Wigny, Pierre

Costituzionalista e uomo politico belga, W. (Liegi 1905-Bruxelles 1986) è stato un esponente della corrente fiamminga del Partito cristiano-sociale e si è distinto sia nella politica nazionale, ricoprendo importanti incarichi istituzionali sia nella prima fase del processo d’integrazione europea in qualità di rappresentante del parlamento belga all’Assemblea comune della prima Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

Figlio di un avvocato, W. intraprese gli studi giuridici nella sua città e dopo la laurea in Scienze politiche e sociali si specializzò in diritto internazionale seguendo un master presso l’Università di Harvard negli Stati Uniti, dove ottenne un dottorato in scienze giuridiche. Per un certo periodo fu professore aggregato di diritto internazionale nella prestigiosa università statunitense e nel 1932, in seguito agli studi compiuti, pubblicò un saggio sul diritto internazionale americano (Essai sur le droit international privé american), studio che rimase a lungo un valido riferimento scientifico per i ricercatori del settore.

Rientrato in Belgio, W. fu nominato segretario generale del Centro studi per la riforma dello Stato (Centre d’Etudes pour la réforme de l’Etat, CERE), dove condusse attività di ricerca nell’ambito del diritto internazionale e del diritto interno dal 1935 al 1939. Durante gli anni Trenta si schierò contro il partito fascista belga di matrice cattolica, il Parti rexiste (REX) e contro la direzione del movimento Pro Juventute. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale e in seguito all’invasione e all’occupazione del Belgio da parte della Wehrmacht militò nella Resistenza antinazista, collaborando tra il 1944 e il 1945 con l’ex primo ministro belga Paul van Zeeland, il quale allora era a capo della Commissione per il rimpatrio dei rifugiati.

Dopo la guerra, W. ricoprì la carica di segretario generale dell’Istituto di relazioni internazionali, quella di presidente della Società per la politica economica e quella di presidente del Centro studi sul cattolicesimo del partito democristiano belga. Nel 1945 decise di impegnarsi in politica e prese parte alla nascita e all’organizzazione del Partito cristiano-sociale belga (Parti Social Chrétien, PSC) il quale, rifacendosi alla dottrina sociale della Chiesa cattolica, divenne uno dei principali partiti politici nel Belgio del dopoguerra. Nel 1949 venne eletto deputato alla Camera dei rappresentanti, dove rimase fino al 1971.

Nel corso della sua lunga carriera politica, W. ricoprì numerosi incarichi istituzionali, concentrando l’attenzione soprattutto sulle questioni di politica internazionale che riguardavano da vicino il futuro del Belgio, quali la gestione politica e l’amministrazione dei possedimenti coloniali e il processo d’integrazione europea, verso cui si mostrò sempre favorevole (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Dal 1947 al 1950 detenne il ministero delle Colonie durante il gabinetto guidato da Paul-Henri Spaak. All’inizio del suo mandato, W. presentò un piano decennale per lo sviluppo del Congo belga che prevedeva ingenti investimenti nel settore delle infrastrutture, dell’industria e dell’agricoltura. Il progetto contemplava un investimento complessivo di circa un trilione di dollari da ottenersi mediante finanziamenti sia pubblici che privati. L’obiettivo principale del ministro belga era quello di incoraggiare lo sviluppo autoctono dell’agricoltura e dell’industria, promuovendo un ripopolamento delle terre; un altro obiettivo era quello di incentivare lo sfruttamento delle risorse minerarie del paese. Dal punto di vista politico, W. contrastò qualsiasi discriminazione razziale, ma fu anche un fermo oppositore del Movimento nazionale congolese guidato da Patrice Lumumba, il quale sosteneva la decolonizzazione e l’indipendenza del Congo dal Belgio. Dopo l’esperienza coloniale, ricordata nelle sue Mémoires du Congo, W. venne prima nominato ministro degli Affari esteri dal 1958 al 1961, poi ministro della Giustizia dal 1965 al 1966 e, infine, ministro della Cultura francese dal 1966 al 1968.

