Italia

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L’inizio di una politica europeistica segna in Italia la ripresa del suo ruolo internazionale dopo la Seconda guerra mondiale. Ciò non poté avvenire che a seguito di due eventi necessari: in primo luogo la ratifica del trattato di pace da parte della sua Assemblea costituente, eletta per elaborare una nuova Carta costituzionale a fondamento del nuovo Stato repubblicano, dopo il referendum che aveva compiuto tale scelta e la concomitante sua elezione. In secondo luogo la prova elettorale per il nuovo Parlamento nazionale del 18 aprile 1948, che diede una schiacciante maggioranza alle forze anticomuniste, in particolare al nuovo partito cattolico, la Democrazia cristiana, che alla Camera dei deputati conquistava la maggioranza assoluta dei seggi. Queste elezioni ratificarono la scelta occidentale dell’Italia, dopo una campagna elettorale svoltasi all’insegna di una netta contrapposizione che trasferiva nella politica interna quella della Guerra fredda, e che vide i partiti di osservanza filosovietica attestarsi sul 31% dell’elettorato, con una lista, il Fronte popolare, che univa al PCI (Partito comunista italiano) anche il PSI (Partito socialista italiano) di Pietro Nenni.

Il trattato di pace può dirsi il lungo e difficile approdo sul quale necessariamente si concentrò la maggior parte dell’attenzione della classe dirigente, lungo un percorso che iniziò prima della Conferenza della pace, che si tenne a Parigi dal luglio al settembre 1946, con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, fino almeno al marzo 1947, quando il governo italiano vi appose la sua firma, e che passò attraverso fasi diverse, dall’armistizio alla cobelligeranza, e vide l’avvio della Guerra fredda e i primi cauti passi da parte di Alcide De Gasperi verso l’alleanza occidentale. Questo percorso segna in modo indelebile la preminenza del rapporto con gli Stati Uniti, che si conserverà a lungo nella politica estera italiana. L’Italia con la sconfitta bellica subiva necessariamente un drastico ridimensionamento nel suo ruolo di politica estera, dovendo in primo luogo sottostare alle condizioni poste dalle potenze vincitrici. Soprattutto gli inglesi, ma anche i francesi e i russi intesero questo ruolo attraverso il disegno di una pace “punitiva”, diversamente dagli americani che inclinavano per una “riabilitazione” della posizione italiana, sempre assegnando a essa un ruolo minore. Il sostegno americano fu indispensabile negli aiuti alimentari e di materie prime e nel sostegno finanziario. Diversamente nella definizione del trattato di pace, se gli Stati Uniti furono l’interlocutore privilegiato dall’iniziativa diplomatica del governo italiano, questo non produsse pressoché alcuno degli effetti sperati, prevalendo negli indirizzi della politica americana i problemi più generali di stabilizzazione dell’equilibrio politico internazionale, in primo luogo tra le potenze vincitrici.

Una volontà americana a favore dell’Italia si manifestò pressoché soltanto sulla pretesa francese di annettere la Valle d’Aosta e col divieto da parte del generale Dwight Eisenhower a che la Francia partecipasse all’occupazione italiana con truppe marocchine. Sulla frontiera orientale l’occupazione dell’Istria da parte dell’esercito di Tito non fu ostacolata. Il tardivo intervento del generale Alexander su Trieste garantì da questa occupazione solo la città e una zona a essa circostante. Nel trattato di pace Trieste non veniva ricongiunta all’Italia e si costituiva Territorio libero, costituito da due zone, una occupata dagli angloamericani, l’altra dagli iugoslavi, questione che doveva risolversi con l’annessione all’Italia della prima di queste solo nel 1954. Gravò sulla Conferenza di Parigi l’ipotesi di conferire l’Alto Adige all’Austria, sostenuta dagli inglesi, non esclusa dai francesi, che fu espunta dalle trattative per un dissenso nel frattempo maturatosi tra il governo sovietico e quello austriaco. Le rettifiche del confine occidentale con la Francia a Briga e Tenda e sul Moncenisio furono poi ulteriormente limitate da accordi successivi.

L’incipiente Guerra fredda aprì nuovi spazi per l’Italia soprattutto nel rapporto con gli Stati Uniti, che De Gasperi colse nella sua prima visita ufficiale negli Stati Uniti nel gennaio del 1947. L’Italia il 2 ottobre 1946 era stata ammessa nelle istituzioni di Bretton Woods e il 27 marzo 1947 divenne membro effettivo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Nel giugno 1947 aderiva al Piano Marshall e questa scelta di campo coincideva all’interno con la rottura della collaborazione di De Gasperi con i socialcomunisti e la costituzione di un governo a maggioranza e composizione filo occidentale.

La vittoria del 18 aprile da parte della Democrazia cristiana (DC) e dei partiti laici (socialdemocratici, repubblicani, liberali) filo occidentali comportava un consolidamento di quest’ultima sul piano internazionale e la scelta, maturata attraverso un percorso non privo di difficoltà per l’opposizione soprattutto d’una parte della Curia romana, fu necessariamente quella dell’adesione al Patto atlantico, privilegiando ancora il rapporto transatlantico, dopo che l’Italia era rimasta ai margini dell’iniziativa britannica per un patto difensivo europeo, il Patto di Bruxelles.

Risalgono tuttavia a questo periodo i primi passi verso una politica europea. L’Italia entrava come membro a pieno titolo nell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) nell’aprile del 1948. In ottobre a Torino firmava con la Francia il progetto di un’Unione doganale. L’iniziativa, che in un secondo tempo si volle allargare ai paesi del Benelux, non avrebbe avuto concreti sviluppi, ed era piuttosto segnata da un reciproco intento, italo-francese, di andare incontro alle pressioni americane per il consolidarsi di una cooperazione economica europea che il Piano Marshall pronosticava, ma di per sé non realizzava.

