Politica agricola comune

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Introduzione

La Politica agricola comune (PAC) ha sempre occupato e continua a occupare un ruolo centrale nel processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Assorbe oltre un terzo delle risorse di bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), è importante per la vita dei cittadini in virtù degli stretti legami che sussistono fra agricoltura e sicurezza alimentare e fra agricoltura e protezione dell’ambiente, condiziona le relazioni dell’Unione europea con il resto del mondo stante l’importanza decisiva che hanno gli scambi agricoli nei rapporti fra i vari paesi, e in particolare con quelli in via di sviluppo. Si tratta, quindi, di una politica settoriale che incide in maniera decisiva sulle condizioni di reddito e sulle prospettive dei lavoratori agricoli e che nello stesso tempo riguarda l’intera società europea. Ed è anche la politica comunitaria per eccellenza, dal momento che tutte le disposizioni legislative in materia di agricoltura sono prese dalle Istituzioni comunitarie e non più dai singoli governi nazionali. Dai prezzi dei prodotti alla politica commerciale con il resto del mondo (v. anche Politica commerciale comune), dai sussidi diretti ai produttori agli aiuti pubblici agli investimenti nelle aziende agrarie e a quelli riguardanti le attività di trasformazione; dalla fissazione dei tassi di tolleranza in materia di pesticidi alle norme igieniche per la lavorazione dei prodotti o per gli allevamenti degli animali; dalle imposizioni di limiti alla produzione alla regolamentazione dell’agricoltura biologica o dei prodotti di qualità sino alla loro etichettatura. Senza dimenticare che è la Commissione europea che negozia in seno all’Organizzazione mondiale del commercio.

La PAC ha ormai una lunga storia dietro di sé, che comincia con una Comunità di soli sei Stati membri: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Il suo atto di nascita si trova sancito negli stessi Trattati di Roma del 1957, che dedica all’agricoltura l’intero capitolo II (articoli 38-47). Quella di dotare la nascente Comunità di una specifica politica per il settore primario fu una scelta obbligata (v. Comunità economica europea). Alla fine degli anni Cinquanta, nei sei paesi fondatori, così come in tutti i paesi industrializzati, esistevano politiche agrarie nazionali che si erano venute consolidando a partire dalla grande crisi del 1929 e ulteriormente rafforzate nel secondo dopoguerra. Queste politiche non erano compatibili con l’apertura delle frontiere agli scambi agricoli essendo tutte imperniate, sia pure con gradi diversi di intensità, su tre principali gruppi di misure: restrizioni alle importazioni; aiuti all’esportazione, incentivi alla produzione e, in molti casi, discipline particolari in materia di commercializzazione. Fu questa la ragione per cui, nel Trattato istitutivo della Comunità europea, venne stabilito che, in sostituzione delle preesistenti politiche nazionali, «la realizzazione e lo sviluppo del mercato comune dei prodotti agricoli devono essere accompagnati dalla messa in opera di una politica agricola comune» (art. 38, par. 4).

L’articolo 39 indicava, al paragrafo 1, gli obiettivi che la PAC avrebbe dovuto perseguire: accrescere la produttività agricola promuovendo il progresso tecnico, assicurando lo sviluppo razionale della produzione agricola e il migliore impiego dei fattori di produzione, in particolare del lavoro; garantire così un equo tenore di vita alla popolazione agricola, soprattutto aumentando il reddito individuale di coloro che lavorano nell’agricoltura; stabilizzare i mercati; garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori (v. Politica dei consumatori).

Al successivo paragrafo, l’articolo 39 precisava che nella messa in opera della PAC si sarebbe dovuto tenere conto di tre speciali elementi: della particolare natura dell’attività agricola, dovuta alla struttura sociale dell’agricoltura e alle disparità strutturali e naturali fra le varie regioni; della necessità di effettuare i necessari cambiamenti con gradualità; del fatto che negli Stati membri l’agricoltura è un settore strettamente legato all’economia nel suo insieme.

Quanto alle concrete caratteristiche che la PAC avrebbe dovuto assumere per poter perseguire i suddetti obiettivi, il Trattato si limitava a fornire indicazioni di ordine generale, assegnando alla Commissione il compito di presentare le opportune proposte in materia e al Consiglio dei ministri la responsabilità di prendere le necessarie decisioni, dopo aver consultato il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale. Peraltro lo stesso Trattato precisava che per far fronte alle spese cui la PAC avrebbe dato origine era da prevedere la creazione di uno speciale Fondo agricolo, da articolare in due sezioni: una sezione “orientamento”, destinata a finanziare gli investimenti diretti ad ammodernare gli assetti strutturali dell’agricoltura; una sezione “garanzia”, destinata a finanziare gli interventi volti a sostenere i prezzi agricoli e a stabilizzare i mercati (v. Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia).

Nel 1960, con le proposte della Commissione al Consiglio e al Parlamento, ha inizio l’avventura della PAC, un’avventura nella quale, con qualche schematizzazione, è possibile individuare tre distinti periodi: gli anni Sessanta, il periodo durante il quale si costruisce la PAC e il mercato comune agricolo diventa realtà; i due decenni successivi, il periodo dell’instabilità monetaria, dei conflitti di bilancio con il Regno Unito, dell’esplosione della spesa agricola e degli infiniti tentativi di metterla sotto controllo; gli anni Novanta, il periodo degli sviluppi e delle riforme radicali, che peraltro non si esaurisce con la fine del secolo ma continua nella prima parte del decennio successivo.

Lungo i suoi 45 anni di vita, peraltro, la PAC si è venuta a trovare in contesti in permanente mutazione per effetto dei ricorrenti allargamenti (v. Allargamento). Gli Stati membri sono 6 durante la fase della costruzione; agli inizi del decennio successivo diventano 9 con l’adesione di Irlanda, Danimarca e Regno Unito; negli anni Ottanta sono 12 a seguito dell’entrata di Grecia, Portogallo e Spagna; diventano poi 15 negli anni Novanta con l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia. Infine, agli inizi del nuovo secolo sono 27 con l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centro orientale, a Malta e a Cipro.

Gli anni Sessanta, la fase dell’elaborazione e della messa in opera della PAC

Il 30 giugno 1960 la Commissione presentava le sue «proposte per l’elaborazione e l’attuazione della politica agricola comune». Queste proposte si basavano sull’assunto che uno degli scopi primari della PAC era quello di migliorare il reddito e le condizioni di vita di coloro che lavorano in agricoltura e sulla consapevolezza – insisteva la Commissione – che la sola liberalizzazione degli scambi agricoli non solo non avrebbe potuto eliminare le cause dell’insufficienza dei redditi, ma avrebbe anche portato a una ulteriore accentuazione delle disparità che già allora esistevano all’interno dello stesso settore agricolo. La Commissione proponeva allora di dar vita a una politica agricola comune che fosse articolata in maniera equilibrata in due componenti fra loro complementari: una “politica delle strutture” che mirasse ad ammodernare le aziende agrarie, i servizi e le infrastrutture rurali, che fosse collegata con una politica di sviluppo regionale nonché con una politica sociale che tenesse conto delle condizioni peculiari del settore agricolo e della struttura sociale tipica dell’agricoltura; una “politica dei prezzi e dei mercati”, che avesse come finalità di assicurare ai produttori prezzi sufficientemente remunerativi senza tuttavia incoraggiare la produzione di eccedenze, di regolamentare i mercati in maniera da regolare l’offerta e, in quest’ottica, definire una politica commerciale nei confronti dei paesi terzi con meccanismi idonei a stabilizzare importazioni e esportazioni dei prodotti agricoli e alimentari.

