Unamuno de, Miguel

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Intellettuale, letterato, filosofo, nonché leader spirituale della cosiddetta “generazione del ’98”, U. (Bilbao 1864-Salamnaca 1936) è stato sicuramente uno dei maggiori protagonisti della cultura spagnola tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, avendo rappresentato un punto di riferimento per tutti coloro che avevano auspicato la palingenesi etica e sociale di un paese in costante declino, come, del resto, la perdita degli ultimi possedimenti coloniali aveva drammaticamente evidenziato.

U. studiò Lettere e filosofia all’Università di Madrid e nel 1890 venne chiamato a insegnare Lingua e letteratura greca presso l’Università di Salamanca. Sin dal 1880 aveva iniziato un’intensa attività giornalistica, che lo aveva portato a collaborare con vari periodici e a scrivere articoli che spaziavano dalla letteratura alla filosofia e alla politica, ma risale al 1895 la sua prima opera di grande rilievo, En torno al casticismo. Nel 1900 U. diventò rettore a Salamanca e assunse l’incarico di Filologia comparata di latino e castigliano, cattedra da egli stesso istituita, che in seguito sarebbe diventata “Storia della lingua spagnola”. In virtù di alcune critiche mosse al governo e alla monarchia, nel 1914 U. venne però destituito dalla carica di rettore. Negli anni successivi subì un processo per lesa maestà a causa di nuovi attacchi rivolti al re e fu poi costretto all’esilio durante la dittatura di José Primo de Rivera per la sua opposizione al regime. Con la proclamazione della Repubblica U. poté fare ritorno in patria, dove venne accolto trionfalmente, reintegrato in qualità di rettore a Salamanca ed eletto alle Cortes nel gruppo dei repubblicani e socialisti. Morì nel 1936, l’anno di inizio di quella guerra civile che avrebbe segnato la fine di una stagione in cui egli era stato, almeno sul piano culturale, un indiscusso protagonista. Tra i suoi numerosi scritti, che comprendono tra l’altro romanzi, poesie e opere teatrali, ricordiamo i saggi Vida de Don Quijote y Sancho (1905), nel quale il protagonista del capolavoro di Cervantes assurge a emblema del popolo spagnolo, Mi religión y otros ensayos (1910) sul pragmatismo, e Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y los pueblos (1913) sui grandi temi esistenziali e sul contrasto tra fede e ragione, nonché il racconto Cómo se hace una novela? (1927), una sorta di trattato di metafisica presentato sotto forma di novella autobiografica.

Non è facile fornire un quadro sintetico del percorso intellettuale di U., sia perché non esiste una esposizione sistematica del suo pensiero, sia perché esso era in continuo divenire e tendeva pertanto a modificarsi sensibilmente nel tempo, sia perché, in ultima istanza, la dimensione politica finiva per sovrapporsi a quella filosofica ed esistenziale. Queste difficoltà di fondo hanno pertanto prodotto interpretazioni differenti, e talvolta perfino contrapposte, della sua Weltanschauung, tanto che U. è apparso ad alcuni un moderato e ad altri un progressista o addirittura un rivoluzionario. Analoghi problemi esegetici presenta inoltre la sua riflessione sull’Europa, che pur costituisce un nucleo importante del suo pensiero.

Animato in gioventù da profonde convinzioni religiose, U. approdò via via a posizioni agnostiche grazie agli studi filosofici madrileni: questa fase del suo pensiero viene generalmente definita fase del “razionalismo umanista”. Parallelamente, dal punto di vista politico, egli maturò idee liberal-radicali, intrise di venature libertarie. L’interesse per Francisco Pi y Margall, il massimo teorico del Federalismo spagnolo, gli indicò quindi la strada per poter risolvere il problema basco e, almeno in prospettiva, il problema dell’unità europea.

