Unione doganale

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Introduzione al concetto

L’unione doganale (Customs union, nella letteratura di lingua inglese) rappresenta una forma di integrazione economica internazionale che investe l’interscambio di beni e di servizi di due o più paesi, il quale risulta agevolato rispetto ai flussi commerciali con il resto dell’economia mondiale. Si tratta di una forma di integrazione alquanto diffusa, data l’estensione che la liberalizzazione degli scambi ha assunto nel quadro della globalizzazione. Quest’ultima, ai nostri fini, può essere semplicemente considerata come una forma avanzata di integrazione economica quando, come accade in misura crescente a partire dagli ultimi decenni, i processi produttivi vengono condotti e riferiti non più al singolo mercato nazionale, ma a quello dell’intera economia del mondo.

La globalizzazione, o mondializzazione, utilizzando l’espressione privilegiata nella letteratura di lingua francese, aumenta in misura rilevante le interdipendenze economiche fra paesi attraverso molteplici canali, e soprattutto attraverso gli scambi di beni e di servizi, i trasferimenti di fattori produttivi, con un rilievo particolare per la circolazione dei capitali, e infine mediante il canale della formazione delle aspettative, cui concorrono i flussi informativi che si diffondono istantaneamente a livello mondiale. In questo contesto, in linea generale, l’efficacia delle politiche economiche condotte dai singoli paesi si attenua, e in alcuni casi al limite si annulla. Da parte delle autorità nazionali sorge pertanto l’esigenza di fornire soluzioni a questa forma generalizzata di fallimento dello Stato. Fra gli strumenti adatti a tale scopo troviamo il protezionismo, da un lato, e il coordinamento delle politiche mediante l’integrazione economica, dall’altro. Con l’avvertenza che in un quadro di globalizzazione crescente la prima soluzione risulta sempre meno efficace e in grado, al più, di fornire solamente un tempo di riflessione aggiuntivo ai decisori nazionali.

In via del tutto preliminare, possiamo classificare le forme di integrazione in base a due dimensioni: il numero di paesi partecipanti, da una parte, e il numero delle politiche e dei mercati integrati, dall’altra. Sotto il primo profilo, abbiamo una prima forma embrionale di integrazione costituita dai trattati di commercio, che possono interessare anche due soli paesi, quindi gli accordi di integrazione regionale, riguardanti tipicamente una pluralità di paesi situati nella medesima regione dell’economia mondo, e infine l’integrazione economica mondiale (worldwide integration), che coincide in senso spaziale con la globalizzazione. Lungo l’altra dimensione, al di là dei trattati di commercio, che possono avere per oggetto anche la liberalizzazione degli scambi al limite di un solo prodotto, troviamo gli accordi commerciali preferenziali, che investono più prodotti e alcune politiche e, come forma più completa, l’unione economica, la quale integra tutti i mercati e tutte le politiche, inclusa la politica monetaria. Combinando le due dimensioni troviamo i due casi estremi dell’assenza completa di integrazione, vale a dire la forma teorica del mercato nazionale del tutto isolato, e dell’unione economica mondiale, sul fronte opposto.

Questo schema generale consente di collocare in modo appropriato nel quadro delle forme di integrazione economica internazionale gli accordi commerciali preferenziali, di cui si conoscono due versioni principali: l’area (o zona) di libero scambio e l’Unione doganale (UD). L’area di libero scambio consiste in un accordo preferenziale che consente il libero scambio dei prodotti fra i mercati dei paesi partecipanti, senza che questi ultimi rinuncino all’autonomia delle loro politiche commerciali nei confronti del resto del mondo. Ciò significa che i paesi partecipanti eliminano i dazi e gli altri ostacoli equivalenti negli scambi reciproci, ma mantengono tariffe doganali differenziate verso i paesi terzi. Si tratta di una forma elementare di integrazione, che comporta l’inconveniente di fare del paese a più bassa tariffa l’economia di transito virtuale delle importazioni provenienti dal resto del mondo: gli importatori liquideranno il costo della tariffa nel paese che pratica i dazi minori e quindi riesporteranno la merce in esenzione tariffaria nel resto dell’area. Per evitare questo fenomeno si può ricorrere a un sistema di certificati di origine, il quale comporta tuttavia un onere amministrativo aggiuntivo.