Nella realtà, il Consiglio dei ministri scelse di distaccarsi in maniera sostanziale dalle posizioni della Commissione, decidendo innanzitutto di concentrare la sua attenzione soltanto sulla seconda di queste due componenti: la politica dei prezzi e dei mercati diventava quindi lo strumento centrale, il fulcro della PAC, che veniva completata intorno al 1968 con i seguenti elementi costitutivi. Per ogni prodotto o gruppi di prodotti (latte, carne bovina, cereali, olio d’oliva, tabacco, ecc.) era stata creata una “Organizzazione comune di mercato” (OCM). Il perno di ciascuna OCM era il “prezzo indicativo”, cioè il prezzo che si desiderava che il prodotto interessato raggiungesse sul mercato comunitario. Detto prezzo indicativo veniva fissato annualmente dal Consiglio su proposta della Commissione e, nello stesso tempo, all’interno di ciascuna OCM, venivano definite apposite misure affinché il prezzo effettivo di mercato si avvicinasse a esso il più possibile. Fra le più importanti di queste misure erano da annoverare: le “restituzioni” all’esportazione, cioè i sussidi volti a permettere ai prodotti comunitari di essere venduti sui mercati mondiali malgrado i prezzi comunitari fossero più elevati; l’acquisto pubblico a carico del bilancio della Comunità economica europea (CEE) allorché il prezzo di mercato si situava al di sotto di un limite prefissato del prezzo indicativo; l’imposizione di dazi sui prodotti importati dal resto del mondo calcolati in maniera da assicurare sul mercato interno dei Sei la “preferenza” ai prodotti agricoli comunitari, ecc. In mancanza di una moneta europea comune, i prezzi venivano espressi in “unità di conto” (European currency unit, ECU): una Unità di conto europea equivaleva a 1 dollaro USA, a 625 lire italiane, 3 marchi tedeschi, a 4,9 franchi francesi, ecc.

La costruzione di questo complesso sistema aveva reso possibile estendere il mercato comune anche all’agricoltura e ai prodotti agricoli. Ma tale indubbio successo presentava un rovescio della medaglia che può essere schematizzato come segue. I prezzi dei diversi prodotti e i rapporti fra di essi non erano espressione di dati economici, non avevano alcun rapporto con ragionevoli obiettivi di produzione o con una accettabile distribuzione del reddito fra gli agricoltori, ma erano piuttosto il risultato di estenuanti compromessi fra i ministri dell’agricoltura sui quali facevano sentire il loro peso i gruppi di pressione più forti e meglio organizzati. Tale approccio, inoltre, non veniva applicato in maniera uniforme, ma privilegiava i cereali, il latte, lo zucchero, la carne bovina: vale a dire i prodotti che già allora apparivano strutturalmente eccedentari, che erano appannaggio delle aree agricole più ricche e che sino a quel momento avevano beneficiato del sostegno più forte nel quadro delle preesistenti politiche agrarie nazionali. Ancora, l’azione diretta della Comunità nel campo dell’ammodernamento strutturale dell’agricoltura veniva nella sostanza accantonata.

In altre parole, erano state create le condizioni che molto presto avrebbero fatto esplodere il fenomeno delle eccedenze di produzione, avrebbero provocato la crescita incontrollata della spesa agricola e una sua distribuzione che sarebbe andata a tutto vantaggio delle aree più ricche, delle aziende e dei comparti più forti. Alcune cifre a questo riguardo possono essere utili. Nel 1960, cioè prima del varo della PAC, i sei Stati membri fondatori avevano speso per il sostegno dei prezzi agricoli un totale di 500 milioni di unità di conto; nel 1969 le spese in questione, questa volta a carico del bilancio CEE, risultavano quintuplicate, erano dell’ordine di 2500 milioni di unità di conto.

Sviluppi e adeguamenti della PAC negli Settanta e Ottanta

Il Piano Mansholt, il varo della politica delle strutture agricole e il pacchetto mediterraneo. L’edificio della politica dei prezzi e dei mercati era stato appena ultimato e già la Commissione lanciava l’allarme. Con il suo memorandum “Agricoltura 1980”, meglio noto come “Piano Mansholt” dal nome dell’allora vicepresidente che ne era stato il principale artefice (v. Mansholt, Sicco), la Commissione ammoniva i ministri dell’agricoltura e l’intero mondo agricolo che era urgente cambiare quanto era stato realizzato nel corso dei sette anni precedenti e indicava con chiarezza i cambiamenti necessari. In pratica, essa riprendeva e sviluppava con dovizia di dati e di proposte la sua comunicazione del giugno 1960, confidando che questa volta la forza dei fatti e della ragione avrebbe finalmente prevalso. Cominciava così in maniera clamorosa la storia infinita dei tentativi di riforma della Politica agricola comune. In sintesi, il memorandum spiegava come per effetto della politica dei prezzi e dei mercati quale si era venuta configurando, con i suoi prezzi alti e garantiti senza porre limiti alle quantità prodotte, le eccedenze e i costi conseguenti per sbarazzarsene sarebbero presto esplosi e, parallelamente, si sarebbe ancora allargato il divario fra una piccola minoranza di aziende moderne ed efficienti e l’immensa maggioranza delle piccole aziende contadine. Esso preconizzava allora un programma articolato lungo le tre seguenti linee di azione: una nuova politica dei prezzi che non fosse più la risultante di compromessi politici, ma che tenesse conto dei costi di produzione e della prevedibile evoluzione della domanda; la promozione su vasta scala di aziende capaci di stare da sole sul mercato e di assicurare condizioni di vita e di reddito degni di una società avanzata come quella europea; la creazione nelle aree rurali di almeno 80.000 posti di lavoro industriali all’anno al fine di evitare che l’esodo agricolo, obbligando i lavoratori ad emigrare, impedisse lo stesso progresso dell’agricoltura.

Il programma si sarebbe dovuto realizzare nell’arco di 10 anni. Alla fine, nel 1980, la Comunità si sarebbe ritrovata con una agricoltura rinnovata nelle sue strutture produttive, con un territorio rurale a forte presenza di attività extra agricole, con una PAC equilibrata nelle sue componenti e con un costo che Mansholt stimava intorno ai 2 miliardi di ECU, di cui 700 milioni da destinare al sostegno dei prezzi. Un obiettivo davvero ambizioso se si considera che, come abbiamo visto più sopra, la spesa per il solo sostegno dei prezzi già nel 1969 aveva raggiunto i 2 miliardi e mezzo di ECU.

