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Grecia

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La Grecia, un paese devastato dalla Seconda guerra mondiale e da una dolorosa occupazione a opera delle potenze dell’Asse (1940-1944), mancò la ricostruzione del dopoguerra a causa della protratta e feroce guerra civile (1945-1949), che la collocò al centro della linea divisoria tra l’Ovest e l’Est. Alla fine si schierò con l’Occidente, partecipando all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) sin dal principio, beneficiando dei fondi del Piano Marshall per la sua economia e diventando membro dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE).

Alla fine degli anni Cinquanta, quando i Sei di allora intrapresero il cammino verso ciò che sarebbe diventata la Comunità europea, la Grecia si mostrò piuttosto incerta se aderirvi. Iniziative come l’Unione economica del Benelux e la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) furono seguite attentamente dalla stampa e accolte come “un passo positivo verso la futura cooperazione tra gli Stati europei”. Le condizioni in cui versava l’economia della Grecia, che era ancora basata principalmente sull’agricoltura e caratterizzata da squilibri nella bilancia dei pagamenti, e le delicate questioni di politica estera si frapposero nel percorso europeo; la questione di Cipro inquinò le relazioni con il Regno Unito mentre la Grecia esitò tra l’esperimento iniziale della Comunità economica europea (CEE) e la proposta dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA).

Nel 1957, quando la CEE iniziò a essere operativa e le prospettive del Mercato comune divennero chiare, all’interno dell’establishment politico greco si sollevarono richieste per tentare di aderirvi. L’industria, che proprio allora stava cercando nel contesto europeo di consolidare la propria base all’interno di uno scudo chiaramente protettivo, era riluttante mentre furono espressi timori sulla possibilità che l’agricoltura con un alto costo di produzione e nessun canale di distribuzione, potesse competere con la produzione di altri paesi europei. Al contempo, l’esistenza di un progetto di divisione dell’Europea in regioni permanentemente industriali e regioni permanentemente agricole preoccupò il sistema politico del paese.

Negoziati, conclusione e valutazione dell’Accordo di associazione tra Grecia e CEE

Alla nascita della CEE, il governatore della Banca centrale di Grecia Xenofon Zolotas nella sua relazione annuale osservò che «gli eventi del 1957 [sono] decisivi per le prospettive di progresso per l’economia greca […]. L’orientamento verso la creazione di un’ampia area di libero scambio in Europa si basa sulla ferma convinzione che l’aumento della produttività e il potenziamento della crescita economica dipendano dalla creazione di un mercato di massa più vasto e di imprese economiche più grandi». Nello stesso periodo, il governatore della Banca nazionale di Grecia, la principale banca commerciale, Vassilios Kyriakopoulos, nella sua relazione si espresse in modo più cauto: «l’abolizione delle tariffe e di altre restrizioni nel commercio transnazionale non offre una soluzione per la partecipazione dei paesi meno sviluppati alla divisione internazionale del lavoro. Infatti, se tale abolizione avvenisse indiscriminatamente, questi paesi incorrerebbero nel pericolo di rimanere emarginati […]. A qualunque condizione la Grecia partecipi all’integrazione dell’area europea, la sua produzione dovrà affrontare una concorrenza più forte; per sopravvivere, dovrà migliorare la sua organizzazione e ridurre i costi […]. La scelta degli investimenti da quel momento in poi dovrà seguire dei criteri più rigidi».

Questo era il clima generale in cui la Grecia prendeva la decisione di candidarsi all’Associazione e di iniziare i negoziati con la neoistituita CEE. La candidatura della Grecia venne discussa durante la prima metà del 1959 e presentata formalmente l’8 giugno 1959. I partiti politici di allora non sapevano in quale direzione muoversi, la Confederazione degli industriali e le banche esitavano; il primo ministro conservatore C. Karamanlis aveva allora una visione più chiara del “futuro europeo” della Grecia, all’interno della quale la dimensione politica aveva il sopravvento sulle preoccupazioni economiche. Questa predisposizione si ritroverà circa vent’anni dopo, quando negli anni Ottanta la Grecia cercò, riuscendoci, di aderire alla Comunità europea.

L’Accordo di associazione fu firmato due anni dopo, il 9 luglio 1961 ed entrò in vigore il 1° novembre 1962. L’accordo fissò lunghi periodi di transizione per i prodotti industriali (in genere 12 anni, ma estesi a 22 per i prodotti che rappresentavano circa il 30% delle importazioni greche in quel momento) nonché una procedura speciale di Armonizzazione per la politica agricola, in cui veniva affermato «il trattamento paritario dei prodotti delle due parti» ma solo una volta completata l’armonizzazione; non fu accettata alcuna partecipazione della Grecia ai meccanismi istituzionali che avrebbero dato vita alla PAC (Politica agricola comune). Aspetto molto importante, l’Accordo di associazione prevedeva la piena adesione alla scadenza del periodo transitorio, sebbene con procedure istituzionali poco chiare.

