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Paesi Bassi

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Il rifiuto in massa del progetto di Trattato costituzionale europeo da parte degli olandesi (v. Costituzione europea), nel giugno 2005, ha messo in luce che i Paesi Bassi, i cui governi succedutisi a partire da quella data hanno chiesto un nuovo trattato meno ambizioso, costituiscono un caso piuttosto particolare nella storia della costruzione europea. Pur avendo adottato fin dalle origini il principio di una partecipazione attiva alle Istituzioni comunitarie, i Paesi Bassi hanno manifestato regolarmente grandi reticenze in una serie di settori. Pur privilegiando costantemente opzioni atlantiche, inoltre, si sono dimostrati al tempo stesso molto esigenti in termini di sviluppo della cooperazione europea in vari ambiti.

Se ogni paese membro ha contribuito e contribuisce con la propria storia e identità al processo di costruzione europea, i Paesi Bassi richiedono senz’altro un’attenzione particolare in questo senso.

Fattori storici determinanti

Segnate dal protestantesimo, che nel XVI secolo fu il motore della lotta che mirava a separarle dalle province del Sud con le quali allora costituivano i Paesi Bassi spagnoli, le province olandesi, diventando le Province Unite, acquistarono un carattere istituzionale specifico e conobbero uno sviluppo caratterizzato da quattro fattori determinanti: la lingua, la conquista della terra sottratta al mare, l’espansione commerciale e coloniale, un sentimento marcato della sovranità nazionale.

Essendosi dotati molto precocemente di un sistema istituzionale che riconosceva alle province una grande autonomia, nel quadro di uno Stato che presentava tratti federali in un’Europa prevalentemente monarchica e centralizzatrice, nel XVI e nel XVII secolo i Paesi Bassi a causa della pressione demografica dovettero ingaggiare una lotta titanica contro il mare per guadagnare terra. Questa stessa pressione incoraggiò l’emigrazione verso l’Africa australe. Di pari passo con l’espansione commerciale che li rese uno dei principali interlocutori del Giappone, la colonizzazione dell’Indonesia introdusse un paese di modeste dimensioni nel novero delle potenze coloniali. Grande potenza, favorita dalla posizione e dal ruolo di Amsterdam nell’Europa nord occidentale sia sul piano finanziario che commerciale, i Paesi Bassi dimostrarono anche una grande capacità di difendere la loro integrità rafforzando al tempo stesso la loro identità. Le iniziative del re di Spagna nel XVI secolo e quelle di Luigi XIV nel secolo successivo, suscitarono una diffidenza duratura nei confronti dell’altro e favorirono la tendenza a gravitare verso il mare anziché verso il continente. In questo senso, si può stabilire senz’altro un certo parallelismo tra i Paesi Bassi e l’Inghilterra (v. Regno Unito).

Sotto la tutela della Francia imperiale al principio del XIX secolo, i Paesi Bassi formarono, con il loro vicino del Sud, un regno in cui belgi e olandesi convivevano con difficoltà. La rivoluzione belga del 1830 aprì un lungo periodo di risentimento fra i due paesi. Lo sviluppo industriale del Belgio e il ritorno del porto di Anversa in posizione preminente nel traffico marittimo mondiale costituiscono, in particolare, per i Paesi Bassi, una notevole concorrenza.

Vedendo rispettata la loro Neutralità nel 1914, contrariamente a quanto accaduto al Belgio, i Paesi Bassi trassero dall’esperienza e dall’impero coloniale considerevoli benefici materiali e al tempo stesso il rafforzamento di un certo isolazionismo. Tuttavia, la situazione economica mondiale spingeva verso una politica di avvicinamento ad altri piccoli Stati nel quadro del patto di Oslo, e di un dialogo ancora timido, in particolare, con il Belgio. Per quanto riguarda i rapporti con questo paese, l’idea di un’intesa sul piano economico era stata formulata a varie riprese dal 1914, ma non c’era stato alcun seguito concreto e l’auspicio era rimasto sulla carta. In compenso, la grande depressione e la minaccia sempre più evidente rappresentata dal vicino tedesco incoraggiarono Bruxelles e l’Aia, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, con il ministro Colijn in primo piano e i sovrani dei due Stati, non solo a tentare iniziative congiunte per salvare la pace, ma anche a moltiplicare i contatti “tecnocratici” su tutta una serie di questioni collegate al commercio e al settore fluviale, in considerazione dell’importanza della Mosa che attraversa il Belgio e conclude il suo corso nei Paesi Bassi.

