni discorso in merito non può però prescindere dal concetto di costituzione che si accolga. Diverse, invero, sono le accezioni di “costituzione”.

In una accezione che trae origine dal costituzionalismo classico, il concetto di costituzione è stato strettamente legato all’entità Stato e ritenuto espressione della sovranità statale. In quest’ottica, si è posto particolarmente l’accento sulla valenza garantista della costituzione e si è anche limitato il concetto di costituzione agli Stati di tipo liberal-democratico. Lo stretto nesso tra costituzione e Stato ha però trovato una delle più decise affermazioni anche nel pensiero di Carl Schmitt, secondo il quale «lo Stato è la Costituzione», a prescindere dal fatto che il potere costituente spetti al popolo, come nei sistemi liberal-democratici, o al sovrano come nelle passate monarchie (v. Schmitt, 1984, p. 16).

D’altro canto, la costituzione, pur formalizzandosi di norma in un testo organico e solenne, può anche prescindere da un documento di questo tipo, come dimostra l’esperienza inglese. Più in generale, anche tra le concezioni che legano il concetto di costituzione allo Stato, si riscontrano diversi modi di intendere la costituzione: a volte in ottiche più attente al fattore storico o a quello sociologico, altre volte al profilo formale o ad altri fattori e profili ancora. Dalle concezioni stataliste (o più marcatamente tali) si distinguono quei filoni di pensiero giuridico che, attribuendo un più ampio e generale significato al concetto di costituzione, intendono per tale la normativa fondamentale di un ordinamento, sia esso statale o meno. Ciò nell’assunto che ogni struttura organizzativa «desume il suo ordine primo da un centro unificante e motore, da una costituzione, conforme al tipo di ente sociale cui essa corrisponde, con la funzione della stabilizzazione dei singoli rapporti che si svolgono in esso» (v. Mortati, 1962, p. 140). In questo senso sostanziale, ogni ordinamento ha la sua costituzione, sia esso l’ordinamento internazionale sia quello della Chiesa cattolica o altro ancora, oltre ovviamente all’ordinamento di ogni Stato. D’altro canto, anche in un’ottica formale ma svincolata parimenti dal modello statale, gli stessi trattati possono considerarsi possibile fonte della costituzione di un organismo internazionale, come ad esempio le Nazioni Unite (v. Kelsen, 1975, p. 292).

Della configurabilità di una “costituzione europea”: diverse posizioni a confronto

Se si accede alle concezioni che collegano il concetto di costituzione allo Stato, è evidente che non può parlarsi di una costituzione europea richiamandosi alla normativa fondamentale dei Trattati, non essendo questi espressione di una comunità politica omogenea e unificata come quella statale, di una identità politica ad essa assimilabile.

Seppure con diversità di accenti, questa impostazione riscuote ancora diversi consensi in dottrina. Anche di recente, infatti, si è affermato che una costituzione europea potrebbe esistere solo a due condizioni per ora mancanti: la disponibilità da parte dell’Unione europea (UE) delle proprie regole fondamentali e l’esistenza di una comunità politica di riferimento. In quest’ottica, il traguardo di una costituzione europea sembra allontanarsi in un tempo indefinito. Altro ostacolo alla possibilità di ammettere, almeno a tutt’oggi, l’esistenza di una costituzione europea è stato ravvisato nell’inadeguato regime comunitario di tutela dei diritti. Al riconoscimento e alla tutela dei diritti fondamentali è infatti di norma attribuito un ruolo essenziale nelle costituzioni, tanto da fare ravvisare in tali valori la base del moderno costituzionalismo e da giustificare l’affermazione che «la redazione di un catalogo di diritti fondamentali si lega intimamente all’instaurazione di una nuova costituzione» (v. Luciani, 2000, p. 545 e ss.).

