Unione economica e monetaria

Premesse storiche (1947-1969)

L’espressione “Unione economica e monetaria” e il relativo acronimo (UEM) furono introdotti alla fine degli anni Sessanta nel Trattato dell’Unione europea (TUE) per indicare il passaggio dal livello nazionale al livello comunitario europeo dei principali poteri in materia economica e monetaria. L’UEM designa anche il progetto politico nato con il Rapporto Werner nel 1970 e avente come obiettivo l’unificazione economica e monetaria della Comunità europea (v. Comunità economica europea). Tale progetto ha impresso una notevole accelerazione al processo storico, pur già avviato, di unificazione economica dell’Europa occidentale, cosicché oggi l’UEM indica anche il processo culminato nel 2002 con l’adozione della moneta unica europea (l’Euro) e la realizzazione di un’unica politica monetaria da parte della Banca centrale europea (BCE), nonché di uno stretto coordinamento delle politiche economiche nazionali.

L’idea di un’unione in campo economico e monetario non era affatto nuova per l’Europa degli anni Settanta. Già dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra il 1947 e il 1949, di fronte all’esigenza di stimolare la ripresa del commercio intereuropeo e di risolvere i problemi relativi ai pagamenti internazionali, vennero formulate molteplici proposte, sia da parte americana, sia da parte dei paesi europei percettori degli aiuti del Piano Marshall, per una più stretta cooperazione a livello monetario, fino a prevedere, in alcuni casi, formule vicine all’unificazione monetaria e alla creazione di una unica autorità monetaria europea. Questi progetti portarono alla creazione, nel 1950, della prima istituzione europea del settore, l’Unione europea dei pagamenti (UEP), che rappresentò, fino al 1958, l’unica sede in cui era possibile confrontare e in alcuni casi coordinare le politiche economiche e monetarie nazionali, permettendo la gestione multilaterale delle situazioni di crisi nei paesi dell’Europa occidentale. L’UEP non arrivò a creare una moneta unica ma introdusse, per la prima volta, un’Unità di conto europea, la European currency unit (ECU). L’ECU era una unità di conto definita con una precisa parità aurea che la rendeva equivalente al dollaro americano.

Con l’esaurirsi della spinta americana verso l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), alla fine degli anni Cinquanta, l’eredità dell’UEP venne raccolta dai sei paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) che firmarono il Trattato di Roma (1957) (v. Trattati di Roma). In esso, infatti, sebbene non si prendesse in considerazione un’Unione economica e monetaria, ma solo la creazione di un mercato comune (v. Comunità economica europea), fu mantenuto il riferimento all’ECU come unità di conto per il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), fu prevista la creazione di un Comitato monetario e di una Banca europea per gli investimenti (BEI) e venne individuato l’obiettivo della progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale (v. Libera circolazione dei capitali).

Del resto emerse ben presto la necessità di dare anche un volto monetario al mercato comune: la crescente instabilità valutaria degli anni Sessanta, contrassegnati da forti speculazioni, continue svalutazioni e rivalutazioni dovute al progressivo cedimento del Sistema monetario internazionale (SMI), cominciava a danneggiare seriamente le economie europee. Col varo, nel 1962, della Politica agricola comune (PAC), il mercato comune si dotava di nuovi strumenti per loro natura estremamente esposti alle negative ripercussioni dell’instabilità monetaria, e che quindi richiedevano protezione nei confronti dalle fluttuazioni valutarie. In questo contesto si aprì, nel corso degli anni Sessanta, un vivace confronto politico tra le diverse posizioni nazionali e quelle della Comunità. Nel 1962 la Commissione europea individuava come possibile obiettivo da realizzarsi nella fase finale della costruzione del mercato comune proprio l’unione monetaria: non si trattava di un progetto ben definito, ma a esso fece seguito, nel 1964, l’istituzione del Comitato dei governatori delle banche centrali.

La Commissione fu spinta a proporre una sempre più stretta integrazione monetaria anche dalla posizione francese riguardo ai problemi monetari. È noto che Charles de Gaulle, di fronte alle tensioni cui era sottoposto lo SMI, proponeva un generalizzato ritorno all’oro con l’intento di porre fine all’egemonia monetaria del dollaro, contemporaneamente rivendicando un ruolo più autonomo per i paesi europei. Il progetto, teso a rafforzare le nazionalità più che la Comunità europea, ebbe però l’effetto di costringere la Commissione a interrogarsi, nel 1965, davanti al Parlamento europeo, sulla validità del Sistema monetario internazionale. In quell’occasione la Commissione individuava nel progetto di unione monetaria della Comunità europea (CE) una positiva risposta alla situazione di crisi. Nonostante queste dichiarazioni di principio, però, per tutti i restanti anni Sessanta, le proposte elaborate dalla CE in ambito monetario non furono particolarmente incisive, e si dovette aspettare l’inizio del decennio successivo perché venissero prese decisioni di rilievo.

Nel mutato clima politico europeo dovuto all’uscita di scena di de Gaulle, la Francia di Georges Pompidou prese l’iniziativa convocando per il 1 e 2 dicembre del 1969 un vertice dei capi di Stato e di governo (v. Vertici) della CE all’Aia. La presenza di Willy Brandt al cancellierato tedesco facilitò il compito di trovare forti posizioni comuni anche sul piano monetario. Il Vertice dell’Aia, infatti, fece dell’UEM un obiettivo dell’azione della Comunità e chiese al Consiglio dei ministri della CE di elaborare, in collaborazione con la Commissione, un piano per la creazione di un’unione economia e monetaria, da attuarsi a tappe successive e basata sull’Armonizzazione delle politiche economiche.

Il Consiglio, però, dovette constatare, già nei primi mesi del 1970, che i paesi comunitari sostenevano posizioni assai distanti tra loro. La Francia, interessata soprattutto alla stabilità dei cambi in quanto maggior beneficiaria della PAC, proponeva, col sostegno di Belgio e Lussemburgo, che venissero prese immediatamente concrete misure in ambito monetario, lasciando ad un secondo tempo le discussioni sugli aspetti del coordinamento o dell’armonizzazione delle politiche economiche. La Germania federale, al contrario, preoccupata di dover finanziare senza limiti i disavanzi delle bilance commerciali dei paesi partner, aveva chiesto che si affrontassero prima di tutto i nodi relativi al coordinamento delle politiche economiche, per procedere solo successivamente alle misure monetarie. Nel tentativo di ricondurre a unità queste distanti posizioni, il Consiglio diede vita a un gruppo di esperti, il cosiddetto “gruppo Werner”, ovvero un comitato presieduto da Pierre Werner, allora primo ministro e ministro delle Finanze del Lussemburgo. Al Comitato prendevano parte, oltre a un rappresentante della Commissione, anche i presidenti di tutti i Comitati della Comunità che si occupassero di problemi monetari (v. Comitati e gruppi di lavoro).

