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Politica europea di concorrenza

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La materia della concorrenza è disciplinata sia a livello comunitario sia a livello nazionale. Il regime comunitario si applica nel caso in cui eventuali pratiche distorsive della concorrenza pregiudichino gli scambi tra gli Stati membri, e mira a garantire alle imprese la possibilità di competere a parità di condizioni su tutto il territorio comunitario, sanzionando le intese e le pratiche anticoncorrenziali attuate da imprenditori o autorità nazionali, impedendo alle imprese di sfruttare la propria posizione di forza sul mercato a discapito di altre imprese e vietando interventi statali lesivi della concorrenza.

L’art. 81, par. 1 del Trattato CE (TCE) (v. Trattati di Roma) vieta tutti gli accordi tra imprese e le pratiche concordate «che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune» (v. Comunità economica europea). Si ha un accordo quando le imprese interessate abbiano manifestato la volontà comune di comportarsi sul mercato in un determinato modo (Tribunale di primo grado 17-XII-1991, causa T-7/89, Hercules Chemicals NV-SA c. Commissione, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. II-1711 e ss.), al fine di limitare o eliminare la concorrenza tra le stesse per aumentare i prezzi e i profitti, senza però al contempo determinare un vantaggio oggettivo (ad esempio gli accordi per fissare i prezzi, limitare la produzione, ripartire i mercati, clienti o territori, condizionare gare d’appalto). Si intende, invece, per pratica concordata una forma di coordinamento tra imprese che, senza giungere all’attuazione di un vero e proprio accordo, risulta essere, di fatto, una collaborazione consapevole fra le stesse a danno della concorrenza (Corte di giustizia delle Comunità europee 14-VII-1972, causa 48/69, Imperial Chemical Industries Ltd. c. Commissione, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 619 e ss.) (v. anche Corte di giustizia dell’Unione europea).

Il divieto si estende sia agli accordi tra imprese che operano allo stesso livello della catena produttiva o distributiva – c.d. orizzontali – al fine di tenere un medesimo comportamento (ad esempio in materia di prezzi o di divisione del mercato), sia agli accordi tra imprese operanti a livelli diversi – c.d. verticali – in cui una parte si impegna a tenere un dato comportamento nei confronti dell’altra, fissando le condizioni in base alle quali si possono acquistare, vendere o rivendere beni o servizi (ad esempio la concessione di vendita e la clausola di vendita a prezzo imposto).

Un accordo può pregiudicare il commercio tra Stati membri quando, in base a una serie di elementi oggettivi di fatto e di diritto, consente di prevedere che esso possa incidere, direttamente o indirettamente, effettivamente o potenzialmente, sui flussi commerciali intracomunitari in modo da intaccare la realizzazione degli obiettivi di un Mercato unico europeo (CGCE, 11-VII-1985, causa 42/84, Remia BV e altri c. Commissione, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 2545 ss.). Non è necessario, quindi, provare l’effettiva restrizione del commercio tra membri, essendo sufficiente dimostrare che l’accordo possa incidere su esso.

Gli accordi e le pratiche concordate vietati sono nulli, per cui non producono effetti nei rapporti tra le imprese partecipanti, né nei confronti di terzi; la nullità è imprescrittibile, insanabile, ha effetto retroattivo, opera automaticamente e può essere rilevata da qualsiasi giudice o dalle istituzioni competenti. Essa può riguardare anche solo alcune clausole, se separabili dall’accordo.

Peraltro, in virtù dell’art. 81, par. 3, la Commissione europea o il Consiglio dei ministri possono adottare regolamenti di esenzione per categoria: sono state previste, ad esempio, esenzioni per categorie di accordi verticali, quali gli accordi di fornitura e di distribuzione, nonché per categorie di accordi orizzontali, come gli accordi sul trasferimento di tecnologia, di specializzazione e in materia di ricerca e sviluppo. Vi sono alcuni accordi, inoltre, per i quali vi può essere un’esenzione individuale, poiché essi, pur restringendo la concorrenza, possono avere effetti positivi sul processo di produzione, sul progresso tecnico ed economico o vantaggi per i consumatori (v. Politica dei consumatori). Vi sono, infine, accordi che, pur non essendo oggetto di esenzione, sono ammessi, poiché la loro incidenza sulla concorrenza è minima e pertanto trascurabile, e di norma sono intese ritenute utili ai fini della cooperazione tra piccole e medie imprese (principio de minimis).

