Paolo VI

Montini (Concesio, Brescia 1897-Castel Gandolfo 1978), proveniente da una famiglia cattolica della borghesia bresciana (il padre, Giorgio, era direttore del giornale cattolico “Il Cittadino di Brescia” e deputato del Partito popolare di don Luigi Sturzo) studiò presso il collegio Arici, gestito dai padri gesuiti. Influenzato dalle iniziative dei padri filippini dell’Oratorio della Pace, manifestò una forte inclinazione per la vita religiosa e fu ordinato sacerdote nel 1920. Trasferitosi a Roma, fu allievo del Collegio lombardo e si laureò in utroque iure nella facoltà giuridica del seminario di Milano (1922). Nel 1921 entrato entrò nell’Accademia dei nobili ecclesiastici, l’istituto per la preparazione dei diplomatici della Santa Sede. Nel 1923 trascorse qualche mese alla nunziatura di Varsavia, per poi entrare, dal 1° ottobre 1924, alla Segreteria di Stato vaticana, promosso a minutante dal 9 aprile 1925. Nello stesso tempo fu nominato assistente ecclesiastico della Federazione universitari cattolici italiani (FUCI). In tale ruolo fece conoscere agli universitari cattolici il pensiero di Jacques Maritain, traducendo in italiano Tre riformatori (1928) e scrivendo sulle riviste dell’associazione, “Azione Fucina” e “Studium”. Conobbe allora e divenne amico di molti studenti che nel dopoguerra avrebbero assunto rilevanti cariche istituzionali o di partito. Tra il 1937 e il 1954 fu sostituto segretario di Stato, dividendo il ruolo con Domenico Tardini e acquisendo una esperienza diplomatica straordinaria. Fu in questa fase che maturò le sue convinzioni europeiste, collaborando strettamente con Pio XI e soprattutto con Pio XII.

Nel corso della Seconda guerra mondiale M. si occupò del servizio di informazione del Vaticano, istituito per mettere in contatto i prigionieri di guerra, i profughi, gli internati civili, i dispersi, con le loro famiglie. Questa esperienza gli fece ancor meglio comprendere il dramma della guerra e il valore della pace. M. era però convinto che non bastasse la cessazione delle ostilità per ritrovare la vera pace. Questa si sarebbe raggiunta solo se si fossero superati gli odi reciproci, i risentimenti lasciati dalle vicende belliche specialmente in Europa. Ebbe a questo proposito significative divergenze d’opinioni con Jacques Maritain, dal 1945 al 1948 ambasciatore francese presso la Santa Sede, che avrebbe voluto la condanna del popolo tedesco come corresponsabile della guerra e lo smembramento della Germania. M., al contrario, riteneva che la Germania non dovesse essere punita, ma aiutata a risollevarsi e a darsi un regime politico compiutamente democratico. Era essenziale che gli Stati democratici dell’Europa occidentale, alleati degli Stati Uniti d’America nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) (1949), superassero gli antichi contrasti e trovassero una via comune per risollevarsi.

Amico personale del presidente del consiglio italiano, Alcide De Gasperi, M. condivise con lui la passione per la politica europeistica, seguendo con simpatia lo sforzo dei democratici cristiani europei in favore dell’unificazione del continente. In questa prospettiva intese il Piano Schuman come lo strumento adatto per permettere il riavvicinamento franco tedesco ed eliminare una delle principali cause di conflitto in Europa. Vide quindi con estremo favore l’adesione dell’Italia alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e il costituirsi della “piccola” Europa dei Sei, una Europa, per di più, prevalentemente cattolica.

M. era convinto che solo una soluzione cristiana e federalista avrebbe potuto garantire la pace e mettere a tacere i sempre pericolosi nazionalismi (v. Federalismo). Fu anche favorevole alla Comunità europea di difesa (CED), per i suoi risvolti federalisti, ma anche per una considerazione realistica della situazione politica internazionale del tempo. Benché l’Europa fosse per M. soprattutto un problema di ordine spirituale, egli comprendeva l’importanza del costituirsi di un blocco di nazioni in grado di opporsi, anche militarmente, al paventato espansionismo sovietico. Di fronte al rischio della mancata ratifica della CED, soprattutto in Francia, prese quindi posizione contro le visioni ristrette di un “nazionalismo sciovinista”, nettamente in contrasto con l’apertura alla comunità mondiale auspicata dagli ultimi papi. Egli fu di conseguenza profondamente deluso dal fallimento della CED, sia perché ciò rischiava di allontanare nel tempo la realizzazione di una federazione europea, sia perché l’Europa si trovava esposta indifesa di fronte alle minacce sovietiche.