Pur avendo i Trattati comunitari assicurato specifica tutela a determinati diritti (quali la libertà di circolazione dei lavoratori negli Stati membri, il diritto di libertà di stabilimento e di prestazione di servizi, il diritto alla parità di trattamento retributivo tra uomini e donne (v. Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea), con conseguente loro azionabilità (benché a determinate condizioni e con precisi limiti) anche da parte di privati dinanzi alla Corte di giustizia delle comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e pur essendo stata istituita la Cittadinanza europea, con conseguente attribuzione anche di diritti politici, e nonostante la stessa codificazione, con disposizione di carattere generale, del principio secondo cui l’UE rispetta i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri (art. 6 Trattato UE), si sono però anche sottolineate una certa limitatezza e una frammentarietà del quadro dei diritti tutelati. E pur non disconoscendosi le potenzialità innovative della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la c.d. “Carta di Nizza” del 7 dicembre 2000, si è posto però l’accento sulla sua mancanza di valore sul piano strettamente giuridico, tale da non consentire di considerarla più che uno strumento interpretativo capace di orientare le decisioni della Corte di giustizia. Né, a questo riguardo, il quadro può dirsi almeno per ora mutato a seguito del rinvio alla Carta dei diritti effettuato dal Trattato di Lisbona del 2007, in quanto – anche volendo ravvisare una “svolta” nel rinvio effettuato – il Trattato non è ancora entrato in vigore.

A fronte di queste posizioni orientate negativamente sulla configurabilità (allo stato se non anche, almeno per alcune di esse, in una ragionevole prospettiva) di una costituzione dell’UE, si riscontrano altre posizioni che, nell’assunto che il concetto di costituzione non sia necessariamente legato alla figura dello Stato, ritengono ammissibile, sullo stesso piano giuridico, l’idea di una Costituzione europea, al punto da affermarne a volte già ora l’esistenza: costituzione che sarebbe ravvisabile nei Trattati costitutivi e modificativi dell’ordinamento comunitario (quale ordinamento distinto da quelli degli Stati membri), o almeno nei principi cardine di tali Trattati (con esclusione, se mai, della Carta dei diritti, in quanto non inclusa nei Trattati vigenti e quindi tuttora priva di valore sul piano normativo). Tali tesi, oltre a essere condivise (seppure con talune diversità di toni) da una parte della dottrina, hanno trovato supporto anche in posizioni espresse dalla Corte di giustizia che, già in anni passati, ha definito il Trattato CEE (v. Trattati di Roma) Carta costituzionale di una comunità di diritto (Corte di giustizia, sentenza 23 aprile 1986, in causa 294/83, Parti écologiste Les Verts c. Parlamento europeo; parere 1/91 del dicembre 1991).

Non sono d’altro canto mancate posizioni intermedie tra quelle contrarie e quelle favorevoli alla configurabilità di una costituzione europea. Come, ad esempio, la posizione di chi, pur criticando le opinioni favorevoli in quanto non sciolgono il dubbio se «le fonti comunitarie si impongono per forza propria nell’ordinamento comunitario o continuano ad essere mediate da una fonte costituzionale interna», non considera nemmeno convincenti gli argomenti contrari (come quelli del “Deficit democratico” o della preminenza accordata ai «valori della stabilità monetaria e alle logiche della concorrenza»), «potendosi supporre, sia pure in controtendenza (al costituzionalismo contemporaneo) un ordinamento basato sulla netta prevalenza dei valori di mercato» (v. Barbera, 2000, n. 1, p. 59 e ss.).

Il “processo costituente europeo”: dalla Dichiarazione di Laeken al Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa e al Trattato di Lisbona

Se a livello giuridico si sono riscontrate e si riscontrano posizioni a volte antitetiche sulla configurabilità (allo stato e perfino in prospettiva) di una Costituzione dell’UE, a livello politico si sono confrontate e si confrontano tuttora, tra le altre, da una parte, le posizioni di quegli Stati e/o, all’interno degli Stati, di quei partiti e movimenti di opinione che ritengono che il processo di integrazione comunitaria (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) debba compiere un ulteriore passo in avanti e condividono l’opportunità di dotare l’UE di un testo costituzionale, redatto in termini di costituzione formale, al pari di uno Stato, pur non presentando l’UE le caratteristiche dello Stato; dall’altra parte, quelle posizioni più restie a perseguire obiettivi di questo tipo, in quanto ritenuti troppo limitativi della sovranità degli Stati membri e tali da condizionare eccessivamente le loro politiche, soprattutto in ambiti diversi da quelli più propriamente economici.