La UD, per contro, associa il libero scambio all’interno dell’area preferenziale con l’esistenza di una Tariffa esterna comune (TEC), che sostituisce quelle iniziali dei paesi membri. La politica commerciale nei confronti dei paesi terzi, che ha appunto come strumento essenziale la TEC, diventa così una politica comune e viene sottratta alla sfera di competenza dei singoli paesi partecipanti. Il gettito della tariffa viene poi ripartito fra i paesi membri in base ad accordi particolari, oppure viene destinato al finanziamento delle politiche comuni, come accade all’interno della Comunità europea.

L’Unione doganale e il processo d’integrazione europea

Nell’esperienza dell’integrazione economica europea troviamo due esempi salienti di formazione di accordi preferenziali, con la nascita, rispettivamente, dell’Associazione europea di libero scambio (European free trade association, EFTA) e della Comunità economica europea (CEE). La forma meno avanzata di integrazione (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), la European free trade association, costituiva un’area di libero scambio nata nel 1960, la quale raggruppava inizialmente il Regno Unito, l’Austria, il Portogallo, la Svizzera e i tre paesi nordici. Essa vide la luce per iniziativa principalmente della Gran Bretagna e venne intesa come una sorta di modello alternativo a quello della Comunità economica europea, lanciata nel 1956 dai sei paesi fondatori di Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, in base allo schema di integrazione più impegnativo della UD. La sfida fra i due modelli fu vinta dalla CEE, e con l’adesione progressiva a quest’ultima di numerosi paesi un tempo ad essa aderenti, a cominciare dalla Gran Bretagna nel 1973, l’EFTA fu relegata al rango di esperienza di integrazione secondaria, che oggi riguarda soltanto la Svizzera, la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein. Nel contempo, la CEE si trasformava nell’Unione europea (UE), che sotto il profilo economico si può definire una forma di integrazione sui generis, a metà strada fra la UD e l’unione economica in senso stretto (v. anche Unione economica e monetaria). Peraltro, a partire dal 1994 l’EFTA e la Comunità formano congiuntamente lo Spazio economico europeo, vale a dire una grande area di libero scambio estesa all’intero continente.

Nel quadro della CEE il passaggio alla UD avvenne per tappe lungo un periodo transitorio che in origine doveva durare dodici anni. Progressivamente, venne condotto un duplice processo: da un lato vennero eliminati gli ostacoli al libero scambio delle merci all’interno dei Sei; dall’altro, nei confronti del resto del mondo, venne costituita la TEC destinata a sostituire le tariffe iniziali dei paesi membri. Il processo descritto avvenne in tre tappe, a partire dal 1° gennaio 1959, dopo la firma del Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) istitutivo della CEE il 25 marzo 1957. Per quanto concerne gli ostacoli tariffari ai commerci reciproci, i dazi nei confronti dei paesi membri furono ridotti mediamente del 10% all’anno, mentre per i contingentamenti, i quali si traducevano in restrizioni quantitative ai commerci, si procedette a un progressivo ampliamento, fino alla loro abolizione totale già alla fine del 1961. Sull’altro fronte, i sistemi tariffari nazionali furono gradualmente trasformati nella TEC attraverso tre ravvicinamenti, i quali si conclusero alla metà del 1968, in concomitanza con l’avvenuta eliminazione delle restrizioni tariffarie e quantitative agli scambi intracomunitari. La TEC venne a sua volta stabilita sulla base di una media aritmetica semplice dei dazi esistenti prima della liberalizzazione, con qualche eccezione che riguardava i cosiddetti prodotti sensibili, vale a dire le merci che uno o più paesi membri ritenevano opportuno proteggere in modo più accentuato, mantenendo picchi di protezione tariffaria più elevata. Procedimenti analoghi di passaggio per tappe al regime commerciale comune furono anche adottati per l’adesione di altri paesi alla Comunità, al di là della cerchia iniziale dei Sei.