Nel 1948 l’Italia aveva partecipato alla Congresso dell’Aia, promosso da Winston Churchill e l’anno seguente ne avrebbe ospitato la nuova sessione a Roma. A luglio dello stesso anno il Parlamento approvava la sua adesione al Consiglio d’Europa. Proprio la trattativa per l’ingresso nel Patto atlantico aveva rafforzato le inclinazioni europeistiche del governo (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). Era un interesse succedaneo che tuttavia serviva a rendere meno aspra la polemica con l’opposizione socialcomunista sull’Alleanza atlantica, soprattutto a cauterizzare le diffidenze di una larga parte del mondo cattolico verso il modello americano. Si innestavano d’altra parte su queste preoccupazioni politiche riflessioni più di fondo che improntavano di sé la nuova classe dirigente. La riflessione storico-politica tra le due guerre degli ambienti antifascisti era già approdata al tema del necessario superamento della conflittualità europea in un disegno di integrazione dagli imprecisi contorni, ma che tuttavia aveva rilievo nelle considerazioni sul presente. La vecchia classe dirigente liberale aveva preso atto della frattura che la Prima guerra mondiale aveva costituito e si era configurata insieme al finis Europae una sua rinascita in termini di unità europea, come segnatamente nella Storia d’Europa di Benedetto Croce. Luigi Einaudi, partendo dalle stesse premesse e facendo tra l’altro tesoro delle riflessioni che venivano da alcuni esponenti del liberalismo inglese, come Lionel Robbins e Lord Lothian, si era avvicinato a un’ipotesi federalistica (v. Federalismo), di cui è nutrito il suo discorso all’Assemblea costituente per la ratifica del trattato di pace e altri suoi scritti. Altri dall’esilio, soprattutto inglese e americano, avevano tratto la convinzione che gli Stati Uniti avrebbero assunto un ruolo chiave nell’equilibrio mondiale, e vi sarebbe stato il tramonto della politica di potenza delle nazioni europee, segnatamente Luigi Sturzo e Carlo Sforza. Per quanto le riflessioni di Sturzo del secondo dopoguerra non avessero più nel movimento politico cattolico la centralità che avevano avuto nel primo, esse alimentavano quelle interne al mondo cattolico, in cui una naturale diffidenza per il mondo anglosassone faceva ripiegare verso l’idea di cementare la comune radice cristiana dell’Europa continentale «con un’iniziativa cattolica che si sostituisse a quella protestante», di cui i bastioni polacco, ungherese e croato divenivano la propaggine dei fratelli separati. In un uomo come De Gasperi poi, formatosi a un’idea di nazione disgiunta da quella dello Stato nazionale, l’Europa si presentava come l’approdo ideale di patrie diverse e insieme la ricomposizione delle lacerazioni che le due guerre mondiali avevano determinato nel tessuto etnico dell’Europa. La formula postuma che designa l’avvio delle istituzioni comunitarie come l’“Europa di Carlomagno”, e ha in De Gasperi, assieme a Robert Schuman e Konrad Adenauer le figure di riferimento, possiede la sua pregnanza non solo nel fatto che tutti e tre fossero leader di partiti cattolici e insieme uomini di frontiera dei rispettivi paesi, ma soprattutto in due idee intrinsecamente congiunte, quella della centralità del problema tedesco e della necessità che esso si risolvesse in un quadro istituzionale altrimenti fondato, rispetto a quella che era stata la vecchia politica di equilibrio europeo che lo scoppio della Prima guerra mondiale aveva per sempre spezzato. Carlo Sforza, che al fianco di De Gasperi, come ministro degli Esteri, sarà protagonista di questa prima stagione europeistica, traeva l’ispirazione, oltre che dall’esperienza dell’esilio, dalla tradizione democratico-repubblicana italiana, di cui era esponente, che affondava le sue radici nel pensiero mazziniano, in cui la pregiudiziale nazionale si poneva in armoniosa dialettica con le altre nazionalità europee. Questi motivi radicati nella tradizione italiana e che allora si contrapponevano all’internazionalismo della tradizione socialista e al sovietismo di quella comunista, avrebbero ceduto nel corso del decennio seguente a un’altra riflessione, che proveniva anch’essa dall’antifascismo militante, aveva avuto anzi il suo esordio nel campo di confinati dell’isola di Ventotene per opera di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi. Qui la riflessione era stata di natura storico-politica e aveva avuto per tema anch’essa l’esito disastroso del nazionalismo per le sorti dell’Europa, ma con un’inclinazione più radicale che ne faceva la vera matrice della lunga guerra civile europea, di cui la lotta di classe si presentava come un additivo, piuttosto che come una causa concomitante. Era una tesi che ribaltava le ideologie e gli esiti dei due totalitarismi del Novecento e con altrettanta radicalità contrapponeva loro la soluzione federalistica europea. Rappresentava anch’essa una rottura con il passato, sebbene non recidesse tutti i fili della tradizione, anzi faceva proprio l’assetto liberistico del mercato e le pregiudiziali di carattere costituzionale liberal-democratiche, ma le considerava di per sé, come a loro volta matrici ideali, già recise dagli eventi e le sostituiva con una proposizione di principio nuova, in un progetto di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Per la sua radicalità e per la robustezza delle sue riflessioni storico-teoriche, questo europeismo che alla fine degli anni Quaranta faceva in Italia i primi passi, con qualche successo, appoggiato anche da De Gasperi, in occasione della campagna che promosse nel 1949 per l’elezione di un Parlamento europeo, incominciò a prendere il posto dei motivi di pensiero più tradizionali a favore dell’integrazione europea, per divenire, a partire dalla metà degli anni Cinquanta il pensiero europeista dominante. Non altrettanto incisivo fu il suo contributo sulla politica del governo italiano che seguì, anche in questa fase un altro percorso, anche se il leader del nuovo Movimento federalista europeo, Altiero Spinelli, fu assai attivo anche sul versante politico e punti di contatto vi furono, ma piuttosto estrinseci rispetto all’effettivo volgersi degli eventi, anche quando la consonanza fu massima in occasione dell’iniziativa di De Gasperi per arrivare a un’Europa politica in occasione della discussione del trattato della CED (Comunità europea di difesa).

L’effettivo punto di svolta della politica europeistica anche per l’Italia fu il Piano Schuman. Sforza, nelle istruzioni che diede a Paolo Emilio Taviani, posto a capo della delegazione italiana per le trattative sulla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), scriveva: «Tutti i collaboratori dovranno sentire che nel piano Schuman noi ravvisiamo il primo serio tentativo di avere nell’Europa moderna un’autorità sopranazionale. Ciò, in una con la possibilità di eliminare una volta per sempre quel dissidio franco-tedesco che fu causa di tante guerre, costituisce una delle maggiori garanzie del momento attuale […]. Noi dobbiamo assumere un atteggiamento lealmente europeo: certo, se saranno gli altri a deformare il piano in senso nazionale il nostro atteggiamento dovrà cambiare; ma è essenziale che su questa via non siamo noi a prendere l’iniziativa». Queste istruzioni segnano bene quale fu l’approccio italiano alla nuova politica europea. L’Italia usciva appena allora da una condizione di minorità internazionale. Il veto sovietico l’avrebbe tenuta fuori dall’ONU fino al 1955. Sul piano bilaterale aveva preso più di un’iniziativa, specie con la Francia. L’incontro di Santa Margherita di De Gasperi e Sforza con René Pleven e Robert Schuman, nel febbraio 1951, aveva segnato una sintonia tra i due paesi, in concomitanza con il lancio del piano Pleven per l’esercito europeo. D’altra parte l’attenzione verso la Germania era stata una preoccupazione costante di De Gasperi: l’Italia era stato il primo paese ad aprire le relazioni diplomatiche con la Repubblica federale e, nel giugno 1951 Adenauer avrebbe compiuto a Roma la sua prima visita all’estero come cancelliere.