Nel corso della sua lunga carriera politica W. si impegnò anche a favore dell’unità europea, partecipando alla prima e più delicata fase del processo d’integrazione comunitaria (1945-155). L’europeismo di W. risaliva al periodo della guerra, durante il quale aveva lavorato a stretto contatto con l’ex primo ministro belga e membro dell’Unione europea dei federalisti (UEF), Paul van Zeeland, che, insieme a Paul-Henri Spaak, era stato uno dei principali animatori del Movimento europeo, nato nel secondo dopoguerra in seguito al Congresso dell’Aia del 1948. Nel 1946, W., oltre a militare nel Partito cristiano-sociale del proprio paese, era già attivo in uno dei primi movimenti federalisti presenti in Belgio subito dopo la fine della guerra, quello dell’Union fédérale, guidato dal barone Antoine Allard (v. Federalismo). Dopo una serie di scontri interni tra le correnti europeiste e federaliste, nei primi anni Cinquanta emerse il Mouvement pour la fédération européenne del Belgio (MFE), di cui W. fu subito eletto presidente del Comitato esecutivo.

Il federalista belga fu anche tra i politici europei più attivi sul fronte delle riforme istituzionali relative alla trasformazione e all’Armonizzazione delle strutture delle prime comunità europee (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, Euratom e Comunità economica europea). Nel febbraio del 1958 venne eletto presidente del Gruppo democratico-cristiano presente all’interno dell’Assemblea comune della CECA. In qualità di presidente di quel raggruppamento politico, il futuro ministro belga degli Affari esteri espose, durante i lavori dell’Assemblea, una relazione in cui si avanzava la proposta di una riforma istituzionale degli organi comunitari (v. Istituzioni comunitarie). La relazione esaminava il modo in cui l’Assemblea comune si era avvalsa dei suoi poteri fin dalla prima riunione nel settembre 1952 ed esprimeva l’auspicio di vedere una nuova Assemblea comune svolgere un ruolo chiave nell’Europa nata dai Trattati di Roma (1957). L’obiettivo di W. era quello di stimolare il dibattito sulla riforma istituzionale della comunità per costruire un’Europa più democratica e coerente da un punto di vista politico, mettendo in evidenza e rafforzando il ruolo dell’Assemblea parlamentare all’interno degli equilibri istituzionali. Infine, sempre nell’ottica di migliorare il funzionamento delle tre Comunità, nell’ottobre 1959, il ministro belga lanciò l’idea di fondere in un’unica istituzione l’Alta autorità della CECA e la Commissione della CEE e dell’Euratom (v. anche Commissione europea). Infatti, se i Trattati di Roma avevano costituito per le tre Comunità un’unica Corte di giustizia e una sola Assemblea parlamentare, l’esecutivo comunitario restava diviso in due istituzioni distinte (v. anche Corte di giustizia dell’Unione europea; Parlamento europeo). L’intervento di W. aprì il dibattito sulla necessità di una loro risistemazione, indicando la strada che avrebbe condotto al Trattato sulla fusione degli esecutivi del 1965, il quale unificava le due Commissioni (CE ed Euratom) e l’Alta autorità della CECA da un lato, e i tre Consigli dall’altro (v. Consiglio dei ministri).

Oltre ad aver esercitato l’attività politica per tutta la vita, W. approfondì i suoi studi nell’ambito del diritto internazionale e di quello comunitario, apportando spesso importanti e significativi contributi di cui sono testimonianza le sue numerose pubblicazioni. Va infine ricordato il suo interesse per il diritto costituzionale, specialmente in relazione al caso concreto del Belgio, interesse che lo spinse ad approfondire temi quali il bicameralismo e lo Stato federale, anticipando il dibattito sulla riforma federale del Belgio del 1993.