La consapevolezza dell’interdipendenza

Ma fu a Londra, dove si trovava il governo olandese in esilio durante la Seconda guerra mondiale, che l’orientamento della politica estera cambiò decisamente rotta. Una volta scoppiate le ostilità in Estremo Oriente, i Paesi Bassi, che nel 1940 avevano esitato a lanciare nella battaglia il loro impero, si schierarono più risolutamente a fianco degli alleati anglosassoni. Al tempo stesso l’occupazione del paese e il destino aleatorio delle colonie posero i Paesi Bassi di fronte alla necessità imperiosa di riesaminare la loro posizione internazionale ed europea nella prospettiva del dopoguerra. In questo contesto, e in un certo senso perché costretti dalle prospettive a lungo termine suscitate dalle circostanze contingenti, i Paesi Bassi aggiornarono, rafforzandole, le aperture avviate negli anni Trenta dal loro governo.

Scoprendo meglio, come il Belgio, che cosa significhi l’interdipendenza, i Paesi Bassi si impegnarono con i vicini del Belgio e del Granducato (v. Lussemburgo) in un percorso di cooperazione triangolare che darà origine al Benelux.

Atlantismo e preferenza inglese.

Nel 1945-1946 il governo olandese, che non desiderava il ritorno a una politica di indipendenza e di rigida neutralità come nell’anteguerra, auspicò la conclusione, sotto l’egida inglese, di un’intesa occidentale che ottenesse il consenso e, se possibile, la partecipazione degli Stati Uniti. Tuttavia, finché questa speranza restò irrealizzata, i Paesi Bassi ritenevano che la sicurezza collettiva dovesse essere assicurata nel quadro dell’ONU. Sebbene non nutrissero illusioni sulla politica dell’URSS, i ministri olandesi degli Esteri, Van Kleffens e poi Van Roijen, temendo il rimpatrio delle truppe americane nel loro paese, assunsero un atteggiamento particolarmente prudente ispirato, fino alla fine del 1947, dalla posizione di Washington, secondo la quale un cambiamento di rotta non doveva intervenire prima che un avvicinamento con Mosca non fosse fallito definitivamente.

Essendo meno preoccupati del Belgio di organizzare la loro sicurezza secondo un’architettura a tre livelli, i Paesi Bassi ritenevano anche che la collaborazione effettiva tra Londra e Parigi fosse un’illusione. E che l’idea cara a Paul-Henri Spaak di un avvicinamento privilegiato fra Inghilterra e Belgio fosse irrealistica.

I Paesi Bassi erano convinti che la loro sicurezza fosse dovuta agli Stati Uniti, mentre la Gran Bretagna era considerata il perno della cooperazione economica in Europa, essendo un partner commerciale importante; non senza ragione era vista come la porta del mondo atlantico e rappresentava il contrappeso alla Francia. Ma la delusione era alle porte. Come i suoi partner del Benelux, i Paesi Bassi dovettero arrendersi all’evidenza. I britannici, valutando l’importanza delle loro relazioni economiche con il Commonwealth e gli Stati Uniti, non desideravano affatto giocare la carta della cooperazione regionale europea.