La decisione della Grecia di scegliere l’opzione dell’associazione, negoziata durante il 1959, in un momento in cui veniva corteggiata dall’EFTA generò tensioni rilevanti all’interno della vita pubblica. La rivistaThe Industrial Review”, considerata abbastanza vicina alla Confederazione degli industriali, si chiese «perché, visto che eravamo incerti se partecipare ai lunghi negoziati per accedere alla Comunità economica europea, abbiamo poi improvvisamente abbandonato i nostri dubbi e ci siamo affrettati […] non da pari a pari ma quasi fossimo in qualche modo degli intrusi nella ristretta Unione dei Sei, nonostante i contrasti che potranno insorgere nella cooperazione con i Sette».

Tuttavia, quando l’associazione divenne una realtà, il clima mutò gradualmente: The Industrial Review” commentava: «la nostra associazione al Mercato unico è una scommessa e le scommesse non sono mai sicure […]. Sorgerebbe un grosso problema se i periodi di transizione e le condizioni negoziate si dimostrassero insufficienti per consentire un graduale adattamento della nostra economia». Alle celebrazioni dell’Accordo di associazione, il ministro per il Coordinamento Panagis Papaligouras (che avrebbe negoziato vent’anni dopo la maggior parte dell’adesione della Grecia) richiese a tutte le forze politiche ed economiche «di partecipare all’impresa più importante dell’economia greca», ma spiegò anche che «privilegi e diritti esclusivi di ogni sorta sono inconciliabili con il previsto aumento della produttività e con l’incentivazione della produzione». Considerata la condizione dell’economia greca agli inizi degli anni Sessanta, racchiusa in meccanismi iperprotettivi e con aspetti statalisti (sebbene di destra), tali posizioni furono profetiche. Il Presidente della Commissione europea CEE Walter Hallstein affermò: «la Comunità constata il suo carattere aperto, il fatto che non si tratti di uno sforzo egoistico utile soltanto al singolo membro, ma è utile per la pace e l’influenza dell’Europa, oltre i confini della Comunità […]. La Grecia dal canto suo rafforza la sicurezza, associandosi in modo più stretto a paesi con cui ha per tradizione legami amichevoli e apre importanti prospettive per la sua economia. L’Associazione permetterà all’economia greca di raggiungere gradualmente lo stesso livello degli Stati membri della Comunità. Pertanto, alla fine sarà in grado di passare dall’associazione all’adesione a pieno titolo».

Colpisce ancora di più l’analisi sull’associazione riportata due anni dopo da Andreas Papandreu, l’allora direttore del neo istituito Centro greco di ricerche economiche, figlio del futuro primo ministro (progressista) George Papandreu e in seguito presidente del partito socialista notoriamente euroscettico e primo ministro negli anni Ottanta (v. anche Euroscetticismo). Nel suo libro Una strategia per lo sviluppo economico della Grecia osservava: «Se non verranno subito intraprese iniziative serie, la Grecia dopo la sua associazione alla CEE potrebbe rimanere o diventare un’economia esclusivamente agricola e un luogo di residenza per turisti, incapace di tenere il passo con il ritmo di crescita economica dei suoi partner della CEE […]. Ma tutti coloro che conoscono bene la situazione del paese non possono che essere ottimisti. Con il giusto obiettivo, l’impegno e la comprensione delle questioni, forse anche a costo di qualche sacrificio iniziale, il popolo greco raggiungerà gli obiettivi prefissati. E la Grecia assumerà un ruolo attivo nella Comunità europea dei popoli».

Invece George Drakos, presidente della Confederazione degli industriali greci, circa cinque anni dopo l’avvio dell’accordo di associazione, forniva la seguente valutazione: «Per la nostra industria, il Mercato comune non dovrebbe essere considerato come una sorta di gara olimpica, dove è più importante partecipare che vincere; siamo in un campo di battaglia dove ciò che conta è vincere […]. Fissare passivamente un orizzonte oscuro non è di alcuna utilità, e ancora più inutile è osservare le cose in un’ottica di eccessivo ottimismo».

Nel luglio del 1964, il Consiglio di associazione (dove la Grecia sedeva accanto ai Sei) diede istruzioni affinché tutti gli aspetti della politica agricola (regime commerciale, aspetti finanziari, approcci istituzionali) venissero esaminati in modo costruttivo. L’armonizzazione agricola venne ripetutamente discussa senza però ottenere alcun risultato. Jean Rey, che partecipò ai negoziati in qualità di rappresentante della Commissione europea sottolineò: «la Commissione sostiene pienamente il parere che l’armonizzazione […] dovrebbe consentire alla Grecia di trarre benefici dalla graduale elaborazione della PAC e per certi versi anche dai meccanismi finanziari stabiliti dalla CEE». In realtà questa posizione non ebbe un seguito effettivo.