Filippo Maria Giordano (2012)




Wilson, Harold

W. (Huddersfield 1916-Londra 1995) è stato un importante uomo politico britannico che ha svolto un ruolo chiave nel proporre la seconda candidatura del Regno Unito alla Comunità economica europea (CEE).

Dopo essersi laureato all’Università di Oxford, W. divenne docente di Economia e nel 1945 entrò al Palamento come membro del Partito laburista e ministro del Commercio. Nel 1951 si dimise in contrasto con i cambiamenti apportati al Servizio sanitario nazionale per soddisfare i costi finanziari imposti dalla guerra di Corea. Divenne portavoce dell’ala di sinistra del Partito laburista, ottenendo nel 1963 la leadership del partito e diventando primo ministro nel 1964. Negli anni Sessanta il governo laburista di W. dovette implicitamente riconoscere che il paese iniziava a perdere terreno nel tentativo di mantenere un’influenza globale, come dimostravano la dichiarazione unilaterale di indipendenza della Rhodesia meridionale, la svalutazione della sterlina, il ritiro delle truppe britanniche da Singapore e dalla Malesia, la rinuncia alle basi a Suez nonché il rifiuto di W. di inviare le proprie truppe nella guerra del Vietnam. All’epoca divenne chiaro che gli Stati membri del Commonwealth erano alla ricerca di associazioni regionali più strette e di nuove opportunità commerciali oltre a quelle offerte dalla madrepatria di un tempo. Quindi, il Regno Unito dovette considerare con più entusiasmo la seconda candidatura alla CEE, che fu presentata nel 1967, ma che come la precedente fu bocciata dal premier francese Charles de Gaulle.

Ciò nonostante, W., mentre era all’opposizione, portò il partito a ribaltare la posizione sull’ingresso nella CEE, anche se una minoranza significativa votò con il governo conservatore a favore dell’ingresso. Un’altra questione su cui il partito si divise sorse nel 1973 con l’adozione di un programma di nazionalizzazioni su ampia scala. Tuttavia, alle elezioni politiche del febbraio 1974, che si svolsero in un momento di grave crisi economica, il Partito laburista ritornò al potere e W. divenne nuovamente primo ministro. Sebbene guidasse un governo di minoranza (e quindi più facile da battere in Parlamento), annunciò l’intenzione di attuare le controverse politiche di rinegoziazione delle condizioni dell’adesione britannica alla CEE e di nazionalizzazioni. Il suo governo affrontò continue difficoltà economiche e un peggioramento della situazione nell’Irlanda del Nord e fu anche costretto a mediare tra la Grecia e la Turchia nella difficile crisi di Cipro. W. indisse nuove elezioni nell’ottobre 1974 e si assicurò una stretta maggioranza al Parlamento. Nel 1975 indisse e vinse un referendum senza precedenti sull’adesione britannica alla CEE, ponendo fine in gran parte alle critiche dell’ala sinistra laburista, che era a favore del ritiro. Nel 1976 presentò inaspettatamente le proprie dimissioni da primo ministro.

D’altra parte, occorre osservare che il suo periodo in carica fu segnato da un’ampia serie di riforme sociali quali quella sul divorzio, l’abolizione della pena di morte e della censura teatrale, la decriminalizzazione dell’omosessualità e la liberalizzazione della legge sull’aborto. Uno dei più grandi meriti di W. come politico fu quello di essere riuscito sia a contenere le divisioni all’interno del Partito laburista sia a farlo tornare al governo.