Per completezza va aggiunto che nell’ambito della TEC i dazi sui prodotti agricoli vennero sostituiti dai cosiddetti prelievi, in ragione del fatto che nel frattempo, nel corso degli anni Sessanta, veniva varata la Politica agricola comune (PAC), che dava vita a una unione economica nel settore dell’agricoltura, con un sistema di prezzi unici e di politiche di intervento decisi a livello europeo. I prelievi costituivano un dazio a scala mobile, pari alla differenza fra i prezzi mondiali e i prezzi di riferimento europei, di norma più elevati di quelli internazionali, in conseguenza del carattere decisamente protezionistico della PAC. Con l’avvertenza che a fronte dei prelievi, che colpivano le importazioni, le esportazioni di prodotti agricoli sul mercato mondiale venivano agevolate da restituzioni, ovvero da premi calcolati in modo analogo, ma ovviamente di segno opposto.

Il criterio della media aritmetica fu adottato allo scopo di uniformarsi all’art. IV dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), il trattato nel cui ambito veniva perseguito in quegli anni l’obiettivo del libero scambio mondiale, mediante una serie successiva di trattative tariffarie multilaterali, denominate rounds. Tale articolo prevedeva che in caso di costituzione di una UD il livello di incidenza della protezione nei confronti dei paesi terzi non dovesse superare quello vigente prima della nascita del nuovo accordo commerciale preferenziale. E fu appunto tale articolo che venne utilizzato dai paesi terzi, principalmente gli Stati Uniti, per chiedere compensazioni economiche in seguito al processo di Allargamento della Comunità, da essi giudicato lesivo dei loro interessi commerciali. Sempre con riferimento al GATT, occorre osservare che successivamente alla sua costituzione la TEC fu ridotta in varie riprese, per effetto delle trattative tariffarie multilateriali condotte al suo interno: dal Kennedy round degli anni Sessanta sino all’Uruguay round degli anni Novanta, la cui conclusione nel 1994 doveva segnare il passaggio dal sistema del GATT a quello dell’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization, WTO), istituita il 1° gennaio 1995.

In tal modo, la nascita della UD nel caso dell’integrazione economica europea avvenne il 1° luglio 1968, con un anno e mezzo di anticipo sui tempi inizialmente previsti. A partire da quel momento il mercato comune europeo (v. Comunità economica europea) divenne una realtà. Da un lato i prodotti industriali e agricoli potevano circolare al suo interno in esenzione da dazi e da ostacoli quantitativi; dall’altro la CEE acquisiva una sua personalità economica autonoma verso i paesi terzi e la competenza della Politica commerciale comune veniva trasferita dagli Stati membri alle Istituzioni comunitarie, mentre il gettito della TEC si avviava a finanziare direttamente il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea).

Tuttavia, gli scambi fra paesi membri, nonostante il completamento della UD, rimasero ancora a lungo frenati dalla presenza di ostacoli non tariffari: l’insieme delle misure di protezione tecniche e fiscali che assumono forme diverse da paese a paese. Solo il lancio successivo del programma del mercato interno, con il raggiungimento dei primi importanti risultati nel 1993, doveva portare a un inizio di smantellamento di tali ostacoli, oggi peraltro ancora parzialmente esistenti nel settore dei servizi.

Contrariamente a quanto doveva avvenire nel corso degli anni Settanta del XX secolo, quando lo scardinamento del sistema dei cambi fissi di Bretton Woods e le crisi petrolifere fecero registrare un arretramento del processo di integrazione economica, facendo fallire il primo tentativo di dar vita all’unificazione monetaria, la fase di creazione della UD e del varo della PAC fu coronata da importanti successi. Nonostante gli ostacoli residui, gli scambi intracomunitari si espansero a ritmi mediamente doppi rispetto a quelli che riguardavano i paesi terzi e l’integrazione delle economie dei Sei registrò progressi tali da agevolare il processo di allargamento progressivo della Comunità, ancora in corso a cavallo della metà del primo decennio del XXI secolo. Un risultato saliente di questa prima fase di liberalizzazione degli scambi nel contesto europeo fu anche costituito dalla spinta alla modernizzazione fornita a un paese strutturalmente in ritardo come l’Italia, il quale visse una profonda trasformazione economica e sociale che lo portò a entrare nel club dei paesi più industrializzati del mondo. Tutto ciò avvenne nonostante i freni esercitati all’inizio del processo di liberalizzazione dal mondo imprenditoriale italiano, timoroso di dover competere con le imprese europee, mediamente più efficienti. Alla base di quello che fu definito a suo tempo il miracolo economico italiano vi fu anche, se non soprattutto, la creazione della UD in sede europea.