Pochi mesi dopo la caduta della CED M. fu nominato arcivescovo di Milano (1° novembre 1954). Nella sua decennale permanenza a capo della diocesi ambrosiana ebbe spesso occasione di parlare dell’Europa, individuando una linea di sviluppo storico che partiva dalla res publica christiana, ma che perdeva vigore con la rottura dell’unità religiosa nel Cinquecento e con lo sviluppo degli Stati nazionali e del nazionalismo nell’Ottocento. E proprio il nazionalismo aveva condotto al dramma delle due guerre mondiali. Tuttavia, diceva M., non bisognava guardare al lontano passato con nostalgia, ma trarne degli insegnamenti per l’avvenire. L’Europa aveva bisogno di un’anima sola per prosperare e vivere in una pace sicura. Solo la religione cristiana, col suo spirito universale, poteva contribuire a superare i nazionalismi distruttivi e dare la necessaria anima all’Europa. I cattolici dovevano dunque operare per la pace, la fraternità, l’unità.

M. seppe quindi ben apprezzare l’importanza dei Trattati di Roma (1957) che avevano dato vita alla Comunità economica europea (CEE) e alla Comunità europea per l’energia atomica (CEEA). L’intensificarsi dei rapporti commerciali che queste nuove istituzioni avrebbero permesso avrebbe infatti condotto a contatti più frequenti tra popoli diversi, facilitando la reciproca comprensione. Inoltre, un’Europa più prospera sarebbe stata anche un’Europa più pacifica, un’Europa che non avrebbe più dovuto ricorrere alle guerre come nel passato. Il 23 giugno 1959, celebrando a Magenta una messa in suffragio dei morti nella guerra del 1859 di fronte ai Presidenti della Repubblica italiana e francese, Giovanni Gronchi e Charles de Gaulle, M. auspicò che la guerra non dovesse più essere una “necessità” e sottolineò l’importanza dei valori cristiani, in particolare dell’amore fraterno, per la costruzione dell’Europa unita. Le parole di M. commossero il generale de Gaulle, che con un gesto poco protocollare, tra lo stupore degli astanti, si avvicinò al celebrante sull’altare e gli strinse la mano, dicendo: «Ciò che ha detto sarà fatto».

Il tema della guerra e della pace, associato all’Europa e alle sue future prospettive, fu ripreso spesso dall’arcivescovo di Milano. Solo la pace avrebbe permesso un periodo di prosperità, in cui tutti avrebbero lavorato per il benessere di tutti, senza più odi, senza più rivalità, senza più guerre. Impegnato nella preparazione del Concilio Vaticano II, M. contribuì anche all’apertura della Chiesa cattolica al dialogo e, indirettamente, a favorire un più costante e proficuo rapporto tra paesi e concezioni diverse.

Nel giugno del 1963 M. succedette nel pontificato, col nome di Paolo VI, a Giovanni XXIII, che lo aveva creato cardinale nel 1958. Nel corso del suo pontificato riprese e ampliò le sue concezioni sull’Europa. Pochi mesi dopo la sua elezione, ricevendo a Roma i partecipanti alla Conferenza del Movimento europeo (9 novembre 1963), esclamò: «Anche noi siamo per l’Europa unita!» (v. Conte, 1978, p. 151). Doveva essere un’Europa caratterizzata dalla fraternità e dalla carità universale, che non fosse la “fortezza Europa”, ma un’Europa aperta all’aiuto verso gli altri continenti. Era, in un certo senso, l’applicazione all’Europa della sua concezione della Chiesa cattolica, aperta al mondo, sia nei confronti del mondo comunista, che nei confronti dei paesi in via di sviluppo, in dialogo coi diversi, sia i diversi nel campo religioso che in quello ideologico o politico. Nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam (6 agosto 1964) che conteneva, come da tradizione, il programma del pontificato, Paolo VI aveva infatti scritto: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere; la Chiesa si fa parola, si fa messaggio, si fa colloquio». Era, del resto, l’insegnamento del Concilio vaticano II, che Paolo VI portò a termine nel 1965.

Il 24 ottobre 1964 Paolo VI proclamò san Benedetto patrono principale dell’Europa tutta, dell’Europa da lui evangelizzata «con il libro e con l’aratro» e che andava «dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia» (v. Conte, 1978, p. 174). Non era ancora l’Europa dall’Atlantico agli Urali, cara al generale de Gaulle e al successore di Paolo VI, Karol Wojtyla (v. Giovanni Paolo II), ma si andava già al di là della divisione tra mondo occidentale e mondo comunista. Queste aperture facevano parte della Ostpolitik vaticana, affidata alle cure del cardinale Agostino Casaroli. Si ebbero in tal modo gli accordi col governo ungherese (15 settembre 1964), che permisero la nomina di alcuni vescovi, col governo cecoslovacco, che portarono alla liberazione del cardinale Josef Beran, con la Iugoslavia del maresciallo Tito, come pure con la Polonia e la Germania orientale. Vi furono molte critiche nei confronti di un pontefice che trattava coi regimi “anticristiani”, ma ciò permise, pur tra molte difficoltà, la sopravvivenza della Chiesa nei paesi comunisti.