Il suo ruolo nella storia dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) si basa sull’importante decisione di presentare nel 1967 la seconda candidatura alla CEE in conformità con l’art. 237 dei Trattati di Roma sull’adesione alla CEE e contemporaneamente le candidature alla Comunità del carbone e dell’acciaio e all’Euratom. Tuttavia W. Dichiarò al riguardo: «il governo è pronto ad accettare il Trattato di Roma, in base alle necessarie modifiche conseguenti all’adesione di un nuovo membro e a patto di ottenere soddisfazione sui punti che a nostro avviso presentano difficoltà» (v. Wilson, 1967, p. 1). Tra tali punti figuravano in primo luogo i problemi legati al funzionamento della Politica agricola comune, nonché gli «interessi fondamentali del Commonwealth, soprattutto nel settore agricolo, che è nostro dovere cercare di salvaguardare nei negoziati e che includono i particolari problemi della Nuova Zelanda e dell’Accordo del Commonwealth sullo zucchero» (v. Wilson, 1967, p. 2). Vi era inoltre la questione delle politiche regionali, anche se W. era ben consapevole delle implicazioni vantaggiose a lungo termine dell’adesione alla CEE: «Noi tutti siamo consapevoli del potenziale a lungo termine per l’Europa e quindi per la Gran Bretagna, derivante dalla creazione di un mercato unico che si rivolge a 300 milioni di persone, con tutti gli sbocchi e gli incentivi che fornirà all’industria e delle enormi possibilità che una strategia integrata per la tecnologia, su scala realmente continentale, può creare. […] e ritengo che questa idea abbia avuto un grande impatto in tutta Europa (v. Wilson, 1967, p. 5). Il suo impegno nella difesa del progetto europeo si basava sul riconoscimento che all’epoca l’Europa si trovava di fronte all’opportunità di compiere un grande passo avanti nell’unione politica. «Non consideriamo l’unità europea come qualcosa di chiuso e orientato all’interno», scriveva W. al riguardo; la Gran Bretagna «ha i propri legami vitali attraverso il Commonwealth e in altri modi con altri continenti. E così anche altri paesi europei. Insieme possiamo far sì che l’Europa svolga negli affari internazionali quel ruolo che attualmente non ha. Un’Europa che non riesce a esprimere pienamente la propria forza economica non avrà mai l’influenza politica che a mio avviso può e deve esercitare in seno alle Nazioni Unite e all’Alleanza occidentale né gli strumenti per attuare una distensione durevole tra Oriente e Occidente; e allo stesso modo contribuire con misure sempre più complete alla soluzione del problema mondiale tra il Nord e il Sud e alle necessità del mondo in via di sviluppo. È per tutti questi motivi che noi intendiamo perseguire la candidatura all’adesione con tutta la forza e la determinazione in nostro possesso» (v. Wilson, 1967, p. 5). La politica europea di W., in ogni caso, si basò ben più di quanto sia stato riconosciuto su interessi strategici. L’idea di W. si sviluppò durante la prima candidatura alla CEE, da parte dei conservatori, quando riconobbe l’attrazione verso «il giusto modello d’Europa» (v. Parr, 2005, p. 19) ovvero orientata all’esterno, atlantista, intergovernativa e promotrice del progresso tecnologico.

In conclusione, W. prevedeva un’intensificazione delle dinamiche di Approfondimento e di Allargamento che richiama l’essenza dell’avanzamento dell’integrazione europea e che costituisce tuttora una questione centrale per gli sviluppi del progetto europeo: «La soluzione definitiva alla divisione in Europa sembra fattibile solo in termini ancora difficili da immaginare, una soluzione che si basi sull’inclusione del Regno Unito e di altri paesi dell’EFTA [v. Associazione europea di libero scambio] in una Comunità istituita dal Trattato di Roma, ma che sviluppi e assuma politiche per noi accettabili» (v. Daddow, 2003, p. 77). Quindi, malgrado il veto posto alla seconda candidatura britannica, il “riuscito fallimento” apriva il dibattito sul concetto di Europa “a geometria variabile” e inaugurava un periodo di riflessione sulla natura e sulla direzione dell’integrazione.

Cristina Blanco Sio-Lopez (2012)




Wootton, Barbara

Il successo più significativo di Federal union e del federalismo britannico, fra il 1938 e il 1940, fu quello di aver portato il progetto federalista all’ordine del giorno del dibattito sugli obiettivi di guerra alleati. Ciò peraltro fu reso possibile soprattutto dalla conversione al Federalismo dei capi laburisti, che ritenendo la Francia più avanzata del Regno Unito sulla strada della democrazia economica, si attendevano da una federazione anglo-francese anche cospicui benefici per la classe lavoratrice britannica, schiacciata dal consolidato dominio dei conservatori.