Modelli, caratteristiche e funzionamento di un’unione doganale

Sotto il profilo economico, in effetti, una UD produce tutta una serie di effetti che possono contribuire a innalzare i tassi di crescita dei paesi partecipanti. L’esame e lo studio di tali effetti vengono effettuati nell’ambito della teoria delle unioni doganali, un nuovo filone di studi sviluppatosi a partire dalla seconda metà del XX secolo. Con l’avvertenza che nel suo ambito vengono esaminati sia gli effetti della costituzione di questa particolare forma di accordo preferenziale commerciale su categorie standard dell’analisi economica, quali la produzione, i consumi, le correnti di scambio, sia gli effetti che vengono esercitati sul benessere degli agenti partecipanti agli scambi e sull’efficienza dei sistemi produttivi.

Inizialmente, la creazione di una UD venne considerata come un progresso rispetto al protezionismo, dato che promuoveva il libero scambio fra i paesi membri, producendo a livello regionale i vantaggi illustrati dalla teoria dei costi comparati. In tal modo, come aveva messo in luce oltre un secolo prima David Ricardo, ogni paese poteva specializzarsi nella produzione dei beni in cui aveva il vantaggio maggiore (o lo svantaggio minore), con benefici per tutti i paesi scambisti. Tuttavia una UD comportava anche un elemento di discriminazione nei confronti dei paesi terzi, dato che questi ultimi erano esclusi da tali benefici, a causa dell’esistenza della TEC, la quale ostacolava i loro scambi con i paesi membri.

In un secondo tempo, pertanto, l’attenzione degli economisti si concentrò sulla natura ambigua della UD, promotrice di libertà degli scambi all’interno dell’area di commercio preferenziale, ma nel contempo anche ostacolo al libero scambio nei confronti del resto del mondo. L’opera fondativa della teoria moderna delle unioni doganali, The customs union issue, pubblicata nel 1950 da Jacob Viner, ebbe il merito di affrontare entrambi gli aspetti della questione, fornendo anche un criterio per valutare quando una UD potesse essere giudicata welfare increasing, vale a dire generatrice di benessere.

Il modello di Viner è uno schema di carattere statico, nel senso che non considera esplicitamente i possibili effetti di ristrutturazione del sistema economico dei paesi scambisti che possono modificarne i tassi di crescita. Al suo interno vengono definiti due tipi di effetti di commercio radicalmente distinti: da una parte gli effetti di creazione (trade creation) e dall’altra gli effetti di diversione dei traffici (trade diversion). Supponiamo, per semplicità, che esistano tre soli paesi: l’Italia e la Francia, da un lato, e gli Stati Uniti, dall’altro. Se ora i primi due paesi formano una UD, l’abolizione dei dazi sui loro scambi reciproci porterà alla nascita di nuovi flussi di traffico, assenti in precedenza. Ad esempio, i consumatori francesi smetteranno di comprare scarpe prodotte in Francia ad alto costo e importeranno scarpe fabbricate in Italia a costi minori; e viceversa i consumatori italiani preferiranno acquistare vini francesi, anziché vini prodotti in Italia. Questi scambi un tempo non esistevano e sono generati dal venir meno della protezione doganale, che consente di sostituire fornitori nazionali meno efficienti con fornitori esteri che producono a costi minori: si tratta quindi di nuovi flussi commerciali dovuti all’effetto di creazione dei traffici. Può anche accadere, tuttavia, che prima della UD l’Italia si rifornisse di grano dagli Stati Uniti e che ora, a causa ad esempio della politica agricola europea, la protezione doganale nei confronti delle merci di quel paese renda più conveniente cessare l’importazione dagli Stati Uniti e sostituirla con acquisti effettuati in Francia. E ciò nonostante il fatto che al netto dei dazi i produttori statunitensi siano più efficienti di quelli francesi. Qui ci troveremmo di fronte a un effetto di diversione dei traffici.