Dal Rapporto del comitato Werner al “serpente” monetario (1970-1977)

Il Rapporto del gruppo Werner venne presentato nell’ottobre del 1970 col titolo Rapporto al Consiglio e alla Commissione sulla realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria della Comunità. In esso si prevedeva la creazione dell’UEM nell’arco di dieci anni attraverso tre fasi successive. Gli obiettivi ultimi erano l’irrevocabile convertibilità reciproca delle valute europee, la fissazione permanente dei tassi di cambio e la libera circolazione dei capitali. Il gruppo di esperti attribuiva grande importanza al coordinamento economico che doveva accompagnare il progressivo restringimento dei margini di fluttuazione dei tassi di cambio, nonché alla ricerca di posizioni comuni per armonizzare i sistemi fiscali, per coordinare le politiche strutturali e regionali, e per dare regole comuni alle politiche di bilancio nazionali e alle modalità di finanziamento dei deficit pubblici. A questo scopo veniva auspicata, alla fine del processo, la creazione di un centro decisionale unico per la politica economica europea e di un sistema comunitario di banche centrali.

Stabiliti questi obiettivi generali, il Rapporto si limitava ad approfondire la prima fase, che avrebbe dovuto prendere il via il 1° gennaio del 1971 e durare tre anni. In questo spazio di tempo si prevedeva di comparare le voci, sincronizzare i calendari e rendere omogenea la strumentazione delle politiche di bilancio nazionali; inoltre si considerava opportuno avvicinare i tassi delle imposte indirette e armonizzarne l’incidenza. Nel medesimo tempo, il Comitato dei governatori delle banche centrali avrebbe definito in modo coordinato la condotta in materia di tassi d’interesse e di liquidità bancaria. Per quanto concerne i cambi, secondo il Rapporto Werner si poteva procedere, all’inizio della prima fase, limitando le fluttuazioni di fatto, senza prendere impegni formali. Solo in un secondo tempo le limitazioni sarebbero state ufficializzate. Nel corso di questo periodo iniziale sarebbero stati rimossi anche i primi ostacoli alla libera circolazione dei capitali.

Nel Rapporto Werner la delineazione della seconda e della terza fase non era così dettagliata: i tempi e i contenuti non erano indicati, solo si sosteneva che al massimo nel corso della seconda fase avrebbe dovuto essere istituito il Fondo europeo di cooperazione monetaria (FECOM), destinato a trasformarsi poi nell’organo di gestione del sistema comunitario delle banche centrali. Il Rapporto Werner, dunque, faceva dell’idea di UEM un progetto politico concreto, articolato in fasi successive e graduali, secondo un’impostazione che verrà mantenuta anche nel Trattato di Maastricht.

In base a quanto previsto nel Rapporto, i progressi nel coordinamento delle politiche e l’adozione di misure in ambito monetario si sarebbero realizzati parallelamente. Questo “parallelismo”, come allora fu chiamato, nasceva dall’impossibilità di conciliare la visione francese e quella tedesca del processo di integrazione monetaria: ne nasceva un progetto tanto funzionalista (v. Funzionalismo) e gradualista che già allora venne spesso criticato per la mancanza di una visione politica complessiva. In effetti l’UEM veniva considerata come semplice “fermento” di una più profonda integrazione politica e non come parte di essa, e gli stessi organi decisionali previsti dal Rapporto sarebbero nati solo alla fine del processo indicato. In generale mancò, già al Vertice dell’Aia, un progetto politico di ampio respiro per il futuro della Comunità europea all’interno del quale collocare il processo di unificazione monetaria, che venne per lungo tempo (cioè fino al 1986) gestito in gran parte dagli accordi fra le banche centrali come fatto meramente tecnico.

I sei paesi membri si trovarono concordi sul primo passo da compiere in direzione della UEM: il Consiglio della CE, nel marzo del 1971, propose la riduzione delle fluttuazioni delle monete europee intorno alla loro parità dal ±0,75% al ±0,60% e alcune misure per armonizzare le politiche fiscali (v. anche Politica fiscale nell’Unione europea). Purtroppo, le tensioni monetarie che cominciarono a scatenarsi già in quei mesi, determinarono il fallimento di questo primo tentativo di procedere sulla strada dell’UEM. La crisi del dollaro, con le conseguenti forti speculazioni sul marco tedesco e poi sul franco francese, impose al contrario di allargare i margini di fluttuazione delle monete, mentre a livello politico i paesi comunitari si dimostrarono incapaci di concordare una strategia adeguata, mostrando tutta la fragilità delle basi politiche del progetto elaborato dal gruppo Werner. La dichiarazione americana circa l’inconvertibilità del dollaro il 15 agosto di quell’anno eliminò la possibilità di riprendere, nei mesi immediatamente successivi, il discorso interrotto a marzo.

Fu così che il Rapporto Werner si concretizzò in specifiche misure adottate dalla Comunità solo un anno più tardi, nel marzo del 1972. I paesi della Comunità reagirono al crollo dello SMI creando il cosiddetto “Serpente monetario”, in virtù del quale le Banche centrali europee sarebbero intervenute, in valuta europea, a sostegno delle monete comunitarie, al fine di mantenere fra esse una banda di oscillazione del 2,25%. Di fronte al forte attacco speculativo ai danni della sterlina inglese, però, alla Comunità non restò altro da fare che autorizzare, dopo soli due mesi, la fluttuazione libera della moneta britannica, seguita da quella irlandese e da quella francese. Una sorte simile seguì la lira italiana, che nel febbraio dell’anno successivo uscì dal serpente monetario. Nonostante le evidenti difficoltà, dal vertice dei capi di Stato e di governo di Parigi alla fine del 1972 venne una forte dichiarazione a favore dell’Unione politica e dell’Unione economica e monetaria: i paesi europei riaffermavano la loro volontà di procedere speditamente sulla strada tracciata da Werner e stabilivano che nel 1973 avrebbe visto la luce il Fondo europeo per la cooperazione monetaria.

Effettivamente creato il 3 aprile di quell’anno, il Fondo era gestito dai governatori delle banche centrali secondo le direttive impartite dal Consiglio della CE; esso aveva il compito di facilitare il meccanismo del serpente monetario, permettendo la necessaria concertazione tra banche centrali, fungendo da camera di compensazione per i debiti e i crediti che derivavano dagli interventi sul mercato valutario, finanziando a brevissimo termine tali interventi. La sede del FECOM venne collocata a Lussemburgo, e la contabilità venne tenuta in ECU.

