Funzionalismo

Tre “vie” per unire l’Europa

Quando la costruzione di un’Europa unita si prospettò per la prima volta come un’esigenza largamente avvertita e una possibilità concreta, cioè dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si delinearono tre diversi modi di concepire il processo di unificazione: Federalismo, confederalismo e funzionalismo. I primi due erano accomunati, pur nella loro opposizione, da una natura politica: con il primo si intendeva superare la sovranità superiorem non recognoscens degli Stati nazionali, dando vita – tramite una procedura costituente democratica – a un vero e proprio Stato federale europeo, con un governo, un parlamento e una corte di giustizia comuni; con il secondo si voleva sviluppare una cooperazione permanente tra gli Stati europei, ma senza intaccarne in alcun modo la sovranità e quindi tramite accordi intergovernativi (v. Cooperazione intergovernativa). Era la grande alternativa – tutta politica – tra gli “Stati uniti d’Europa”, vagheggiati da Altiero Spinelli, e l’“Europa delle patrie”, cara a Charles de Gaulle. Il funzionalismo aveva invece una natura tecnico-amministrativa e si configurava come una sorta di compromesso tra le due soluzioni precedenti: l’idea era quella di mettere in comune l’amministrazione di alcuni servizi o funzioni di importanza strategica (come era già accaduto, durante la guerra, per gli approvvigionamenti militari), affidandoli ad apposite istituzioni europee create mediante trattati. Tale soluzione rassicurava, da un lato, gli Stati nazionali, perché non ne metteva in discussione (almeno formalmente) la sovranità; ma, dall’altro, dava vita ad istituzioni europee che, creando una rete di potenti interessi comuni, avrebbero progressivamente eroso le sovranità nazionali. Divisi sul metodo, funzionalisti e federalisti erano dunque assai vicini sull’obiettivo finale: non a caso, il loro esponente più illustre, Jean Monnet, l’ideatore della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e del “metodo comunitario”, fondò nel 1955 il Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa; e se Monnet si trovò più volte in contrasto con Spinelli, il suo vero avversario fu de Gaulle, col quale incrociò più volte, senza alcun timore reverenziale, le “lame” della polemica.

Di fatto, l’edificio dell’Europa è stato costruito, in larga parte, col metodo funzionalista. Se le fondamenta sono rimaste di tipo confederale (basate, cioè, su Trattati stipulati da Stati sovrani e ratificati dai rispettivi parlamenti), e se sono stati realizzati alcuni importanti progetti di ispirazione federalistica – il Parlamento eletto direttamente dai cittadini europei (v. Parlamento europeo; Elezioni dirette del Parlamento europeo) e l’Euro o moneta unica – le strutture portanti sono state realizzate grazie all’approccio funzionalista: dalla CECA (1951), primo embrione delle Istituzioni comunitarie, alla Comunità economica europea (CEE, 1957), vera spina dorsale del processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Come ha giustamente osservato Sergio Pistone, il metodo funzionalista ha avuto «il merito decisivo di rendere possibile un assai lento ma inarrestabile avanzamento dell’integrazione europea, che la pura cooperazione intergovernativa avrebbe condotto al ristagno» (v. Pistone, 1997, p. 707). Il funzionalismo non ha portato all’unificazione politica dell’Europa – come era nelle speranze dei suoi sostenitori – ma ha posto le basi perché le più avanzate istanze federalistiche, sconfitte nel 1954 con la bocciatura della Comunità europea di difesa (CED), potessero tornare più volte a far sentire la loro voce e, in alcuni casi, a tradursi in risultati concreti.

Teorici e realizzatori del funzionalismo

Il primo a teorizzare il funzionalismo fu, nel 1943, l’economista rumeno David Mitrany, nel suo A working peace system. Rifacendosi all’esperienza di alcune organizzazioni internazionali – come l’Unione postale, l’Unione telegrafica, la Croce rossa, le istituzioni preposte alla proprietà letteraria e industriale – Mitrany sostenne che l’unico modo per realizzare efficaci forme di integrazione sovranazionale consisteva nel creare istituzioni di natura tecnico-amministrativa, dotate di poteri limitati finalizzati a risolvere problemi specifici della società internazionale. L’economista rumeno era infatti convinto che la progressiva cessione di “funzioni” dagli Stati nazionali a organismi tecnici sovranazionali avrebbe provocato effetti politici, portando anche il momento della decisione (ossia, il momento politico) a livello internazionale.