Dagli esempi fatti risulta chiaro che mentre gli effetti di trade creation producono vantaggi per le economie dei paesi partecipanti all’unione, gli effetti di trade diversion generano costi aggiuntivi. Più precisamente, la creazione dei traffici comporta un aumento della rendita del consumatore, da una parte, e una riduzione dei costi di produzione nazionali, dall’altra. Nel primo caso, i consumatori acquistano beni a prezzi inferiori a quelli che dovevano sostenere prima dell’unione e il loro benessere aumenta; nel secondo, le risorse produttive nazionali cessano di essere utilizzate in produzioni ottenute in condizioni di efficienza inferiori a quelle del paese partner e si ottiene un beneficio a vantaggio dell’intero paese. In tal modo vengono definiti gli effetti di consumo e gli effetti di produzione di una UD, che nel loro insieme misurano i benefici a essa imputabili.

Per contro, la diversione dei traffici dà vita a una perdita, che è misurata dalla differenza fra i costi più elevati del paese partner e quelli più bassi del fornitore iniziale, esterno all’unione, moltiplicata per il volume delle importazioni che sono state dirottate.

Definiti e misurati in tal modo gli effetti di efficienza e di benessere delle unioni doganali, il modello elementare di Viner conclude che una UD può essere giustificata sotto il profilo del benessere soltanto quando gli effetti di creazione dei traffici, ovvero i suoi benefici, superano gli effetti di deviazione delle correnti commerciali, vale a dire i suoi costi. Solo a tale condizione, infatti, una UD può essere considerata come generatrice di benessere in termini netti.

L’analisi di Viner, chiarendo la natura ambigua della UD, che costituisce un passo in direzione del libero scambio, ma genera anche una discriminazione tariffaria nei confronti del resto del mondo, si collegava alla posizione dell’art. IV del GATT, che nella versione del 1994 entrava successivamente a far parte delle disposizioni della WTO, attualmente vigenti. In base a esse, per quanto costituisca un’eccezione alla regola del trattamento della nazione più favorita su cui l’Organizzazione mondiale del commercio si fonda, la UD continua a essere consentita, purché i dazi e le altre barriere nei confronti delle importazioni dei paesi terzi non risultino nell’insieme più elevati o più restrittive ex post. È evidente, infatti, che se in media dopo la sua costituzione la UD non eleva il livello della protezione esterna, la probabilità che si producano effetti di trade diversion diminuisce. Tuttavia, come vedremo più avanti, la posizione della WTO viene meglio rappresentata da alcuni degli sviluppi successivi della teoria delle UD, più che dall’analisi di Viner in senso stretto.

Per completare il quadro va aggiunto che lo statuto teorico della UD in realtà risulta ancora più complicato di come lo abbiamo appena descritto. Se in un mondo ideale in cui siano presenti tutte le condizioni che caratterizzano la concorrenza perfetta confrontiamo il libero scambio globale, da una parte, e una UD, dall’altra, non vi è dubbio che la prima situazione sia preferibile alla seconda. Nel linguaggio tecnico tale situazione ideale si denomina ottimo paretiano, dal nome del grande economista neoclassico Vilfredo Pareto: in sintesi una condizione in cui non è possibile migliorare il benessere di qualcuno senza diminuire quello di qualcun altro. D’altro canto è intuitivo che una UD sia preferibile all’autarchia. Tuttavia ciò è vero solo se si ipotizza l’esistenza di una sola distorsione rispetto al libero scambio mondiale, considerato come una situazione di ottimo o di first best. Ma il mondo reale è un mondo subottimale o di second best, nel senso che le distorsioni dalle condizioni ideali che caratterizzano la concorrenza perfetta a livello dell’intera economia mondo sono molteplici, e non è detto che eliminando una singola distorsione la situazione necessariamente migliori. Ne segue che nel mondo reale non sempre è vero che una UD sia preferibile all’autarchia. È questo il contenuto della teoria del second best, formulata inizialmente da James Meade, alcuni anni dopo la pubblicazione del lavoro di Viner.