Il sostegno socialista al progetto federalista era certamente un fatto nuovo nella storia del socialismo britannico, poiché, sino ad allora, il federalismo era generalmente avversato a sinistra come tentativo di trapiantare in Europa l’esperienza politica americana, alternativa a quella sovietica, ritenuta ancora la prima ed essenziale realizzazione storica del socialismo. La crisi della Seconda e Terza internazionale, il Patto Molotov–Ribbentrop, la minaccia alle istituzioni democratiche e alle faticose conquiste sociali, nelle due democrazie‑guida dell’Europa occidentale, portarono infine i laburisti a trovare nella relazione speciale anglo‑francese la soluzione alla crisi in cui era incappato il socialismo internazionale. Il federalismo offriva loro il quadro di riferimento giuridico e istituzionale in cui quell’unione poteva concretizzarsi e dare i frutti sperati.

Il deciso sostegno a Federal union nel corso della guerra da parte dei due più prestigiosi capi laburisti – Clement Attlee ed Ernest Bevin – e di molti giovani – come W., Ronald Gordon Mackay, Kingsley Martin, Noel Brailsford e Harold Wilson – che tanta parte avrebbero avuto nella storia del socialismo britannico del dopoguerra, fu un risultato immediato della battaglia interna a Federal union tra europeisti e atlantismi, vinta dai primi. Dopo la celebre dichiarazione di Attlee – “l’Europa deve federarsi o perirà” – anche il Primo Lord dell’ammiragliato e capo del Cooperative party, William Gallache – ala politica del movimento Cooperative customers, associato al partito laburista e con il sostegno di otto milioni di consumatori – aveva patrocinato la federazione europea quale parte integrante degli obiettivi di guerra alleati, venendo così a far cadere la preclusione dottrinale del socialismo organizzato al progetto di una federazione europea.

Il federalismo, che sino a quel momento a sinistra era considerato il frutto ibrido di un connubio tra l’illuminismo kantiano e la dottrina liberal‑liberista, veniva improvvisamente spogliato di valenze ideologiche e identificato come una forma giuridica nella quale doveva calarsi un contenuto storico: l’Europa. Le due principali democrazie europee avrebbero dovuto formare immediatamente un nucleo federale capace di attrarre nella propria orbita le altre – ormai poche – democrazie e, dopo la sconfitta militare del nazismo, anche una Germania ricondotta alla democrazia. E possiamo aggiungere che il ruolo di rilievo svolto nel dopoguerra dal movimento socialista, nella costruzione dell’unità europea, non sarebbe stato possibile senza questo cruciale passaggio laburista. (v. “Federal union news”, n. 34).