Il controllo delle intese è stato a lungo disciplinato dal regolamento del Consiglio n. 17/1962 del 6/02/62, in virtù del quale esse dovevano essere notificate alla Commissione, che aveva il potere esclusivo di autorizzare gli eventuali accordi restrittivi della concorrenza ma conformi ai criteri stabiliti nell’art. 81, par. 3. In assenza di notifica, non vi poteva essere esenzione. L’esenzione era rilasciata dalla Commissione per un periodo determinato, poteva essere subordinata all’adempimento di alcuni oneri e revocata dall’istituzione in caso di mutamento delle circostanze. Nell’aprile 1999 la Commissione ha adottato un Libro bianco (v. Libri bianchi) sulla modernizzazione del regime di disciplina delle intese e le pratiche contrarie alla concorrenza (“antitrust”), con cui ha avviato un processo di riforma che è proseguito con il regolamento del Consiglio n. 1/2003 del 16/12/02 sull’applicazione degli artt. 81 e 82 del TCE. Quest’ultimo regolamento riconosce effetti diretti alla disposizione contenuta nell’art. 81, par. 3, ora applicabile anche dai giudici e dalle autorità antitrust nazionali, che possono verificare la possibilità di un’esenzione senza una previa decisione della Commissione. La Commissione resta competente ad accertare la compatibilità di un’intesa con il regime comunitario, il suo intervento ha però carattere eccezionale. Non vi è più, quindi, un obbligo di notifica, ma un sistema di controllo successivo, in cui le imprese devono valutare se vi sono le condizioni per un’esenzione e hanno l’onere di dimostrare l’esistenza di tali condizioni. Il regolamento ha segnato il passaggio, in tal modo, da un regime di autorizzazione ex ante a uno di eccezione legale, in cui non si ha più un sistema di controllo centralizzato, ma un’applicazione decentrata delle regole antitrust e il rafforzamento di un controllo a posteriori.

Tutte le imprese partecipanti alle intese o pratiche concordate produttive all’interno del mercato comune gli effetti di cui all’art. 81, par. 1 sono destinatarie del divieto, non rilevando né la loro nazionalità, né il luogo in cui esse hanno la sede, né dove esercitano l’attività, avendo importanza, invece, il territorio dello Stato o degli Stati in cui si determinano gli effetti delle intese e pratiche considerate. Le imprese comunitarie possono, quindi, partecipare ad accordi limitativi della concorrenza sui mercati terzi, purché essi non abbiano effetti nel territorio della CE.

L’art. 82 del TCE vieta lo «sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo» nella misura in cui esso pregiudichi il commercio tra gli Stati membri. Un’impresa si trova in una posizione dominante quando gode di una situazione di potere economico e di indipendenza che le consente di comportarsi senza dover tenere conto delle imprese concorrenti, potendo in tal modo ostacolare la concorrenza sul mercato di riferimento. La quota di mercato detenuta è un parametro essenziale, sebbene in alcuni casi possa considerarsi dominante anche la posizione di un’impresa che ha una quota di mercato minoritaria in termini assoluti, ma che gode di un forte potere economico e di un’indipendenza nelle strategie rispetto ai concorrenti. Incidono sull’esistenza di una posizione dominante anche eventuali vantaggi tecnologici o finanziari e la presenza di un mercato in cui vi sono barriere all’entrata per i nuovi concorrenti. Talvolta, imprese che non detengono una posizione dominante individualmente possono godere di una posizione dominante collettiva attuando una concertazione tra loro.