Gli sviluppi successivi della teoria delle unioni doganali ricalcarono in parte l’approccio statico seguito da Viner e in parte seguirono un’impostazione dinamica, finalizzata a mettere luce in modo puntuale gli effetti di ristrutturazione delle economie dei paesi partner esercitati nel lungo termine dalla creazione di una UD. È solo in quest’ultimo contesto, infatti, che è possibile fornire una risposta convincente al quesito del perché si costituiscano queste particolari forme di accordi commerciali preferenziali. In un quadro di natura statica, si dimostra in effetti facilmente che per un singolo paese è meglio smantellare unilateralmente le protezioni doganali che entrare a far parte di una UD. Nel primo modo si ottengono i benefici del libero scambio mondiale, accedendo ad una situazione di ottimo, nel senso appena descritto, mentre con la UD si partecipa ad una condizione di second best. In altri termini, risulta più conveniente ottenere un effetto di creazione dei traffici attraverso una riduzione tariffaria unilaterale che mediante un abbinamento di effetti di trade creation e di trade diversion, come avviene con una UD.

Tra i modelli che individuano alcune delle possibili ragioni che spiegano la costituzione di una UD, alcuni sottolineano l’argomento dei beni pubblici, ossia la produzione di beni che esercitano una funzione (o esternalità) positiva a beneficio dell’intero sistema economico e che sono di norma prodotti dalle autorità statali, nelle loro diverse articolazioni. Come esempio di bene pubblico, che risulta rilevante in questo contesto, si può citare il caso delle produzioni industriali che i governi ritengono di dover proteggere, anche al di là di ciò che sarebbe giustificato da semplici considerazioni di efficienza, perché si ritiene che la loro presenza generi effetti esterni positivi per l’economia nazionale. In questa situazione, fra due paesi dove è presente una preferenza collettiva per la manifattura la creazione di una UD attraverso una riduzione reciproca dei dazi può produrre effetti di benessere superiori a quelli che si potrebbero ottenere con una abolizione delle tariffe su base non discriminatoria, vale a dire nei confronti di tutti i paesi del mondo. Ciò avviene, in particolare, perché ogni paese membro dell’unione utilizza gli effetti di diversione dei traffici per far spazio alle esportazioni del partner, pur mantenendo inalterata la propria produzione industriale. Il risultato di questi modelli è che sarebbe possibile formare una UD miglioratrice del benessere anche in presenza di un determinato livello di protezione tariffaria per i prodotti industriali o per altri tipi di beni pubblici. Questo, tuttavia, richiede che gli individui danneggiati dai dazi possano ottenere una serie di compensazioni da parte di coloro che ne hanno ottenuti i benefici, ad esempio grazie ai maggiori prezzi che hanno potuto spuntare per i loro prodotti o servizi produttivi.

Un’altra spiegazione parziale che giustifica la costituzione di una UD riguarda le economie di scala: la riduzione dei costi che si verifica in presenza di investimenti fissi rilevanti, quando la quantità prodotta aumenta. È noto che la quota dei costi fissi che deve essere recuperata con il prezzo del prodotto è tanto minore, quanto più estesa è la produzione su cui tali costi si ripartiscono. Può così accadere che un paese particolarmente efficiente, entrando a far parte di una UD in cui opera un partner caratterizzato da costi maggiori, riesca a catturare in tutto o in parte la domanda di quest’ultimo, rifornendo al limite l’intero mercato della UD. L’aumento della sua produzione potrà così tradursi in una riduzione dei costi medi, e forse pure dei prezzi, andando così a vantaggio anche dei consumatori del paese meno efficiente.

Ma forse la ragione più importante che sta alla base della creazione di una UD ha a che vedere con la possibilità di modificare a vantaggio dei paesi dell’unione la ragione di scambio internazionale. Un gruppo di paesi che, singolarmente considerati, hanno un peso irrilevante nel quadro dei traffici mondiali, aggregandosi possono aumentare la loro capacità contrattuale nei confronti del resto mondo. Grazie al maggiore peso contrattuale potranno in tal modo modificare a proprio vantaggio la ragione di scambio internazionale, vale a dire i prezzi praticati con i paesi terzi per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni. Più precisamente, essi avranno la possibilità di migliorare il rapporto fra i prezzi delle esportazioni e i prezzi delle importazioni, appunto la ragione di scambio internazionale in senso tecnico. È chiaro che se, fermi rimanendo i prezzi delle merci esportate, i prezzi dei beni e dei servizi importati diminuiscono, un paese registrerà un aumento di benessere.