Nel frattempo, il Protocollo finanziario allegato all’Accordo di associazione (che consisteva in una dotazione finanziaria di 125 milioni di dollari di cui 50 erano sovvenzioni) iniziò a essere operativo con il trasferimento di fondi da parte della Banca europea per gli investimenti (BEI). La BEI finanziò, inter alia, progetti di costruzione di strade, centrali idroelettriche, industrie cementizie e fabbriche di alluminio su larga scala.

Gli scambi tra la Grecia e i Sei aumentarono in modo significativo, ma il disavanzo della bilancia dei pagamenti crebbe rapidamente per tutti i primi cinque anni di associazione. Sia sul fronte dell’armonizzazione agricola che su quello del sostegno finanziario si registrarono nello stesso periodo progressi lenti. In particolare, quando fu regolato il mercato dell’olio di oliva, sorsero problemi con il regime per l’olio greco, come anche il commercio del tabacco greco sollevò controversie e le esportazioni di frutta fresca crearono problemi; la partecipazione finanziaria della Comunità alle misure per l’armonizzazione rimase un problema costante.

Il “congelamento” dell’associazione

Il 21 aprile 1967 avvenne il colpo di Stato militare in Grecia e una dittatura (di destra e fortemente anticomunista) prese il potere. Il 2 maggio, a meno di due settimane dal golpe, la Commissione parlamentare mista Grecia-CEE si riunì per discutere la questione ed espresse la più profonda preoccupazione per lo stravolgimento causato dagli eventi che minavano le fondamenta stesse dell’associazione della Grecia alla CEE. L’8 maggio, nel corso della discussione su un’interrogazione orale, sia il presidente della Commissione parlamentare mista P. Schuijt sia il presidente della Commissione affari politici Edoardo Martino fecero appello ai membri del Parlamento europeo «affinché non rimanessero indifferenti di fronte alla dimensione violenta degli eventi avvenuti in Grecia»; Martino richiese che il colpo militare fosse condannato; Schuijt si chiese apertamente se la Comunità europea potesse riconoscere il governo militare (soprattutto prima che i governi dei Sei non si fossero espressi in merito). Il rappresentante della Commissione Lionello Levi Sandri sottolineò che le competenze della Commissione erano limitate su tali questioni e che l’accordo di associazione si era concluso tra gli Stati membri e la Grecia. Inoltre, egli espresse la seria preoccupazione della Commissione sul modo in cui «gli eventi in Grecia avrebbero potuto influire sui progressi dell’Associazione».

Poco dopo, nel luglio 1967, la Commissione informò il Consiglio che intendeva “congelare” le relazioni con la Grecia. Era giunta a tal intento a seguito del voto in Parlamento (il 10 maggio) di una Risoluzione secondo cui «l’associazione, che prevede la futura adesione della Grecia alla Comunità, verrà applicata […] solo se in Grecia verranno ristabilite le istituzioni democratiche e le libertà politiche e sindacali». Il Consiglio, senza prendere formalmente una decisione, avallò la posizione della Commissione.

Da quel momento in poi e principalmente dalla fine del Protocollo finanziario (che scadeva a settembre dello stesso anno), la Comunità mantenne congelata l’associazione. In pratica, ciò comportò che non venisse più fornita alcuna assistenza finanziaria alla Grecia, né tanto meno furono compiuti progressi nell’armonizzazione. Nel frattempo, quelle parti dell’associazione che prevedevano un’applicazione più o meno automatica (riduzione delle tariffe, apertura delle quote) continuarono a funzionare. Questa struttura poco equilibrata del “congelamento” dell’Associazione creò del risentimento in Grecia, soprattutto negli ambienti economici: in particolare un editoriale dell’accreditato settimanale finanziario “Economicos Tachydromos” si scagliò con veemenza contro l’ipocrita posizione della CEE, la cui richiesta che venisse ristabilita la democrazia era solo un bluff da smascherare. Ma tale risentimento fu superato dal sentimento popolare che fu sempre contrario alla dittatura e pensava di avere trovato un alleato nella posizione negativa presa dalla Comunità.

Durante i sette anni di dittatura in Grecia, la Comunità dovette riconsiderare i tempi e l’esatto significato del “congelamento” dell’Associazione.

Nel febbraio 1970, l’eurodeputato francese Vans presentò al Parlamento una bozza di risoluzione a nome del gruppo socialista richiedendo la sospensione formale se non l’annullamento dell’Accordo di associazione (la mozione venne ritirata nel 1971, senza ulteriori spiegazioni). Al contrario, l’eurodeputato cristiano-democratico tedesco Hans-Edgar Jahn si impegnò a cercare di “normalizzare” le relazioni tra Grecia e CEE. Nell’agosto 1972, infatti, egli chiese il parere della Commissione giuridica del PE che affermò che il cambio di regime in Grecia non aveva intaccato le reali fondamenta dell’accordo di associazione e che, quindi, esso poteva ancora essere valido. Inoltre, Jahn sostenne che dal punto di vista economico la Grecia non avrebbe dovuto e essere lasciata fuori, «poiché la storia ha dimostrato che le sanzioni economiche raramente producono qualche risultato».