Nel corso comunque di quel che è stato significativamente definito “processo costituente europeo” (sul quale, nella nostra dottrina, v. Bilancia, 2002; Pace, 2002) si perveniva, a seguito della Dichiarazione di Laeken del 15 dicembre 2001 – con la quale il Consiglio europeo, in vista dell’Allargamento dell’UE, ritenne si dovesse procedere a una ulteriore fase di Revisione dei Trattati – all’apertura dei lavori a Bruxelles di una speciale Convenzione sul futuro dell’Europa (v. Convenzione europea), composta da rappresentanti dei governi degli Stati membri e dei Parlamenti nazionali, del Parlamento europeo e della Commissione europea, nonché da rappresentanti degli Stati candidati all’adesione all’UE: Convenzione (v. anche Convenzioni) che, iniziati i suoi lavori il 28 febbraio 2002, li concludeva il 10 luglio 2003, adottando un “Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa” (con trasformazione, in pratica, della stessa Convenzione in una Costituente).

Sottoposto poi alla Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative), ove si concordavano diverse modifiche, il Progetto di Trattato veniva approvato dal Consiglio europeo di Bruxelles del 17-18 giugno 2004 e sottoscritto a Roma dai rappresentanti degli Stati dell’UE il 29 ottobre 2004. Ratificato da diciotto Stati dell’UE – tra cui l’Italia con legge 7 aprile 2005, n. 57 –, il Trattato veniva però respinto in sede di referendum in due paesi fondatori della Comunità europea: in Francia il 29 maggio 2005 e nei Paesi Bassi il 1° giugno 2005.

All’abbandono del progetto di Trattato costituzionale ha fatto seguito, dopo un periodo di incertezze e una complessa negoziazione, l’accordo raggiunto nel Vertice di Lisbona del 18-19 ottobre 2007 su un nuovo progetto di “Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea”. Firmato dai leader dell’Unione europea il 13 dicembre 2007, al maggio 2009 è stato ratificato da 23 Stati membri (tra cui l’Italia). In Germania, Polonia e Repubblica Ceca il Trattato è stato approvato dai rispettivi Parlamenti ma non ancora ratificato. Solo in Irlanda il Trattato, sottoposto a referendum il 12 giugno 2008, non è stato approvato, anche se si prevede che verrà nuovamente sottoposto a referendum. L’entrata in vigore del Trattato, che sarebbe dovuta avvenire il 1° gennaio 2009, slitterà pertanto, come stabilito dall’art. 6 dello stesso Trattato e se non interverranno ostacoli insormontabili, al primo giorno del mese successivo al deposito dell’ultima ratifica.

Lineamenti essenziali dell’“assetto istituzionale” dell’UE alla luce della normativa vigente

A prescindere dagli esiti del Trattato di Lisbona e dalle innovazioni al quadro normativo dei Trattati europei in esso contenute, si traggono dalla pur complessa normativa vigente i lineamenti essenziali di un assetto istituzionale che, lo si definisca o meno di “ordine costituzionale”, connota la struttura fondamentale dell’ordinamento dell’UE. Anche se la sua definizione non è certo agevole, sia per la singolarità dell’edificio europeo, sia per la sua complessità, sia per il suo essere una realtà frutto di una serie di sovrapposizioni normative e di apporti giurisprudenziali, nonché in continua trasformazione.

Le prime difficoltà si incontrano nel qualificare giuridicamente l’UE ricorrendo alle tradizionali classificazioni delle forme e unioni di Stati. Da una parte, infatti, l’UE si differenzia dalle forme di Stato federale (v. anche Federalismo), se non altro per la mancanza di uno Stato centrale al di sopra degli Stati membri. D’altra parte, la stessa UE si differenzia dalle classiche confederazioni di Stati in quanto il “pilastro comunitario” su cui si fonda si sostanzia in qualcosa di più di quanto riscontrabile nelle confederazioni, si sostanzia cioè in un ordinamento giuridico di carattere sopranazionale – l’ordinamento comunitario – il cui diritto derivato è produttivo anche di effetti diretti negli ordinamenti dei singoli Stati (v. anche Diritto comunitario).

L’UE si configura quindi come una entità di nuovo tipo, del tutto diversa da ogni sistema realizzato in passato, come una poliedrica e multiforme realtà in cui coesistono elementi di federalismo e di confederazione di Stati, di metodo comunitario e di cooperazione intergovernativa; come un organismo ad “architettura plurimodulare” che poggia su tre pilastri (v. Pilastri dell’Unione europea) costituiti uno dalle preesistenti Comunità (ora Comunità economica europea e Comunità europea dell’energia atomica o Euratom) e gli altri dai settori (peraltro di sola cooperazione intergovernativa) della Politica estera e di sicurezza comune e della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale: con forme, oltre tutto, di integrazione differenziata e percorsa da processi evolutivi volti a forme progressivamente più strette di integrazione e cooperazione.