Nonostante questo risultato concreto, il serpente monetario fu fondamentalmente un fallimento. Rispetto al momento in cui l’UEM era stata proposta, i margini di fluttuazione delle monete erano stati ampliati, la libertà dei movimenti di capitali era stata ulteriormente limitata, le politiche congiunturali, di bilancio, fiscali e regionali non erano state armonizzate. In un periodo travagliato da una profonda crisi del sistema monetario internazionale era mancata in Europa la volontà politica necessaria per procedere sulla strada dell’unione economica e monetaria e al momento di passare alla seconda fase dell’UEM, il progetto si perse nei continui rinvii da un organo all’altro della Comunità. La crisi energetica nell’ottobre del 1973 complicò ulteriormente la situazione, per cui l’obiettivo dell’UEM venne aggiornato, in parte per fattori imprevisti intervenuti sulla scena internazionale, ma anche per le divergenti politiche nazionali, una strategia economica abbozzata e una debolissima volontà politica dei suoi partecipanti.

Va comunque sottolineato che questo fallimento non fece diminuire l’interesse per l’idea che il serpente monetario incarnava. Nel 1976 il ministro olandese Wim Duisenberg si fece promotore di un piano per riprendere la concertazione sui tassi di cambio; esso incontrò, allora, l’opposizione di quei paesi, come il Regno Unito e l’Italia, che non volevano legarsi al marco tedesco in costante rialzo contro il dollaro. Il vero rilancio dell’unione economica e monetaria avvenne verso la fine del 1977, quando l’allora presidente della Commissione CE Roy Jenkins tenne un importante discorso all’Università europea di Firenze, nel quale chiedeva che nuovi e precisi impegni venissero assunti dagli Stati europei in ambito monetario.

Questo invito intendeva porre un freno all’instabilità monetaria che danneggiava notevolmente il commercio, gli investimenti e la crescita economica europea; si trattava cioè di rafforzare economicamente e politicamente l’Europa, specie in un momento in cui la potenza degli Stati Uniti risultava sempre più debole. La forza del marco tedesco cominciava a divenire fonte di preoccupazione per le stesse autorità tedesche, che quindi erano estremamente interessate a veder rientrare nel serpente monetario paesi come l’Italia, la Gran Bretagna e la Francia, anche a costo di dover aumentare gli aiuti concessi per sostenere le parità. In questo quadro si inserì la proposta del cancelliere tedesco Helmut Schmidt, presentata al Vertice di Copenaghen del 7 e 8 aprile 1978, per una rinnovata integrazione economica e monetaria.

Dal sistema monetario europeo al Rapporto Padoa-Schioppa (1978-1987)

I paesi che allora erano fuori dal serpente monetario posero come condizione essenziale, oltre a un sostanziale aumento dei fondi destinati al sostegno dei cambi, che si tenesse debitamente conto dei rapporti monetari con i paesi terzi, in modo che fosse posto un limite alla pressione che il marco tedesco, apprezzandosi sul dollaro, poteva esercitare sulle altre monete europee. Nacque così, dopo la forte dichiarazione uscita dal Consiglio europeo di Brema del 6-7 luglio del 1978 a favore di una maggiore integrazione monetaria, l’idea di agganciare le divise europee a un’unità di conto definita come paniere.

Il Sistema monetario europeo (SME) si definì dunque come accordo internazionale di cambio fra le monete dei paesi membri della Comunità, sancito da una risoluzione del Consiglio europeo del 4-5 dicembre 1978. Esso entrò in vigore solo il 13 marzo del 1979 a seguito di un accordo tra i governatori delle banche centrali dei paesi aderenti. Le monete che parteciparono all’accordo furono il marco tedesco, il franco francese, il fiorino olandese, il franco belga, la lira italiana, la sterlina irlandese, la corona danese, il franco lussemburghese. Il Regno Unito non partecipò inizialmente allo SME, ma ottenne che la sterlina fosse introdotta nel paniere dell’ECU, legandosi dunque solo informalmente al sistema. Successivamente entrarono nel sistema anche la peseta spagnola, lo scellino austriaco, lo scudo portoghese e il marco finlandese. La lira italiana abbandonò il sistema il 17 settembre 1992, rientrandovi il 26 novembre 1996.

Il sistema elaborato per lo SME prevedeva un’innovazione considerevole rispetto a quanto già sperimentato col serpente monetario. Il principio era quello di tassi di cambio stabili ma aggiustabili, basati su un cambio centrale stabilito in relazione all’ECU. L’ECU veniva ora sganciato dal valore del dollaro e definito non più con una parità aurea che rimandava alla moneta statunitense, bensì come media ponderata delle singole monete partecipanti allo SME. Crollato il sistema fondato a Bretton Woods, l’ECU diveniva insomma un’unità di conto basata sulle valute europee. Venne costruita una rete di tassi di cambio bilaterali, fissati rispetto all´ECU, e venne stabilito un margine di fluttuazione tra le valute compreso tra +/-2,25%, con l’eccezione dei paesi a forte inflazione, come l’Italia, cui fu concessa una banda di oscillazione di +/-6%. Era ciò che venne definito Exchange rate mechanism (ERM): una volta fissate le parità e i margini di fluttuazione, se una valuta contro ECU usciva dai margini delle rispettive bande, le autorità monetarie avevano l’obbligo di intervenire a favore di questa moneta debole, evitando, se possibile, il riallineamento della valuta, che veniva visto come ultima possibilità. Le modifiche delle parità non erano escluse a priori, ma si decise che esse avrebbero dovuto incontrare l’approvazione unanime degli Stati membri e della Commissione CE.

In questo modo, per la prima volta una parte del potere decisionale in materia monetaria veniva delegata a un’istituzione sovranazionale europea (v. anche Istituzioni comunitarie). La Comunità europea diventava così la prima responsabile nella gestione dei problemi di cambio e di pagamenti tra paesi comunitari, vincolando quindi indirettamente anche le altre scelte di politica economica nazionale.

I riallineamenti monetari erano disincentivati dal nuovo meccanismo di cambio e, sebbene già il 24 settembre 1979 vi fosse un ritocco delle parità stabilite, col tempo i tassi si dimostrarono sempre più stabili. Nel corso degli anni Ottanta il Sistema monetario europeo si rivelò dunque un positivo tentativo di concertazione europea in materia di tassi di cambio, che spingeva a guardare con favore alla prospettiva di una liberalizzazione dei movimenti dei capitali.