Il memorandum suscitò grande interesse, i dibattiti si protrassero per oltre due anni ma alla fine i ministri dell’agricoltura decisero di accantonarlo. E così la nuova politica dei prezzi venne rinviata alle calende greche e degli 80.000 posti di lavoro da creare ogni anno nelle aree rurali scomparve persino la menzione. Solo la seconda delle tre linee di azione ebbe un certo seguito, con le tre direttive socio-strutturali che il Consiglio approvò nel marzo del 1972 (v. Direttiva). La prima, la 159/72/CEE, riguardava l’ammodernamento delle aziende agrarie e concedeva aiuti in favore di quelle aziende che, attraverso un piano di sviluppo, si dimostravano suscettibili di raggiungere un «reddito di lavoro comparabile» con il reddito di lavoro extra agricolo. La seconda, la 160/72/CEE, riguardava il prepensionamento degli agricoltori di età superiore ai 55 anni. La terza direttiva, la 161/72/CEE, incoraggiava la creazione di servizi di formazione e di orientamento professionale a beneficio della popolazione agricola.

Certo, con queste tre direttive la politica delle strutture diventava ormai una realtà. Ma era una realtà intrinsecamente debole, perché si affidava a provvedimenti settoriali che ignoravano come lo sviluppo dell’agricoltura sia causa ed effetto insieme dello sviluppo generale dei territori rurali dei quali essa è solo una delle componenti. D’altronde, anche la direttiva approvata tre anni più tardi, la 168/75/CEE, sull’agricoltura di montagna e zone svantaggiate, seguiva il medesimo approccio. La Comunità intendeva porre fine ai processi di deterioramento e di abbandono di quelle zone e tal fine concedeva alle aziende ivi situate uno speciale aiuto annuale, la cosiddetta “indennità compensativa”, a compenso appunto dei maggiori costi derivanti dalle più difficili condizioni naturali di produzione (altitudine, pendenza e povertà dei terreni, clima sfavorevole, ecc). Un provvedimento importante, ma del tutto insufficiente se si considera che già allora nei territori in questione esercitavano sull’agricoltura un peso non certo inferiore fattori quali l’isolamento, la carenza di collegamenti e di servizi, la mancanza di altre attività produttive, le difficoltà di accesso al mercato. Ebbene, la direttiva rimaneva muta al riguardo e pretendeva di far fronte a carenze di tanto rilievo con una misura di tipo esclusivamente agricolo.

Qualche anno più tardi, nel 1978, l’esito fallimentare delle tre direttive del 1972 nelle regioni meridionali della CEE e la prospettiva dell’adesione di Grecia, Portogallo e Spagna inducevano il Consiglio ad adottare a favore di queste regioni un insieme di misure strutturali specifiche, meglio note come “pacchetto mediterraneo”. Queste misure, di durata quinquennale, includevano: il finanziamento dei programmi di irrigazione nel Mezzogiorno (regolamento CEE n. 1362/78); la ristrutturazione della vitivinicoltura nel Languedoc-Roussillon (regolamento CEE n. 78/627); il finanziamento delle infrastrutture rurali nel Mezzogiorno, nelle zone di montagna e svantaggiate del centro e del nord dell’Italia e del sud della Francia (regolamento CEE n. 1760/78); una più elevata partecipazione del FEOGA (Fondo europeo di agricolo di orientamento e garanzia) ai programmi di miglioramento delle attività di trasformazione e di commercializzazione in queste stesse zone (regolamento CEE n. 1361/78).

La questione agro-monetaria, l’esplosione delle eccedenze e delle spese, il conflitto di bilancio col Regno Unito. La costruzione delle PAC, che nella sostanza si era identificata nella politica dei prezzi e dei mercati, era avvenuta in regime di cambi fissi, il che aveva reso agevole tradurre nelle varie monete nazionali i prezzi comunitari che venivano fissati in ECU. Questa situazione favorevole aveva però avuto assai breve durata. Agli inizi degli anni Settanta, a seguito della sospensione della convertibilità del dollaro rispetto all’oro si era entrati in una fase del tutto nuova, una fase caratterizzata dall’instabilità dei tassi di cambio e dalle ricorrenti fluttuazioni fra le monete europee, con la rivalutazione sistematica del marco tedesco e del fiorino olandese, da un lato, e la svalutazione progressiva del franco francese e della lira italiana, dall’altro. La questione monetaria aveva fatto così irruzione nel funzionamento della PAC rischiando di distruggere quel regime dei prezzi unici che era il fondamento del mercato comune agricolo. In effetti, la continua variazione dei tassi di cambio avrebbe comportato l’instabilità dei prezzi agricoli che si sarebbero mossi verso il basso nei paesi che rivalutavano e verso l’alto nei paesi la cui moneta veniva svalutata. Le autorità comunitarie si impegnarono quindi in via prioritaria nelle ricerca e nella gestione di strumenti che consentissero di impedire queste variazioni e di salvaguardare così il regime dei prezzi unici: le monete verdi e gli importi compensativi monetari vennero istituiti, si pensava in via provvisoria, per fronteggiare tale nuova situazione (v. Fanfani, 1990).

Con le “monete verdi” il tasso di cambio utilizzato per le transazioni relative ai prodotti agricoli veniva isolato dal tasso di cambio di mercato e fissato ogni anno al momento del negoziato annuale sui prezzi agricoli: in questo modo si poteva continuare a tradurre con sufficiente stabilità nelle diverse monete nazionali i prezzi comunitari espressi in unità di conto. Dal canto loro, gli importi compensativi monetari avevano lo scopo di evitare distorsioni nel commercio agricolo intracomunitario, distorsioni possibili per il fatto che, come abbiamo appena ricordato, il tasso “verde” divergeva dal tasso di cambio di mercato. Con essi, i paesi a moneta forte vedevano sussidiate le esportazioni e tassate le importazioni agricole; per i paesi a moneta debole avveniva il contrario, erano le esportazioni a venire tassate e le importazioni a essere sussidiate. Nella realtà, la gestione di questi due delicati e complessi meccanismi monopolizzò ben presto l’attenzione del Consiglio dei ministri dell’agricoltura e divenne oggetto di aspri negoziati nell’ambito della fissazione annuale dei prezzi agricoli per il fatto che gli Stati membri – nel frattempo erano passati a 9 con l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Regno Unito – avevano interessi divergenti. Così i paesi a moneta debole come la Francia e l’Italia spingevano per la svalutazione delle loro monete verdi in maniera da ottenere un aumento nelle rispettive monete nazionali dei prezzi fissati a Bruxelles in unità di conto e nel contempo si battevano per la riduzione degli importi compensativi monetari per non veder frenate le loro esportazioni. Al contrario, Germania e Olanda si opponevano alla rivalutazione delle loro monete verdi per evitare una diminuzione dei prezzi interni e, ovviamente, alla riduzione dei loro importi compensativi monetari visto che questi fungevano da sussidi alle loro esportazioni e da freno all’afflusso sui loro mercati di prodotti agricoli francesi e italiani.