Fu la guerra di Corea ad aprire di riflesso nuovi spazi all’iniziativa europea, accelerando la necessità di risolvere il problema tedesco sul delicato problema del riarmo militare, che in sede di Patto atlantico gli Stati Uniti ponevano come condizione per configurare da parte dell’alleanza un’ipotesi di difesa dall’Elba a Trieste. L’Italia in sede NATO aveva preso sul riarmo impegni misurati sulle sue possibilità di bilancio. Ora il piano Pleven proponeva un impegno di cui andava precisata la natura. Jean Monnet avrebbe notato che De Gasperi «aveva capito che l’Italia non avrebbe giocato un ruolo equivalente a quello degli altri Stati più industrializzati, altrimenti che accelerando il processo politico che era rimasto sospeso negli altri trattati europei». E fu questa certamente una delle ragioni che indussero De Gasperi, in occasione del Piano Pleven, a prendere l’iniziativa di un’unità politica europea. Ma presa questa strada vi era anche la consapevolezza che l’obbiettivo trascendesse lo stesso interesse nazionale italiano, come quello degli altri paesi. Ne fa fede il discorso di De Gasperi al Consiglio d’Europa (11 giugno 1951), con cui introdusse in sede europea questo tema e che suscitò subito larga eco. Nella concomitante Conferenza dei ministri degli Esteri tenne fermo il principio, con il sostegno di Adenauer e la sostanziale accettazione di Schuman, che doveva dar forma all’art. 38 del Trattato della CED con cui si disponeva, entro un anno, la messa a punto di un progetto costituzionale (v. anche Comunità politica europea). Il significato che questo obbiettivo costituiva allora per la classe dirigente italiana è ben testimoniato da una lettera che in proposito il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi inviava a De Gasperi: «perché l’idea non si attenui, occorre che il lavoro sia facilitato da uomini decisi a vedere sul serio la federazione. Staranno bene i funzionari e i diplomatici, però solo per ricordare agli altri che esistono difficoltà. Per superarle, i funzionari e i diplomatici non servono; né servono gli uomini politici pasticcioni […]. Perciò una buona iniezione di federalisti mi pare necessaria: Altiero Spinelli, Enzo Giacchero, Ferruccio Parri, Nicolò Carandini, Lodovico Benvenuti, Ernesto Rossi sono nomi sicuri […]».

La caduta della CED e la concomitante morte di De Gasperi videro accentuarsi nella politica europea dell’Italia l’inclinazione verso un “europeismo pragmatico”, che si adeguava ai mutamenti di scenario nelle relazioni internazionali della metà degli anni Cinquanta. Si avviava infatti una prima fase di distensione di cui era testimonianza l’accordo quadripartito sull’Austria. L’iniziativa britannica aveva portato all’integrazione dell’esercito tedesco nella NATO, in cui alla garanzia americana si aggiungeva quella inglese ed europea attraverso l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), un organismo militare che riprendeva i postulati del Patto di Bruxelles e li integrava nell’Alleanza atlantica. Il 1956 da un lato con il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUSS) e la seguente crisi polacca e soprattutto ungherese, mostrò le prime vistose crepe nel sistema sovietico, da un altro, con la crisi di Suez, metteva a nudo il definitivo declino della potenza imperiale anglo-francese nel Mediterraneo e verso il Medio Oriente, dove l’Italia cercava di riacquisire un ruolo, spinta dal dinamismo di Enrico Mattei e della sua politica petrolifera attraverso l’ENI, che trovava nel leader emergente della DC, Amintore Fanfani, il suo sostenitore.

Di fronte a queste rilevanti trasformazioni del contesto internazionale, le questioni europee apparivano nel complesso secondarie. Tra la fine del 1954 e la metà del 1955 l’atteggiamento italiano oscillò tra diverse opportunità. La duplice iniziativa, da un lato di Monnet per una comunità nucleare e dei paesi del Benelux per una Comunità economica europea, nei suoi appuntamenti di vertice doveva svolgersi tutta in Italia, prima con la Conferenza di Messina, nel giugno 1955, sede di cui si fece promotore il ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino, poi quella di Venezia del maggio 1956, infine quella di Roma del marzo 1957, con la firma dei due trattati, l’uno che istituiva la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), l’altro il Mercato comune europeo (v. Comunità economica europea), che sarebbe entrato in vigore il 1° gennaio 1958.

L’esito positivo di questa trattativa passò principalmente attraverso la soluzione di un serrato confronto franco-tedesco. La delegazione italiana tenne un profilo mediano, ispirato a un cauto liberismo. Questo sostegno di principio all’iniziativa in corso si accompagnava a forti preoccupazioni legate alle condizioni di inferiorità del sistema economico italiano, seppure allora in fase di accelerato sviluppo, rispetto ai maggiori partner europei. Se la Francia aveva inteso allargare la trattativa al mercato agricolo e cercato supporto alla propria politica coloniale africana, patrocinando inoltre la tariffa estera comune (TEC), l’Italia contribuì alla formulazione del trattato sulla CEE, partendo da alcune proprie particolare esigenze, dalle quali maturò l’esigenza del Fondo sociale europeo e quella di uno strumento comunitario di politica regionale (v. anche Politica di coesione), con speciale riguardo allo sviluppo del Mezzogiorno, suggerendo inoltre l’idea di una Banca europea per gli investimenti (la futura BEI). In fine l’accento fu messo anche sulla circolazione della mano d’opera, un tema questo che avrebbe dovuto favorire le condizioni dell’emigrazione italiana in Europa, sulla quale l’Italia aveva sempre insistito con poco successo nei rapporti bilaterali.

Molti di questi temi, che pure trovavano posto nel trattato, per avere concreta attuazione avrebbero richiesto tempo e lunghe negoziazioni, e tuttavia segnavano indirizzi positivi del contributo italiano all’integrazione europea. L’avvio del MEC era stato benefico per l’industria italiana, contribuendo all’espansione dei flussi di esportazione: il valore delle esportazioni di merci e servizi era passato dai 2415 miliardi del 1957 ai 4753 del 1963. Anche l’emigrazione italiana, pur fra varie difficoltà, aveva trovato un maggior sfogo: la media quinquennale degli espatri verso la Repubblica Federale Tedesca, ad esempio, era passata dalle 31.061 unità del periodo 1955-1960 alle 95.752 del periodo 1961-1965. Nel settembre 1960 era stato inoltre approvato il Regolamento per la gestione del Fondo sociale e nel 1962 era entrato in vigore il Regolamento su alcuni prodotti agricoli, con la nascita della Politica agricola comune (PAC), e l’istituzione del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA), che aprivano un fronte importante di confronto comunitario per l’agricoltura italiana. Quando nel 1963, a seguito dell’impetuosa crescita dei salari, l’Italia dovette affrontare la prima grave crisi valutaria del dopoguerra, non trovò il sostegno dei partner europei, che non avevano previsto la sua rapida espansione commerciale, e il governatore della Banca d’Italia ricorse a un prestito americano.

Gli anni che vanno dal 1958 al 1963 videro in Italia il trapasso della maggioranza parlamentare dal centrismo al centrosinistra, auspici i due leader della DC, Aldo Moro e Amintore Fanfani. Quest’ultimo in particolare fu il protagonista della politica estera italiana del periodo. L’alleanza americana venne rinnovata con l’accordo con Washington che permise l’installazione in Italia e in Europa dei missili Jupiter, che aumentò il prestigio italiano nella NATO, coronato nel 1964 con la nomina di Manlio Brosio a suo segretario generale. Ciò rafforzava anche la credibilità internazionale dell’operazione di centrosinistra, che incontrava le diffidenze soprattutto americane per l’ingresso nella maggioranza del PSI, che era stato legato fino al 1956 al Partito comunista, e nel contempo conferiva margini credibili alla politica mediorientale che era nelle intenzioni della diplomazia fanfaniana.