La commissione presieduta da Jacques Delors (v. anche Presidente della Commissione europea) presentò nel 1985 un libro bianco (v. Libri bianchi) sull’obiettivo del completamento del mercato comune, che implicava anche la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Con la firma dell’Atto unico europeo veniva finalmente “comunitarizzato” il Sistema monetario europeo e si stabiliva che il mercato interno unico avrebbe visto la luce il 1° gennaio 1993 (v. Mercato unico europeo). Al fine di preparare le condizioni adeguate, gli Stati si impegnavano a cercare una forma di maggiore coesione economica e di più stretta cooperazione monetaria.

Nel 1985 il tema dell’unione economica e monetaria emerse anche in relazione all’Allargamento della Comunità a Spagna e Portogallo. In un importante documento della Comunità, voluto dalla Commissione nel 1986 e redatto da un comitato di studio presieduto da Tommaso Padoa-Schioppa, si analizzavano gli effetti dell’allargamento sul progetto di mercato interno senza frontiere, giungendo a formulare indicazioni importanti sulle questioni economiche e monetarie. Il comitato di studi presentò, nell’aprile del 1987 un rapporto dal titolo Efficienza, stabilità ed equità. Una strategia per l’evoluzione del sistema economico della Comunità economica europea (v. Padoa-Schioppa, 1988) nel quale si notava come la microeconomia europea fosse ormai caratterizzata dalla complementarietà, e come fosse necessario cercare la compatibilità dei sistemi economici piuttosto che la loro armonizzazione; in questo senso il rapporto indicava chiaramente la necessità, per l’Europa comunitaria di una guida politica economica che avrebbe dovuto permettere agli Stati membri tra il 1986 il 1992 di costruire le condizioni necessarie per l’avvento del mercato unico. In primo luogo, per assicurare la stabilità monetaria sarebbe stato necessario un maggior coordinamento delle politiche macroeconomiche e un potenziamento del Sistema monetario europeo: la liberalizzazione dei movimenti di capitali, infatti, avrebbe progressivamente dato origine ad una struttura finanziaria unitaria, i cui shock di dimensioni europee non avrebbero potuto essere gestiti dalle singole autorità nazionali. In secondo luogo, sarebbe stato opportuno avviare politiche economiche a livello comunitario in grado di allocare le risorse economiche in modo efficiente. Infine, sebbene il rapporto non analizzasse il problema in modo dettagliato, si affermava che comunque il sistema necessitava di maggiori capacità di redistribuzione, per rendere l’intero meccanismo più equo. Il richiamo a una più incisiva guida economica europea veniva accompagnata da un acceso sostegno al Principio di sussidiarietà, che avrebbe dovuto impedire gli aberranti effetti di un accentramento eccessivo.

Contemporaneamente al Rapporto Padoa-Schioppa, anche i positivi sviluppi del mercato unico spingevano da tempo i paesi europei ad adottare una strategia per migliorare ulteriormente queste performance. Gli elevati costi di transazione valutaria erano ormai considerati un ostacolo non trascurabile, in grado di impedire, con il passare del tempo, la completa realizzazione della libera circolazione di capitali, Libera circolazione delle merci e Libera circolazione dei servizi. Inoltre, l’autonomia monetaria dei singoli Stati membri si stava dimostrando incompatibile con gli obiettivi della Comunità, specie quello dei tassi di cambio fissi.

Dal comitato Delors alla realizzazione delle prime due “fasi” dell’UEM (1988-1998)

Nel 1988, durante il Consiglio Europeo che si tenne a Hannover il 27 e 28 giugno, venne ribadito l’impegno della Comunità a creare una unione economica e monetaria e fu nominato un comitato per studiarne modalità e tempi. Il comitato fu presieduto dall’allora presidente della Commissione, Jacques Delors, e vide la partecipazione dei governatori delle banche centrali degli Stati membri e di Alexandre Lamfalussy, direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali, di Niels Thygesen e Miguel Salvador Boyer, rispettivamente professore di economia in Danimarca e presidente del Banco exterior de España. Le conclusioni unanimi cui esso pervenne nel Rapporto sull’unione economica e monetaria presentato il 12 aprile 1989, definirono l’“obiettivo UEM” come già lo aveva definito il comitato Werner: in ambito monetario si prevedeva la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, la totale e irrevocabile convertibilità delle monete comunitarie, i tassi di cambio fissi con l’eliminazione delle bande di fluttuazione. Nel Rapporto Delors veniva infine individuato l’obiettivo possibile di una sostituzione delle monete nazionali con un’unica valuta europea per permettere l’integrazione del mercato finanziario. In ambito economico il rapporto chiedeva la creazione del mercato unico, accompagnato dal coordinamento delle politiche economiche, delle politiche strutturali e regionali, sostenute da più incisive politiche per la concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza). Inoltre, il Rapporto Delors considerava necessario un energico impegno da parte dei governi nazionali perché venisse tenuta sotto controllo la spesa pubblica, soprattutto in materia di deficit di bilancio, al suo ammontare e ai metodi di finanziamento. Il comitato individuava tre fasi successive per conseguire i traguardi indicati, passando dallo stretto coordinamento economico e monetario alla moneta unica e a un ancora ipotetico Istituto monetario europeo (IME). Quest’ultimo avrebbe dovuto essere, secondo gli esperti, assolutamente indipendente dalle autorità nazionali nell’esercizio delle sue funzioni.

Discusso nel corso del Consiglio europeo di Madrid, tenutosi il 26 e 27 giugno 1989, il Rapporto Delors venne infine approvato. In base a quanto deciso allora dai capi di Stato e di governo dei dodici membri della Comunità il 1° luglio 1990 iniziò la prima fase dell’UEM, durante la quale i movimenti di capitali tra paesi comunitari furono liberalizzati. Vennero inizialmente esclusi da queste misure il Portogallo, la Spagna, la Grecia e l’Irlanda che non avevano ancora raggiunto sufficienti livelli di integrazione finanziaria. Per quanto concerne le scelte di politica economica fu attivato un meccanismo che permetteva lo stretto coordinamento delle politiche economiche nazionali. Ogni Stato aveva l’obbligo di attenersi alle regole del libero mercato e tendere a una convergenza economica con gli altri paesi europei, considerando le proprie politiche economiche come politiche di interesse comune. Il Consiglio europeo, a Maggioranza qualificata, stabiliva gli indirizzi economici di massima, che dovevano guidare l’azione dei singoli governi nazionali. Contemporaneamente il Consiglio attuava un meccanismo di sorveglianza multilaterale: tutti i paesi erano infatti tenuti a trasmettere i propri dati economici alla Commissione perché essa potesse controllarne periodicamente l’andamento. Qualora un paese si fosse trovato in difficoltà, il Consiglio poteva approvare raccomandazioni o misure di sostegno finanziario.