Difficoltà non minori si incontrano, d’altro canto, se si cerca di definire la forma di governo dell’UE secondo gli schemi classificatori della dottrina costituzionalistica. Il concetto di forma di governo, infatti, è strettamente correlato a quello di forma di Stato, sicché si potrebbe anche dubitare della possibilità di parlare di forma di governo con riferimento all’assetto istituzionale dell’UE (v. Istituzioni comunitarie), per la mancanza tuttora del carattere della statualità.

Superando peraltro questa pregiudiziale, in quanto ormai il concetto di forma di governo viene dalla dottrina sempre più spesso ritenuto applicabile, anche se con gli opportuni adeguamenti, all’UE, è d’uopo ricordare, con riferimento all’assetto istituzionale europeo, che una prima fondamentale distinzione è quella tra istituzioni (per circoscrivere l’attenzione soltanto alle principali di esse) più direttamente “legate” agli Stati membri (come il Consiglio dei ministri, mentre il Consiglio europeo non è nemmeno propriamente una istituzione comunitaria, bensì un organo intergovernativo) e istituzioni che operano in posizione di indipendenza dai governi degli Stati membri (come il Parlamento, direttamente rappresentativo dei popoli d’Europa, e la Commissione e la Corte di giustizia, solo geneticamente ma non funzionalmente legate ai governi degli Stati membri).

È peraltro incontestabile, nonostante i passi fatti sulla via dell’integrazione, il perdurante netto prevalere, nelle scelte politiche e nelle determinazioni comunitarie, del ruolo delle istituzioni del primo tipo, e quindi degli Stati (specialmente dei loro esecutivi, con riflessi oltre tutto sullo stesso equilibrio tra organi esecutivi e legislativi degli Stati membri): basti pensare alla centralità del Consiglio europeo, quale organo di cooperazione intergovernativa, nella determinazione dell’indirizzo politico dell’UE; o alla supremazia del Consiglio dei ministri nel campo della normazione comunitaria. Indubbiamente, ogni tentativo di ricondurre la forma di governo dell’UE alle consuete forme di governo statali, e quindi anche a quelle degli Stati membri, è reso problematico non solo dal carattere sopranazionale dell’ordinamento comunitario, ma anche dalla particolare dinamicità del modello istituzionale europeo, percorso da processi di continua trasformazione.

A ogni modo, con riferimento specifico alle istituzioni che maggiormente operano in posizione di indipendenza dai governi degli Stati membri, si può paragonare (volendo fare qualche accostamento a forme di governo statali) la forma di governo dell’UE a un sistema di tipo parlamentare, almeno in ragione del rapporto fiduciario intercorrente tra Commissione e Parlamento: anche se il profilo del governo dell’UE, in questo senso, resta in subordine rispetto al profilo di governo della stessa UE direttamente “gestito” dagli esecutivi degli Stati membri: così, il Parlamento collabora alla legislazione, ma non è l’organo legislativo primario, spettando i massimi poteri normativi al Consiglio dei ministri che è luogo di rappresentanza delle istanze nazionali; la Commissione assolve una funzione esecutiva, ma non è il centro motore dell’indirizzo politico dell’UE, ruolo spettante invece al Consiglio europeo. La Corte di giustizia, invece, organo funzionalmente indipendente dai governi nazionali, svolge un ruolo determinante nell’affermazione del diritto comunitario (per quanto di competenza) rispetto agli ordinamenti degli Stati membri (pur non senza resistenze dei giudici e delle Corti e Tribunali costituzionali nazionali). Ed è la Corte di giustizia che ha in qualche misura colmato le lacune dei Trattati europei in materia di tutela dei diritti, materia ritenuta dal moderno costituzionalismo coessenziale al concetto di costituzione.