Il processo di conversione dei socialisti al federalismo costituzionale dei liberali – pur rimanendo profonde le divergenze riguardo a problemi come il rapporto tra il mercato e la libertà, tra il mercato e l’efficienza produttiva, tra il meccanismo dei prezzi e i bisogni dei consumatori – fu completato tuttavia solo con W. (Cambridge 1897-Londra 1988), docente di Studi sociali all’Università di Londra (1927-1944) e vicepresidente della Camera dei Lord (1967-1988). Erede della tradizione del fabianesimo, che già negli anni Venti aveva individuato nella pianificazione lo strumento adatto a impedire la sovrapproduzione e le crisi cicliche del capitalismo, W. dimostra di aver assimilato gli insegnamenti di Lord Lothian (Philip Kerr) e di Lionel Robbins nel saggio Socialism and federation della primavera del 1940. W. vi osservava che l’idea per cui si dovesse raggiungere anzitutto il socialismo e che tutto quanto concerneva i rapporti internazionali si sarebbe risolto da sé, fosse un’idea che ignorava le lezioni dell’esperienza. In tal modo si sarebbero certamente conseguiti alcuni obiettivi inclusi «nell’elenco delle esigenze essenziali del socialismo», ma si sarebbero «rimandati indefinitamente» i piani per l’uguaglianza, e per il benessere quotidiano dell’uomo comune. Si sarebbe tenuto in sospeso, o abbandonato, ogni progresso «perché non abbiamo pensato abbastanza al problema dell’ordine internazionale e in ispecie dell’ordine europeo». Il movimento socialista aveva tentato, fino a quel momento, di eludere quel problema, sia con il pacifismo, sostenendo la solidarietà internazionale fra gli appartenenti alla classe lavoratrice e la loro determinazione a non combattere né armarsi gli uni contro gli altri; sia con un completo voltafaccia verso i fronti popolari, verso il sostegno ai programmi di sicurezza nazionale o collettiva, e infine, nel caso dei socialisti diventati maggioranza, «verso la partecipazione di tutto cuore alla guerra». Esso si era così guadagnato «l’amaro rimprovero che è colpa dei socialisti se, quando dobbiamo combattere, combattiamo sempre male equipaggiati e impreparati» (v. Wotton, 19409).

Entrando nel merito delle cause della guerra, W. rilevava che la teoria delle cause esclusivamente economiche della guerra era infondata. La guerra volta alla conquista di nuovi mercati o alla conservazione di quelli consolidati appariva come «un’impresa votata all’insuccesso», dal momento che la guerra moderna poteva conseguire tante cose, ma non poteva «mai regalare o mantenere dei mercati, nemmeno a chi resta vincitore». L’esperienza della grande guerra stava appunto a testimoniare la perdita, da parte della Gran Bretagna, dei mercati americani e dei paesi neutrali a vantaggio degli Stati Uniti, e la perdita di ricchezza e di potere politico proprio da parte di coloro che si ritenevano gli artefici della guerra, vale a dire i capitalisti. Lo zelo con cui molti capitalisti avevano sostenuto l’appeasement, vale a dire la «politica di conciliazione e di pace ad ogni costo», stava a indicare che essi s’erano resi conto che il loro vantaggio non stava «dalla parte della guerra». La guerra era, sotto il profilo economico, «l’immancabile rovina […] così dei ricchi come dei poveri». La guerra era, in realtà, «un mostro che si nutre di se stesso». La contraddizione era che si doveva «avere l’impero per proteggerci contro il rischio della guerra; e […] far la guerra per proteggere il nostro impero». Per spezzare il «circolo vizioso della guerra», non bastava indagare sulle sue cause o su quelle dei conflitti di classe. Si doveva piuttosto «creare un’autorità supernazionale con il potere e il dovere di mantenere l’ordine internazionale, dal quale dipendeva anche il progresso sociale» (ivi, pp. 235-37).

Lo Stato nazionale s’era ormai rivelato in Europa un anacronismo storico, poiché come unità politica non era più in grado di garantire e di controllare lo sviluppo delle forze produttive, che, inevitabilmente, tendevano a superare i confini geografici dello Stato, senza trovare, però, un’autorità internazionale capace di regolarne lo sviluppo, orientandolo a finalità positive. Era la federazione europea l’unità politica adeguata alla pianificazione della vita economica, senza la quale non erano raggiungibili né l’uguaglianza né la prosperità. Dava inoltre la possibilità al sindacalismo, “grande alleato del socialismo internazionale”, di organizzarsi al solo livello politico che consentisse un reale controllo del processo di produzione, dello scambio e del consumo. Mentre negli Stati Uniti il movimento sindacale s’era costituito in potenti associazioni “nazionali”, ma su scala continentale, date le dimensioni del paese, in Europa aveva subito la stessa sconfitta delle Internazionali socialiste. Anche il sindacalismo crollò nel 1914, «sotto la pressione del patriottismo […] e crollò di nuovo negli anni tempestosi che precedettero la presente guerra». Perfino durante gli intervalli di relativa pace la sua attività si era «limitata a consultazioni e conferenze (sempre senza la possibilità di azione) e a un’assistenza finanziaria reciproca di carattere saltuario e di portata modesta». Queste «conferenze erano incontri tra stranieri, non fra concittadini» (ivi, pp. 239-40).