La prima fase, conclusasi il 31 dicembre 1993, fu dunque caratterizzata principalmente dallo smantellamento delle barriere interne alla libera circolazione dei capitali. Questo tipo di processo, inserendosi nel quadro delle liberalizzazioni interne al mercato europeo voluto dall’Atto unico, non rappresentò un salto di qualità rispetto a quanto già definito dai Trattati comunitari (v. Trattati) e quindi non richiese particolari legittimazioni. Con l’avvicinarsi, però della fine del 1993, i governi europei si resero conto che, se si intendeva proseguire lungo la strada indicata dal Rapporto Delors era necessario modificare i trattati in modo da inserire l’Unione economica e monetaria come nuovo obiettivo comunitario. Spingeva positivamente in questa direzione il successo registrato per più di un decennio dallo SME. Esso aveva assicurato all’Europa una sostanziale stabilità valutaria, favorendo la convergenza verso un’inflazione generalmente più bassa. Anche nel fronteggiare la severa crisi economica del 1992-1993, che portò all’ampliamento della banda di oscillazione al 15% e alla temporanea uscita dell’Italia dal sistema, lo SME si dimostrò capace di reggere, mantenendo un ruolo stabilizzatore per le monete europee.

Il Consiglio europeo di Strasburgo, tenutosi l’8 e 9 dicembre 1989 stabilì dunque che venisse convocata una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) per l’inserimento dell’UEM nel quadro istituzionale della Comunità. La conferenza iniziò i suoi lavori il 15 dicembre del 1990, contemporaneamente a un’altra Conferenza intergovernativa che aveva il compito di gettare le basi per l’unione politica. Il 2 febbraio 1992 venne firmato il Trattato sull’Unione europea (TUE), più noto come Trattato di Maastricht, dal nome della località olandese in cui venne firmato. Esso apportò varie e profonde modifiche al Trattato di Roma del 1957, del quale purtroppo non ha il nitore e la scorrevolezza: risultato dei lavori di due distinte conferenze, esso risulta spesso di difficile lettura.

Il Trattato di Maastricht istituì un’Unione europea con un’implicita vocazione federale (v. Federalismo). Ma mentre attribuì un ruolo modesto ai cosiddetti due nuovi pilastri dell’unione politica (v. Pilastri dell’Unione europea), ovvero la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione nel settore della Giustizia e Affari interni (GAI), in ambito economico e monetario introdusse un impegno formale alla realizzazione dell’Unione, fissando un termine ultimo per l’adozione della moneta unica (il 1999) e definendo un processo articolato in tre fasi per il raggiungimento dell’obiettivo.

Il Trattato entrò in vigore il 1° novembre 1993, dopo un laborioso processo di ratifica da parte degli Stati membri durato quasi due anni. A Maastricht l’Inghilterra e la Danimarca ottennero la facoltà di opt-out, che prevede la possibilità di entrare nella terza fase dell’UEM in seguito a una decisione presa dai rispettivi governi e parlamenti.

L’UEM, oltre all’instaurazione di un mercato comune e all’attuazione di politiche e azioni comuni, aveva il fine, secondo il Trattato di Maastricht, di promuovere uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche dell’insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e rispettosa dell’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e protezione sociale, il miglioramento del tenore di vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà tra Stati membri. L’UEM prevedeva la realizzazione di una politica monetaria unica in ambito europeo come logico completamento del mercato interno.

L’Unione economica e monetaria si realizzava in tre fasi, delle quali la prima, conclusasi il 31 dicembre 1993, era in corso al momento della firma del TUE, essendo iniziata il 1° luglio 1990. Essa richiese soprattutto un maggior coordinamento delle politiche monetarie, che significò di fatto per i paesi europei adeguarsi alla politica dei tassi tedeschi, che era la più stabile.

La seconda fase iniziò il 1° gennaio 1994 e terminò il 31 dicembre 1998; con essa venne vietato alle banche centrali degli Stati membri, all’Istituto monetario europeo, alle Istituzioni comunitarie e a ogni altro ente pubblico di agevolare gli Stati membri con facilitazioni di credito. Venne richiesta, inoltre, la convergenza su alcuni parametri ben precisi, ovvero: un disavanzo pubblico non superiore al 3% del PIL e un debito pubblico non superiore al 60% del PIL. Su questi aspetti il Consiglio mantenne il sistema di sorveglianza multilaterale: nel caso in cui un paese deviasse dai parametri stabiliti veniva emessa una Raccomandazione che, qualora non fosse stata accolta, poteva essere resa pubblica, con le immaginabili conseguenze per il prestigio e rispettabilità internazionale dello Stato incriminato.

Con il 1° gennaio 1994, e l’avvio della seconda delle tre fasi dell’UEM, in base a quanto previsto dal Trattato di Maastricht, fu creato l’Istituto monetario europeo (IME). Le principali finalità dell’IME furono due. Da un lato vi era il rafforzamento della cooperazione fra le autorità monetarie europee, che permise un maggior coordinamento delle politiche monetarie; dall’altro l’IME doveva creare le condizioni per il passaggio alla fase finale dell’Unione economica e monetaria, quando sarebbe entrata in funzione la Banca centrale europea e il Sistema europeo di banche centrali (SEBC). A questo scopo l’istituto creò il quadro regolamentare, organizzativo e logistico ereditato poi dalla BCE e dal SEBC.

Per il periodo in cui visse, l’IME controllò anche il buon funzionamento dello SME, gestì i meccanismi di sostegno finanziario tra gli Stati membri e amministrò quella parte di riserve ufficiali che le singole banche centrali nazionali avevano trasferito all’Istituto al momento della sua creazione. Le banche centrali dei paesi aderenti all’UE, infatti, avevano contribuito, come previsto dall’articolo 16.2 dello Statuto dell’IME, alle risorse proprie dell’Istituto. L’Istituto pubblicò ogni anno un rapporto sui progressi verso la convergenza, nonché studi e rapporti sulla preparazione alla terza fase. Svolse anche una funzione consultiva; il Consiglio infatti si è spesso rivolto all’IME per le proposte di atti comunitari concernenti la sua sfera di competenza.