Il Parlamento europeo mantenne la sua posizione originale di prosecuzione del congelamento dell’associazione e le relazioni, quindi, si limitarono agli “affari correnti” mentre la Commissione e il Consiglio dei ministri, in risposta alle interrogazioni scritte presentate da due eurodeputati, sostennero questa posizione non sul piano della validità giuridica dell’Accordo di associazione, ma come logica conseguenza degli avvenimenti del 21 aprile.

Due avvenimenti sembrarono produrre un disgelo nelle relazioni tra la Grecia e la CEE. Nel 1972, la Grecia richiese che i vantaggi del Sistema di preferenze generalizzate (negoziati all’interno dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio, GATT) venissero estesi anche all’economia greca. Nel 1973, la CEE si allargò accogliendo Regno Unito, Danimarca e Irlanda. Ciò richiese che venisse negoziato, e alla fine firmato, un protocollo aggiuntivo con la Grecia, in conformità all’art. 54 dell’accordo di associazione. Atene ritenne che almeno questo secondo fronte avrebbe portato a una “normalizzazione”. Così non fu e sia il vicepresidente della Commissione Sir Cristopher Soames (marzo 1973) che lo stesso Presidente François-Xavier Ortoli (maggio 1973) confermarono la decisione della Commissione di mantenere l’associazione congelata. Quando alcuni oppositori politici della dittatura vennero ancora una volta incarcerati, il Presidente del Consiglio Van Eslande dichiarò pubblicamente di condividere il desiderio del Parlamento che il Consiglio rendesse più dura la posizione della CEE verso la Grecia.

Nell’aprile 1974, alcuni mesi prima della caduta della dittatura dei colonnelli greci, il socialista tedesco Ludwig Fellermaier presentò al PE a nome del Gruppo socialista un’interrogazione orale chiedendo quali fossero le opzioni della Commissione che portavano “all’annullamento dell’accordo di associazione. Nel dibattito che seguì, Claude Cheysson parlando a nome della Commissione, sottolineò le prospettive che si sarebbero aperte per la Grecia nel caso in cui fossero state ristabilite istituzioni parlamentari normali sia sul fronte economico (sostegno finanziario maggiore) che su quello politico (possibilità per una Grecia democratica di candidarsi all’adesione alla Comunità).

Dalla ripresa dell’accordo di associazione ai negoziati di adesione

Alla caduta del regime militare nel luglio 1974 il governo greco guidato da Konstantinos Karamanlis prestò giuramento dichiarando che in cima alla lista delle priorità vi era quella di ripristinare l’associazione e come passo successivo raggiungere l’obiettivo ultimo dell’adesione a pieno titolo. Il presidente della Commissione, François-Xavier Ortoli, inviò a Karamanlis un telegramma di congratulazioni, ribadendo la sua convinzione che il progresso della democrazia in Grecia non poteva che avere un impatto positivo sugli sviluppi dell’associazione.

Meno di un mese dopo, il 22 agosto 1974, il governo greco richiese la “riattivazione” dell’associazione; dopo una settimana, la Commissione invitò il Consiglio a migliorare le relazioni tra la Comunità e la Grecia. Il 12 settembre, alla fine di tre giorni di riunioni tra il presidente Ortoli e il commissario Finn Olav Gundelach da una parte e il ministro degli Esteri greco Georgios Mavros e il ministro delle finanze John Pesmazoglou dall’altra, la Commissione garantì che avrebbe fatto tutto il possibile per completare i preparativi necessari alla riattivazione dell’associazione, secondo le modalità che la Comunità e la Grecia avrebbero successivamente stabilito. Poco dopo (17 settembre), il Consiglio confermò la sua decisione di riprendere il processo di sviluppo dell’associazione, per rendere possibile la successiva adesione della Grecia alla CEE. Il Parlamento europeo si associò a questa dichiarazione positiva di intenti.

Il 16 novembre, la Grecia sottopose alla Comunità un memorandum dove veniva espressa l’intenzione di candidarsi all’adesione; tuttavia, non venne inoltrata nessuna candidatura formale. Occorre ricordare che il 1° novembre 1974 si concludeva il periodo di transizione di 12 anni previsto dall’accordo di associazione. Tuttavia, il periodo di transizione di 22 anni che comprendeva una vasta gamma di prodotti sarebbe terminato solo nel 1984; per questa ragione, quando alla fine la Grecia si candidò formalmente all’adesione, la base giuridica cui si ricorse fu l’art. 237 del Trattato CEE (generico) e non l’art. 74 (specificamente previsto) dell’accordo di associazione).