Il problema pratico era quello di decidere, al termine della guerra, quel che si dovesse fare dell’impero nazista, che seppur «con la conquista e sotto la tirannide» aveva unificato la maggior parte dell’Europa continentale. Si poteva frantumarlo e restaurare i vecchi Stati nazionali, dimenticando che la causa dell’anarchia internazionale, e quindi della guerra, stava proprio nella loro sovranità illimitata, ma, si chiedeva W., «è immaginabile che un socialista voglia veramente seguire questa via?». Ciò significava erigere diversi sistemi doganali, sistemi di leggi, monete, «per escludere i lavoratori di uno Stato dal territorio gelosamente riservato ai loro compagni di un altro Stato»; significava «riaprire la porta a tutte le vecchie dispute fra cosiddetti paesi ricchi e paesi poveri e al vergognoso sistema per cui i popoli coloniali sfruttati passano dall’una all’altra mano come la posta della ignominiosa partita della politica di potenza in Europa». Un movimento fondato «con l’esortazione ai lavoratori del mondo di unirsi» e che condannava «la tutela politica e l’asservimento economico degli uomini di colore» non poteva sostenere «un programma così basso ed egoista». Non si doveva dunque mirare alla disintegrazione, ma alla «trasformazione dell’esecrato impero nazista» in una federazione democratica. Si trattava di una questione politica, non di un’opportunità economica, che in ogni caso non doveva tenere «alcun conto delle frontiere politiche». La storia degli ultimi dieci anni bastava «a far cadere l’idea troppo semplice che l’economia sia sempre la padrona e non mai la serva della politica». E concludeva: «l’unità europea non è nata e non si manterrà solo perché presenta dei vantaggi economici; essa durerà nel periodo, e solo nel periodo, in cui ci sarà un governo politico stabilito che sia in condizione di esprimere il bisogno di quell’unità e di sostenerla con la forza della legge» (ivi, pp. 240-42).

In Socialism and federation W. cercò anche di mostrare come il socialismo e il federalismo non fossero alternativi, ma «parti complementari dello stesso intero». La natura e le potenzialità della federazione dipendevano dalla volontà dei cittadini, espressa attraverso il sistema democratico. La federazione era in se stessa, come la pianificazione e la collettivizzazione, «uno strumento neutrale», era compito dei socialisti «orientare le sue grandi potenzialità» verso le proprie finalità. Il boicottaggio dei movimenti federalisti appariva come «rifiutarsi di salire su un autobus» perché gli autobus potevano essere usati «per trasportare la gente a riunioni anti‑socialiste». La libertà civile e politica, le esigenze sociali ed economiche, la creazione di un’autorità sovrannazionale erano tre elementi ugualmente essenziali alla costruzione di una comunità mondiale, nella quale soltanto l’internazionalismo socialista, così a lungo dolorosamente frustrato, poteva conseguire i suoi obiettivi e liberare tutte le sue potenzialità. La vera alternativa che stava di fronte a un socialista era, secondo W., da un lato, «continuare a socializzare, a pianificare e a uguagliare all’interno del proprio territorio particolare e sotto la propria bandiera particolare, lasciando i suoi compagni ancora stranieri a fare lo stesso in un identico isolamento». Poteva, inoltre, «chiudere gli occhi di fronte alla grande divergenza tra i programmi socialisti che la decadenza dell’internazionalismo ha evidenziato». Poteva, poi, «seguire la strada degli ultimi venticinque anni, nel corso dei quali i socialisti di questo continente due volte hanno rinunciato alla loro lotta di classe e ai loro programmi sociali, per imbracciare le armi contro i propri compagni». Venticinque anni in cui «il socialismo nel nostro tempo» era stato «degradato nella parodia bastarda conosciuta come nazionalsocialismo». Il socialista poteva, dall’altro, «rifiutare quello che si è dimostrato essere semplicemente il socialismo del campo di battaglia o del gabinetto di guerra». Poteva «riconoscere, con le parole di Laski, “la necessità del controllo mondiale dove la decisione riguarda il mondo”, riconoscendo che “la sovranità dello Stato è incompatibile con un giusto sistema di relazioni internazionali”» (ivi, pp. 294-98).