Dal punto di vista monetario, però, la seconda fase non fu caratterizzata solo dalla creazione dell’Istituto monetario europeo, ma soprattutto dall’obbligo per gli Stati partecipanti di convergere sui tre criteri fissati dal TUE: cambi stabili, bassa inflazione, tassi d’interesse stabili. Lo Stato candidato, per essere ammesso alla unione monetaria vera e propria, doveva aver fatto parte del Sistema monetario europeo per almeno due anni senza procedere a svalutazioni o rivalutazioni. Inoltre, la sua inflazione media annuale non poteva superare più dell’1,5% quella dei tre paesi partecipanti con inflazione più bassa. I tassi medi d’interesse a lungo termine, infine, non potevano superare più del 2% quelli dei tre paesi con inflazione più bassa. In questo modo, venivano poste le basi per quella convergenza economica e monetaria che avrebbe permesso il passaggio all’ultima fase.

La “terza fase” dell’UEM e la nascita della moneta unica europea (1999-2002)

Nel Trattato di Maastricht l’inizio dell’ultima fase era previsto per il 1997, con la possibilità di posticiparlo al 1999. In realtà, già nel 1995 ci si rese conto che la prima data era irrealistica, dato che nessuno dei paesi firmatari del TUE adempiva allora ai criteri di convergenza. Nel corso del Consiglio europeo di Madrid, tenutosi il 15 e 16 dicembre 1995, venne dunque stabilito che la terza fase sarebbe iniziata il primo gennaio 1999. Contemporaneamente venne scelto il nome “euro” per la nuova moneta europea, vennero stabiliti i tagli delle banconote e le tappe per la sua introduzione. Infine, venne precisato il quadro giuridico dell’euro durante la transizione. L’anno successivo, nel corso del vertice di Dublino del 16 dicembre, vennero approvate anche le misure necessarie a spingere i paesi partecipanti verso i criteri di convergenza fissati a Maastricht. Si trattava del Patto di stabilità e crescita che attribuiva alcuni poteri aggiuntivi al Consiglio economico e finanziario, ovvero il Consiglio europeo riunito a livello dei ministri delle Economie e delle Finanaze dei paesi memebri. Essi avrebbero operato una stretta sorveglianza sulle politiche di bilancio, strutturali e tributarie di ogni singolo paese, e avrebbero formulato gli indirizzi di massima per le politiche economiche di quelli dell’area dell’euro. Il Patto di stabilità riconosceva inoltre al Consiglio economico e finanziario il potere di adottare misure preventive e misure dissuasive nei confronti dei paesi che non presentassero i conti in regola al fine di impedire il definitivo allontanamento dai parametri di Maastricht. Lo Stato che si fosse avvicinato ai limiti dei criteri di convergenza avrebbe subito un primo richiamo, con lo scopo di prevenire lo sfondamento dei parametri. Qualora ciò fosse avvenuto, comunque, il Consiglio poteva stabilire sanzioni, anche pesanti. Nel caso in cui un paese superasse il 3% nel rapporto disavanzo/PIL era tenuto a fare un deposito fruttifero pari allo 0,2% del PIL, più uno 0,1% del PIL per ogni punto percentuale o frazione di sfondamento del tetto del 3%. Se, nell’arco di due anni, la situazione non fosse rientrata nella normalità, il deposito non sarabbe più stato restituito. Ovviamente erano ammesse eccezioni: la regola non si applicava a un paese con una grave recessione in atto e una riduzione del PIL maggiore o uguale al 2%; quando la riduzione del PIL era minore o in altri casi eccezionali, sarebbe stato il Consiglio economico e finanziario a decidere a maggioranza se procedere con le sanzioni.

Come è stato detto, la terza fase dell’UEM era definita dal Trattato di Maastricht solo in modo sommario come fase di passaggio alla moneta unica, fase che avrebbe dovuto iniziare al più tardi nel 1999. Gli aspetti operativi e tecnici del passaggio non erano stati fissati, in modo che, a tempo debito, la Commissione, l’Istituto monetario europeo (IME) e il Consiglio economico e finanziario potessero decidere in base alla situazione contingente. Così, partendo da proposte della Commissione e dell’Istituto monetario europeo, i contenuti e i tempi del passaggio all’euro furono fissati nel 1995 dal Consiglio europeo di Madrid. Anche allora si decise di dividere il restante percorso verso l’euro in tre tappe, che vennero poi effettivamente rispettate. In un primo momento, ovvero nel corso del 1998, furono selezionati i paesi che potevano entrare nell’area dell’euro, attraverso la constatazione dell’aderenza di ciascuno di essi ai criteri fissati nel Trattato di Maastricht. Questo primo periodo fu seguito dalla vera e propria transizione, dal 1° gennaio 1999 al 31 dicembre 2001, nel corso della quale l’euro ebbe esistenza solo come moneta scritturale. Infine, l’ultimo momento fu rappresentato da un breve periodo, ovvero i primi sei mesi del 2002, nel quale euro e monete nazionali convissero.

Il 1998 fu dunque l’anno delle decisioni più importanti. L’avvenimento decisivo riguardò la designazione dei paesi membri che, avendo rispettato i parametri di convergenza stabiliti, poterono poi accedere alla transizione. Sulla base dei rapporti della Commissione europea e dell’Istituto monetario europeo pubblicati il 25 marzo 1998, il Consiglio di Bruxelles del 2 e 3 maggio 1998, riunito a livello di capi di Stato e di governo individuò i quattordici paesi che avrebbero potuto introdurre l’euro già dal 1° gennaio 1999, venendo dunque a far parte del cosiddetto “primo gruppo”: si trattava di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia. L’unico paese a non avere i conti in regola era la Grecia, con un deficit superiore al 4% del PIL, un debito pari al 108,7 del PIL, un’inflazione media del 5,2% contro il 2,7% degli altri paesi e tassi d’interesse medi attorno al 9,8% a fronte del 7,8% di media europea. Altri tre paesi rinunciarono a entrare a far parte dell’euro immediatamente: il Regno Unito, per motivi politici; la Svezia che aveva un’opinione pubblica fortemente contraria e la Danimarca che doveva fare i conti con quel diffuso Euroscetticismo che l’aveva già costretta, dopo l’esito negativo del referendum per la ratifica del Trattato di Maastricht del 2 giugno 1992, a ritardare di un anno (18 maggio 1993) la propria adesione al programma dell’UEM.