Per il resto, il Consiglio dei ministri, lungi dal riformare la politica dei prezzi in modo da ridare ad essa la funzione di orientare la produzione in vista di un migliore equilibrio dei mercati, aveva scelto la via più semplice, si era cioè limitato ad aumenti annuali “prudenti”. L’unico tentativo specifico di contenimento degli squilibri crescenti fra domanda e offerta che merita forse di essere ricordato riguardò il settore del latte, per il quale nel 1977 erano state adottate alcune particolari misure di dissuasione. Fra queste, una indennità agli agricoltori che accettavano di non commercializzare il latte prodotto ma di utilizzarlo in azienda per l’allevamento dei vitelli, una “tassa di corresponsabilità” su ogni litro di latte commercializzato di un importo pari al 3% del prezzo indicativo del latte, il divieto di aiuti nazionali o comunitari agli investimenti nel settore lattiero (v. anche Aiuti di Stato). Tutte misure che dovevano rivelarsi ben presto largamente inadeguate rispetto agli obiettivi per i quali erano state istituite. L’intensificazione dell’agricoltura nelle aree più ricche e meglio dotate di risorse aveva così trovato nella PAC un fattore di spinta decisivo, le eccedenze avevano continuato ad accumularsi e la crescita delle spese a carico della Comunità per liberarsene appariva ormai fuori controllo. Alcune cifre al riguardo possono essere utili. In precedenza abbiamo ricordato che Sicco Mansholt aveva previsto per il 1980 una spesa della sezione garanzia del FEOGA dell’ordine di 700 milioni di unità di conto nel caso che il suo piano decennale fosse stato realizzato. Ebbene, nel 1979 questa categoria di spesa aveva già superato i 9 miliardi e mezzo di ECU e si avviava a sfiorare, per il 1980, gli 11 miliardi.

Una tale evoluzione aveva poi innescato un grave conflitto con il Regno Unito, che registrava il disavanzo più elevato nei confronti del bilancio CEE pur figurando, con Italia, Irlanda e Grecia nel gruppo di quelli che erano definiti i “paesi meno prosperi” della Comunità. Ora, la causa principale di tale squilibrio veniva individuata nel fatto che questa categoria di spesa rappresentava ben il 70% del totale del bilancio comunitario e il Regno Unito ne beneficiava per meno dell’8%, contro il 25% della Germania, il 21% della Francia, il 16% dell’Italia, il 12% dell’Olanda, ecc. Il Consiglio europeo del 30 maggio 1980 dava allora mandato alla Commissione di studiare le modifiche da apportare alle diverse politiche comunitarie in maniera da correggere una tale situazione che esso stesso definiva come “inaccettabile”.

La riforma della PAC ridiventava così di attualità. Questa volta però erano i problemi finanziari a dettare scopi e contenuti della riforma e a confinarla, quindi, in una cornice assai più ristretta rispetto a quella che Mansholt aveva preconizzato dodici anni prima. Il memorandum “Agricoltura 1980” era stato disegnato per modernizzare l’agricoltura; adesso erano le dispute di bilancio fra gli Stati membri a dettare la riforma e non certamente, al di là delle affermazioni di rito, l’avvenire del settore primario e dei suoi addetti.

Il rapporto-mandato, la compensazione finanziaria al Regno Unito, gli stabilizzatori di bilancio e le quote-latte. Il 24 giugno 1981 la Commissione presentava il suo rapporto al Consiglio. In via di principio la Commissione avrebbe potuto cogliere l’occasione dell’incarico ricevuto e riproporre una sorta di nuovo Piano Mansholt, debitamente aggiornato. Ma i tempi erano ormai cambiati: 20 anni di PAC avevano creato rendite di posizione difficili da scalfire tanto fra gli Stati membri che fra le categorie più forti e organizzate. Prevalsero perciò la prudenza e il realismo. Nella sostanza, il rapporto-mandato spiegava che la questione britannica non si sarebbe potuta risolvere nel breve periodo mediante una riforma della PAC e il parallelo sviluppo di altre politiche; riconosceva perciò che per la sua soluzione immediata non vi era altra strada se non quella del versamento annuale di una adeguata compensazione finanziaria al Regno Unito; affermava che era comunque necessario porre sotto controllo la spesa agricola se si voleva evitare l’insorgere di nuovi squilibri del tipo di quello lamentato dal governo britannico.

A questo riguardo, il rapporto presentava orientamenti del tutto ragionevoli. In particolare, si sosteneva che per ogni prodotto si sarebbero dovuti fissare obiettivi quantitativi di produzione e chiamare i produttori, in caso di superamento di questi obiettivi, a farsi carico di una parte delle spese conseguenti. Gli anni Ottanta furono così gli anni in cui vennero introdotti gli strumenti idonei a dare attuazione a questo nuovo principio. Il processo fu lungo e difficile e si concluse solo nel 1988 con il varo degli “stabilizzatori di bilancio” (Per un esame dettagliato di quel periodo ricco di analisi, di proposte e di prese di posizione, v. Vieri, 1994). Con essi veniva introdotto un meccanismo di riduzione automatica del prezzo nel caso in cui la produzione avesse superato la “quantità massima garantita”. Questa quantità veniva fissata ogni anno per la Comunità nel suo insieme per ogni singolo comparto e la riduzione, che avrebbe avuto luogo l’anno successivo, sarebbe stata tanto più forte quanto maggiore il superamento di detta quantità.

Per il latte, invece, era stata adottata una soluzione assai più severa. In effetti, la spesa per sbarazzarsi delle eccedenze di burro e di latte in polvere risultava davvero fuori controllo, tanto che assorbiva ormai un terzo dell’intera spesa agricola: la “tassa di corresponsabilità” e le altre misure in vigore sin dal 1977 si erano rivelate del tutto inefficaci. E così, nella primavera del 1984 era stato introdotto il regime delle quote. Con esso la produzione complessiva di latte veniva riportata e stabilizzata ai livelli del 1981 (Italia e Irlanda avevano ottenuto di conservare i livelli del 1983). Questa produzione complessiva, pari a 99,9 milioni di tonnellate di latte, veniva ripartita fra i diversi paesi. La quota nazionale veniva poi ripartita fra le aziende produttrici o le latterie e i caseifici. In ogni caso, ogni produttore si vedeva assegnato un certo quantitativo di latte, equivalente a quello da esso commercializzato nel 1981 (nel 1983 per irlandesi e italiani) e veniva stabilito che per ogni litro di latte eccedente la quota l’azienda interessata avrebbe dovuto pagare una “soprattassa” pari al prezzo indicativo del latte che veniva fissato ogni anno a livello CEE. Come si vede una decisione davvero drastica che bloccava la crescita della produzione di latte e metteva finalmente sotto controllo la relativa spesa.

È forse il caso di ricordare che tanto il regime delle quote quanto il contributo finanziario al Regno Unito erano stati concepiti come misure transitorie. Sono passati da allora 20-25 anni, ma sono sempre in applicazione. Il contributo al Regno Unito è ormai diventato nella sostanza permanente. Dal canto suo, la fine del regime delle quote è stata continuamente spostata in avanti: prima al 1999, poi al 2006 e, da ultimo, al 2016. Decisione, questa, che è stata presa in occasione della più recente riforma della PAC, quella del 2003 di cui si dirà più avanti.