Ma dalla carta europea l’Italia non poteva prescindere e Fanfani fu quanto mai attivo anche su questo versante. Le prospettive europee furono allora condizionate dalla politica internazionale francese perseguita dal generale Charles de Gaulle. L’inclinazione di quest’ultimo verso la politica di integrazione europea verteva attorno all’obbiettivo della costituzione dell’Europa come terzo polo a guida francese tra le due grandi potenze. L’Italia, come gli altri partner comunitari, non intendeva né indebolire il rapporto transatlantico né garantire un primato francese sulla politica europea. L’opinione pubblica e la classe dirigente italiana erano divise nella loro valutazione della politica interna ed estera di de Gaulle, e forti opposizioni a essa si manifestavano nella maggioranza, segnatamente da parte socialista e repubblicana. Fanfani intese invece perseguire fino in fondo le possibilità che la Francia apriva per un rafforzamento del sistema comunitario. Quando, tra il Vertice europeo di Parigi del febbraio 1961 e quello di Bonn del luglio dello stesso anno (v. Vertici), prese avvio in maniera concreta la trattativa sul cosiddetto “Piano Fouchet” (da Christian Fouchet, capo della delegazione francese nel Comitato istituito per il rafforzamento istituzionale della CEE), l’azione italiana si sviluppò con determinazione, anche attraverso una serie di incontri bilaterali con i rappresentanti dei paesi europei.

Venne a sovrapporsi alla discussione sul Piano Fouchet quella sull’adesione del Regno Unito (e con essa quella di altri paesi dell’Associazione europea di libero scambio, EFTA) alla Comunità europea, avanzata dal governo di Harold Macmillan nell’agosto del 1961. L’iniziativa inglese fu vista con favore dal governo italiano, non senza mostrare cautela, in previsione della difficoltà che poneva il negoziato per l’atteggiamento circospetto della Francia, per la durezza delle condizioni con cui l’Inghilterra poneva la sua candidatura, per la delicata fase di passaggio che attraversava la CEE, tra l’altro con l’avvio prossimo del mercato agricolo. In tale fase Fanfani svolse un’intensa fase di mediazione sia nella CEE, sia nella NATO. Della trattativa sull’adesione inglese era stato incaricato Emilio Colombo, ministro dell’industria nel III governo Fanfani, che, nel negoziato che si svolgeva a Bruxelles, tenne fermo questo atteggiamento di mediazione, non nascondendosi le difficoltà crescenti dell’iniziativa, assumendo poi nell’aprile del 1962 la presidenza della Conferenza, riuscendo a far conseguire al negoziato alcuni significativi, ma non decisivi, passi avanti.

Tra la fine del 1961 e il gennaio 1962 de Gaulle rivedeva la propria posizione sul progetto di unità politica europea con la presentazione di un Piano Fouchet II, che mirava a sottolineare il distacco di una futura unione europea dalla NATO, riduceva la CEE in un ambito meramente economico, eliminando l’ipotesi che una futura comunità potesse avere più ampi poteri sopranazionali, ribadendo nelle decisioni il ruolo esclusivo dei governi degli Stati membri. L’Italia, pur dichiarandosi contraria al progetto, non accentuò i toni della polemica e si schierò con la Germania e il Lussemburgo su di una posizione attenta a non rompere il negoziato. L’ambasciatore Attilio Cattani fu incaricato di formulare un piano di compromesso, che Fanfani discusse con de Gaulle in occasione dell’incontro bilaterale avvenuto a Torino nell’aprile 1962. Ma in occasione della Conferenza a “sei”, tenuta a Parigi sempre nell’aprile 1962, si registrava definitivamente il fallimento del progetto per “l’unione politica” e il “patto di consultazione”, inizialmente proposte dalla Francia.

Nel corso del 1962 la divaricazione delle parti doveva approfondirsi. Si rafforzavano i rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. John Kennedy e Macmillan siglavano l’accordo di Nassau, in base al quale venivano ceduti agli inglesi i vettori Polaris da montare su unità navali inglesi, nell’ambito del sistema difensivo della NATO. Era una risposta implicita alla politica gollista. I francesi, che avevano già testato la loro arma nucleare, non avevano a loro volta i vettori per renderla operativa e con essa la loro force de frappe sulla quale contavano per segnare la loro leadership sull’Europa continentale. De Gaulle promosse allora un accentuato riavvicinamento con la Germania occidentale. Adenauer condivideva alcuni assunti della politica gollista. La minaccia d’una guerra atomica che era nata dalla crisi di Cuba e la scarsa reattività americana alla costruzione del muro di Berlino lo avevano reso critico verso l’amministrazione Kennedy. Dopo una serie di incontri bilaterali, il 22 gennaio 1963 firmava il Trattato dell’Eliseo la cui pretesa era quella di fondare le couple franco-allemand. Il 14 gennaio veniva annunciato il veto francese all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea.

In Germania larghi settori della stessa maggioranza di governo non condividevano l’iniziativa del cancelliere, che avrebbe lasciato la carica nell’ottobre successivo. La reazione italiana al veto francese fu netta (il veto francese venne ribadito anche nel 1967 in occasione della riproposizione della candidatura britannica da parte del nuovo premier laburista Harold Wilson, che fu sostenuta dall’Italia, con il ministro degli Esteri Fanfani che convocò a Roma una Conferenza comunitaria ad hoc, 10-11 maggio 1967, durante la quale de Gaulle doveva tuttavia ribadire il suo veto) e anche occasione per riaffermare la fedeltà al progetto di costruzione europea su base sopranazionale. Le posizioni dovevano tuttavia ulteriormente divaricarsi nell’ambito dei rapporti transatlantici, rendendo, anche sulle questioni europee, più rigido l’atteggiamento francese. L’occasione fu data all’inizio degli anni Sessanta dall’iniziativa americana per la creazione di una forza multilaterale (MLF) all’interno della NATO che associava alcuni paesi, tra cui l’Italia, alla gestione delle armi atomiche e che voleva essere anche una risposta definitiva alla force de frappe. La Francia si chiamò fuori, preludio alla sua uscita nel 1966 dalla organizzazione militare della NATO.

Quando Fanfani nel 1965 tornò alla guida del ministero degli Esteri le posizioni erano ormai troppo distanti, mentre venivano al pettine i nodi dei mancati accordi degli anni precedenti. Erano necessari alcuni adattamenti nelle direttive comunitarie, specie in materia agricola, dove gli interessi italiani si trovavano coinvolti. Il contributo finanziario italiano era, rispetto agli altri Stati membri, superiore al suo livello di sviluppo economico e ai benefici che traeva dal mercato agricolo comune. L’Italia chiedeva un adeguamento. Questo era solo uno dei problemi della PAC, che si legavano tutti strettamente alla definizione di un ulteriore accrescimento del ruolo e dei poteri della Commissione europea. Su questo l’opposizione francese era netta. Il tedesco Walter Hallstein, allora Presidente della Commissione europea, venendo in parte incontro anche alle richieste italiane, propose di dotare la Comunità di risorse proprie e di aumentare il potere di controllo del Parlamento europeo sull’utilizzazione dei fondi. La Commissione votò a maggioranza una direttiva in tal senso a cui i due membri francesi votarono contro. Nel Consiglio dei ministri del 30 giugno 1965 Fanfani e Ferrari Aggradi (come ministro dell’Agricoltura) sostennero la proposta della Commissione e patrocinarono l’alleggerimento dell’onere finanziario italiano nel contesto del PAC. Salvo la Francia, che traeva vantaggio dal regime esistente, la posizione italiana era sostanzialmente condivisa dagli altri Stati membri. La diaspora francese all’inizio di luglio prendeva forma con il ritiro dei suoi rappresentanti dagli organismi comunitari, la cosiddetta crisi della “sedia vuota”. L’Italia, che il 1° luglio aveva assunto la presidenza semestrale della CEE, si condusse con cautela, perseguendo l’obbiettivo di non rendere irreversibile la rottura, compito affidato al ministro del Tesoro Emilio Colombo, dopo che Fanfani era stato designato a presiedere l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La mediazione italiana portò all’accordo nella Conferenza di Lussemburgo del 30 gennaio 1966, con la sostanziale accettazione delle pregiudiziali francesi, attutite da qualche aggiustamento (v. Compromesso di Lussemburgo).