L’atteggiamento di Londra ebbe tre conseguenze per i Paesi Bassi. La prima fu il consolidamento dei legami con il Belgio. La seconda fu il rafforzamento dell’opposizione alle ambizioni francesi di giocare un ruolo di primo piano a livello regionale. La terza fu l’adozione di un atteggiamento che si può definire attendista (v. Brouwer, 1997), oscillando fra cooperazione regionale e cooperazione su scala mondiale nel quadro delle Nazioni Unite, in cui gli Stati Uniti dovevano avere un ruolo preminente. In questo senso la posizione olandese era più atlantista che europea, ma le due opzioni non si escludevano reciprocamente.

Verso la cooperazione regionale europea

L’avvicinamento fra Londra e Parigi, sancito dal Trattato di Dunkerque (4 marzo 1947), rilanciò l’ipotesi di un’alleanza occidentale. Prudenti, i Paesi Bassi erano anche molto sensibili all’atteggiamento negativo di Washington nei confronti delle intese regionali. Al contrario di Spaak, che dal fronte belga preconizzava una serie di patti di assistenza bilaterali, il governo olandese mantenne la sua preferenza per una politica di sicurezza collettiva nel quadro dell’ONU, non senza considerare, al punto da mettere in dubbio il principio stesso del Benelux, che il Belgio aveva tradito lo spirito di cooperazione fra i due paesi e rischiava di trascinarli nell’orbita della Francia.

Diffidenti nei confronti della politica belga, i Paesi Bassi erano comunque indotti a rivedere le loro posizioni complessive una volta consumato il fallimento della conferenza anglo-franco-russa sul Piano Marshall. Questa revisione li portò a svolgere un ruolo attivo nel processo che condusse al Trattato di Bruxelles del 1948.

L’aggravarsi delle tensioni causate dalla Guerra fredda, avendo incoraggiato la crescita dell’impegno americano nell’Europa occidentale, ridimensionò il ruolo della Gran Bretagna e della Francia. In questo contesto l’Aia e i suoi partner del Benelux potevano far sentire meglio la loro voce. Ne conseguì una concezione quasi identica all’Aia e a Bruxelles in merito a un blocco occidentale sotto la direzione degli Stati Uniti, con la prospettiva di una ripresa della Germania occidentale e la partecipazione britannica ai negoziati sul Piano Marshall.

Badando sempre, con determinazione, a mantenere le distanze con Parigi, e quindi cercando di sostituire l’Inghilterra con un altro protagonista capace di assicurare un indispensabile contrappeso all’influenza francese nel quadro di una cooperazione regionale europea, i Paesi Bassi, malgrado la costituzione dell’unione occidentale con la Gran Bretagna (marzo 1948) (v. anche Unione dell’Europa occidentale), ritenevano che la partecipazione tedesca fosse diventata una condizione essenziale dell’accordo economico.

Malgrado queste convergenze, le posizioni dell’Aia e di Bruxelles potevano divergere, come dimostrano le prese di posizione differenti in merito al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman. In altre parole, se le due capitali, senza dimenticare il Lussemburgo, riuscirono fra il 1948 e il 1950 a creare un “mito Benelux” che fu loro utile per molto tempo, esistevano anche ì problemi, spesso considerevoli, che segnarono il breve, medio e lungo termine.

Se l’Aia sul piano politico non poteva permettersi, in fin dei conti, di non aderire al Piano Schuman (v. Griffiths, 1990), è significativo osservare che nel giugno 1950 il ministro Stikker, molto influenzato da Washington, presentava davanti al consiglio dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) un «piano d’azione per l’integrazione economica dell’Europa». Il suo obiettivo era quello della liberalizzazione degli scambi per settori economici come tappa indispensabile prima della creazione di un mercato comune, confermando così il carattere vitale della liberalizzazione del commercio per i Paesi Bassi e, al tempo stesso, la diminuzione della cooperazione politica fra i paesi del Benelux poiché i Paesi Bassi avevano agito senza concertazione con i partner. La stessa osservazione vale per i negoziati del trattato che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

Comunque, in generale, l’adesione olandese alla CECA indicava che nel complesso i paesi del Benelux accettavano la cooperazione in una “piccola Europa” che si dimostrò il solo comune denominatore possibile (v. Griffiths, Lynch, 1989), ma l’accettarono unicamente perché la Germania ormai poteva svolgere quel ruolo di contrappeso che avevano sognato di assegnare all’Inghilterra.