La nuova fase delle riforme

Nel corso degli anni Ottanta il processo di revisione della PAC era stato dunque dominato da fattori e preoccupazioni di ordine interno alla Comunità, in particolare dalle questioni di bilancio e dalla necessità di mettere finalmente un freno alla spesa agricola. Da qui le misure via via adottate durante quel decennio: tasse di corresponsabilità, quote latte, quantità massime garantite, stabilizzatori di bilancio. Misure certamente importanti e innovative, ma che rimanevano all’interno di una cornice che assegnava la difesa del reddito degli agricoltori al solo sostegno dei prezzi agricoli. Gli anni Novanta segnavano invece un periodo di cambiamenti radicali, alla cui origine vi erano fattori di ordine internazionale cui si aggiungevano, oltre alle consuete preoccupazioni di bilancio, nuove preoccupazioni di ordine interno, quali la salvaguardia dell’ambiente e la salute dei consumatori. La riforma del 1992, le regolamentazioni relative all’agricoltura biologica e ai prodotti di qualità, il lancio della politica di sviluppo rurale, le nuove modifiche apportate alla PAC nel quadro di “Agenda 2000” sono stati gli eventi che hanno marcano questa nuova fase che, peraltro, non si è esaurita con la fine del decennio, ma è continuata in quello successivo con la nuova riforma del 2003.

La riforma Mac Sharry del 1992 e Agenda 2000. Nel 1992 la riforma Mac Sharry, dal nome dell’allora commissario all’agricoltura, segnava la rottura rispetto al tradizionale approccio gradualistico, introducendo uno strumento nuovo ed estremamente efficace ai fini della difesa dei redditi agricoli sino ad allora lasciata al sostegno dei prezzi: gli aiuti diretti agli agricoltori.

Agli inizi degli anni Novanta il rilancio delle trattative sulla liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli vedeva sul banco degli accusati la PAC cui si imputavano gravi effetti distorsivi sugli scambi mondiali. A creare forti motivi di tensione erano soprattutto i sussidi europei alle esportazioni (“restituzioni” nel gergo comunitario) mediante i quali la Comunità riusciva ad esportare i suoi prodotti a prezzi nettamente più bassi rispetto a quelli praticati al suo interno. Per avere un’idea dell’importanza del problema si consideri che in quegli anni i sussidi in questione rappresentavano il 30% dell’intera spesa agricola e avevano ormai superato in volume i 10 miliardi di ECU.

Oggetto della riforma furono i grandi seminativi – cereali, colture oleose e proteiche quali girasole, colza, soia ecc. – nonché la carne bovina, vale a dire i prodotti aventi un mercato mondiale. Le principali decisioni prese in quell’occasione furono le seguenti: i prezzi dei cereali e delle colture ad essi legate venivano ridotti del 30% in tre anni; queste riduzioni di prezzo venivano integralmente compensate da aiuti annuali ai produttori (“pagamenti compensativi”) per evitare che questi avessero a subire perdite di reddito; l’importo degli aiuti veniva calcolato con riferimento sia alla superficie che nell’azienda interessata era stata destinata a queste colture nel biennio 1990-1991, sia alla loro resa unitaria registrata nello stesso biennio nella zona agraria di appartenenza dell’azienda (ciò significa che eventuali allargamenti di superficie o aumenti di rese non sarebbero stati compensati, e questo avrebbe dovuto porre un freno alla crescita della produzione); il prezzo della carne bovina veniva ridotto nell’arco di tre anni del 15% e, parallelamente, i produttori venivano compensati con speciali premi, rapportati al numero di capi bovini presenti nelle rispettive aziende nel biennio 1990-1991; ancora, venivano adottate tre speciali misure dette di “accompagnamento”: programmi agro-ambientali, forestazione, incentivi all’esodo anticipato degli agricoltori con più di 55 anni di età.

Infine, merita di essere sottolineato il ruolo importante che, ai fini del riequilibrio del grande comparto dei seminativi, veniva assegnato al set aside, cioè alla messa a riposo dei terreni. Questa misura era già in vigore da alcuni anni, dal 1988, ma aveva carattere facoltativo. Con la riforma del 1992 essa diventava obbligatoria. Con l’esenzione di quelli più piccoli, i produttori venivano cioè obbligati a lasciare a riposo, beninteso dietro compenso, una parte dei loro terreni destinati a cereali, colture oleose e proteiche. Così, per effetto del set aside, che veniva confermato anche dalla nuova riforma del 2003 di cui diremo più avanti, la superficie agraria che ogni anno era lasciata a riposo registrava un’ampiezza davvero notevole, oscillando fra i 4 e i 6 milioni di ettari nell’Unione a 15, con una spesa conseguente a carico del bilancio comunitario non certo di entità trascurabile. Nel 2004, ad esempio, furono spesi per il set aside 1 miliardo e 840 milioni di euro. Maggiori destinatari erano ovviamente i paesi nei quali si concentrano le grandi colture a seminativo dell’Unione. Così la Francia assorbivaper il set aside 549 milioni di euro, la Germania 428, il Regno Unito e la Spagna rispettivamente 262 e 248 milioni. Dal canto suo, l’Italia era destinataria nel 2004 di una spesa assai più contenuta: 71 milioni di euro. La nostra agricoltura risultava quindi poco interessata a questa speciale misura, e ciò per due ragioni. La prima è che i seminativi hanno un peso nettamente minore rispetto ai paesi ora elencati; la seconda è che nell’agricoltura italiana prevalgono le aziende di piccole dimensioni le quali, come detto sopra, erano esentate dall’obbligo di mettere a riposo una parte dei loro terreni.

La riforma del 1992 mirava dunque a ridurre drasticamente i sussidi alle esportazioni per effetto della diminuzione dei prezzi interni e del loro avvicinamento ai prezzi mondiali. Parallelamente, mirava a porre un freno alla crescita della produzione di cereali e di carne bovina e ciò non solo grazie al set aside, ma anche in virtù del fatto che, come si è prima ricordato, gli aiuti diretti venivano calcolati sulla base delle rese, del numero di ettari e di capi di bestiame allevati da ciascuna azienda nel periodo 1990-1991. Infine, si proponeva di incoraggiare un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente per l’effetto congiunto dei programmi agro-ambientali, dello stesso set aside nonché del freno posto all’intensificazione produttiva. Di questi obiettivi, il primo veniva effettivamente raggiunto e i dati che seguono lo dimostrano ampiamente.

Tabella I. Evoluzione delle spese per restituzioni

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1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

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(milioni di euro)

10.159 8.160 7.802 5.705 5.884 4.826 5.573 5.646 3.401 3.432 3.729 3.384 3.052

(in % totale FEOGA-garanzia)

29,4  24,8 22,6 14,6  14,6 12,5 14,1 14,0 8,1  7,9 8,4 7,6  6,2

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Fonte: Commissione europea, Relazioni finanziarie FEOGA, sezione garanzia.

 

Come si vede, nel 1999 la spesa per “restituzioni” risultava già dimezzata in rapporto al 1993, anno di avvio della nuova politica. Il processo continuava negli anni successivi attestandosi, a partire dal 2001, intorno ai 3-3,5 miliardi di euro (6%-8% della spesa agricola totale).

Nel 1999 la PAC subiva nuove importanti modifiche. Il Consiglio europeo di Berlino del marzo di quell’anno approvava infatti “Agenda 2000”, il documento programmatico sul futuro a medio termine dell’Unione. Questo documento comprendeva tre grandi capitoli: la fissazione del quadro finanziario dell’Unione per il periodo 2000-2006; l’impegno per la preparazione all’adesione dei paesi candidati; una nuova revisione della PAC insieme a quella della politica regionale, le due politiche che insieme assorbivano il 70% del bilancio comunitario.