Il Trattato di Maastricht prevedeva che una revisione delle candidature fosse possibile ogni due anni, a meno che uno Stato, rispettando i parametri prestabiliti, non ne facesse esplicita richiesta prima dello scadere di questo termine. Era quindi possibile in qualunque momento che i membri non partecipanti si unissero ai paesi che già avevano deciso di adottare l’euro. In ogni caso, la prima scadenza per la revisione delle candidature fu prevista prima dell’introduzione effettiva della moneta unica, nella speranza che tutti e quindici i paesi della Comunità potessero partecipare all’ultima fase dell’UEM. In realtà solo la Grecia sfruttò questa opportunità dimostrando di aver rispettato i parametri di Maastricht ed entrando nel periodo di transizione il 1° gennaio 2001. In Danimarca, un referendum sull’adozione dell’euro tenuto il 28 settembre del 2000 ebbe esito negativo, con il 53,2% di voti contrari. Svezia e Gran Bretagna rimasero volontariamente fuori dall’area dell’euro. Quando, il 14 settembre 2003, venne fissata una consultazione referendaria in Svezia, il 56,1 della popolazione si pronunciò contro la sostituzione della moneta svedese con l’euro.

Nel corso del Consiglio europeo del 2 maggio 1998 vennero stabilite anche le parità bilaterali che si sarebbero trasformate, col 1° gennaio dell’anno successivo, in parità immodificabili tra valuta nazionale ed euro. Nella stessa sede istituzionale venne effettuata la scelta del presidente, del vicepresidente e dei membri degli organi direttivi della Banca centrale europea. Il presidente designato fu Wim Duisemberg e il suo vice Christian Noyer; Jacques Chirac, il presidente francese, pretese però un accordo verbale in base al quale a metà mandato Duisemberg avrebbe lasciato il posto a Jean-Claude Trichet e Noyer a Lucas D. Papademos. A partire dal 1° giugno 1998 la BCE divenne operativa: cominciò a introdurre e testare gli strumenti di politica monetaria e i sistemi di pagamento in euro che sarebbero entrati in funzione di lì a sei mesi, nonché a coniare le nuove monete metalliche e a stampare le nuove banconote di euro. La veste grafica delle nuove monete era stata scelta attraverso un concorso indetto nel 1996; la stampa e il conio materiale vennero realizzato dalle banche centrali nazionali.

Nel corso del 1998 gli Stati membri dovettero provvedere individualmente al recepimento di tutta la legislazione comunitaria in materia monetaria, nonché all’adeguamento di quella nazionale, al fine di rendere possibile l’introduzione dell’euro. Il quadro giuridico che premetteva l’adozione dell’euro era stato varato durante il Consiglio di Madrid del 1995 e si era concretizzato poi in due Regolamenti, uno del 1997 (CE n. 1103/97 del 17/6/1997) e l’altro del 1998 (CE n. 974/98 del 3/5/1998), che definivano lo status delle monete nazionali e dell’euro nel corso del periodo di transizione. Ai governi nazionali, poi, fu attribuita la responsabilità di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’imminente entrata in circolazione della moneta unica, al fine di facilitare la conoscenza e la familiarizzazione dei cittadini europei con la nuova moneta, prima ancora che essa entrasse in circolazione. Durante questa prima tappa, però, gli sforzi organizzativi più consistenti si concentrarono sull’adeguamento tecnico dei mercati finanziari, del sistema bancario e imprenditoriale, che per primi sarebbero stati coinvolti dal debutto del periodo transitorio.

La transizione, di tre anni di durata, costituì il momento di passaggio vero e proprio, in quanto durante questo periodo l’euro funzionò a ogni livello con la sola esclusione della circolazione materiale. Con il 1° gennaio 1999 vennero fissati irrevocabilmente i tassi di cambio di ciascuna moneta europea nei confronti dell’euro. Precisamente un euro valeva: 40,3399 franchi belgi e lussemburghesi, 1,95583 marchi tedeschi, 166,386 pesete spagnole, 6,55957 franchi francesi, 0,787564 sterline irlandesi, 1936,27 lire italiane, 2,20371 fiorini olandesi, 13,7603 scellini austriaci, 200,482 scudi portoghesi, 5,94573 marchi finlandesi (la parità della moneta greca venne fissata nel 2001; un euro allora valeva 340,75 dracme). A partire da quel momento l’ECU cessò di esistere e fu sostituito dall’euro; con l’ECU morì anche lo SME sostituito da altri accordi di cambio tra area dell’euro e i paesi dell’Unione europea (UE) che avevano scelto di mantenere la valuta nazionale. Entrò quindi in vigore la legislazione sullo status dell’euro che fino al 2001 visse solo come moneta scritturale, mentre circolavano ancora le monete nazionali.

Nella fase di transizione l’euro doveva essere usato obbligatoriamente nel settore creditizio e pubblico. Ogni Stato dovette trasformare il proprio debito estero in euro. Facoltativo, invece, era l’uso dell’euro come moneta scritturale per aziende e famiglie. Per quanto attiene ai sistemi di pagamento quali assegni, trasferimenti, carte di credito, essi furono progressivamente convertiti nella nuova moneta. La gestione e la sorveglianza di questo processo vennero affidate alle banche centrali dei singoli paesi, che agirono in accordo con la BCE. Dal 1999 i mercati finanziari (interbancario, monetario, cambi e capitali) poterono provvedere alla contabilizzazione in euro delle loro attività. Anche le pubbliche amministrazioni cominciarono a redigere un calendario per l’utilizzo dell’euro nelle operazioni che le coinvolgevano direttamente, quali, per esempio, la riscossione delle tasse e la gestione dell’assistenza sociale. In questa seconda fase il singolo cittadino poteva entrare in contatto con la nuova moneta optando per la gestione in euro dei propri conti bancari e dei propri investimenti.

Il ruolo della Banca centrale europea e del Consiglio economico e finanziario

Con la nascita legale dell’euro anche la Banca centrale europea e il Sistema europeo di banche centrali assunsero pienamente le loro funzioni. La sede del Sistema fu fissata a Francoforte sul Meno, nella eurotower. Il SEBC è una struttura di natura federale che riunisce tutte le banche centrali nazionali e la Banca centrale europea. All’interno del Sistema vi è il cosiddetto “eurosistema” che comprende la BCE e le banche centrali nazionali dei soli paesi che hanno adottato l’euro. Il SEBC è dunque un complesso di organismi comunitari e nazionali che ha come primo obiettivo il mantenimento della stabilità dei prezzi. Solo in seconda istanza il Sistema ha il compito di sostenere gli indirizzi generali di politica economica fissati dalla Unione europea. Il Sistema determina la politica monetaria nell’area dell’euro, fissando gli obiettivi intermedi di politica monetaria e manovrando gli strumenti (soprattutto tassi di interesse); esso regola l’emissione di banconote e monete, svolge operazioni sui cambi, detiene e gestisce le riserve ufficiali in valuta estera di tutti i paesi partecipanti, controlla il regolare funzionamento di tutti i sistemi di pagamento, concorre con altre autorità a vigilare sul comportamento degli enti creditizi e sulla stabilità del sistema finanziario. Quest’ultimo compito fu uno dei più controversi in sede di definizione delle funzioni del SEBC, poiché in alcuni paesi la banca centrale non ha poteri di controllo sul settore creditizio e finanziario.