Quale cooperazione?

Il modo in cui i Paesi Bassi accolsero il progetto di Comunità europea di difesa (CED) indicava che, ai loro occhi, la costruzione o integrazione europea doveva essere limitata alle questioni economiche e commerciali (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Il settore politico e a fortiori quello della difesa dovevano restare prerogative nazionali. Di conseguenza l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), la cui cooperazione era in larga misura intergovernativa e non richiedeva quindi grandi sacrifici in materia di sovranità, fu privilegiata rispetto ai progetti di difesa europea integrata (v. Harryvan, van der Harst, 2000). Opponendosi energicamente alla Francia durante i negoziati e guadagnando alla causa anche i partner del Benelux, i Paesi Bassi furono tuttavia i primi a ratificare il trattato (La Tweede Kamer o Camera bassa nel marzo 1953; la Eerste Kamer o Chambre alta nel gennaio 1954).

I motivi di questo ribaltamento della situazione mentre la disputa sulla CED divideva la Francia, consente di mettere in luce alcuni elementi interessanti. Sul piano congiunturale, occorre presi in considerazione gli incoraggiamenti profusi dalla nuova amministrazione americana ai Sei e la sostituzione al ministero degli Esteri dell’atlantista Stikker con Johan Willem Beyen, fervente difensore della causa europea (settembre 1952). Lo stesso dicasi per la manovra politica, oggi giudicata machiavellica, consistente nel proporsi senza fatica come modello della classe europea nella convinzione che in ogni caso la CED era condannata in Francia, la sua promotrice. Sul piano strutturale, il voto nelle due Camere olandesi indicava che una parte significativa dei parlamentari difendeva le posizioni federaliste e stigmatizzava regolarmente il governo per il suo attendismo o la sua diffidenza nei confronti della costruzione europea (v. Federalismo).

Il fallimento della CED offrì al governo olandese, e in particolare a Beyen, ma anche a personalità come Sicco Mansholt (Agricultura) e Jelle Zijlstra (Economia), l’occasione di dimostrare le loro capacità in materia economica e, ancora di più commerciale. A questo proposito il ruolo dei Paesi Bassi, e del Benelux, nel rilancio del processo di Messina è noto. (v. Serra, 1989, pp. 172-174) (v. Conferenza di Messina).

I lavori del comitato Spaak, poi i negoziati di Val Duchesse, dovevano tuttavia provocare tra gli olandesi non poche disillusioni. Pochissimo interessati al trattato che istituiva la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), lo erano invece fortemente a quello che istituiva la Comunità economica europea (CEE). Ma il governo olandese lo firmò di malavoglia, rassegnandosi, come sottolinea Joseph Luns nel gennaio 1957, a dover scegliere fra un cattivo trattato e l’assenza di un trattato. Per i Paesi Bassi il trattato CEE non andava bene perché non raggiungeva tutti i loro obiettivi in materia agricola (v. Politica agricola comune), di tariffa esterna (superiore alle loro attese), di Politica comune dei trasporti e di Associazione dei Paesi d’Oltremare (v. Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea), in merito ai quali ritenevano che non dovessero far parte delle priorità. Inoltre, l’armonizzazione sociale era giudicata controproducente per il rialzo dei prezzi che avrebbe provocato; inoltre il trasferimento di competenze, in origine affidate alla Commissione europea, verso il Consiglio dei ministri avrebbe comportato, a causa della procedura di voto, un indebolimento della difesa degli interessi olandesi (v. Griffiths, Asbeek Brusse, 1989, pp. 492-493).

I Paesi Bassi, entrando nella CEE, aderirono a una «associazione protezionista relativamente piccola», come dichiarò il primo ministro Drees in una riunione del gabinetto olandese nell’aprile 1957. Di fatto, la tentazione dell’Oceano restava potente.