Di questa teoria Monnet fu il precursore e il più efficace realizzatore. Nato a Cognac nel 1889, Monnet si era occupato, sino alla vigilia della Prima guerra mondiale, dell’azienda vitivinicola di famiglia, viaggiando per il mondo. Aveva così acquisito una notevole esperienza internazionale, che andò a integrarsi con la sua straordinaria capacità di «combinare immaginazione e buon senso, geniale intuizione e realismo» (v. Romano, 2000, p. 355). Nel 1914 ebbe modo di incontrare, grazie ad un amico di famiglia, il Presidente del Consiglio francese, al quale sottopose l’idea di creare agenzie specializzate comuni per l’approvvigionamento alimentare e la fornitura delle armi degli eserciti francese e inglese (idea che fu messa in pratica tanto nella prima quanto nella Seconda guerra mondiale). Da allora Monnet fu proiettato nelle istituzioni internazionali: dal 1920 al 1923 fu segretario aggiunto della Società delle Nazioni (dove ebbe modo di sperimentare i limiti della vecchia diplomazia e la forza dei nazionalismi); negli anni Trenta fece il banchiere dapprima negli Stati Uniti e poi in Cina, «partecipando al risanamento economico e finanziario di numerosi paesi colpiti della crisi postbellica» (v. Anta, 2005, p. 20); all’inizio della Seconda guerra mondiale fece parte di una delegazione economica britannica negli Stati Uniti e concepì il “Victory program” che sarebbe stato poi attuato da Franklin Delano Roosevelt; nel 1943 fu membro del Comitato di liberazione nazionale ad Algeri e dal 1947 al 1953 ricoprì l’importante carica di Commissario generale alla Pianificazione per conto del governo francese.

Durante la Seconda guerra mondiale Monnet maturò una serie di convinzioni importanti. La prima era che i paesi europei, se non volevano rassegnarsi a svolgere un ruolo marginale nel nuovo scenario mondiale, avrebbero dovuto in qualche modo unirsi; la seconda era che per raggiungere un simile obiettivo occorreva superare la rivalità franco-tedesca, dovuta in larga parte alla produzione del carbone e dell’acciaio. A tal fine si sarebbe dovuto sottrarre le regioni della Ruhr e della Lorena al controllo dei rispettivi paesi e affidarle a un’autorità sovranazionale. Monnet si convinse inoltre che le agenzie sovranazionali specializzate, create nelle circostanze eccezionali della guerra, avrebbero potuto funzionare anche in tempo di pace; e che il funzionalismo, teorizzato da Mitrany per l’integrazione internazionale a livello mondiale, poteva essere applicato a livello regionale, cioè all’Europa.

Poiché non era un dottrinario, Monnet seppe sfruttare abilmente le circostanze per mettere in pratica le sue idee. Quando nel 1950 la Germania chiese di poter aumentare la sua quota di produzione di acciaio – richiesta che riapriva la “ferita” della Ruhr e sollevava antichi timori nei francesi, ma che incontrava il favore degli Stati Uniti, interessati al rafforzamento della Germania nel nuovo quadro della Guerra fredda – Monnet tirò fuori dal cassetto la sua vecchia idea di sottoporre ad un controllo comune l’industria carbosiderurgica della Germania e della Francia (allargandola anche agli altri paesi europei che si fossero resi disponibili). Da questa sua proposta nacque il Piano Schuman, la cui formulazione può essere considerata il “manifesto” del funzionalismo europeo: l’Europa, disse infatti il ministro degli esteri francese nella celebre dichiarazione del 9 maggio 1950, «non verrà creata tutta in una volta e secondo un unico progetto generale, ma verrà costituita attraverso realizzazioni concrete tali da creare solidarietà reali». L’anno successivo venne istituita la CECA, alla quale aderirono Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo.

