Faure, Edgar

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La carriera politica di F. (Béziers 1908-Parigi 1988) è stata lunga e, al tempo stesso, sorprendentemente intensa. Basterà ricordare che è stato membro del Parlamento dal 1946 al 1988 (a eccezione del breve ritiro dalla vita pubblica nell’inverno 1958-1959 e dei suoi passaggi al governo sotto la V Repubblica), ha svolto funzioni ministeriali dal febbraio 1949, è stato Presidente del Consiglio a due riprese durante la IV Repubblica (dal gennaio al febbraio del 1952 e dal febbraio 1955 al gennaio 1956), ha esercitato importanti responsabilità sotto la V Repubblica (come ministro dell’Agricoltura e poi dell’Educazione nazionale, sotto il generale Charles de Gaulle, dal 1966 al 1969, in seguito come ministro di Stato incaricato degli Affari sociali, dal 1972 al 1973, sotto Georges Pompidou). L’aver occupato la carica più alta (vale a dire quella di presidente dell’Assemblea nazionale) dal 1973 al 1978 rappresenta una sorta di coronamento, a dispetto di tutte le delusioni, di questo cammino nell’universo del potere e degli onori.

Il nome di colui che è stato definito il «virtuoso della politica» (Raymond Krakovitch) è stato associato alla costruzione europea in occasione di tre momenti significativi. Durante un primo, breve passaggio a capo del governo al principio del 1952 F. fa votare dall’Assemblea nazionale – il 19 febbraio, al termine di discussioni confuse e complesse – il testo che permette l’apertura dei negoziati ufficiali che sfoceranno, qualche mese dopo, nella firma del trattato della Comunità europea di difesa (CED). Il suo secondo passaggio alla presidenza del Consiglio, nel 1955, è segnato dalla ratifica al Consiglio della Repubblica degli Accordi di Parigi, dalla Conferenza di Messina (1-2 giugno 1955) e dai lavori delle commissioni di esperti organizzate a Bruxelles dal luglio al novembre 1955, cioè da quello che la storia ha considerato il decollo del «rilancio europeo». Infine F., in qualità di ministro dell’Agricoltura del terzo governo Pompidou (gennaio 1966-luglio 1968), è uno di quelli che hanno portato il pesante fardello delle trattative per l’applicazione concreta dei meccanismi del Mercato comune agricolo, con uno sforzo immane che approderà alla firma, all’alba del 29 giugno 1968, di un accordo fondamentale in materia. In compenso, la sua partecipazione ai lavori del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale, dal 1979 al 1984, può essere considerata trascurabile (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). La candidatura dell’ex presidente dell’Assemblea nazionale nella lista guidata da Simone Veil obbedisce soprattutto a motivazioni di politica interna, in quanto l’obiettivo consiste nel perfezionare l’avvicinamento, messo in atto dal 1978, con la componente giscardo-centrista della maggioranza presidenziale.

A dispetto delle apparenze, l’episodio del 1955 non è senz’altro il più degno di attenzione nel percorso europeo di F. Il Presidente del Consiglio non è presente a Messina; non prova alcun entusiasmo particolare per la creazione di un grande mercato aperto ai soli paesi della Comunità dei Sei e ha dato disposizioni di essere prudenti (per iscritto o solo verbalmente? su questo punto il dibattito resta aperto) al suo ministro degli Esteri Antoine Pinay, anche lui piuttosto reticente. Ma soprattutto è preso da altre preoccupazioni (in primo luogo la spinosa questione marocchina) o, perlomeno, da altri problemi di natura internazionale (le relazioni Est-Ovest). A questo bisogna aggiungere che nel voto del 22 gennaio 1957 – vero e proprio nullaosta dato dall’Assemblea nazionale alla futura conclusione dei negoziati dei Trattati di Roma – la sua scelta è quella dell’astensione. In ultima analisi, il contributo di F. al rilancio europeo è legato soprattutto a due fattori: il suo impegno, molto risoluto, a favore della ratifica definitiva degli Accordi di Londra e di Parigi, senza i quali niente sarebbe stato possibile; il suo talento per sdrammatizzare i conflitti ed evitare che la questione, in particolare all’interno dell’équipe ministeriale, diventasse oggetto di discordia suscettibile di ipotecare l’avvenire.

A fronte di questo bilancio sfumato, è possibile sottoscrivere i giudizi che tendono a presentare F. come un «europeo senza passione» (Georgette Elgey) o un «europeo, ma con moderazione» (per riprendere l’eccellente formula del suo biografo più recente, Raymond Krakovitch). F., personalità assai duttile e mobile, dev’essere senz’altro inserito nella categoria degli europei “razionali”, che soppesano i vantaggi e gli inconvenienti di ordine pratico e rifiutano di agire nel segno della fede nelle virtù intrinseche della sovranazionalità. Sotto la IV Repubblica il deputato radical-socialista del Giura preferisce occupare, in particolare a partire dall’estate 1952, una posizione intermedia fra quella dei più accaniti avversari della CED (Edouard Daladier, che non amava, ed Edouard Herriot, per il quale professava una sincera ammirazione di vecchia data) e quella del clan degli “europeisti” propriamenti detti, raggruppati attorno a René Mayer, con il quale peraltro F. aveva dei rapporti molto tesi. Dal 1952 al 1953 la sua linea di condotta negli affari europei, malgrado evidenti differenze di stile, è abbastanza affine a quella del suo amico e vecchio mentore Pierre Mendès France: le convergenze sono particolarmente forti nel 1952 (in occasione, soprattutto, delle discussioni parlamentari del febbraio 1952 evocate in precedenza) e nel corso dell’estate 1954, vale a dire nelle settimane di grande tensione prima del fallimento della CED (per esempio, al momento della conferenza dell’ultima opportunità per salvare la CED, tenutasi a Bruxelles alla fine di agosto, conferenza in cui F., all’epoca ministro delle Finanze, segue e sostiene attivamente Mendès France).