Il memorandum greco richiedeva che venisse intrapresa una serie completa di iniziative specifiche in modo da recuperare il tempo perduto nella fase di “congelamento” dell’associazione: riattivazione delle procedure per l’armonizzazione agricola, erogazione dei restanti fondi del (primo) protocollo finanziario, negoziazione di un secondo protocollo finanziario, avanzamento nel coordinamento delle misure di politica commerciale e delle politiche relative al mercato del lavoro. Venne anche proposto che l’esistente associazione fosse estesa ai tre nuovi Stati membri della CEE: Regno Unito, Danimarca e Irlanda.

Il Consiglio rispose in modo positivo, decidendo di avviare negoziati con un ritmo accelerato affinché un protocollo aggiuntivo all’accordo di associazione potesse includere l’ultimo punto e perché venisse discussa favorevolmente l’assistenza finanziaria. La posizione sull’armonizzazione agricola, soprattutto per quanto riguarda il sostegno dei prezzi, fu nettamente più fredda. Tuttavia, furono avviati i negoziati in settori importanti come quello del vino e della frutta fresca.

Dopo una visita di Stato di Karamanlis a Parigi nell’aprile 1974, durante la quale la Francia dichiarò esplicitamente il suo sostegno, la Grecia presentò la sua candidatura all’adesione il 12 giugno 1975. Il 2 luglio la Commissione istituì una task force per esaminare la candidatura greca.

In Grecia, il sostegno all’adesione fu ampio. Karamanlis credeva fermamente nell’unione della Grecia all’Europa come lui stesso spiegò rivolgendosi agli ambasciatori dei Nove riunitisi ad Atene: «Vorrei sottolineare che la Grecia non richiede l’adesione per motivi esclusivamente economici. La nostra candidatura poggia principalmente su motivi politici ed è legata al ripristino della democrazia e al futuro della nostra nazione». Oltre al partito di destra Nea dimokratia di Karamanlis, anche il partito di centrodestra Enosis kentrou di Gorge Mavros era a favore dell’adesione, pertanto più di 4-5 dei membri del Parlamento di allora erano favorevoli. Questa volta l’industria fu meno reticente rispetto a quando si era discussa l’associazione. Il partito comunista (Kommunistikό komma Elladas, KKE, da poco legalizzato) si oppose; e lo stesso dicasi del Panellinio sosialistiko kinimail (PASOK, neo partito socialista) di Andreas Papandreu, che negli anni Ottanta sarebbe diventato primo ministro.

In un’intervista rilasciata alla Rivista ufficiale della Commissione europea “Comunità europea”, del novembre-dicembre 1974, Papandreu dichiarò: «Non è mia abitudine essere pessimista [ma] unire un’economia sottosviluppata come quella della Grecia alle economie floride della maggior parte dei paesi europei occidentali comporta seri rischi». E proseguiva esprimendo il timore che i benefici stimati (flussi finanziari, condizioni migliori per l’esportazione di prodotti agricoli) non avrebbero potuto compensare gli effetti negativi (piena liberalizzazione delle importazioni, peggioramento della bilancia dei pagamenti, emigrazione, penetrazione più facile di capitali esteri). Nel novembre 1976, il PASOK ribadì questa posizione in una pubblicazione ufficiale dove argomentava ampiamente la sua contrarietà con un aspro tono anti CEE. E curiosamente a presentarlo fu Kostas Simitis, che sarebbe diventato primo ministro a metà degli anni Novanta e che in seguito si sarebbe distinto per le sue fervide opinioni europeiste. «L’ottimismo che nutrono i sostenitori dell’adesione è infondato», scriveva Simitis; «Nella nostra relazione rifiutiamo l’adesione; e rifiutiamo parimenti ogni adesione vincolata a condizioni. Non esiste via di uscita dalla dipendenza dall’assistenza di paesi industrialmente sviluppati […]. Rifiutare l’adesione per il nostro paese non significherebbe rimanere isolato, bensì sviluppare delle relazioni sfaccettate».

Nel frattempo, in Europa aveva iniziato a consolidarsi un certo grado di resistenza alla prospettiva dell’Allargamento della CEE dei Nove alla Grecia. Nel gennaio 1976, avvertendo che questa tendenza aumentava, Karamanlis scrisse a Ortoli per ribadire l’importanza fondamentale che rivestiva l’adesione per la Grecia. Subito dopo, il 29 gennaio, la Commissione pubblicò il suo parere formale, dove si dichiarò a favore di una risposta chiaramente favorevole alla candidatura della Grecia, proponendo inoltre che venissero aperti negoziati in tal senso. Inoltre, la Commissione si soffermava a lungo sui potenziali problemi derivanti dall’adesione greca, problemi di natura economica (il grado di assistenza finanziaria) e politica (soprattutto le relazioni tese tra Grecia e Turchia). Infatti sembrava che la Commissione stesse proponendo una sorta di fase di preadesione alla Grecia. Settori della stampa europea furono ancora più evasivi.