I Trattati comunitari, infatti, hanno inizialmente assicurato tutela specifica soltanto a determinati diritti, attinenti alla sfera delle libertà economiche. Ma anche successivamente, quando con l’Atto unico europeo e con il Trattato UE (v. Trattato di Maastricht) si è incominciata a delineare una visione delle persone non soltanto come «soggetti economici», ma anche nella «loro dimensione personale, sociale e politica» (v. Beutler et al., 2001, p. 412 e ss.), non si è mancato di puntare l’attenzione sul persistere di una certa limitatezza e insufficienza del quadro normativo dei diritti tutelati. Sicché, i maggiori progressi sulla via della tutela dei diritti della persona sono finora avvenuti ad opera della giurisprudenza della Corte di giustizia. Superata qualche incertezza iniziale e pur essendo tenuta ad applicare soltanto il diritto comunitario e non quello degli Stati membri, né essendo configurabile come giudice supremo dinanzi al quale si possano impugnare le sentenze dei giudici nazionali, essa è infatti riuscita – nonostante le critiche mossele per essersi a volte arrogato un potere non attribuitole dai Trattati – a garantire anche diritti non espressamente tutelati nella normativa dei Trattati, affermando anche a livello comunitario – prima ancora della pur generica enunciazione di principio che compare nel Trattato UE – la tutela dei diritti della CEDU e degli stessi diritti facenti parte per tradizione del patrimonio giuridico degli Stati membri.

D’altro canto, la stessa Corte è giunta a garantire diritti, almeno per certi aspetti, non del tutto tutelati nemmeno in ordinamenti nazionali, creando «attraverso la prerogativa di interpretazione del diritto comunitario e di accertamento della validità dello stesso […] un processo di unità/uniformità che si muove […] attorno a un duplice trapianto di elementi: di questo nei sistemi nazionali e di elementi dei sistemi nazionali nel diritto comunitario» (v. Morbidelli, 2000, p. 429).

Il Trattato di Lisbona

Il decaduto progetto di Trattato costituzionale europeo, come è noto, si suddivideva in quattro parti, più una serie di protocolli e allegati. Nella parte I, dopo le disposizioni di principio contenute nei primi tre titoli e aventi ad oggetto la definizione e gli obiettivi dell’UE, l’enunciazione di massima del riconoscimento dei diritti fondamentali e della cittadinanza dell’UE e la delimitazione delle competenze della stessa UE, era tracciato, nel titolo IV, il quadro generale delle istituzioni e organi dell’Unione. Tale quadro non differiva a prima vista da quello dei Trattati della Comunità e dell’UE. Erano infatti confermate le attuali istituzioni che determinano l’assetto più propriamente “costituzionale” dell’UE e anche le altre istituzioni e organi consultivi previsti non erano di nuova introduzione. Dall’esame delle successive disposizioni, però, emergeva un quadro per diversi aspetti diverso. Talune istituzioni, infatti, risultavano rafforzate: dal Parlamento europeo, cui venivano attribuiti un ampio ruolo codecisionale (v. Codecisione) insieme al Consiglio e il potere di eleggere direttamente il Presidente della Commissione europea, al Consiglio europeo, che veniva pienamente istituzionalizzato, al Presidente della Commissione, che risultava rafforzato nel suo ruolo politico. Veniva inoltre introdotta la nuova figura del Ministro degli Affari esteri e venivano estese le competenze della Corte di giustizia. Particolarmente significativa era poi l’incorporazione nella parte II del Trattato della Carta dei diritti fondamentali, la c.d. “Carta di Nizza” del 2000. Nella parte III trovava ampio sviluppo la normativa relativa al funzionamento dell’UE. Nella parte IV, infine, erano disciplinate le procedure di revisione del Trattato.

Il Trattato di Lisbona persegue invero, almeno a prima vista, obiettivi meno ambiziosi del decaduto progetto di Trattato costituzionale: infatti, sostituisce ad esso l’idea di una revisione dei Trattati preesistenti, il Trattato UE e il Trattato CE, che assume però la denominazione di Trattato sul funzionamento dell’UE (ai quali Trattati si farà qui riferimento nella versione consolidata, come modificati cioè dallo stesso Trattato di Lisbona una volta che entri in vigore, nonché nelle denominazioni TUE/Lisb e TFUE/Lisb); e tralascia anche elementi di maggiore valore simbolico, come la bandiera, l’inno e il motto (v. Simboli dell’Unione europea). Nella sostanza, tuttavia, il Trattato di Lisbona recepisce in ampia misura i contenuti del progetto di Trattato costituzionale (v. Padoa-Schioppa. 2009, p. XI).