Nel suo famoso discorso davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, il 4 ottobre 1965, Paolo VI invitò a sostituire la guerra con la cooperazione, affermando con forza: «Mai più gli uni contro gli altri, mai più». Era un grido disperato, di fronte a vicende che mostravano invece come il ricorso alla guerra fosse ancora prassi normale. In quegli stessi giorni il pontefice aveva infatti incontrato il presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, al quale aveva espresso il desiderio di vedere la pace in Vietnam, senza ottenere ascolto. Nonostante queste disillusioni, Paolo VI non perse occasione di richiamare i governanti alla collaborazione. Ricevendo nel 1965 i partecipanti alla Conferenza parlamentare tra gli stati della Comunità europea e quelli africani a essa associati non mancò di invitare alla cooperazione attiva, senza fare troppi calcoli sul dare e l’avere. Compito della prospera Europa era quello di aiutare gli Stati africani senza aspettarsi nulla in cambio, come rimarcò anche nell’enciclica Populorum progressio (1967).

Se il tema dei paesi del Terzo mondo angosciava il papa, non meno preoccupato era per le sorti della costruzione europea. Di fronte alla crisi della “sedia vuota” continuò ad auspicare il superamento delle difficoltà, perché la costruzione dell’Europa equivaleva alla costruzione della pace. Nell’aprile del 1965, di fronte all’aggravarsi della crisi e alla prospettiva di rinviare a tempi migliori una unione più organica tra gli stati della CEE esclamò: «Che Dio non voglia!».

Rischiaratosi l’orizzonte europeo, il 10 novembre 1970 Paolo VI nominò un nunzio apostolico presso le Comunità europee e nel 1974 un inviato speciale, con funzione di osservatore permanente, presso il Consiglio d’Europa. In precedenza le relazioni tra la Santa Sede e la CEE erano state comunque assicurate dal nunzio apostolico presso il Belgio e il Lussemburgo. Tuttavia anche dopo la nomina di un nunzio specifico per le Comunità europee la carica fu ricoperta dallo stesso nunzio a Bruxelles, fino a quando, nel 1999, Giovanni Paolo II decise di separare le due cariche per dare maggiore importanza alla presenza della Santa Sede presso le Istituzioni comunitarie. Nel 1971 Paolo Vi istituì il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE), che raggruppava i rappresentanti delle Conferenze episcopali di 17 paesi, sempre nell’ottica di una migliore conoscenza reciproca. Tra questi vi erano anche tre paesi dell’orbita comunista: Polonia, Ungheria e Iugoslavia.

Per favorire la circolazione delle idee europee, nel 1976 Paolo VI istituì anche il Servizio d’informazione pastorale europeo cattolico (SIPECA), che ebbe sede a Strasburgo e a Bruxelles. Compito specifico della nuova organizzazione era seguire i lavori delle istituzioni europee per informarne la Santa Sede e gli episcopati europei. All’interno del SIPECA si svolsero anche varie discussioni sull’opportunità di stabilire un legame diretto tra le Conferenze episcopali dei paesi CEE e le istituzioni europee, preparando la strada alla Commissione degli episcopati della Comunità Europea (COMECE), che Giovanni Paolo II avrebbe istituito nel 1980.

L’attenzione ai problemi dell’Europa fu all’origine di una decisione di Paolo VI assai controversa: la partecipazione a pieno titolo della Santa Sede alla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa di Helsinki, inaugurata il 3 luglio 1973. Nonostante il parere contrario del segretario di Stato, il cardinale Jean-Marie Villot, e ben consapevole degli aspetti problematici di un atto del genere, Paolo VI impose la sua volontà. Il papato aveva sì una missione universale, ma aveva la sua sede in Europa, ed era quindi strettamente legato alle vicende del vecchio continente. Egli era ben consapevole che partecipare alla Conferenza voleva dire riconoscere implicitamente la geografia politica dell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, accettare la divisione del mondo in due blocchi contrapposti, cosa che la Santa Sede si era sempre rifiutata di fare, e dare fiato, certo involontariamente, alla propaganda dell’Unione Sovietica, il cui rispetto degli accordi era poi tutto da verificare. Ma Paolo VI vedeva anche i risvolti positivi dell’iniziativa. Sperava di riuscire a creare un tessuto di relazioni comune, al di là dei differenti sistemi politici ed economici. Sperava di ottenere il riconoscimento delle libertà fondamentali dell’uomo e tra queste, principalmente, la libertà religiosa, non solo per i credenti, ma per tutti gli uomini, nello spirito della dichiarazione conciliare Dignitatis humanae. L’impegno della Santa Sede su questo aspetto ebbe successo. Nell’Atto finale, firmato ad Helsinki il 1° agosto 1975 venne effettivamente riconosciuta «la libertà dell’individuo di professare e praticare, solo o in comune con altri, una religione o un credo agendo secondo i dettami della propria coscienza» (art. 7). Da questo momento in avanti gli appelli del papa per la libertà religiosa nei paesi comunisti dell’Est europeo avrebbero avuto non soltanto un fondamento morale, ma altresì una solida base giuridica.

Sofferente da tempo di una dolorosa artrosi e di disturbi circolatori, Paolo VI fu dolorosamente colpito dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, di cui era amico dai tempi della FUCI. L’episodio affrettò la sua fine, che venne nell’estate del 1978 nella villa papale di Castel Gandolfo.

Alfredo Canavero (2010)