Funzionalismo e “metodo comunitario”

La nascita della CECA fu importante non soltanto perché rappresentò il prototipo delle successive istituzioni europee, ma anche perché in essa trovò realizzazione il “metodo comunitario”, una procedura del tutto originale per realizzare forme di integrazione sovranazionale. Con essa un settore strategico della vita economica veniva sottoposto a un’autorità comune e indipendente. La CECA era infatti un’amministrazione autonoma, governata da un collegio (l’Alta autorità) composto da membri designati dai governi nazionali, ma indipendenti da essi perché irrevocabili. L’Alta autorità era affiancata da un’Assemblea consultiva (v. anche Parlamento europeo), designata dai rispettivi parlamenti, e da una Corte di giustizia (v. anche Corte di giustizia dell’Unione europea), chiamata a far rispettare il diritto comunitario. Vi era poi un Consiglio (v. anche Consiglio dei ministri), composto da membri dei governi nazionali, incaricato di armonizzare l’azione dell’Alta autorità con quella degli Stati membri. Era insomma un’istituzione che, pur avendo un’origine e un controllo di ultima istanza di tipo confederale, “replicava” al suo interno le funzioni proprie di un’entità sovrana: un parlamento (sia pure non elettivo e con funzioni consultive), un esecutivo indipendente (sia pure di tipo tecnocratico) e un potere giudiziario. Si potrebbe sostenere che il metodo comunitario fu, per le nascenti istituzioni europee, quello che il metodo federale era stato per gli Stati Uniti delle origini: un «compromesso creativo» tra due soluzioni opposte di integrazione inter-statale (nel caso americano, tra Stato unitario e confederazione, in quello europeo tra confederazione e Stato federale).

A dimostrare che il «compromesso creativo» ideato da Monnet fosse l’unica strada percorribile, in quelle determinate condizioni, per far progredire l’integrazione europea contribuì il fallimento, nel 1954, della Comunità europea di difesa (CED) e del connesso progetto di Comunità politica europea (CPE), di chiara ispirazione federalistica. I protagonisti della Conferenza di Messina (1955) – che si prefiggevano il rilancio dell’idea europea – si rifecero dunque al metodo comunitario e al modello della CECA: nacquero così, con i Trattati di Roma del 1957, la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), che avrebbe avuto scarso sviluppo, e la Comunità economica europea (CEE), che sarebbe invece diventata il “volano” del processo di unificazione.

Con la CEE il metodo funzionalista fu applicato a un obiettivo che pareva all’epoca assai ambizioso, se non utopistico: la perfetta integrazione economica dei sei paesi membri. Si trattava di dare vita, nell’arco di dodici anni (in realtà ce ne vollero molti di più), a un Mercato unico europeo, con un’unica Tariffa esterna comune e politiche comuni nei settori dell’agricoltura (v. Politica agricola comune), del commercio e dei trasporti (v. Politica commerciale comune; Politica comune dei trasporti della CE). La struttura istituzionale ricalcava quella della CECA, ma vi fu un chiaro rafforzamento – vista la portata degli obiettivi – dell’elemento confederale: se l’origine e le funzioni dell’Assemblea parlamentare e della Corte di giustizia rimanevano gli stessi, il Consiglio (composto dai ministri competenti degli Stati membri) veniva investito del potere legislativo e di gran parte di quello esecutivo. A bilanciare questa forte presenza degli Stati nazionali rimaneva la Commissione europea (nominata con gli stessi criteri dell’Alta autorità della CECA), alla quale spettava il diritto di iniziativa legislativa e l’attuazione delle direttive comunitarie (v. Direttiva). In sostanza, la Commissione poteva divenire (e in parte divenne, soprattutto durante la presidenza Jacques Delors) il fulcro operativo della CEE, perché a essa spettava la guida quotidiana della vita comunitaria. L’Europa, come ha lucidamente osservato Sergio Romano, ebbe così «una costituzione intergovernativa, ma fu diretta alla giornata da un organo tecnocratico che ebbe sin dall’inizio un’influenza decisiva sull’agenda del Consiglio e finì, in molti casi, per dettarne gli orientamenti. I governi, in altre parole, riservarono a se stessi le responsabilità di ultima istanza, ma ebbero il buon senso di delegare ad altri un’autorità che essi, paralizzati dal diritto di veto, non sarebbero stati in grado di esercitare». È vero che questo assetto delle istituzioni europee era carente, sotto il profilo democratico (v. anche Deficit democratico), come è stato più volte fatto notare dai federalisti; ma bisognerebbe anche chiedersi «quali sarebbero stati i progressi dell’integrazione europea se ogni decisione avesse richiesto l’unanimità dei paesi membri, se il Parlamento avesse avuto un effettivo potere di controllo e se i parlamentari avessero dovuto tener conto, nell’esercizio delle loro funzioni, dei discordanti interessi dei loro collegi elettorali» (v. Romano, 2000, p. 357).