 

Tabella II. Quadro finanziario dell’Unione 2000-2006

(milioni di euro)
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Capitoli    2000  2001  2002  2003  2004  2005  2006

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Agricoltura   40.920 42.800 43.900 43.770 42.760 41.930 41.660

 

Azioni strutturali 32.045 31.455 30.865 30.285 29.595 29.595 29.170

 

Azioni interne  5.930  6.40  6.150  6.260 6.370  6.480 6.600

 

Azioni esterne  4.550  4.560  4.570  4.580 4.590  4.600 4.610

 

Aiuto candidati 3.120  3.120  3.120  3.120 3.120  3.120 3.120

 

Amministrazione 4.560  4.600  4.700  4.800 4.900  5.000 5.100

 

Riserve       900   900   650  400   400   400  400

 

Complesso    92.025 93.475  93.955 93.215 91.735 91.125 90.660

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Fonte: Consiglio europeo di Berlino, Conclusioni della Presidenza, 24-25 marzo 1999.

 

Il Consiglio europeo di Berlino riconfermava dunque l’assoluta preminenza della PAC dal punto di vista del volume di risorse. Per il periodo 2000-2006 la PAC avrebbe potuto contare in media su 42,5 miliardi di euro all’anno, corrispondenti a più del 45% dell’intero bilancio, e addirittura al 49% se si escludevano i 5 miliardi del capitolo “Amministrazione”. Per quanto riguarda specificatamente le nuove modifiche ad essa apportate, queste si collocavano nel solco della riforma del 1992, che intendevano appunto approfondire e completare. I prezzi dei cereali, delle colture oleose e proteiche subivano una nuova riduzione del 15% e quelli della carne bovina del 20%. Tali riduzioni venivano in parte compensate mediante un aumento del livello degli aiuti diretti ai produttori decisi nel 1992. Per il latte, il regime delle quote veniva prorogato sino al 2006 e, successivamente, al 2016.

La riforma del 1992 e “Agenda 2000” hanno avuto conseguenze assai significative sulla distribuzione della spesa fra i diversi comparti. In particolare, si sono ulteriormente aggravati gli squilibri che già vedevano nettamente avvantaggiate le grandi colture a seminativo (cereali, colture oleose e proteiche). Si vedano al riguardo i dati riportati nella tabella III.

 

Tabella III. Evoluzione della spesa per seminativi e della spesa totale del FEOGA-garanzia

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1991-1992   2004-2005

 

% seminativi su totale produzione      14,1      14,2

 

spesa per seminativi (miliardi euro)     9,7      17,6

 

totale FEOGA-garanzia (miliardi euro)     31,4      40,2*

 

% spesa seminativi su totale FEOGA-garanzia  30,8      43,8

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*al netto delle risorse destinate allo sviluppo rurale.

Fonte: Commissione europea, Relazioni finanziarie FEOGA, sezione garanzia.

Dunque, agli inizi degli anni Novanta i seminativi già assorbivano il 31% dell’intera spesa da addebitare alla politica dei prezzi e dei mercati. Dodici anni dopo questa aliquota sfiorava addirittura il 45%, anche se il loro contributo al totale della produzione agricola comunitaria era rimasto invariato, intorno al 14%. La crescita della spesa per i seminativi è stata dunque superiore all’80%, mentre quella totale del FEOGA-garanzia è stata nettamente più contenuta, del 28%. Naturalmente, questo consolidamento della posizione di privilegio delle grandi colture a seminativo non è stato affatto neutrale quanto alla distribuzione dell’immenso flusso della spesa agricola fra gli Stati membri. Il confronto tra la media dei tre anni che precedono la riforma e quella del 2003-2005 riportato in tab. IV fornisce al riguardo indicazioni abbastanza chiare.

Tabella IV. Evoluzione delle spese del FEOGA-garanzia in alcuni Stati membri

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Stati membri       1990-1992          2003-2005

(miliardi euro) (% su tot. garanzia) (miliardi euro) (% tot. garanzia)

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Francia        6.066     20,7       9.926    21,6

Germania       4.495     15,2       6.127    13,3

Spagna        2.956     10,1       6.395    13,9

Regno Unito      2.119     7,2       4.058    8,8

Italia         4.821     16,4       5.298    11,5

Belgio        1.227     4,2       1.041    2,3

Olanda        2.429     8,3       1.293    2,8

Danimarca      1.158     3,9       1.221    2,7

Grecia        2.127     7,3       2.763    6,0

………..

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Fonte: Commissione europea, Relazioni finanziarie FEOGA, sezione garanzia.

La tabella mostra che la Francia, la Spagna e il Regno Unito hanno tratto i maggiori vantaggi dalla riforma. La prima è riuscita addirittura a migliorare la sua già indiscussa posizione di preminenza. La Spagna ha visto più che raddoppiato il flusso di spesa a favore della sua agricoltura (+116%), il Regno Unito ha quasi sfiorato il raddoppio (+88%) ed entrambi hanno visto crescere la loro parte nel totale della spesa di ben 4 punti. L’Italia, il Belgio e l’Olanda si collocano all’altro estremo, fra i maggiori “perdenti”. Il regresso dell’Italia colpisce in misura particolare. Il paese, che prima della riforma occupava il secondo posto dietro la Francia, risulta ormai preceduto anche dalla Germania e dalla Spagna. In particolare, esso ha accusato una caduta di ben 5 punti: dal 16,4% del triennio iniziale all’11,5% della fine del periodo. E questo malgrado il fatto che l’aliquota dell’Italia nel totale della produzione agricola dell’Unione prima dell’allargamento a 27 Stati membri fosse rimasta inferiore soltanto a quella francese: 14,1% e 20,5%, rispettivamente.

Peraltro, questi spostamenti fra gli Stati membri che la tabella mette in luce non devono sorprendere. Era cioè prevedibile che da una riforma che orientava ancora di più il flusso della spesa agricola verso le grandi colture a seminativo l’Italia avrebbe finito con il subire arretramenti di notevole entità e che il contrario si sarebbe verificato per quelle agricolture nelle quali queste colture registrano un peso particolarmente elevato. La Francia, ad esempio, produceva il 35% del frumento, il 37% del mais, il 20% dell’orzo e ben oltre il 40% delle colture oleose e proteiche della Comunità a 15. L’Italia, invece, con l’eccezione del mais (28%) denunciava aliquote nettamente più basse: 10% per il frumento e i semi oleosi, 4% per l’orzo.

L’agricoltura biologica e la politica di qualità. La crescente attenzione dei cittadini europei per la questione di un’agricoltura che non sia in conflitto con l’ambiente e che fornisca prodotti sicuri e di qualità trovava risposta da parte delle autorità comunitarie già agli inizi degli anni Novanta. Nel 1991 il Consiglio dei ministri approvava una speciale regolamentazione relativa «al modo di produzione biologico dei prodotti agricoli»; l’anno successivo era la volta di due speciali regolamenti in materia di qualità dei prodotti agroalimentari.