Negli anni Sessanta, la politica dei Paesi Bassi fu segnata sia dall’ansia di vedere l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità sia dalla diffidenza verso la Francia. La politica di sviluppo portata avanti dalla Commissione sotto l’influenza di Parigi ebbe l’effetto di esasperare l’Aia, che non solo la considerava costosa, ma anche rivolta esclusivamente all’Africa francofona. A questo proposito i Paesi Bassi ritenevano che, come in altri ambiti, l’adesione britannica fosse una vittoria perché allargava gli orizzonti contrastando al tempo stesso gli obiettivi francesi.

In ogni caso gli anni Sessanta furono il periodo in cui il coinvolgimento della società olandese nelle questioni internazionali aumentò notevolmente, soprattutto in seguito all’intervento americano in Vietnam. Allo stesso tempo il governo olandese, ben lungi dall’appoggiare Washington senza condizioni, prese per certi versi le distanze dagli Stati Uniti e il ministro degli Esteri Joseph Luns lanciò un’iniziativa di pace nel 1968 e poi nel 1970 (v. van der Maar, 2007).

Fu in questo contesto, caratterizzato dalle relazioni con Londra, Parigi e Washington, che, dal 1958 al 1973, cioè nel periodo dall’effettiva messa in opera della CEE fino al primo allargamento, i Paesi Bassi favorirono l’elaborazione di una Politica agricola comune (PAC) il cui principale artefice, a Bruxelles, fu il commissario europeo Sicco Mansholt. Per i Paesi Bassi, che avevano l’agricoltura più competitiva della CEE e contendevano alla Francia il secondo posto fra i paesi esportatori di prodotti agricoli, dopo gli Stati Uniti, la posta in gioco era fondamentale.

Negli anni Cinquanta la politica dei Paesi Bassi mirava a colmare le disparità di sviluppo tra regioni costiere ricche e regioni interne più povere, per utilizzare pienamente le risorse agricole caratterizzate da strutture a gestione familiare di dimensioni generalmente modeste. Avendo scelto, alla fine del XIX secolo, di mantenere verso e contro tutti il libero scambio, lo Stato svolse un ruolo trainante sia in materia di ricerca e di insegnamento sia nel settore del credito, anche nella prospettiva di facilitare l’accesso al prestito fondiario. Fra il 1950 e la metà degli anni Ottanta la politica agricola olandese, particolarmente originale nell’Europa del nordovest, usò strumenti differenti e «si caratterizzò per la grande coerenza, con una ripartizione armoniosa dei finanziamenti tra la ricerca, l’insegnamento e la divulgazione agricola, la modernizzazione delle coltivazioni, la ristrutturazione dello spazio rurale e il sostegno all’agro-industria» (v. Devienne, 1989).

Questa originalità della politica si accompagnò alla creazione di strutture istituzionali (rappresentanza paritaria delle organizzazioni dei coltivatori diretti e dei salariati agricoli; organizzazione della rappresentanza paritaria dei diversi operatori secondo la filiera dei prodotti; “fondazioni” incaricate dell’applicazione delle misure relative alla politica agricola). Molto sindacalizzato (l’80% dei coltivatori), il mondo agricolo olandese era un settore che pesava non solo economicamente ma anche politicamente nella società olandese e nelle sue scelte, in particolare europee. Dato che sul piano interno il governo olandese adottò una politica decisionista e innovativa, si attendeva dai partner europei un atteggiamento altrettanto risoluto.

I Paesi Bassi speravano di veder adottare dai Sei misure dirette alla riduzione degli squilibri regionali di sviluppo agricolo analoghe a quelle adottate sul piano nazionale: politica dei prezzi differenziati a livello regionale, limitazione della produzione avicola, sostegno alle imprese più piccole per permettere loro di compensare l’handicap di dimensione, ristrutturazione integrale dello spazio rurale (v. Molegraaf, 1999). A queste misure degli anni Cinquanta e Sessanta si aggiunsero poi gli aiuti all’investimento differenziato a livello regionale, come pure l’intervento dei pubblici poteri sul mercato fondiario, in attesa dello sviluppo, a partire dal 1970, di un vero apparato di ricerca-sviluppo.