Si ha un abuso di tale posizione quando l’impresa interessata opera in modo da incidere sulla struttura o grado di concorrenza del mercato rilevante, che varia a seconda delle caratteristiche del prodotto, degli eventuali prodotti succedanei e della percezione dei consumatori. Il mercato di riferimento può essere quello del prodotto o quello geografico. Il primo include tutti i beni succedanei del prodotto in questione, dal punto di vista delle caratteristiche fisiche, dell’uso al quale sono destinati e del prezzo. Può rilevare, inoltre, la sostituibilità del prodotto dal lato dell’offerta, ovvero la possibilità che il bene in questione possa essere offerto da altre imprese a seguito di un aumento di prezzo da parte della società in posizione dominante. Il mercato geografico è individuato, invece, nell’area in cui vi sono, per i prodotti considerati, condizioni di concorrenza omogenee e tali da distinguere la zona da aree contigue contraddistinte da condizioni differenti. Il parametro determinante è la sostituibilità dell’offerta, legata a fattori che limitano la capacità di imprese provenienti da aree geografiche diverse di soddisfare la domanda del prodotto in questione, quali le caratteristiche del prodotto, l’esistenza di barriere all’entrata del mercato, le preferenze tradizionali dei consumatori. Contrariamente a quanto stabilito dall’art. 81, il divieto previsto dall’art. 82 è assoluto, non essendo contemplate deroghe o esenzioni.

Destinatarie delle disposizioni contenute negli artt. 81 e 82 sono le imprese. La Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e la Commissione hanno accolto una nozione di impresa autonoma da quella dei diritti interni, tanto ampia da escludere, in generale, solo le entità che svolgono attività comportanti l’esercizio di pubblici poteri. Tale concetto ha un significato essenzialmente economico, rientrando in esso qualsiasi soggetto che svolga un’attività economica, indipendentemente dalla natura giuridica e dalle modalità di organizzazione e di finanziamento.

Il regime comunitario della concorrenza si applica anche alle operazioni di concentrazione tra imprese, le quali sono oggetto di un controllo preventivo volto a evitare che da esse derivino abusi di posizioni dominanti. Per concentrazione si intende una situazione in cui due o più imprese procedono a una fusione, o quando una o più imprese acquistano, direttamente o indirettamente, il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese.

Non contenendo il TCE disposizioni in merito, essenziale è stato al riguardo il contributo della giurisprudenza della Corte di giustizia delle comunità europee, che ha interpretato in maniera estensiva gli artt. 81 e 82 e ha considerato le concentrazioni come abuso di posizione dominante. Nella sentenza Continental Can del 1973, in particolare, essa ha affermato che si ha un abuso di posizione dominante quando l’impresa, che gode di tale posizione, la rafforza tramite l’acquisizione di un’impresa concorrente (CGCE, 21-II-1973, causa 6/72, Europemballage Corporation e Continental Can Company Inc. c. Commissione, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 215 e ss.). Inoltre, nella sentenza BAT-Philip Morris del 1987, la Corte ha sostenuto che, in assenza di posizione dominante, un’acquisizione che determina un tale effetto può essere vietata in virtù dell’art. 81, in quanto espressione di un accordo restrittivo della concorrenza (CGCE, 17-XI-1987, cause riunite 142 e 156/84, British American Tobacco Company Ltd e R. J. Reynolds Industries Inc. c. Commissione, ivi, p. 4487 e ss.). La materia è stata, in seguito, disciplinata dal Consiglio con il regolamento n. 4064/89 del 21/12/89, secondo cui «le operazioni di concertazione che creano o rafforzano una posizione dominante, da cui risulti che una concorrenza effettiva sia ostacolata in modo significativo nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, devono essere dichiarate incompatibili con il mercato comune» (art. 2, par. 3). Tale regolamento è stato di recente sostituito dal regolamento del Consiglio n. 139/2004 del 20/01/04. Quest’ultimo si applica alle concertazioni di “dimensioni comunitarie”, così definite in relazione alle soglie di fatturato conseguite dalle imprese partecipanti. Il regolamento si applica, inoltre, anche a operazioni che, sebbene non raggiungano le soglie di fatturato indicate per avere rilevanza comunitaria, rientrano nell’ambito di applicazione della normativa sulle concentrazioni di almeno tre Stati membri e questi ultimi non si oppongano al rinvio dell’esame della concentrazione alla Commissione sulla base del suddetto regolamento. Si mira così a evitare le c.d. notificazioni multiple e la relativa valutazione della stessa operazione da parte di più autorità antitrust nazionali. Si è modificato, in tal modo, il precedente sistema di controllo delle operazioni di concentrazione, fondato sul principio dell’“istanza unica” (“sportello unico”), in cui la Commissione deteneva un potere esclusivo di controllo sulle operazioni di portata transfrontaliera di un certo rilievo. L’attuale disciplina prevede un ruolo maggiore delle autorità nazionali garanti della concorrenza e semplifica la procedura di notificazione e di indagine, poiché evita la notifica della stessa operazione a più autorità nazionali competenti e, applicando il principio di sussidiarietà, attribuisce la competenza per la valutazione di una determinata operazione all’autorità che è nella posizione migliore per effettuarla.