Negli anni Novanta U. provò a coniugare il liberalismo con il repubblicanesimo e con il socialismo, militando anche per un paio d’anni nel Partido socialista obrero español (PSOE), mentre a livello teorico si occupò principalmente della tematica dell’identità nazionale, individuando nel rigetto del nefasto spirito dell’Inquisizione, nella riaffermazione della coesione nazionale e nell’apertura all’Europa, auspicata solo a condizione che non implicasse il ripudio delle radici culturali autoctone, i principali rimedi per uscire dalla gravissima crisi nella quale il paese era da tempo sprofondato. Come per Joaquín Costa, anche per U. l’Europa rappresentava in primo luogo lo strumento per risolvere un problema interno spagnolo, il mezzo più appropriato per purificare il paese dalle scorie del passato, aiutarlo a rigenerarsi e, in ultima istanza, a ritrovare se stesso. Allo stesso modo devono essere letti i riferimenti al cosmopolitismo nei suoi scritti dell’epoca, che senza tradursi in un progetto politico esprimevano la consapevolezza del carattere angusto assunto ormai dalle entità nazionali.

A partire dalla crisi spirituale del 1897, che sarebbe poi sfociata nell’adesione al protestantesimo liberale, U. sviluppò una concezione tragica dell’esistenza, individuando nel don Chisciotte di Cervantes, incarnazione del pessimismo trascendentale oltre che dell’idealismo etico, una sorta di emblema nazionale di tale condizione. Questa impostazione si ripercuoteva sul piano politico nel rifiuto dell’Europa del positivismo e del progresso scientifico e nel recupero dei valori più tradizionali, tanto che nel celebre saggio Sobre la europeización (1906) i termini della questione venivano paradossalmente ribaltati rispetto all’impostazione precedente: non si trattava cioè più di “europeizzare la Spagna”, ma di “ispanizzare l’Europa”. Questo obiettivo poteva essere conseguito grazie al fatto che la Spagna rappresentava una sorta di “promontorio spirituale” del continente e, in quanto tale, a essa spettava il compito di salvare un’Europa alla deriva a causa dell’Illuminismo e dei rivoluzionarismi. Ne scaturì in proposito una dura polemica con Ortega, che lo invitò allora ad abbandonare il suo “misticismo energumeno”.

Il periodo successivo è contrassegnato principalmente dalla lunga gestazione dell’opera Del sentimiento trágico de la vida e dal prevalere degli interessi filosofici su quelli politici e sociali. In questo volume U. rifletteva infatti sui grandi temi dell’esistenza, spaziando dalla questione del destino individuale a quella della finalità dell’universo, cercando tuttavia le risposte non nelle pieghe della mente ma nelle “ragioni del cuore”, che spingevano l’individuo verso il trascendente grazie alla sua “fame di immortalità”. Ne conseguiva una pericolosa svalutazione della cosiddetta “cultura secolare”, e, in particolare, dell’idea di progresso, della scienza e perfino della europeizzazione, “rei” di aver fatto perdere agli uomini il senso escatologico-religioso dell’esistenza.

A questo proposito, nell’Agonie du christianisme (1923), e poi nella novella San Manuel Bueno, mártir (1930), U. affermò in modo chiaro il principio dell’estraneità della religione cristiana alle ideologie politiche, anche in polemica con il cattolicesimo che aveva via via assunto i caratteri di una “religione di Stato”. Ciò non gli impedì di opporsi alla dittatura in nome della libertà, e poi di sostenere la Seconda repubblica, battendosi con forza dai banchi parlamentari in favore dell’unità nazionale minacciata dalle spinte centrifughe dei regionalismi e dalle tensioni prodotte dalla lotta di classe. In varie occasioni criticò lo statalismo del presidente Azaña in base ai principi classici del vecchio liberalismo, ma al momento dello scoppio della guerra civile si limitò a condannare gli opposti estremismi delle parti in conflitto, senza tenere nella giusta considerazione la realtà fattuale di un governo legittimo, democraticamente eletto, contrapposto a forze militari golpiste. Ebbe però modo di riscattarsi dall’infamante accusa di simpatizzare per la causa falangista in nome della difesa della civiltà cristiana quando, il 12 ottobre 1936, al momento dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Salamanca, pronunciò un discorso che faceva esplicitamente riferimento al carattere “incivile” della guerra in corso: le sue parole vennero bruscamente interrotte dal generale José Millán Astray e U. fu posto agli arresti domiciliari. Morì poco più di due mesi dopo, mentre il suo paese stava precipitando nel baratro e con esso, di lì a poco, l’Europa intera.

Guido Levi (2012)