Per vedere affermarsi la loro concezione della politica agricola comune, e più in generale del Mercato comune, i Paesi Bassi si presentarono in quest’ambito come i campioni della sovranazionalità, giudicata indispensabile per proteggere i piccoli contro i grandi paesi. Fautori del rafforzamento del ruolo della Commissione e del voto a Maggioranza qualificata nel Consiglio, si opposero ai progetti intergovernativi e accettarono con riluttanza la riunione del Consiglio europeo a partire dal 1974. Ma fedeli al principio secondo cui le questioni politiche e di difesa dipendono essenzialmente dagli Stati, mostrarono uno scarso entusiasmo per la cooperazione politica lanciata negli anni Settanta.

Soluzione di continuità intorno al 1990

La continuità che si osserva nelle posizioni olandesi subì un cambiamento alla fine degli anni Ottanta e più ancora all’inizio del decennio successivo. Sembra che a partire da questo periodo i Paesi Bassi si siano allontanati dall’Europa storica di cui avevano fatto parte fin dalle origini.

Ritenendo che la NATO restasse la pietra angolare della politica di sicurezza, i Paesi Bassi si mostrarono particolarmente riluttanti nel seguire le iniziative dirette all’elaborazione di un’identità europea in materia di difesa (v. anche Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa). In effetti, si insistette su iniziative e su principi più ampi. Così, i Paesi Bassi ritennero indispensabile il rafforzamento del ruolo dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, creata nel 1995, in particolare nell’ambito della prevenzione dei conflitti, del mantenimento della pace e dei Diritti dell’uomo. Di qui l’accento posto sulle relazioni non solo con gli Stati Uniti, ma anche con i paesi dell’Europa centrale e orientale, la cui transizione verso l’economia di mercato, soprattutto nel settore agricolo, destò molta attenzione.

L’allargamento considerevole del raggio della politica estera dei Paesi Bassi testimonia una grande sensibilità verso la globalizzazione, della quale possiedono una cultura dovuta alla loro storia. Al tempo stesso la globalizzazione ha portato a una crisi d’identità della società olandese, che ha dato l’impressione di ripiegarsi su se stessa. Di qui il paradosso: volendo essere campioni della democrazia e dei diritti dell’uomo, desiderando promuovere l’ordine giuridico mondiale e operare per lo sviluppo del diritto internazionale pubblico, i Paesi Bassi, la cui capitale ospita la sede della Corte internazionale di giustizia, della Corte permanente di arbitrato, del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche e della Corte penale internazionale, sono stati anche protagonisti di un rifiuto dell’altro che in diverse circostanze ha assunto proporzioni allarmanti.

Tuttavia, malgrado le reticenze in materia di sovranazionalità non economica, i Paesi Bassi, durante la loro presidenza nel secondo semestre del 1991 (v. anche Presidenza dell’Unione europea), proposero (30 settembre) un’unione politica che includesse una politica estera e di sicurezza comune integrate, invece di inserirle in pilastri intergovernativi separati (v. Pilastri dell’Unione europea). Sostenuto solo dal Belgio e dalla Commissione, il progetto olandese fu una Waterloo diplomatica non priva di conseguenze. Riesumando lo schema lussemburghese dei tre pilastri, adottato alla fine a Maastricht (v. Trattata di Maastricht), l’Aia andava allontanandosi più che mai dall’Europa politica, e ciò tanto più che a livello del Mercato comune l’Unione economica e monetaria costituiva il punto d’approdo di un programma formulato agli inizi degli anni Cinquanta. Se da un lato si schierarono a fianco della Germania per esigere il rispetto della disciplina finanziaria dopo il passaggio alla moneta unica e difendendo il principio dell’indipendenza della Banca centrale europea, i Paesi consideravano invece una “chimera” il progetto di federazione europea del ministro tedesco degli Esteri Joschka Fischer (maggio 2000).