Anche con il Trattato di Lisbona, infatti, alcune istituzioni vengono rafforzate nelle attribuzioni e nel ruolo. Tra queste vi è sicuramente il Parlamento europeo, cui è attribuito un ampio ruolo di codecisione nell’esercizio di funzioni primarie dell’UE, come l’esercizio congiuntamente al Consiglio dei ministri della funzione legislativa e di bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), oltre a funzioni di controllo politico e consultive. Un maggior ruolo è riconosciuto al Parlamento anche nei confronti della Commissione, con l’attribuzione del potere di eleggerne direttamente il Presidente, su proposta del Consiglio europeo che deve tener conto delle elezioni del Parlamento medesimo, oltre che del potere di esprimere un voto di approvazione collettiva del Presidente e degli altri componenti la Commissione (come peraltro anche ora previsto) nonché della nuova figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (Ministro degli affari esteri dell’UE nel progetto di Trattato costituzionale). È inoltre ribadito il potere del Parlamento di votare una Mozione di censura. nei confronti della Commissione, con conseguente obbligo dei suoi membri di dimettersi collettivamente. La tendenza a rafforzare il ruolo di rappresentanza democratica del Parlamento europeo (il cui numero massimo di componenti potrà essere di 750) trova riscontro nello stesso formulato normativo che, pur nulla aggiungendo al vigente criterio dell’elezione a suffragio universale e diretto (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), tende peraltro ad evidenziare il carattere del Parlamento di istituzione rappresentativa dei cittadini dell’UE, la cui rappresentanza viene garantita in modo degressivamente proporzionale, con una soglia minima e una soglia massima per Stato membro (artt. 14, 17 TUE/Lisb). Viene però anche rafforzato il ruolo dei parlamenti nazionali nell’ambito europeo anche nell’ottica di una cooperazione interparlamentare (art. 12 TUE/Lisb e allegato protocollo).

Al rafforzamento del ruolo del Parlamento, cioè dell’istituzione più democraticamente rappresentativa dell’UE, fa però riscontro, come contrappeso, un rafforzamento dell’istituzione più direttamente rappresentativa degli Stati e dei loro governi, il Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato o di governo degli Stati membri. Anzitutto, il Consiglio europeo, nato come organo intergovernativo, è assunto a pieno titolo nel quadro istituzionale dell’UE come massima istituzione di indirizzo politico. Il ruolo del Consiglio europeo trae poi nuovo impulso dalla sostituzione, nel Trattato di Lisbona, della presidenza a turno di durata semestrale con una presidenza stabile (v. Presidenza dell’Unione europea), con Presidente eletto a maggioranza qualificata dallo stesso Consiglio per un periodo di due anni e mezzo con mandato rinnovabile una volta, con funzioni anche di rappresentanza esterna dell’UE in materia di politica estera e di sicurezza comune (art. 15 TUE/Lisb).

Già organo legislativo dell’UE per eccellenza, il Consiglio dei ministri nel Trattato di Lisbona condivide le sue funzioni legislative, oltre che di bilancio, con il Parlamento europeo, con qualche larvato (e fatte comunque le debite differenze, dato anche il carattere non statuale dell’UE) richiamo all’idea di quel bicameralismo degli Stati federali in cui un ramo del Parlamento rappresenta il popolo e l’altro ramo gli Stati membri della federazione. Composto da un rappresentante di ogni Stato membro a livello ministeriale, il Consiglio dei ministri delibera a maggioranza qualificata, salvo che i Trattati dispongano diversamente; anche nel sistema del Trattato di Lisbona continua a riunirsi in varie formazioni, solo due delle quali espressamente previste nel Trattato medesimo: il Consiglio “Affari generali” e il Consiglio “Affari esteri” (art. 16 TUE/Lisb).

La Commissione è confermata nel suo ruolo di istituzione con funzioni precipuamente propositive (con l’esclusiva dell’iniziativa legislativa, salvo che la Costituzione disponga altrimenti), esecutive e di vigilanza dell’applicazione dei Trattati e del diritto dell’UE. Si ribadisce inoltre la posizione della Commissione (della quale si conferma il mandato quinquennale) di istituzione che esercita le sue funzioni in piena indipendenza dai governi degli Stati. È evidente, però, che la previsione, benché limitata alla prima applicazione della Costituzione, di una Commissione composta di un cittadino per ogni Stato membro dell’UE, oltre a farne un organo pletorico a scapito della sua funzionalità, può in qualche modo apparire una remora al rafforzamento della posizione di istituzione dell’UE, sganciata dagli Stati, che si vuole caratterizzi appieno l’azione della Commissione (art. 17 TUE/Lisb).