Il governo greco reagì malamente: Karamanlis chiamò gli ambasciatori dei Nove per esprimere il suo profondo disappunto; un memorandum dai toni aspri fu inviato alle capitali; il Commissario Altiero Spinelli dichiarò pubblicamente che era «una decisione sbagliata» proporre alla Grecia una fase di preadesione; il governo francese diede rassicurazioni sul fatto che il parere della Commissione non era vincolante.

Alla fine, il 9 febbraio 1976, il Consiglio accettò la candidatura greca e decise di avviare subito i negoziati. Il (nuovo) presidente della Commissione, Gaston Thorn, spiegò che la posizione della Commissione era stata fin dall’inizio favorevole; ma quando gli fu chiesto in che misura l’allargamento potesse procedere con l’“Approfondimento” della Comunità, sottolineò cautamente la speranza che quest’ultimo progredisse prima che l’adesione greca si realizzasse. I negoziati furono finalmente aperti il 17 luglio a Bruxelles e il Presidente del Consiglio Max van der Stoel affermò: «L’allargamento della CE, che tutti desideriamo abbia un buon esito, aprirà nuove prospettive per la nostra avventura politica; dovremmo costruire un’Europa vicina all’opinione pubblica dei nostri paesi, non solo considerando il piano economico, ma anche quello sociale e umano». Il ministro greco per il coordinamento P. Papaligouras affermò che la stragrande maggioranza dei greci condivideva gli ideali espressi da van der Stoel, assicurando che la Grecia si sarebbe impegnata, una volta membro, per la coesione tra i dieci paesi.

Alla seduta di apertura dei negoziati, la Grecia dichiarò formalmente di accettare l’Acquis comunitario, richiedendo solo alcuni meccanismi di transizione, formulando la previsione che i negoziati relativi alla legislazione secondaria della CEE si sarebbero potuti concludersi prima del luglio 1977 grazie all’acquis dell’associazione. La Comunità era riluttante a dare indicazioni sulla durata e affermava chiaramente che l’adesione era cosa ben diversa dall’associazione.

I negoziati, in realtà, si sarebbero prolungati e sarebbero stati complessi, con particolari problemi sorti nel settore agricolo (come previsto), nonché in quello riguardante la libertà di circolazione dei lavoratori, che richiesero speciali meccanismi di transizione. Una speciale clausola di claw-back venne anche prevista nell’atto di adesione per placare i timori della Grecia (condivisi anche dagli esperti della Commissione) che il paese potesse diventare un “contribuente netto” al bilancio della Comunità. Dopo vari e difficili passaggi dei negoziati, nel maggio 1979 venne firmato ad Atene l’Atto di adesione, la quale entrò in vigore dal 1° gennaio 1981.

Dopo l’adesione: dagli incerti inizi a una posizione sempre più positiva

L’adesione della Grecia alla Comunità europea coincise con un cambiamento radicale del profilo politico del paese. Nell’ottobre 1981, il partito di centrodestra Nea demokratia perse il potere e il partito socialista PASOK del bellicoso Andreas Papandreu salì trionfalmente alla ribalta della scena politica. Quando era all’opposizione, il PASOK aveva assunto una posizione anti-europeista piuttosto attiva; secondo il partito, l’adesione avrebbe contribuito a consolidare il ruolo marginale del paese come Stato satellite del sistema capitalistico rendendo impossibile la pianificazione nazionale, minando gravemente l’industria greca e portando all’estinzione degli agricoltori greci. Il PASOK, poco prima della vittoria elettorale aveva (quasi) promesso di organizzare un referendum sulla possibilità o meno che la Grecia restasse nella CEE; si parlò di “rinegoziare” l’adesione e le sue condizioni; si fece anche riferimento a un “mercato comune mediterraneo” o a un mercato mediterraneo balcanico-orientale. Tali posizioni non si discostavano molto da quelle euroincerte che prevalevano tra l’opinione pubblica (sostenute anche dai media): nell’autunno 1981, da un sondaggio dell’Eurobarometro risultò che solo il 38% dei greci riteneva l’adesione “qualcosa di positivo”.

Tuttavia, una volta salito al potere, il PASOK adottò una posizione meno aggressiva verso la CEE. Per poter cambiare opinione senza perdere la faccia, il governo Papandreu decise di inoltrare alla Commissione europea un “Memorandum sulle relazioni tra la Grecia e la CEE”, giustificandolo all’opinione pubblica greca come una piattaforma di richieste minime per far rimanere il paese nella CEE e a Bruxelles come un elenco di punti da chiarire e/o da negoziare senza stravolgere il quadro istituzionale dell’adesione greca. In realtà, il memorandum sollevò principalmente la questione di un maggiore trasferimento dei fondi comunitari, in modo da migliorare le strutture inadeguate del paese e sostenere l’agricoltura greca; fu presentato, inoltre, un elenco di deroghe/esenzioni riguardo all’applicazione delle norme comunitarie dell’acquis in settori delicati, per ovviare alle conseguenze negative dall’apertura dei mercati dopo l’adesione.