Il ritiro di De Gaulle nell’aprile del 1969 e l’avvento di Georges Pompidou in Francia, quello di Willy Brandt in Germania e l’avvio della sua Ostpolitik modificarono profondamente il quadro europeo. Brandt aveva bisogno della copertura europea per la sua politica, Pompidou vedeva nella Comunità europea il luogo in cui riaffermare l’iniziativa francese. Queste inclinazioni dei due maggiori partner della Comunità presero forma nel Vertice dell’Aia del dicembre 1969. Cadeva così il veto francese all’ingresso della Gran Bretagna, che da tempo era nei voti della politica italiana.

Gli anni Settanta vedevano l’Italia in gravi difficoltà dal punto di vista economico e sociale, con un equilibrio instabile di governo. Il suo ruolo europeo ne risultava ulteriormente impedito. La prima metà del decennio è tuttavia segnata da alcune iniziative di successo. Nel 1971 il governo Colombo presentava un memorandum sulla politica della Comunità nelle aree depresse, che aprì una discussione che nel 1974 doveva concludersi con l’attuazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), destinato a costituire un’occasione di sviluppo per le regioni meridionali. Nell’aprile 1972 era stato anche firmato tra gli Stati membri l’accordo per la fondazione dell’Istituto universitario europeo a Firenze. La tradizionale posizione italiana, volta al rafforzamento dei poteri sopranazionali della Comunità, portò poi l’Italia, malgrado le difficoltà che comportava nella peculiare congiuntura economica italiana, ad accogliere l’istituzione dell’IVA come primaria fonte di imposizione indiretta, che veniva adottata congiuntamente dai paesi membri per fornire tra l’altro la base automatica di finanziamento diretto della Comunità, già avanzata negli anni Sessanta, quando aveva incontrato l’opposizione francese.

Nel 1970 all’Italia era stata attribuita la presidenza della Commissione, nella persona del democristiano Franco Maria Malfatti, e aveva coperto l’altro posto di commissario con il leader federalista Altiero Spinelli. Ne derivava un naturale impulso alle iniziative di rafforzamento delle Istituzioni comunitarie. Fu Malfatti il primo ad avvertire che la fine della convertibilità del dollaro, dichiarata da Nixon il 15 agosto 1971, richiedeva una risposta europea, concretatasi l’anno seguente con l’introduzione del “Serpente monetario” che prevedeva un’oscillazione delle monete europee tra loro del 2,25%.

La tenuta della lira nel Serpente fu di breve momento. Già nell’autunno di quell’anno ne usciva, avendo la Banca d’Italia lasciato correre il corso della moneta sul mercato dei cambi, ove conseguiva una forte svalutazione. La forte crescita salariale degli anni precedenti, non accompagnata da sufficienti misure deflative, rendeva impossibile una tenuta della moneta. Un governo centrista, presieduto da Giulio Andreotti e con il leader liberale Giovanni Malagodi al Tesoro, scelse la strada della svalutazione, scontando l’aumento dell’inflazione, e arrestando così la crescita dei salari reali. L’aumento dei prezzi petroliferi a seguito della guerra del Kippur fece il resto. Di lì a poco anche la Francia usciva dal Serpente. L’unica moneta a tenere era il marco tedesco. La crisi italiana si rifrangeva sull’equilibrio politico, con una forte crescita elettorale del partito comunista. Questo evitava la rottura del sistema con un’ampia proposta di collaborazione, definita “compromesso storico”, che negli anni seguenti l’avrebbe portato a sostenere il governo e a cauterizzare le spinte salariali del sindacato. In questa inclinazione nuova dei comunisti italiani la politica europea giocava un ruolo centrale. Essi si fecero sostenitori di una linea che fu definita “Eurocomunismo”, e che per un tratto coinvolse anche il partito comunista francese e quello spagnolo. L’obiettivo era quello di far acquisire ai partiti comunisti dell’Europa occidentale e comunitaria una cornice di autonomia e di consenso volta a sostenere una strategia di partecipazione governativa con le forze politiche tradizionalmente filo occidentali. La contraddizione stava nel fatto che Mosca era fermamente contraria e poiché l’eurocomunismo non voleva essere una rottura con i sovietici, si riduceva a una formula senza reale sostanza politica. La contraddizione finì così per minare il comunismo europeo e la parabola negativa fu più rapida in Francia e in Spagna che in Italia, dove, per la sua definitiva presa d’atto, si dovette aspettare il crollo dell’URSS.

La posizione del PCI sulla politica europea risultò d’altra parte anch’essa contraddittoria. Nel 1977 il PCI aveva votato, con le altre forze politiche della maggioranza parlamentare di unità nazionale, la ratifica dell’elezione diretta del Parlamento europeo. Ma l’anno seguente prese posizione contraria all’ingresso nel nuovo Sistema monetario europeo (SME), che aveva preso il via dopo l’accordo in questa direzione del presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e del cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Al voto positivo del Parlamento del 18 dicembre 1978, richiesto dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, si dichiarava contro, uscendo di fatto dalla maggioranza parlamentare per non più in seguito rientrarvi.

La vicenda dell’eurocomunismo segna sia il principio della massima convergenza delle forze politiche italiane sull’integrazione europea, sia anche quello di una nuova divisione. Il PCI sarebbe divenuto più cauto, così le altre estreme, come i Verdi e la Rete, e la destra di Alleanza nazionale-Movimento sociale italiano (AN-MSI). Queste nuove divisioni sulla partecipazione europea erano uno strascico delle difficoltà degli anni Settanta, quando la crisi economica era stata accompagnata da un grave squilibrio della bilancia dei pagamenti che aveva indotto il governo a prendere in considerazione di limitare le importazioni dalla CEE, decisione contraria ai trattati, poi rientrata, e il ricorso, da un punto di vista finanziario, a prestiti dal FMI e dagli USA, piuttosto che a quello comunitario. Quella fase era stata superata, grazie anche all’iniziativa di Altiero Spinelli che era membro della Commissione europea, e si era vista una ripresa dell’iniziativa europeistica italiana, che al Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975 proponeva con successo le Elezioni dirette del Parlamento europeo. Ma si dovevano aspettare gli anni ’80, con la stabilizzazione della nuova maggioranza di governo pentapartitica – DC, PSI, Partito socialdemocratico italiano (PSDI), Partito repubblicano italiano (PRI), Partito liberale italiano (PLI), per uscire dalla crisi sia del sistema politico, sia economica e delle relazioni industriali, permanendo tuttavia la tendenza di crescita del debito pubblico.