Le concentrazioni di dimensione comunitaria devono essere notificate alla Commissione e possono essere realizzate solo dopo che sono state dichiarate compatibili con il mercato comune. Se esse incidono sul mercato di un singolo Stato membro che costituisce un mercato distinto, l’esame può essere rinviato all’autorità antitrust nazionale competente.

Il regime comunitario della concorrenza si estende anche alle imprese pubbliche e a quelle a cui gli Stati riconoscono diritti speciali o esclusivi, come espressamente sancito dall’art. 86, par. 1 del TCE. Secondo il par. 2 dello stesso articolo, tuttavia, in alcune circostanze vi possono essere deroghe al regime generale. Infatti, le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale devono osservare le suddette norme nei limiti in cui ciò non osti «all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata». Le deroghe sono quindi consentite solo se necessarie per garantire lo svolgimento di un interesse pubblico e se vi è una proporzionalità tra la realizzazione di un interesse generale e l’alterazione della concorrenza. In ogni caso, lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità. La Commissione vigila sul rispetto di tali disposizioni, rivolgendo agli Stati, se occorre, direttive (v. Direttiva) o decisioni (v. Decisione).

L’accertamento e la repressione delle eventuali violazioni del Diritto comunitario sulla concorrenza spettano essenzialmente alla Commissione, la quale può avviare un procedimento d’ufficio o su denuncia di un soggetto interessato, godendo in materia di ampi poteri di accertamento e potendosi avvalere dell’assistenza delle autorità antitrust nazionali. Conclusa la fase dell’accertamento, la Commissione può avviare un procedimento formale di infrazione (v. Infrazione al diritto comunitario); essa ha ampia discrezionalità anche nel determinare le ammende, entro un tetto massimo del 10% del fatturato totale di ogni impresa. Il regolamento n. 1/2003, inoltre, ha previsto l’attuazione degli artt. 81 e 82 nella loro interezza anche da parte delle autorità garanti della concorrenza dei singoli Stati membri, le quali devono operare in cooperazione con la Commissione per l’applicazione delle regole della concorrenza

Le violazioni della libertà di concorrenza che hanno incidenza esclusivamente all’interno di uno Stato membro sono disciplinate dai diritti nazionali. L’Italia ha adottato una normativa in materia solo nel 1990, con la legge n. 287, largamente ispirata alle norme comunitarie (v. Diritto comunitario). Il regime comunitario precedente non escludeva che lo stesso comportamento potesse essere oggetto contemporaneamente della disciplina comunitaria e di quella nazionale ed essere sanzionato, autonomamente, da entrambe. L’art. 3, par. 2 del regolamento n. 1/2003, invece, pone un divieto per la legislazione nazionale di ritenere lesiva della concorrenza un’intesa considerata lecita in virtù del diritto comunitario, o poiché assenti le condizioni previste dall’art. 81, par. 1 o perché corrispondente ai requisiti di cui al par. 3 dello stesso articolo. Secondo l’art. 3 del regolamento, inoltre, le autorità nazionali devono applicare gli artt. 81 e 82 accanto al diritto nazionale nei casi in cui un comportamento rientri nell’ambito di applicazione del diritto comunitario.

Maria Rosaria Mauro (2007)

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