Dal punto di vista analitico, la costituzione di una UD trasforma la forma di mercato in cui i paesi membri operano. Nel passaggio dalla condizione di “paese piccolo” a quella di “paese grande” nel senso dell’economia internazionale, la loro capacità di determinare i prezzi internazionali è mutata. In precedenza si trovavano in un mercato di concorrenza perfetta, in cui il singolo agente non può modificare il prezzo, ma lo deve assumere come un dato (in altri termini erano price taker); ora, grazie alla UD si trovano in un contesto di mercati imperfettamente concorrenziali, e possono modificare i prezzi a loro vantaggio (sono quindi price maker).

Per chiarire le conseguenze della formazione di una UD sulla ragione di scambio internazionale dei paesi dell’unione, supponiamo che la domanda di importazioni della UD rappresenti una quota sensibile delle esportazioni del resto del mondo. Il potere contrattuale di cui dispone la UD farà sì che, dopo la sua costituzione, il prezzo mondiale delle importazioni registri una diminuzione. L’unione espanderà di conseguenza i propri acquisti dai paesi terzi e otterrà un vantaggio misurato dalla quantità di importazioni accresciute moltiplicata per la riduzione del prezzo. Tale vantaggio andrà tuttavia depurato dalle inefficienze e dai costi a carico della produzione e dei consumi interni della UD a causa della protezione doganale associata all’esistenza della TEC verso il resto del mondo.

Conclusioni

Quanto appena visto ci fa capire che i paesi della CEE, nel dar vita alla UD che ne ha rafforzato il peso economico rispetto ai grandi protagonisti della scena economica mondiale, un tempo gli Stati Uniti, i paesi dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), e l’Unione Sovietica, e oggi i primi di questi paesi o raggruppamenti di economie, unitamente alla Cina, l’India, il Brasile e gli altri paesi emergenti, sono stati in grado di modificare a proprio beneficio molti prezzi internazionali, e in ogni caso di ottenere condizioni di scambio migliori di quelle su cui avrebbero potuto fare affidamento se avessero agito in maniera isolata, con vantaggi che presumibilmente superano di gran lunga i costi associati alle protezioni che hanno attivato nei confronti del resto del mondo tramite i dazi comunitari, soprattutto per quanto riguarda le produzioni maggiormente protette, e in specie quelle del settore agricolo. Con l’aggiunta che nell’ambito delle grandi trattative tariffarie degli ultimi decenni, dall’Uruguay Round al Doha development round (quest’ultimo peraltro in una situazione di stallo a metà del primo decennio del XXI secolo), i paesi europei possono presentarsi con un fronte unito che ne salvaguarda gli interessi come un tutto.

La teoria delle unioni doganali si è occupata anche della determinazione della TEC e dei suoi effetti, mettendo in luce come di norma essa venga scelta in base al criterio di rendere massimo il benessere dell’unione nel suo insieme, e con possibili trasferimenti di ricchezza da parte dei paesi membri maggiormente avvantaggiati a favore dei partner in ipotesi danneggiati, ma anche utilizzando approcci diversi.

In particolare, potrebbe essere adottato il criterio proposto da Martin Kemp e Henry Y. Wan, noto come criterio di Kemp-Wan, secondo il quale la TEC dovrebbe essere stabilita in modo da non modificare i rapporti di scambio con i paesi terzi. In tal caso, sarebbero assenti gli effetti di trade diversion, la UD risulterebbe sempre generatrice di benessere e, aggregando a una ipotetica UD a due paesi un numero via via crescente di partner, si arriverebbe all’obiettivo del libero scambio mondiale. In altri termini, secondo questo approccio, il libero scambio a livello regionale costituirebbe non tanto un ostacolo quanto uno strumento per dar vita all’integrazione economica a livello globale. In ultima analisi, è questa la logica che sta alla base dell’art. IV del GATT-WTO, che abbiamo illustrato in precedenza.

Franco Praussello

Bibliografia

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