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Mozione di censura

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La mozione di censura, disciplinata dall’art. 201 del Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE) (v. Trattati di Roma), è uno dei più incisivi strumenti di controllo politico del Parlamento europeo sull’operato della Commissione europea. Uno strumento che richiama a livello comunitario, pur non senza talune differenze, l’istituto della sfiducia previsto negli ordinamenti di alcuni Stati membri dell’Unione europea e che risponde, insieme al crescente potere legislativo assunto dall’organo parlamentare nel corso degli anni, alla necessità di ridurre il Deficit democratico in seno alle Istituzioni comunitarie.

La mozione di censura consente all’organo parlamentare di esprimere il proprio parere negativo sull’attività dell’esecutivo dell’Unione europea (UE), potendo anche determinare quale esito finale le dimissioni collettive; un esito che può essere raggiunto solo nel rispetto di talune condizioni procedurali e a fronte di particolari maggioranze in seno al Parlamento. La mozione di censura, infatti, può essere adottata non prima che siano trascorsi tre giorni dal suo deposito e a seguito dell’approvazione con scrutinio pubblico da parte della maggioranza dei due terzi dei voti espressi e della maggioranza dei membri che compongono il Parlamento stesso.

Il quorum richiesto, doppio e piuttosto elevato, rappresenta un ostacolo al conseguimento di un’ampia convergenza politica tra i partiti che compongono l’organo democratico dell’Unione, e forse questo spiega la ragione per la quale, ad oggi, non è ancora stato approvato un provvedimento ex art. 201 TCE. In base al regolamento interno del Parlamento, una mozione di censura può essere presentata da un decimo dei deputati e deve essere trasmessa al presidente. L’atto deve recare la dicitura “Mozione di censura”, essere motivato e immediatamente trasmesso dal presidente del Parlamento UE sia alla Commissione sia ai singoli deputati. Solo ventiquattro ore dopo la trasmissione ha inizio la discussione in seno all’organo parlamentare, a partire dalla quale devono trascorrere ulteriori quarantotto ore per procedere alla votazione con appello nominale. L’art. 201 TCE, infine, richiede, quale unica condizione sostanziale, che l’atto abbia ad oggetto l’operato della Commissione, inteso in senso ampio e comprendente tutte le attività compiute dall’esecutivo in ossequio ai Trattati.

Una volta approvata, la mozione di censura costringe alle dimissioni l’intera Commissione, i cui componenti devono abbandonare collettivamente le loro funzioni a prescindere dal fatto che essa sia stata presentata a causa del comportamento di uno o più membri oppure del collegio nel suo complesso. Tuttavia, i commissari continuano a curare gli affari di ordinaria amministrazione fino alla loro sostituzione che avverrà, come si vedrà, secondo la nuova procedura prevista dall’art. 214 TCE. Al riguardo, l’ultimo comma dell’art. 201 TCE fissa la scadenza del mandato della nuova Commissione alla data in cui sarebbe scaduto quello del collegio dimissionario. Siffatta precisazione, introdotta dal Trattato di Maastricht, risponde all’esigenza di far coincidere l’incarico dell’esecutivo con la legislatura del Parlamento dopo che, sempre il Trattato del 1992, aveva prolungato da 4 a 5 anni il mandato dei commissari europei.

Analizzati in termini astratta la norma, è possibile ora richiamare l’esperienza applicativa. Al riguardo va subito precisato che, dai Trattati istitutivi a oggi, non si è mai giunti all’approvazione di una mozione di censura. La procedura è stata attivata più volte, ma senza essere mai giunta a conclusione. Talvolta il Parlamento ha utilizzato la norma come mezzo di pressione, minacciando il ricorso a questo strumento. Si tratta della cosiddetta “mozione di censura condizionata”, ventilata ad esempio nel 1997 in occasione dello scandalo della “mucca pazza” (legato alla gestione di un’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina).