La Commissione europea dei primi anni Ottanta, alla ricerca di successi e quindi disposta ad aumentare gli aiuti dei Fondi regionali e sociali allo scopo di introdurre misure di coesione (v. Fondo di coesione) (i Nove che erano Dieci con l’adesione greca e che sarebbero presto diventati Dodici, aggiungendo così un sensibile tratto meridionale/meno sviluppato alla Comunità) decise di avviare un negoziato su basi pragmatiche con la Grecia. Lo strumento modello dei Programmi integrati mediterranei, negoziato nei primi anni Ottanta, offrì alla Grecia (insieme a Italia e Francia meridionale) finanziamenti privilegiati a partire dal 1985 e permise di instaurare una stretta cooperazione tra le amministrazioni greche e i Fondi strutturali. Furono così trovate soluzioni pragmatiche a molte questioni rimaste irrisolte circa l’implementazione dell’acquis, quali gli aiuti statali, il sostegno alle imprese in crisi, le regole della PAC.

La Grecia tuttavia reagì in modo negativo, o per lo meno con molta incertezza, in merito alla cooperazione politica (ad esempio riguardo alle posizioni della Comunità europea nei confronti delle relazioni Est-Ovest in Europa, o dell’incidente del jumbo della Korean Airlines). Ma il pragmatismo trionfò poco a poco anche in tali questioni. Anche se non fu mai esplicitamente riconosciuto, il fatto che i successivi Programmi di stabilizzazione della sempre più fragile economia greca avessero beneficiato durante gli anni Ottanta di un tacito se non esplicito sostegno di Bruxelles­, ebbe la sua parte nel costruire un nuovo consenso riguardo all’Europa in Grecia. Contribuì a tutto ciò anche l’aumento dei trasferimenti netti dal bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) alla Grecia che da 600 milioni di Unità di conto europea (ECU) nel 1982 giunsero a 1,5 miliardi nel 1988 fino a 2,5 miliardi nel 1992 (mentre il secondo “pacchetto Delors” prevedeva 19,2 miliardi fino al 1999). Il fatto che negli anni 1986-1987 il responsabile dell’economia greca fosse il ministro dell’Economia interna Kostas Simitis, che aveva sperimentato nel ruolo di ministro dell’Agricoltura la tattica negoziale di Bruxelles e che da iniziale socialista dogmatico aveva assunto posizioni più europeiste, facilitò l’atteggiamento pragmatico; anche la stretta cooperazione con il lungimirante presidente della Commissione Jacques Delors svolse un ruolo importante.

L’opinione pubblica lentamente si adeguò; nella primavera 1984, l’eurobarometro mostrava ancora un sostegno piuttosto incerto, ma nell’autunno 1987 la percentuale di greci che ritenevano che l’adesione alla CEE fosse positiva salì al 58%; quattro anni dopo, quando stava per completarsi il Trattato di Maastricht, toccò il 73% per poi lentamente scendere al 68% due anni dopo. Solo l’8% dei greci rimase dell’opinione che l’adesione alla CEE fosse negativa. Considerando la questione da una diversa prospettiva, il 44% dei partecipanti all’eurobarometro nel 1984 rispose che la Grecia aveva beneficiato dell’adesione, il 67% nel 1988, il 72% a metà del 1993. In quel periodo, il sostegno al Trattato di Maastricht e alla creazione di una moneta unica europea era alto, il 71% (il 77% era a favore di una Banca centrale europea), nonostante il fatto che l’economia greca fosse ancora molto lontana da quelli che sarebbero diventati i cosiddetti “criteri di Maastricht”, in termini fiscali (disavanzo e debito) e di inflazione: il disavanzo era più del 10% del PIL, il debito era più del 100% del PIL (secondo solo a quello del Belgio e vicino a quello dell’Italia) e l’inflazione si manteneva costantemente a due cifre.

Ugualmente alto era il sostegno a una politica estera e di sicurezza comune (73%) e persino a una responsabilità della CEE per la difesa (78%). Per un paese che fino a pochi anni prima era favorevole a mantenere il veto nazionale, un tale cambiamento venne osservato con interesse. Lo stesso dicasi per l’essenziale cambiamento nelle posizioni assunte dai partiti politici greci riguardo all’Europa: mentre Nea Demokratia, che ritornò al potere per tre anni dal 1990 al 1993, rimase fermamente a favore per tutto il periodo, l’antieuropeista PASOK aveva cambiato in modo impressionante il suo orientamento (rasentando a volte l’euroentusiasmo) e uno dei due rami del Partito comunista degli anni Settanta, gli eurocomunisti, cioè l’attuale Synaspismos (SYN), adottò posizioni europeiste. Si può affermare che nei primi anni Novanta, quando la scissione dell’Europa in due, Est e Ovest, ebbe fine, la Grecia pensava in modo completamente diverso all’Europa, alla Comunità europea che sarebbe presto diventata l’Unione europea.