Con il primo di questi regolamenti (reg. 2092/91/CEE) la Comunità definiva una normativa estremamente dettagliata che copriva l’intero arco del processo che dall’azienda agraria arriva sino al consumatore. Essa si applicava tanto ai prodotti di origine vegetale quanto a quelli di origine animale e imponeva regole precise e assai restrittive in materia di produzione e di trasformazione, di ispezioni e di controlli, di etichettatura e di importazioni dai paesi terzi. Così, per quanto riguarda la fase della produzione, il regolamento vietava il ricorso ai mezzi chimici di sintesi – fossero essi concimi, antiparassitari o diserbanti – e stabiliva che il miglioramento della fertilità del suolo o la difesa dai parassiti dovessero essere assicurati da una appropriata rotazione delle colture, dalla scelta di varietà resistenti, dal ricorso alla lotta biologica e, per il bestiame allevato, prescriveva che gli alimenti (foraggi freschi o essiccati, mangimi) dovessero non soltanto essere biologici, ma anche ottenuti di preferenza nell’azienda stessa. Questa normativa poneva fine a decenni di incertezze che derivavano dall’esistenza in materia di diverse “scuole”, dalla mancanza di una terminologia armonizzata, da presentazioni eterogenee al consumatore e consentiva finalmente ai produttori biologici di operare in condizioni di certezza visto che le regole su ciò che è ammesso e ciò che è proibito erano chiare e dettagliate; nello stesso tempo tranquillizzava i consumatori, anche perché le ispezioni e i controlli erano rigorosi e la stessa etichettatura era di grande chiarezza e visibilità.

Tutto questo ha avuto certamente un peso decisivo nelle sviluppo vertiginoso che l’agricoltura biologica è venuta registrando in poco più di un decennio:

Tabella V. Evoluzione delle aziende biologiche e della relativa superficie

1988   1993   1998    2001

aziende (n.)  9.521   28.868  105.657  142.340

ettari (n.)   243.112  700.574  2.774.890 4.442.876

Fonte: Commission Européenne, L’agriculture biologique dans l’UE: faits et chiffres, Bruxelles 2002.

Dai 243.000 ettari e dalle 9500 aziende del 1988 si era dunque passati, nel 2001, a quasi 4 milioni e mezzo di ettari e a oltre 142.000 aziende. Naturalmente le tendenze evolutive e le dimensioni di questa nuova realtà variano notevolmente all’interno dell’Unione. E quello che mette conto rilevare è il ruolo di assoluta preminenza che l’Italia ha saputo conquistare: nel 1988 il paese contava solo 1100 aziende biologiche per un totale di 9 mila ettari; nel 2001 le aziende erano diventate 56.440 e gli ettari 1.230.000. In pratica, nel 2001 il 40% del totale delle aziende biologiche dell’Unione e il 28% della relativa superficie si trovavano in Italia. Seguivano, nettamente staccati, il Regno Unito con 680.000 ettari e 4000 aziende, la Germania con 632.000 ettari e 14.000 aziende, la Spagna con 485.000 ettari e 15.600 aziende.

Come in precedenza accennato, nel 1992 venivano approvati due speciali regolamenti, volti a proteggere e valorizzare quei prodotti agroalimentari aventi un legame certo e antico con il territorio o che fossero il frutto di tecniche tradizionali di produzione o di trasformazione. Il primo era relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine (reg. 2081/92/CEE); il secondo alle attestazioni di specificità (reg. 2082/92/CEE). Entrambe le normative hanno avuto un grande successo, malgrado la complessità e il rigore inevitabili delle procedure di riconoscimento. Sono ormai molte centinaia i prodotti iscritti nel “registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette” o nel “registro delle attestazioni di specificità”. Anche questa volta l’agricoltura italiana ha saputo reagire con prontezza, facendo valere il suo primato in materia di qualità: i prodotti agroalimentari italiani che sono stati ufficialmente riconosciuti dalle autorità comunitarie superano ormai largamente il numero di 150. Tanto che oggi sigle quali DOP (Denominazione d’origine protetta), IGP (Indicazione geografica protetta) e STG (Specialità tradizionale garantita) sono diventate familiari anche presso il grande pubblico.

Vale la pena ancora considerare che i prodotti in questione sono ottenuti mediante l’uso di tecniche di norma non aggressive nei confronti dell’ambiente. Tanto più che per la gran parte appartengano ad aree di agricoltura estensiva: si pensi, ad esempio, al pecorino toscano, al pecorino sardo, al canestrato pugliese, alla fontina della Valle d’Aosta, alla nocciola del Piemonte, al fagiolo lamon del bellunese, al peperone di Senise, al marrone del Mugello o ancora al farro della Garfagnana. Molti di questi prodotti erano in via di sparizione e il grande merito della normativa comunitaria (v. anche Diritto comunitario) è stato quello di arrestare tale processo, fornendo gli strumenti per resistere alla concorrenza soverchiante delle derrate delle pianure altamente intensive e della grande industria alimentare. Con vantaggio per i produttori interessati, per i consumatori ma anche per la conservazione del suolo e per la difesa di un patrimonio di biodiversità che è frutto del lavoro di secoli.

L’avvio della politica di sviluppo rurale. Abbiamo osservato in precedenza come gli anni Novanta siano stati anche gli anni durante i quali si assiste alla graduale affermazione della politica di sviluppo rurale. In effetti, nel giugno del 1988 la Commissione aveva presentato al Consiglio e al Parlamento una sua comunicazione dal titolo “Il futuro del mondo rurale”. Riprendendo in un certo senso l’analisi di Mansholt di venti anni prima, con quel documento la Commissione insisteva su tre temi fondamentali: che l’agricoltura è solo uno dei settori produttivi dei territori rurali e spesso non ne è nemmeno il più importante in termini di occupazione e di ricchezza prodotta; che non è possibile perseguire il progresso dell’agricoltura con provvedimenti settoriali perché questo è causa ed effetto insieme dello sviluppo generale del territorio nel quale l’attività agricola viene esercitata; che le azioni tendenti ad ammodernare gli assetti strutturali dell’agricoltura devono quindi diventare parte di una politica mirante allo sviluppo generale dei diversi territori. Veniva così avviato il passaggio dalla tradizionale politica delle strutture agricole alla politica di sviluppo rurale.

Qui ci limiteremo a ricordare come la politica di sviluppo rurale abbia ormai acquisito una sua propria identità tanto da essere definita “secondo pilastro” della PAC e, soprattutto, come il programma sperimentale LEADER (Liasons entre actions de developpement de l’economie rurale) ne rappresenti una delle innovazioni di maggiore interesse. Introdotto nel 1991 e giunto ormai alla sua terza edizione, il programma è rigorosamente incentrato su un approccio che parte dal basso, è articolato per aree di piccole dimensioni e coinvolge tutti gli attori presenti sul terreno organizzandoli in “gruppi di azione locale” (GAL). Questi gruppi hanno il compito di individuare le azioni meglio capaci di assicurare un futuro sostenibile alle loro comunità e di passare poi alla fase della realizzazione secondo strategie integrate di sviluppo che poggiano su precisi piani di finanziamento, sul partenariato fra organismi pubblici e attori privati, sul monitoraggio sistematico. In virtù del successo di LEADER, l’approccio bottom-up appare destinato a diventare il perno della nuova politica di sviluppo rurale nell’Unione allargata.