Nel novembre 1981 l’iniziativa italo-tedesca, avviata dai ministri degli Esteri, Hans-Dietrich Genscher ed Emilio Colombo, di un progetto di “Atto europeo”, muoveva dall’esigenza di completare lo SME con il miglioramento delle procedure della Cooperazione politica europea. La conclusione di questo progetto fu la “Dichiarazione solenne sull’Unione europea”, approvata a Stoccarda nel giugno 1983, un documento meramente declaratorio e non vincolante, che non conteneva nessuna disposizione veramente innovativa, ma fotografava una situazione di fatto e che diede risultati certamente inferiori alle attese, ma segnò comunque per la diplomazia italiana un successo importante (v. anche Piano Genscher-Colombo).

Nel contempo Altiero Spinelli, divenuto parlamentare europeo, elaborava un nuovo progetto di trattato con al centro i poteri del Parlamento, che raccolse adesioni e suscitò discussioni e speranze. Ma la vera ripresa di impegno europeistico da parte dell’Italia si ebbe soprattutto durante il semestre di presidenza del 1985 coronato, al Consiglio europeo di Milano, dalla convocazione, decisa a maggioranza per vincere l’opposizione di Margaret Thatcher, della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) nel corso della quale si sarebbe negoziato l’Atto unico europeo. Era Presidente del Consiglio Bettino Craxi che colse allora il momento nuovo che attraversava la costruzione europea, per l’iniziativa, fin dal 1983, di François Mitterrand, la nomina di Jacques Delors alla presidenza della Commissione europea e il rinsaldarsi dell’asse franco-tedesco sull’obbiettivo del Mercato unico europeo e dell’Allargamento della Comunità a Spagna e Portogallo, di cui l’Italia fu strenua sostenitrice. Ed è innegabile che la presidenza italiana giocò una parte non secondaria nello sbloccare una situazione di stallo dovuta all’opposizione dei britannici, sostenuti dalle delegazioni greca e danese, ma è altresì vero che alle spalle dell’iniziativa di Craxi e Andreotti si riproponeva la “coppia” franco-tedesca, la quale, se da un lato si mostrò favorevole alla posizione italiana nell’ambito del Vertice di Milano, dall’altro nutriva obbiettivi più prudenti sul piano delle riforme istituzionali. Contrasti di politica interna fecero tuttavia sì che l’Italia non firmasse subito il trattato sull’Atto unico, perdendo così le credenziali acquisite in precedenza. A rafforzare la posizione europeistica del governo fu indetto un referendum, abbinato alle elezioni politiche del 1987, sulla volontà di consolidare le istituzioni comunitarie che ebbe il suffragio dell’81,5% dei votanti. Rimanevano tuttavia incertezze più profonde, come fu il caso del tentativo di rivalutazione dell’UEO su iniziativa francese, nel 1984, che vide l’Italia assai tiepida, soprattutto in materia di difesa, nel quadro della sua tendenziale posizione filoamericana.

Ci fu comunque un impegno italiano a rafforzare il proprio ruolo nella Comunità europea. All’interno della Commissione l’Italia si fece allora rappresentare da figure di spicco della sua classe politica come Lorenzo Natali, Antonio Giolitti, Carlo Ripa di Meana e più tardi Filippo Maria Pandolfi. Nel 1988 la riforma dei Fondi strutturali fu basata sulla programmazione e la concentrazione degli interventi per razionalizzarne le finalità. Tale riforma rischiò peraltro di trasformarsi in un boomerang proprio per l’Italia che l’aveva incoraggiata. Il principio della “compartecipazione” tra la CEE e le autorità nazionali (centrali e regionali) su cui si basava, richiedeva infatti la preparazione di piani di intervento di base ai quali i fondi sarebbero stati attribuiti e avrebbero quindi messo ulteriormente alla prova la capacità di programmazione e l’attenzione italiana nei confronti delle opportunità offerte dagli interventi CEE. Un altro ritardo italiano stava nella ricezione nell’ordinamento italiano delle Direttive comunitarie che per inerzia e rinvii era assai carente. A ciò si provvedeva con la legge del 1989, nota sotto il nome di Antonio La Pergola, titolare del ministero del Coordinamento delle politiche comunitarie, che era stato istituito nel 1980.

Malgrado ciò, negli anni seguenti, l’aspirazione italiana a giocare un ruolo di primo piano nella costruzione europea tornava a scemare. Il crollo dell’URSS toglieva all’Italia quella centralità strategica di cui aveva goduto fin dal dopoguerra. I nodi sarebbero poi venuti al pettine nel negoziato che avrebbe portato al Trattato di Maastricht che entrò nella sua fase conclusiva nel 1990, nel cui secondo trimestre l’Italia ebbe la presidenza. Il Consiglio europeo di Roma convocò le due Conferenze intergovernative sull’unione politica ed economico-monetaria (v. Unione economica e monetaria), dopo una preparazione a cui l’Italia aveva dato un notevole contributo tecnico e politico con il ministro degli Esteri Gianni De Michelis per la prima e con il ministro del Tesoro Guido Carli per la seconda. Nell’anno seguente, quello che doveva portare alla firma del Trattato di Maastricht, specie durante il decisivo semestre olandese, pesò sull’Italia lo stato delle sue finanze, con deficit di bilancio non contenuti e un debito che aveva raggiunto oltre il 100% del PIL.

Le clausole del Trattato, che definivano il parametro del debito come punto di riferimento tendenziale e non rigido, consentirono poi all’Italia di entrare nella seconda fase dell’unificazione monetaria e in fine nell’Euro. Ma non di evitare la crisi valutaria del settembre-ottobre 1992 che fu più grave di quella di altre monete europee e costrinse a una forte svalutazione della lira e alla sua uscita dallo SME. Il risanamento della finanza italiana risale a questo periodo, con i provvedimenti del governo Giuliano Amato, che in seguito vennero ulteriormente perfezionati. Il Trattato di Maastricht divenne così il vincolo esterno che costrinse l’Italia a una politica di bilancio virtuosa. Si deve tuttavia alla sua applicazione normativa l’inizio della stagnazione italiana nel quindicennio seguente, perdendo l’Italia quello strumento che da più d’un ventennio aveva avuto come presupposto necessario della sua dinamica economica, una politica del cambio che ciclicamente induceva a svalutare la moneta, cauterizzando in parte la crescita del debito e il monte salari e dando nuovi margini alle imprese esportatrici. L’ingresso in un sistema, come quello di Maastricht, in cui la politica monetaria aveva come obbiettivo la stabilità dei prezzi, mutava così integralmente i rapporti delle imprese con il mercato del lavoro e le politiche pubbliche di bilancio, generando difficoltà che solo col tempo avrebbero potuto essere superate.

Guidato dalla prospettiva della moneta unica, il governo italiano, sapendo di essere un partner sotto severa osservazione, si impegnò ad arrivare alla verifica del maggio 1998 con tutte le carte in regola. Malgrado la scelta dei tempi lunghi per il rientro nello SME, l’opera di risanamento della finanza pubblica avviata dai governi Amato e Ciampi (v. Ciampi, Carlo Azeglio), basata sul presupposto della convergenza verso l’Europa, fece comunque risalire le quotazioni dell’Italia, benché si sarebbe avuta una battuta d’arresto, non tanto sulla linea del risanamento finanziario, quanto sulla scelta politico-economica dell’euro, con il ministro degli Esteri Antonio Martino, nel breve governo di Silvio Berlusconi dal giugno al novembre 1994, che i seguenti governi di Lamberto Dini e Romano Prodi non riproposero. Quest’ultimo governo faceva rientrare la lira nel serpente europeo nel novembre 1996 e con una nota aggiuntiva al Documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) anticipava al 1997 un rapporto tra fabbisogno pubblico e PIL pari al 3%, aprendo così la strada all’ingresso della lira nell’euro. Dopo una non facile trattativa sul tasso di cambio, col fissare il rapporto della lira rispetto al marco, che non favoriva il sistema economico italiano, nel novembre del 1998, la valuta italiana entrava nell’euro.