Di fatto, la CEE, nonostante la lentezza con cui è stato realizzato il mercato unico, ebbe un innegabile successo: basti pensare che già nel 1961 il Regno Unito – che soltanto due anni prima aveva dato vita al sistema alternativo dell’European free trade association (EFTA, al quale aderirono sette paesi) (v. Associazione europea di libero scambio) – presentò domanda di ammissione e che a vent’anni dai Trattati di Roma il numero degli Stati membri era raddoppiato. Del resto, lo stesso Spinelli, nel 1970, riconobbe che la CEE, sebbene fosse «una specie di torso incompleto», era «l’unico vero elemento di correlazione e unificazione» esistente in Europa e che era dotato di un certo “dinamismo” (v. Anta, 2005, pp. 105-106).

Al di là degli aspetti legati all’integrazione economica, la CEE è stata un laboratorio nel quale l’esperimento di una sovranità europea, certamente limitata e “spuria”, ha comunque potuto progredire. Lo ha fatto nell’ambito della logica impostata dai Trattati di Roma: quella di un “negoziato permanente” (v. Olivi, 2001, p. 51) tra le esigenze nazionali, rappresentate dal Consiglio, e le istanze comunitarie, patrocinate soprattutto dalla Commissione. Da questo negoziato sono scaturite le innovazioni istituzionali succedutesi dalla metà degli anni Sessanta ai primi anni Novanta: la trasformazione dell’originaria Assemblea di secondo grado in un Parlamento eletto direttamente dai cittadini europei, il cui ruolo di controllo e di partecipazione alle decisioni comunitarie è stato progressivamente potenziato (in particolare, con l’Atto unico europeo, il Trattato di Maastricht e il Trattato di Amsterdam); il superamento del “Compromesso di Lussemburgo”, che aveva sancito la regola, tipicamente confederale (e infatti imposta da de Gaulle), del Voto all’unanimità nel Consiglio; il rafforzamento dei poteri della Commissione, che col tempo è entrata in un rapporto col Parlamento europeo che si avvicina alla dialettica governo/parlamento; infine, la messa in cantiere dell’unione monetaria (v. Unione economica e monetaria), che ha condotto – con l’introduzione dell’Euro e della Banca centrale europea – a una vera e propria cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali.

Tale processo culminava nel Trattato di Maastricht con l’istituzione dell’Unione europea, ossia di un’entità che prefigurava il passaggio dall’integrazione economica a quella politica. L’Unione, com’è noto, si fonda su tre “pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea): le tre Comunità (CECA, Euratom e CEE, che ha significativamente mutato la denominazione in CE, Comunità europea), la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), la cooperazione nei settori della Giustizia e affari interni (GAI). In realtà, il “pilastro” di gran lunga più solido è rimasto quello della CE: l’Europa – come dirà l’ultimo grande interprete del funzionalismo – ha continuato a camminare «su una gamba sola» (v. Delors, 2004, p. 337). Il funzionalismo è riuscito, in sostanza, a far maturare il problema dell’unificazione politica, ma non ha potuto – né avrebbe potuto, per sua stessa natura – condurlo a soluzione. L’Unione ha continuato a essere connotata da un evidente squilibrio «tra forte intergovernamentalismo e debole parlamentarismo» (v. Portinaro, 2007, p. 43).

La consapevolezza di questo squilibrio ha condotto, nel 2002, all’istituzione di una Convenzione per la riforma delle istituzioni europee (v. Convenzione europea). La Convenzione, come il suo illustre precedente americano, è andata oltre il suo mandato e ha presentato, nel 2003, un vero e proprio progetto di costituzione, che rappresentava il primo tentativo di andare oltre l’integrazione funzional-comunitaria (v. Costituzione europea). Tuttavia, la costituzione europea – approvata dai capi di Stato e di governo nel 2004 – non è stata ratificata da alcuni paesi membri. Da allora l’Europa è in una impasse la cui soluzione sembra poter provenire soltanto dalla “grande improvvisatrice”.

Stefano De Luca (2006)