Lo statuto del Sistema garantisce l’indipendenza istituzionale, funzionale, finanziaria e contabile dell’istituzione. All’interno del Sistema un ruolo di primo piano è ricoperto dalla Banca centrale europea, che è a tutti gli effetti una banca centrale, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti, dove il Federal reserve system non ha funzioni operative. La BCE ha un capitale di 5 miliardi di euro, versati in quote diverse dai singoli paesi membri. La quota è calcolata tenendo conto della popolazione di ciascuno Stato e del suo prodotto interno lordo. I paesi che fanno parte del sistema ma non dell’area dell’euro, versano il 7% della loro quota (fino al 2004 era solo il 5%) quale contributo alle spese della Banca.

I principali organi direttivi della BCE sono il Consiglio direttivo, il Comitato esecutivo (o Direttorio) e il Consiglio generale. Il Comitato esecutivo è composto da 6 membri, incluso il presidente, scelti dai capi di Stato e di governo dei paesi che hanno adottato l’euro dopo aver consultato il Parlamento europeo e il Consiglio direttivo della Banca centrale europea. Essi restano in carica per 8 anni e il loro mandato non può essere rinnovato. Il presidente e il vicepresidente del Comitato esecutivo sono il presidente e il vicepresidente della Banca centrale europea. Il Comitato attua le politiche monetarie che il Consiglio direttivo ha adottato, si occupa dell’amministrazione della BCE, prepara le riunioni del Consiglio direttivo. Le votazioni avvengono a maggioranza semplice con preponderanza del voto del presidente in caso di parità.

Il Consiglio direttivo è invece formato dai 6 membri del Comitato esecutivo e dai dodici governatori delle banche centrali dei paesi appartenenti all’area dell’euro. Anche quest’organo delibera a maggioranza con voto preponderante del presidente. Il Consiglio direttivo ha il compito di formulare la politica monetaria, di fissare gli obiettivi intermedi e i tassi di riferimento. Stabilisce quale debba essere l’offerta di riserve del Sistema europeo di banche centrali, delibera sulle quote che ogni paese deve versare, controlla il livello di liquidità effettuando operazioni di mercato aperto, fissando la riserva minima obbligatoria, gestendo il credito attraverso i tassi di interesse.

Nel Consiglio generale siedono i governatori di tutte le banche centrali dei paesi dell’Unione europea, il presidente e il vicepresidente della BCE; possono partecipare, senza diritto di voto, gli altri membri del Comitato esecutivo, il presidente della Commissione e quello del Consiglio dell’Unione europea (v. Presidenza dell’Unione europea). Le banche centrali nazionali degli Stati membri della UE ma non aderenti all’area dell’euro beneficiano di una speciale deroga che consente loro di condurre la propria politica monetaria; pertanto, esse non prendono parte alle decisioni riguardanti l’area dell’euro né alla loro attuazione. Il Consiglio generale è un organo transitorio che sarà sciolto nel momento in cui tutti i paesi dell’Unione avranno adottato l’euro. Fino ad allora il Consiglio avrà compiti simili a quelli che furono dell’IME, ovvero quello di coordinare le azioni delle banche centrali nazionali, e quello di raccogliere dati statistici. Ogni anno la Banca centrale europea è tenuta a redigere una dettagliata relazione sulla sua attività.

Se il SEBC, e in particolare la BCE, è l’autorità responsabile in fatto di politica monetaria, in materia di coordinamento economico il massimo organo responsabile a livello comunitario resta il Consiglio economico e finanziario (ECOFIN), composto dai ministri economici e finanziari di tutti i paesi dell’Unione; esso delibera a maggioranza qualificata. Ha il compito di stabilire gli indirizzi di massima relativi alle maggiori scelte di politica economica, di sorvegliare ed eventualmente sanzionare i singoli paesi in base al Patto di stabilità e crescita, e di indicare gli orientamenti da seguire nella politica dei cambi. Immediatamente prima di ogni riunione del Consiglio Ecofin i soli paesi partecipanti all’area dell’euro si riuniscono nel cosiddetto “eurogruppo”, nel quale vengono discussi i problemi di stretta pertinenza euro. I lavori del Consiglio Ecofin sono preparati dal Comitato economico e finanziario che dal 1° gennaio 1999 ha sostituito il Comitato monetario della Comunità europea. Questo Comitato, nel quale siedono 2 rappresentanti della Commissione europea, 2 rappresentati della BCE, e 2 rappresentanti di ciascuno Stato della Unione europea ha, tra l’altro, il compito di monitorare costantemente la situazione economica dei paesi aderenti all’UE, anche se ancora non inseriti nell’area dell’euro.

Nota conclusiva

A partire dal 1° gennaio 2002, ovvero con l’inizio della terza fase, l’euro veniva messo in circolazione, rendendo così definitivi i cambiamenti pianificati o parzialmente introdotti dal 1999. La distribuzione delle nuove monete avveniva nel corso degli ultimi mesi del 2001 partendo dagli istituti bancari fino agli esercizi commerciali. Il 3 gennaio 2002 il 96% degli sportelli bancomat erogava banconote della nuova valuta. Fino al 30 giugno 2002 l’euro circolò accanto alle divise nazionali ma già a marzo la sostituzione poteva dirsi avvenuta. Infine, il 30 giugno 2002, le monete nazionali furono private del loro status legale, e l’euro diventò l’unica moneta di paesi europei, ai quali si aggiunsero, per ovvie ragioni San Marino, Città del Vaticano, Andorra e il Principato di Monaco. Si creò così un’area monetaria seconda solo agli Stati Uniti d’America, che nel 2002 copriva il 15,7% del prodotto interno lordo mondiale.

Restano ancora fuori dall’Unione economica e monetaria il Regno Unito, la Svezia e la Danimarca, oltre ai dieci paesi entrati nell’Unione europea nel 2004. Per costoro vige un accordo di cambio detto Exchange rate mechanism II (ERM II), simile a quello in funzione nel periodo dello SME, che permette un’oscillazione massima delle valute del 15% rispetto all’euro. In questo modo viene tutelata la stabilità valutaria dell’intera area dell’Unione e si pongono le basi per la futura introduzione dell’euro nei paesi per ora esclusi.

Daniela Bianchi (2007)