La riforma del 2003: dai pagamenti compensativi per prodotto al pagamento unico disaccoppiato

Nel giugno 2003 la PAC veniva di nuovo riformata. I ministri dell’Agricoltura cambiavano in maniera radicale il sistema di aiuti diretti ai produttori, cambiavano cioè quello che era ormai diventato lo strumento più costoso per il sostegno dei redditi agricoli: poco meno di 30 miliardi di euro all’anno, corrispondenti al 65-70% del totale della spesa agricola.

Abbiamo ricordato in precedenza che gli aiuti diretti ai produttori introdotti con la riforma del 1992 erano stati definiti “pagamenti compensativi” appunto perché servivano a compensare le diminuzioni di prezzo, in particolare di cereali, colture oleose e proteiche che erano state decise in quell’occasione. Questi pagamenti erano quindi “accoppiati” alla produzione, venivano cioè concessi separatamente per ciascuno dei prodotti interessati e in funzione dei quantitativi ottenuti in azienda. Con la riforma del giugno 2003, dal regime degli “aiuti accoppiati” si passava al regime degli “aiuti disaccoppiati”. Il nuovo sistema può essere schematizzato come segue. Un “pagamento unico”, slegato dalla produzione, sostituisce i singoli “pagamenti compensativi”e il suo importo viene calcolato sulla base dei diversi pagamenti annuali che ogni singola azienda ha ricevuto in media nel triennio 2000-2002; nel “pagamento unico” confluiscono anche gli aiuti diretti che venivano concessi già prima della riforma del 1992 a ovini, foraggi essiccati e patate da fecola; il sistema viene esteso anche al settore del latte, ma entra in applicazione solo a decorrere dal 2008 (sino a quella data i produttori di latte ricevono pagamenti specifici il cui importo è cresciuto progressivamente da 11,81 euro/t del 2004 a 35,5 euro/t nel 2006); il 21 aprile 2004 si decideva di far confluire in parte nel “pagamento unico” gli aiuti a tabacco, olio di oliva e cotone, aiuti che preesistevano anch’essi alla riforma del 1992; proprio perché “disaccoppiato” il pagamento continuerebbe a essere versato anche alle aziende che decidessero di cessare di produrre.

Da notare che la corresponsione di questo nuovo tipo di aiuto è subordinata a due speciali condizioni. La prima, la “eco-condizionalità”, prescrive che la piena erogazione del pagamento è subordinata al rispetto di norme in materia di ambiente, di sicurezza alimentare e di benessere degli animali: le aziende inadempienti se ne vedranno ridotto l’importo in misura proporzionale al danno provocato dal mancato rispetto di queste norme. La seconda condizione, detta della “modulazione”, stabilisce che le aziende di maggiori dimensioni, quelle aventi diritto a pagamenti superiori a 5000 euro all’anno, si vedranno progressivamente ridotti i relativi importi e le somme così recuperate – la stima è dell’ordine di 1,2 miliardi di euro all’anno – saranno destinate alla politica di sviluppo rurale. In particolare, saranno utilizzate affinché gli agricoltori migliorino la qualità dei loro prodotti e si adeguino alle norme comunitarie in materia di ambiente, di sanità, di sicurezza sul lavoro e di trattamento degli animali.

La nuova riforma è stata salutata con entusiasmo dalle autorità comunitarie. Valga per tutte la dichiarazione rilasciata alla fine dei lavori del Consiglio di quel 26 giugno 2003 dall’allora commissario all’agricoltura Franz Fischler: «Si tratta di una decisione storica, che segna l’inizio di una nuova era. La nostra politica agricola cambia profondamente. Oggi l’Europa si è dotata di una politica agricola nuova, moderna ed efficiente che contribuirà a stabilizzare i redditi degli agricoltori e permetterà loro di produrre ciò che chiede il consumatore. I contribuenti e i consumatori beneficeranno di una maggiore trasparenza e di un migliore rapporto qualità/prezzo. Questa riforma manda un segnale forte al resto del mondo. La nostra nuova politica è favorevole al commercio. Abbiamo deciso di voltare pagina con il vecchio sistema di sovvenzioni che distorceva gli scambi internazionali e danneggiava i paesi in via di sviluppo […]».

Queste parole di Franz Fischler mostrano con chiarezza che alla base della nuova riforma vi era il riconoscimento che quella del 1992 non aveva dato i risultati attesi. Sul piano internazionale, il resto del mondo non si era accontentato dell’avvenuta drastica riduzione dei nostri sussidi alle esportazioni e aveva accusato il sistema di “pagamenti compensativi” di provocare gravi effetti distorsivi sugli scambi agricoli mondiali. Sul piano interno, questi pagamenti legati alle quantità prodotte avevano indotto gli agricoltori europei, specie quelli delle aree più ricche e meglio dotate di risorse, a continuare come per il passato, aggravando di conseguenza gli squilibri fra domanda e offerta e perseverando nel ricorso a tecniche agricole aggressive nei confronti dell’ambiente.

Parlare di “nuova era” o di “decisione storica” è forse esagerato. È comunque certo che la nuova PAC intende perseguire obiettivi estremamente ambiziosi. Gli aiuti disaccoppiati dalle quantità e dal tipo di prodotti ottenuti in azienda dovrebbero indurre gli agricoltori a produrre per il mercato, o anche a non produrre affatto, perché non più costretti a inseguire i vecchi sussidi legati ai vari prodotti. La fine di questi sussidi ridurrebbe drasticamente gli effetti distorsivi della PAC sul commercio internazionale e darebbe finalmente la possibilità all’Unione di svolgere un ruolo attivo nei negoziati sugli scambi agricoli in seno all’Organizzazione. D’altra parte, il fatto che la corresponsione piena del pagamento unico sia condizionata al rispetto di norme ambientali dovrebbe servire a migliorare il rapporto fra attività agricola e ambiente. Inoltre, la cosiddetta modulazione del pagamento unico a carico delle aziende più grandi contribuirebbe anche a rendere meno squilibrata la distribuzione della spesa fra i diversi gruppi di produttori. Al riguardo si tenga conto che al momento della nuova riforma un quinto dei produttori si accaparrava i quattro quinti degli aiuti diretti, che già allora rappresentavano quasi il 70% dell’intera spesa agricola. In sostanza, con la riforma del 2003 il sostegno finanziario all’agricoltura europea dovrebbe diventare finalmente accettabile per il cittadino-contribuente. Al riguardo, vale la pena precisare che questo sostegno sarà per il periodo 2007-2013 dell’ordine di 42 miliardi di euro all’anno, un terzo all’incirca dell’intero bilancio comunitario.

I fatti dimostreranno se e in quale misura la nuova PAC di un’Unione costituita da 27 Stati membri saprà rispondere alle attese. Intanto ogni cautela appare necessaria. In proposito, non è certo inutile riflettere sul fatto che anche la precedente riforma del 1992 si era visti assegnati gli stessi obiettivi.

Claudio Guida (2007)

Bibliografia

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