Il divario fra obiettivi politici generalmente respinti e obiettivi economici considerati raggiunti non è tuttavia l’unico fattore che spiega il disincanto e poi la disaffezione dei Paesi Bassi nei confronti della costruzione europea. A varie riprese, fra il 1996 e il 2004, i Paesi Bassi si sono sentiti esasperati dalla politica e dall’atteggiamento della Francia. Dalle pretese francesi in materia di lotta contro la droga comportanti la richiesta di revisione della legislazione olandese, giudicata troppo permissiva (1996), al ritardo registrato fra la designazione e la nomina effettiva di Wim Duisenberg a capo della Banca centrale europea (1996-1998), la tensione fra Parigi e l’Aia è stata costante, come dimostra anche l’irritazione dell’Aia di fronte alla violazione del patto di stabilità da parte della Francia e anche della Germania (2003-2004). Agli occhi dell’Aia, esistono due pesi e due misure, a seconda che si tratti di un piccolo o di un grande paese.

Il relativo nervosismo della diplomazia olandese nel settore degli affari europei si accompagnò alla scomparsa del consenso che esisteva da lustri all’interno del Parlamento dell’Aia e a un’evoluzione in seno all’opinione pubblica. Quest’ultima era disorientata dall’ampiezza dell’allargamento, che suscitava un sentimento di diffidenza e poi di rifiuto nei confronti di un processo che era percepito, secondo l’espressione del ministro Frans Timmermans, come un «allargamento big bang», perché andava troppo in fretta e troppo lontano. Il timore di perdere la propria identità in un’Europa “senza frontiere”, fino alla prospettiva di includere la Turchia, l’impressione ricavata da un passato recente che i grandi paesi dettino le loro leggi ai piccoli, gli effetti reali o presunti dell’introduzione dell’euro sul costo della vita, sono altrettanti fattori che spiegano l’esito referendum costituzionale del 1° giugno 2005, che può interpretato come una sanzione diretta più alle élites politiche del paese che all’idea europea in quanto tale (v. Dekker, 2005).

Tre giorni dopo il “no” francese, quello del 61,5% degli elettori olandesi (1° giugno 2005) partecipanti al voto (63% del corpo elettorale) segnò la fine del progetto di trattato costituzionale.

In seguito a questo terremoto, che rivelava il profondo smarrimento della società e della classe politica olandesi, bisogna aspettare la formazione del quarto governo Balkenhende, nel febbraio 2007, per assistere a un aggiornamento della posizione dei Paesi Bassi sul dossier europeo.

Il governo di grande coalizione uscito dalle elezioni del novembre 2006 affermava nel suo programma la volontà di «partecipazione attiva» dei Paesi Bassi alle istituzioni europee. Il Principio di sussidiarietà era considerato una priorità per l’Unione europea, e si auspicava uno sviluppo della cooperazione europea in settori quali l’energia, la politica dell’immigrazione, la Lotta contro il terrorismo e la criminalità, la politica estera.

Lasciando al Consiglio di Stato la decisione su un eventuale nuovo referendum sul progetto di trattato, il governo olandese riteneva che le modifiche da introdurre nel testo originario dovessero prevedere cambiamenti nel contenuto, nell’ampiezza e nella denominazione.

La ratifica del Trattato di Lisbona da parte del Parlamento olandese avvenne nel 2008, dopo che il Consiglio di Stato stabilì che il progetto, non avendo portata costituzionale, non doveva essere sottoposto agli elettori.

Elementi della tradizione e dati nuovi si mescolano attualmente come se i Paesi Bassi fossero in cerca di una politica nuova diretta all’articolazione fra spazio europeo e multilateralismo.

Quello che potrebbe costituire un ritorno dei Paesi Bassi in Europa sembra legato al placarsi dei dibattiti sull’immigrazione, l’identità e l’islamofobia, ma anche a un ritorno di equilibrio.

Michel Dumoulin (2009)

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