Una decina di anni dopo lo stesso F., avendo aderito alla maggioranza della V Repubblica che appoggia il generale de Gaulle, non teme di manifestare la sua solidarietà con le posizioni, spesso molto controverse, assunte da quest’ultimo sul doppio capitolo dell’“indipendenza nazionale” e della politica europea. Uscito in libreria nel 1968 con il titolo di Prévoir le présent, l’ambizioso saggio politico di cui è autore difende, con rara vivacità, alcune tesi sulle quali un gollista di stretta osservanza non avrebbe avuto granché da eccepire. Certo, si potrebbe argomentare che il brillante studente della IV Repubblica, tornato al governo nel 1966, avesse tutto l’interesse ad “aderire” il più possibile all’azione del capo dello Stato e ai suoi orientamenti in materia di politica estera. Ma un esame attento consente anche di individuare alcuni elementi di continuità fra certi capitoli di Prévoir le présent (per esempio, il XIII capitolo dedicato alla questione europea) e la sostanza del rapporto presentato al congresso radicale di Bordeaux nell’autunno 1952, per il quale, se si presta fede alla testimonianza di Léon Noël, F. avrebbe chiesto l’opinione di de Gaulle.

A partire dal periodo a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, F. – che non accorda più ai problemi di politica internazionale il carattere di priorità come aveva fatto nel 1966 – ha senz’altro modificato le sue posizioni in un senso più favorevole alla costruzione europea. Ma sarebbe sbagliato sopravvalutare l’importanza di quest’evoluzione, che rientra in un movimento molto generale che interessa una quantità di personalità un tempo ritenute ostili o semplicemente reticenti all’interno o all’esterno degli ambienti gollisti. F., che professa la religione dei fatti e si richiama, con sempre maggior insistenza, ad una concezione sperimentale della politica, come avrebbe potuto tenersi a distanza da un simile movimento di fondo?

L’immagine che prevale è senz’altro quella del pragmatismo. Tuttavia, l’uso di questa formula passe-partout, applicabile ad attori molto differenti come François Mitterrand o Georges Pompidou, aiuta ben poco a comprendere l’originalità del percorso di F. e, di conseguenza, a valutare correttamente l’importanza del suo contributo al successo dell’impresa europea. Il metodo migliore, a nostro avviso, consiste nel concentrarsi su due punti più circoscritti.

Per F. la costruzione europea, in particolare nel modo in cui è stata concepita e intrapresa nel quadro della “piccola Europa a Sei”, non ha mai costituito la priorità assoluta. In altri termini, perseguire quest’obiettivo, di per sé auspicabile, non doveva portare a trascurare altre questioni che potevano essere più importanti: la decolonizzazione, la creazione di rapporti di tipo nuovo con i paesi emergenti (compresa la Cina comunista), la distensione, le intese e la cooperazione (per riprendere il famoso trittico del generale de Gaulle), ecc. F. si è sempre richiamato ad una visione allargata delle relazioni internazionali, arrischiando nel 1966 l’espressione precorritrice di “mondialismo”.

In quest’ambito, come in molti altri, esiste un metodo F., fondato sulla volontà sistematica di sdrammatizzare i problemi e relativizzare l’importanza dei conflitti. Nel 1955, all’indomani del fallimento della CED, come pure nel 1965, in occasione dell’episodio della “sedia vuota” e dei rischi di un blocco delle Istituzioni comunitarie, questo conciliatore nato pensa, giustamente, che la crisi non poteva continuare in eterno e che sarebbero state trovate soluzioni di compromesso. F., parallelamente, non ragionò ragionato, come gran parte dei membri della “società degli europeisti”, in termini di opposizione fra un campo dei fautori della costruzione europea e un campo dei suoi presunti avversari. Nel 1955 arriva a costituire una équipe ministeriale che riunisce fautori della CED intransigenti (Pierre-Henri Teitgen, allora presidente del Mouvement républicain populaire, MRP), altri più consapevoli della necessità di certi accomodamenti (Robert Schuman, l’uomo del “partito” europeo, al quale si sentiva senz’altro più vicino), altri ancora fautori “razionali” (Antoine Pinay, nominato al Quai d’Orsay), europeisti non propensi alla CED (il suo amico Edouard Bonnefous) e altri decisamente avversi a essa (i ministri gollisti, in particolare Gaston Palewski e il generale Koenig). Qualche mese dopo il «delitto del 31 agosto» (il rifiuto della CED), era ormai dimostrato che un rilancio europeo, pur ancora molto timido, non avrebbe generato automaticamente nuovi drammi. In questo consiste senz’altro il contributo di F.: più che un attore della costruzione europea, nel senso forte del termine “attore”, egli fu un abilissimo sminatore del terreno politico e psicologico.

Gilles Le Beguéc (2012)

Bibliografia

Duhamel E., Faure, Edgar, in J.-F. Sirinelli, Dictionnaire historique de la vie politique française au XXe siècle, PUF, Paris 1995.

Faure E., Prévoir le présent, Gallimard, Paris 1966.

Faure E., Mémoires, 2 voll., Plon, Paris 1982-1984.

Krakovitch R., Edgar Faure, un virtuose de la politique, Economica, Paris 2006.