L’Italia aveva assunto la presidenza del consiglio dell’Unione nel primo semestre del 1996 (v. Presidenza dell’Unione europea). Fu una presidenza in tono minore rispetto a quelle del 1985 e del 1990, col paese ripiegato sui propri problemi interni. A partire dal 1992 i segnali erano stati del resto tutti nella direzione di una strisciante emarginazione italiana, segnati dal ritardo dell’applicazione degli Accordi di Schengen, e dall’esclusione dal Gruppo di contatto dei Cinque (Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia) sulla Bosnia. La presidenza del Consiglio nel 1996 fu l’occasione per assicurare unità e coerenza alle attività dell’Unione europea. Avviata a Torino il 29 marzo 1996 la Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato di Maastricht (v. anche Revisione dei trattati), la delegazione italiana presentò proposte di livello elevato, confermandosi pronta ad accettare il massimo di integrazione. Sia il Presidente del Consiglio che il ministro degli Esteri sottolinearono la volontà italiana di ottenere una cornice istituzionale più forte per la dimensione politica dell’integrazione. L’Italia affrontò quindi l’appuntamento di Amsterdam nel giugno 1997 con una visione di alto profilo del futuro dell’Unione europea, un atteggiamento più determinato e coerente con il passato (v. Trattato di Amsterdam). Per quanto riguarda la dimensione militare della sicurezza l’Italia abbandonò la posizione atlantista della Gran Bretagna e si allineò a Francia, Germania, Spagna, Belgio e Lussemburgo nel chiedere la piena integrazione dell’UEO nella UE, che avrebbe portato a un compromesso su di una integrazione graduale, che lasciava inalterata l’Alleanza atlantica come fulcro della difesa europea.

Nel 1996, in sede di Conferenza intergovernativa, l’Italia era stata cauta nei confronti dell’ipotesi delle “cooperazioni rafforzate” (v. Cooperazione rafforzata) tra paesi che intendessero procedere più avanti degli altri in alcuni settori dell’integrazione. L’idea di introdurre nei Trattati un approccio flessibile all’integrazione nel funzionamento dell’Unione era considerata come una pericolosa rimessa in discussione dell’Europa politica, accettando in fine le “cooperazioni rafforzate” sulla base di una “clausola di flessibilità” che le riconducesse a dimensioni il più possibile unitarie. La preoccupazione nasceva anche dalla difficoltà che l’Italia allora incontrava ad aderire agli Accordi di Schengen e all’unione monetaria. Una maggiore disponibilità italiana su questo tema si manifestò del resto nella successiva Conferenza intergovernativa che negoziò il Trattato di Nizza, disponibilità che si mostrava anche consapevole dei problemi che il previsto allargamento della Unione avrebbe probabilmente posto. Ma proprio in vista dell’allargamento il risultato emerso da queste trattative fu dal punto di vista delle istituzioni europee debole e in quanto tale può considerarsi una parziale sconfitta delle posizioni italiane. Con la collaborazione della Germania il risultato più positivo fu quello di colmare il Deficit democratico dell’assetto istituzionale dell’Unione con un allargamento dei poteri del Parlamento europeo.

Nel settembre del 1999 Romano Prodi, dopo le dimissioni del lussemburghese Jacques Santer, diveniva presidente della Commissione europea, avendo al suo fianco Mario Monti che da commissario al Mercato comune, passava all’incarico cruciale della Concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza). Prodi tornò a patrocinare la linea che aveva caratterizzato la presidenza Delors, naturalmente in tono minore, e da cui il suo predecessore aveva inteso discostarsi. Ebbe poca incidenza sui problemi istituzionali dell’Unione, che pure aveva messo nel suo programma, e relativi successi su quello della governance, varando una riforma della struttura della Commissione, predisposta dal commissario inglese Neil Kinnock. Si applicava invece con successo ad accelerare l’allargamento dell’Unione, che sarebbe giunta a compimento durante il suo secondo mandato nel 2004. Tenne fede comunque alla tradizione italiana di incrementare i processi di integrazione e di favorire l’allargamento dei criteri di libero scambio dell’Unione nel processo di globalizzazione. Manteneva inoltre una linea rigida nelle funzioni di controllo della Commissione sull’applicazione dei Trattati, in particolare sui parametri del Trattato di Maastricht.

Queste posizioni portarono più volte Prodi in situazioni di collisione con le linee espresse dal nuovo governo di centrodestra presieduto da Silvio Berlusconi, in particolare con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ad esempio sui problemi della gestione del deficit e dell’apertura commerciale alla Cina, nell’ambito dei negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization, WTO). La linea europeistica del governo Berlusconi tornò comunque a discostarsi da quella tradizionale italiana, anche se non con l’accentuazione “euroscettica” che nel 1994 aveva espresso il ministro degli Esteri, Antonio Martino (v. Euroscetticismo). Anzi, in un primo momento l’incarico degli Esteri era stato assunto da Renato Ruggiero, fortemente orientato verso posizioni europeiste. L’attentato alle torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001, spinse il governo Berlusconi su posizioni accentuatamente filoamericane. Il 26 settembre a Berlino, in un incontro dei paesi membri dell’Unione con il presidente russo Putin, Berlusconi assumeva una posizione radicale anti islamica, che suscitava sorpresa e preoccupazione presso i partner europei. Seguiva il ritiro della partecipazione italiana al progetto europeo dell’Airbus A400M, già firmato dal precedente ministro della Difesa Sergio Mattarella. Martino, che gli era succeduto in quell’incarico, prospettava inoltre la partecipazione al programma americano per la costruzione del Joint strike fighter. A ciò si aggiungeva la netta opposizione al Mandato d’arresto europeo, delineando una posizione complessiva dell’Itali sempre più distante dalle posizioni dei partner europei, che era sostenuta dai più importanti leader della coalizione di governo, da Umberto Bossi, a Giulio Tremonti e Rocco Buttiglione e che avrebbe portato alle dimissioni del ministro Ruggiero. Si aveva anche la reazione di Francia, Germania e Gran Bretagna che vennero escludendo l’Italia dalle loro consultazioni triangolari. L’Italia mostrava di privilegiare il rapporto con gli americani e stabilendone anche uno speciale con la Russia di Putin, che si manifestava nel maggio del 2002, a Pratica di Mare, al Consiglio generale della NATO, portando alla creazione di un “Consiglio dei Venti”, comprendente per la prima volta la Russia.