Rafforzato appare, d’altro canto, il ruolo politico del Presidente della Commissione, sia per la sua elezione diretta da parte del Parlamento europeo, sia per le maggiori attribuzioni nell’organizzazione della Commissione e in seno ad essa (art. 17 TUE/Lisb): pur facendovi da contrappeso il più tangibile rafforzamento di altre istituzioni, quali il Parlamento e il Consiglio europeo, nonché l’emergere della figura stabile del Presidente del Consiglio europeo o di quella dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Quest’ultima figura, in particolare, è una delle maggiori novità nel quadro istituzionale dell’UE. Si tratta di figura cui è demandato un ruolo guida di uno dei settori più delicati e “deboli” della politica dell’UE, quello della politica estera e di sicurezza: e proprio la delicatezza del ruolo dell’Alto rappresentante trova riscontro nella posizione di organo di raccordo tra più istituzioni dell’UE. Non solo, infatti, la sua nomina (come la sua revoca) da parte del Consiglio europeo deve avvenire d’accordo con il Presidente della Commissione, ma l’Alto rappresentante assomma anche in sé (secondo la formula c.d. del “doppio cappello”) le funzioni di presidente del Consiglio “Affari esteri”, in seno al Consiglio dei ministri, del quale agisce anche in qualità di mandatario nell’attuazione della politica estera e di sicurezza alla cui elaborazione contribuisce con proprie proposte, e di vicepresidente (seppure non l’unico) della Commissione, in seno alla quale è incaricato delle responsabilità che incombono su tale istituzione nel campo delle relazioni esterne (art. 18 TUE/Lisb). Anche se poi i ruoli di guida e di raccordo dell’Alto rappresentante nei settori della politica estera e di sicurezza potrebbero risultare scarsamente conciliabili con il ruolo del Presidente del Consiglio europeo, nella misura in cui spetta a questo «al suo livello e in tale veste, la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune» (art. 15 TUE/Lisb), ma anche con il ruolo del Presidente della Commissione, cui spetta tra l’altro definire gli orientamenti nel cui quadro la Commissione esercita i propri compiti (art. 17 TUE/Lisb).

Potenziato risulta infine il ruolo della Corte di giustizia (art. 19 TUE/Lisb), le cui competenze sono tra l’altro estese al controllo del rispetto del Principio di sussidiarietà, ai sensi del relativo Protocollo allegato, anche su ricorsi presentati dal Comitato delle regioni.

Nel Trattato sul funzionamento dell’UE sono contenute le norme sugli atti giuridici dell’Unione – ordinati secondo una gerarchia comprensiva di atti legislativi (quali i regolamenti e le direttive (v. Direttiva), atti delegati e atti di esecuzione (v. Gerarchia degli atti comunitari) – e sulle relative procedure di adozione (artt. 288 e ss. TFUE/Lisb; v. Priollaud, Siritzky, 2008, p. 31 e ss.).

Non viene invece inserita nel Trattato di Lisbona la Carta dei diritti, che costituiva la Parte II del progetto di Trattato costituzionale, anche se è previsto che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali del 7 dicembre 2000 […], che ha lo stesso valore dei trattati” (art. 6 TUE/Lisb).

Sono disciplinate le procedure di revisione del Trattato e del diritto di recesso (artt. 48, 50 TUE/Lisb). Il Trattato è corredato infine da vari protocolli e allegati contenenti tra l’altro disposizioni relative alle istituzioni dell’UE.

Conclusioni

Non è possibile, in queste brevi considerazioni conclusive, entrare nel merito del problema se il Trattato di Lisbona, al di là del suo porsi come “Trattato modificativo” possa almeno sostanzialmente assimilarsi a una Costituzione (dal momento che recepisce in definitiva i contenuti del progetto di Trattato costituzionale – v. Ziller, 2007, p. 27 –, la cui natura era però parimenti discussa) o se sia piuttosto da considerare, non solo formalmente, un atto dello stesso genere dei trattati internazionali, o ancora se sia qualificabile come una sorta di “ibrido” tra trattato e costituzione. Non ci si può esimere però dallo spendere qualche parola sulle luci e sulle ombre in esso contenute, secondo che lo si consideri come apportatore di elementi nuovi, o si ponga più l’accento su taluni aspetti deludenti legati a pur inevitabili scelte compromissorie intervenute nelle fasi preparatorie o su altri aspetti comunque suscettibili di valutazioni critiche, anche sotto profili di formulazione giuridica.