La Grecia in Europa

Fino a tutti gli anni Novanta, la Grecia godette del ruolo di una “buona europea”; tranne un insignificante dissenso politico, il paese partecipò attivamente alla negoziazione del Trattato di Maastricht, del Trattato di Amsterdam e del Trattato di Nizza; in seguito sostenne e partecipò ai negoziati, reggendo la presidenza del Consiglio nel 2003 (v. Presidenza dell’Unione europea), e ratificò (in Parlamento) il progetto di trattato costituzionale (v. Costituzione europea).

Durante tutto il percorso istituzionale seguito dalla CEE/UE, la Grecia si schierò sempre dalla parte degli integrazionisti/federalisti (v. anche Federalismo); sostenne fermamente l’aumento dei poteri del Parlamento europeo, un ruolo più attivo della Commissione e il passaggio al voto a Maggioranza qualificata nel Consiglio, oltre all’estensione delle Competenze dell’Unione nei settori della politica estera, della sicurezza e della difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa). Nelle ultime fasi dei negoziati del Trattato costituzionale, quando l’impasse dell’Europa in politica estera riguardo all’Iraq era evidente, la Grecia si schierò con Germania, Francia e Belgio nelle discussioni circa una core Europe, un Nocciolo duro, nel settore della difesa.

La Grecia sostenne anche le proposte di allargamento sia ai paesi dell’Europa centrale e orientale nel 2004 (compresi Malta e Cipro, e quest’ultima rivestiva una certa importanza per la Grecia) e quello ai Balcani orientali nel 2007.

Tali posizioni istituzionali sono collegate a tre evoluzioni parallele: in primo luogo, vi fu la determinazione della Grecia nell’avviare gli adattamenti economici necessari per entrare nell’area dell’Euro. Dopo un intenso sforzo sia sul fronte fiscale che su quello relativo all’inflazione, avendo adottato una “politica della dracma pesante” per deflazionare, e avendo scelto un tasso centrale della valuta nazionale sfavorevole (per la sua economia reale) rispetto all’euro, riuscì a entrare nell’euro proprio nella fase finale dell’introduzione della moneta unica, nel 2001. Sebbene i dati fiscali utilizzati fossero successivamente rivisti (il 3% del PIL per il disavanzo fiscale al momento dell’adesione fu poi ricalcolato al 6.1%), la Grecia in realtà attuò una notevole manovra correttiva della sua economia. Nonostante il duro impatto che tale decisione ebbe sul tenore di vita di importanti segmenti della popolazione, il consenso all’adesione all’Unione europea da parte dell’opinione pubblica rimase alto. Il sistema politico utilizzò l’ancoraggio all’euro, poi la partecipazione alla moneta unica, per “importare” quella disciplina fiscale che in realtà l’economia greca aveva evitato per trent’anni.

In secondo luogo, la Grecia si rendeva conto che il fragile e a volte pericoloso contesto internazionale dei Balcani-Europa sudorientale e del Mediterraneo orientale richiedeva, se addirittura non imponeva, un nuovo tipo di alleanze. Pertanto, sebbene l’opinione pubblica greca si opponesse fortemente alla NATO e all’intervento/presenza dell’UE in Bosnia, poi in Serbia e nel Kosovo, la posizione ufficiale adottata dalla Grecia fu simile a quella dell’UE: incerta a volte, ma nel lungo termine coerente. E cosa ancora più significativa, si ritenne che la disputa sempre accesa con la Turchia, soprattutto riguardo all’Egeo nonché all’isola di Cipro divisa e parzialmente occupata, potesse essere risolta grazie a una soluzione europea con la Turchia. Lo sviluppo di una doppia relazione triangolare tra Grecia-UE-Turchia e Turchia-UE-Cipro portò in realtà l’Unione a cercare di realizzare un equilibrio in questa situazione esplosiva, o quanto meno di promuoverlo. L’adesione di Cipro nel 2004 e l’incerto status di candidato all’adesione della Turchia furono un esperimento importante per l’Europa.

Un terzo fattore era costituito dalla richiesta ricorrente di modernizzazione, sia sociale che economica del paese. Fin dall’inizio, quando Karamanlis condusse la Grecia verso l’adesione (e prima ancora, quando fu decisa l’associazione) e soprattutto quando Simitis optò per la partecipazione e coltivò l’idea di un nocciolo duro europeo, una core Europe (fatta propria poi da Karamanlis jr. dopo il 2004), l’Europa si dimostrò un catalizzatore per i cambiamenti che dovevano avvenire, o almeno per accelerarne il ritmo. La liberalizzazione dei mercati, la riforma della previdenza sociale e persino la regionalizzazione sono stati vantaggi derivati dall’adesione all’UE.

A.D. Papayannides (2005)