Questo insieme di distonie doveva approfondirsi con lo scoppiare della questione irachena. Al Consiglio europeo di Copenaghen, nel maggio 2002, si verificava una forte polemica di Berlusconi, che sosteneva l’inoppugnabilità delle prove, presentate dagli USA, sul possesso da parte irachena delle armi di distruzione di massa, con il presidente francese Jacques Chirac. Sebbene Berlusconi ritirasse questa sua posizione, dopo un incontro in ottobre con Putin, la posizione italiana sembrava compromessa sui due lati, europeo e americano. Con gli USA, a seguito della guerra irachena, il governo doveva recuperare una piena credibilità, firmando con la Spagna, la Polonia e altri cinque paesi aderenti all’Unione una dichiarazione a favore dell’intervento americano e schierando poi un contingente militare nel processo di occupazione dell’Iraq, tuttavia determinando così una frattura profonda con i più tradizionali partner europei, quali la Francia e la Germania.

Gli incidenti di percorso si sarebbero moltiplicati in quel periodo. Il governo italiano si lanciò in una campagna molto critica nei riguardi della presidenza Prodi, che suscitava perplessità negli altri partner. Prese di posizioni a favore del governo russo e del suo intervento in Cecenia, così come un allineamento assai netto sulle posizioni del governo israeliano di Sharon, in occasione della visita di quest’ultimo a Roma, accrescevano queste reazioni negative. Quando l’Italia assunse la presidenza dell’Unione, nella seconda metà del 2003, Berlusconi, nel presentare il programma italiano al Parlamento europeo aveva poi uno scontro polemico con il vicepresidente del gruppo socialista, l’europarlamentare tedesco Martin Schultz che aveva effetti immediati in Germania e su cui interveniva anche il cancelliere Gerhard Schröder.

Il semestre italiano era comunque l’occasione per recuperare un ruolo nell’Unione e il programma della presidenza era ambizioso e centrato su alcuni temi principali: la Conferenza intergovernativa per la Costituzione dell’Unione; l’Europa dell’economia, in cui capeggiava la proposta delle “Reti transeuropee”; il rilancio della cooperazione euromediterranea, la sicurezza dei cittadini. Il tema che ebbe sviluppi positivi, anche se non definitivi, fu quello della Costituzione europea, su cui lavorava la Conferenza intergovernativa, che tuttavia non approdò a una conclusione per i dissensi sulle procedure di voto del Consiglio europeo. Malgrado il governo avesse impostato la partecipazione ai lavori della Convenzione europea, coinvolgendo l’opposizione, che tra l’altro era rappresentata dall’ex premier Giuliano Amato, quando il progetto di Costituzione che quest’ultima presentò alla Conferenza intergovernativa si arenava nella riunione di Bruxelles del settembre 2003, la presidenza italiana, nel Consiglio europeo del dicembre seguente, non sarebbe riuscita a sbrogliare la matassa. Su tutti i dossier presentati dalla presidenza italiana il ministro degli Esteri Frattini aveva svolto un intenso lavoro diplomatico e, anche se i suoi tentativi di mediazione, per la risoluzione dei punti rimasti controversi della Carta costituzionale, non avevano avuto successo, strappava l’impegno di firmare il Trattato a Roma, quando e se i lavori si fossero conclusi positivamente, come poi avvenne. L’Italia acquisiva inoltre, a conclusione della sua presidenza, la localizzazione a Parma dell’Agenzia alimentare europea.

La strada per varare il testo costituzionale dell’Unione sarebbe stata ancora lunga e accidentata e solo nell’ottobre 2004 si giunse alla firma del Trattato, che i referendum francese e olandese avrebbero respinto, aprendo un nuovo contenzioso cui il Consiglio di Lisbona del 2007 avrebbe poi cercato di porre rimedio proponendo un nuovo iter. Ma quei mesi del 2004 furono densi di avvenimenti importanti per l’avvenire dell’Unione, incominciando dall’allargamento a dieci nuovi membri. L’Unione entrava in una fase di transizione che metteva in discussione la sua stessa natura. Questo problema non fu colto nella sua interezza dal governo italiano. Sul terreno istituzionale esso insisteva sulla tradizionale impostazione del rafforzamento dei poteri sopranazionali che echeggiava un approdo federalista, preoccupato dalla concertazione franco-tedesco-inglese sui problemi comunitari che lo escludeva e cercando di dare una diversa risposta alla domanda, difficilmente eludibile dopo l’ultimo allargamento, di chi dovesse guidare l’Unione. In un primo momento, dichiarandosi contrario a sanzioni nei riguardi della Francia e della Germania, che avevano presentato i loro bilanci per il 2004 in deficit, oltre i parametri di Maastricht, aveva cercato per questa via un avvicinamento, schierandosi invece, subito dopo, per la rigorosa applicazione del Trattato. Un’altra contraddizione stava nell’iniziativa assunta nel dicembre 2003 di persuadere gli altri Stati membri e i dieci nuovi entrati a firmare una dichiarazione sulle relazioni transatlantiche che ne riaffermava la centralità per la politica estera europea, lasciando alle spalle le divisioni causate dalla guerra in Iraq. Nel contempo sosteneva in sede di redazione del Trattato costituzionale, sui temi della politica estera e della sicurezza (v. anche Politica estera e di sicurezza comune), il voto a Maggioranza qualificata del Consiglio, là dove il deliberato della Conferenza intergovernativa, su iniziativa della Gran Bretagna, avrebbe adottato il principio del Voto all’unanimità, ch’era anche una logica conseguenza della precedente risoluzione politica sul rapporto transatlantico. Anche la proposta di menzionare nel preambolo costituzionale dell’Unione, le “radici cristiane” della sua storia, contraddiceva con la dichiarata propensione a risolvere positivamente l’adesione della Turchia. Queste contraddizioni non favorivano certo l’incisività della posizione italiana e, nella redazione finale del testo della Costituzione, l’Italia poteva vantare quasi come unico successo l’annullamento dei poteri di sanzione della Commissione verso i paesi che non avessero rispettato il parametro del deficit e la sua conversione in semplice raccomandazione, che rifletteva, come si è accennato, un altro controverso indirizzo di fondo della politica europea italiana.

Questa incertezza di indirizzi si sarebbe altrimenti riprodotta con il rinnovo della presidenza della Commissione. L’Italia caldeggiò fortemente la nomina di José Manuel Durão Barroso, ma volle poi sostituire il commissario Monti, disponibile al rinnovo, e sicuramente candidato a mantenere l’incarico della “concorrenza”, con il cattolico Rocco Buttiglione, a sua volta designato alla “giustizia” e che, all’atto della sua presentazione al Parlamento europeo, incorse nella censura di quest’ultimo mettendo in discussione l’intera Commissione presieduta da Barroso e fu costretto alle dimissioni, nonché a riaprire il processo di formazione della Commissione stessa, in cui l’Italia nominava allora il ministro degli Esteri Frattini.

Con Frattini membro della Commissione e Gianfranco Fini al ministero degli Esteri la politica europea dell’Italia avrebbe evitato strappi ulteriori. Maturava la convinzione che il paese non poteva discostarsi troppo da Bruxelles. Il successivo governo di centrosinistra, che ebbe vita solo due anni, operò con il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, per una rigorosa politica di bilancio, che garantisse all’Italia una posizione ineccepibile tra i paesi dell’euro. A sua volta il ministro dell’Economia del nuovo governo di centrodestra, Giulio Tremonti, avrebbe poi fatto propria questa linea. La crisi dell’economia mondiale nel 2008 doveva rafforzare questo indirizzo, proponendo una politica europea dell’Italia che in nulla di sostanziale si divaricasse da quella dei suoi maggiori partner nell’Unione europea.

Piero Craveri-Gerardo Mombelli (2009)

Bibliografia

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