Un aspetto positivo è dato dall’idea ispiratrice di porre a base del complesso edificio europeo, risultante da una normativa posta da trattati stratificati nel tempo, un documento inteso, pur sotto forma di adeguamento dei preesistenti Trattati, a dare maggiore omogeneità a una UE in costante allargamento e alle sue politiche, anche nel settore “debole” della politica estera. Significativi appaiono il superamento della struttura “a pilastri” introdotta dal Trattato di Maastricht (pur non mancando qualche riserva al riguardo, proprio per il settore della politica estera e di sicurezza comune), una più chiara e puntuale delimitazione delle Competenze dell’Unione, il conferimento esplicito alla stessa UE di una personalità giuridica (v. Personalità giuridica dell’Unione europea), nonché l’affermazione della prevalenza del diritto dell’UE alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, ribadita nell’Atto finale.

Con riferimento ad aspetti più specifici, si segnalano chiari indizi rivelatori di un maggior peso riconosciuto all’elemento democratico nel complesso edificio dell’UE. Depongono in tal senso, tra gli altri elementi (e nonostante talune altre previsioni in controtendenza, come la piena istituzionalizzazione del ruolo del Consiglio europeo, organo rappresentativo degli Stati per eccellenza, o le remore nel sostituire il voto a maggioranza, seppure qualificata, alla regola del Voto all’unanimità in materie di fondamentale importanza in seno al Consiglio dei ministri), il potenziamento del ruolo del Parlamento europeo, l’organo più direttamente rappresentativo dei cittadini dell’UE, e, più in generale, l’espressa “consacrazione” del principio democratico, nelle disposizioni significativamente dedicate ai principi democratici e in cui, oltre a proclamare la democrazia rappresentativa principio su cui si fonda il funzionamento dell’UE, si riconosce il ruolo della democrazia partecipativa e delle sue istituzioni, dai partiti politici (v. Partiti politici europei) a forme di consultazione e di iniziativa popolare al dialogo con le parti sociali (artt. 10, 11 TUE/Lisb). Si possono quindi cogliere, seppure nella non univocità di linee tendenziali del quadro costituzionale, segni di sensibile attenuazione del deficit democratico, anche se non un completo superamento del medesimo.

Non mancano però aspetti negativi o almeno tali da suscitare giustificate riserve. È di tutta evidenza, in primo luogo, il carattere pur sempre minuto e dettagliato oltre misura, dell’articolato. Carattere cui si accompagna l’estrema complessità di molte procedure decisionali (v. Processo decisionale), a scapito della funzionalità delle istituzioni e della stessa azione dell’UE.

Non poche perplessità suscitano, d’altro canto, le norme compromissorie che, nell’ottica di uno spesso problematico bilanciamento tra ruolo dell’UE e ruolo degli Stati, finiscono per prospettare, con formulazioni vaghe e indefinite, soluzioni “aperte” che lasciano in definitiva l’ultima parola agli Stati. Tale è, ad esempio, la norma che dispone che dopo il termine del mandato della prima Commissione nominata in applicazione del Trattato la Commissione sarà composta da un numero di membri corrispondente ai due terzi degli Stati membri, ma fa salva la possibilità del Consiglio europeo di modificare, con delibera unanime, tale numero, senza alcuna ulteriore precisazione (art. 17 TUE/Lisb). O, per citare un altro dei diversi esempi significativi, la clausola in base alla quale le modifiche adottate con la procedura di revisione ordinaria del Trattato «entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri», ma se, al termine di un periodo di due anni dalla firma di un trattato che modifichi i trattati, «i quattro quinti degli Stati membri abbiano ratificato detto trattato e uno o più Stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è deferita al Consiglio europeo» (art. 48 TUE/Lisb). Trattasi manifestamente di clausole che, a fronte di possibili situazioni di impasse, finiscono per il rimettere tutto al Consiglio europeo, cioè alla più diretta espressione dei governi degli Stati membri.

Eugenio De Marco (2009)

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