Di tutt’altro tenore, invece, appare la grave crisi che colpì nel 1998 l’esecutivo presieduto da Jacques Santer, le cui dimissioni collettive evitarono una quasi certa (e prima) approvazione della mozione di censura. In una risoluzione del 14 gennaio 1999 (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” C 104 del 14 aprile 1999, p. 106 e ss.), il Parlamento europeo accusò la Commissione di frode, cattiva amministrazione e nepotismo. A verificare tali accuse provvide un comitato di esperti indipendenti che, in una relazione presentata ai parlamentari il 15 marzo 1999, escludeva una responsabilità diretta dei commissari ma addebitava all’intera Commissione la perdita controllo sulla struttura amministrativa, dando luogo così ad accertati episodi di frode, irregolarità e cattiva amministrazione. Ciò sembrò spingere il Parlamento a utilizzare fino in fondo lo strumento della mozione di censura e portò, la stessa notte del 15 marzo, i membri della Commissione Santer a dimettersi collettivamente. Il 24 marzo a Berlino, a margine di un vertice straordinario, il Consiglio europeo dava avvio secondo la nuova formula introdotta dal Trattato di Amsterdam alla procedura di sostituzione della Commissione dimissionaria con la nomina di Romano Prodi quale nuovo presidente dell’esecutivo UE. Questo esecutivo si insediava il 17 settembre 1999 e, oltre a completare il mandato della Commissione Santer, veniva investito anche di un secondo e completo incarico quinquennale durato sino al gennaio 2005.

Pur non investendo direttamente l’istituto in esame, conviene ricordare brevemente l’evoluzione del ruolo del Parlamento nei meccanismi di nomina dell’esecutivo europeo. Grazie a questa evoluzione, l’organo parlamentare è venuto a disporre di un vero e proprio potere di sindacato in merito alla scelta dei commissari. Dopo le riforme introdotte all’art. 214 TCE dal Trattato di Amsterdam (1997), perfezionate dal Trattato di Nizza (2001), il Parlamento europeo ha infatti rafforzato il suo ruolo nella procedura di formazione della Commissione, divenendo “pienamente associato” al Consiglio attraverso la previsione di due distinte votazioni con le quali l’organo parlamentare UE approva, rispettivamente, il designato presidente dell’esecutivo e poi l’intero collegio. L’art. 33 del regolamento interno del Parlamento riconosce inoltre alle commissioni parlamentari la possibilità di valutare preliminarmente i commissari candidati attraverso lo strumento delle audizioni.

Proprio in occasione della nomina nel 2004 dell’attuale esecutivo presieduto da José Manuel Barroso, si verificava un episodio interessante che, al di là della cronaca politica, merita di essere sottolineato a testimonianza del crescente ruolo del Parlamento europeo nella scelta dei commissari. L’episodio in questione riguarda la bocciatura da parte della Commissione libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo del candidato italiano proposto in prima battuta al ruolo di commissario europeo alla giustizia, libertà e sicurezza. Una bocciatura non vincolante per il Presidente della Commissione europea designato ma che, rappresentando una sorta di moral suasion, chiamava Barroso a considerare l’eventualità di una mancata successiva approvazione da parte del Parlamento inducendolo a sostituire il candidato italiano.

La possibilità di condizionare la scelta dei commissari è il risultato di un processo diretto a superare il deficit democratico esistente in seno alle istituzioni europee. In altre parole, questo processo trova oggi espressione nella funzione colegislativa assunta dal Parlamento insieme al Consiglio dei ministri nonché, come si è visto, nell’approvazione parlamentare in occasione della nomina della Commissione e, ovviamente, nell’adozione di una mozione di censura nonostante resti, rispetto a quest’ultima opzione, la difficoltà di raggiungere in seno al Parlamento le maggioranze necessarie per il doppio quorum richiesto dall’art. 201 TCE.

Massimiliano Di Dio (2007)