W. era già intervenuta sul tema nel 1939 con il saggio Economic problems of Federal Union prendendo le distanze dal progetto di Clarence Streit, che per quanto concerneva i problemi economici della federazione aveva un «sapore di laissez‑faire» che faceva «pensare al 19°, più che al 20° secolo». Circa la libertà di migrazione all’interno della federazione, W. osservava che, non esistendo le medesime condizioni di vita all’interno degli Stati federati, era prevedibile attendersi flussi migratori dalle regioni economicamente depresse verso quelle ricche, con conseguenze sociali destabilizzanti, ove non fosse intervenuta l’autorità federale. (v. Wotton, 1939, pp. 150-51).

W. criticava poi l’introduzione del libero mercato tra gli Stati federati senza misure federali volte a sostenere gli Stati più deboli. Il primo effetto di una completa abolizione di tutte le barriere al commercio sul territorio dell’unione avrebbe significato, secondo W., «sicuramente gettare milioni di persone nella disoccupazione». Il passaggio da un’economia protetta a una libera doveva essere graduale e guidato secondo un piano, avendo quale fine il benessere della federazione nel suo complesso (ivi, p. 153).

Il contenuto di questo “piano” poteva essere liberale o socialista e W. notava che l’eventuale natura liberale del governo federale non poteva ostacolare riforme di natura socialista all’interno degli Stati federati qualora fossero sostenute da maggioranze socialiste. Secondo W. la federazione era uno strumento, che contribuiva alla creazione del regno del diritto, all’interno del quale era possibile lavorare per una piena realizzazione delle idealità liberali e socialiste. Infine, secondo W., la federazione avrebbe promosso la crescita del movimento sindacale, come aveva mostrato l’esperienza degli Stati Uniti dove «è possibile dare vita a sindacati in grado di concertare azioni su vaste aree geografiche» (v. Wootton, 1940, p. 239).

Pur condividendo, in linea di principio, il progetto sostenuto dalla Federal Union di dare l’avvio alla federazione europea sulla base di quella anglo-francese, W. metteva tuttavia in guardia i lettori dall’attendersi un passaggio automatico dalla cooperazione bellica anglo‑francese a un’unione costituzionale. Non era possibile, sosteneva W., considerare la cooperazione tra la Francia e il governo britannico come una forma di effettiva federazione. Ci poteva essere qualcosa in essa che sarebbe potuta «diventare il nucleo della federazione», ma la popolazione britannica e francese non avevano «alcuna opportunità di eleggere un governo comune». In quelle circostanze, ciò che si poteva ottenere era «solo un’esperienza molto interessante di gestione coordinata di problemi tecnici». Occorreva un fattore di discontinuità, per passare da una cooperazione tra Stati sovrani a un’unione organica di popoli, che da W. veniva identificata in un vero e proprio processo costituente (v. Angell, Wotton, 1940, p. 74).

Andrea Bosco (2010)




Woschnagg, Gregor

W. (Berna 1939), diplomatico e funzionario ministeriale, esperto di integrazione europea e rappresentante permanente dell’Austria presso l’Unione europea (v. anche Rappresentanze permanenti presso l’Unione europea), è considerato uno dei maggiori esperti austriaci per quanto riguarda le politiche europee e il processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Ha guidato l’ambasciata d’Austria presso l’Unione europea a Bruxelles durante la Presidenza dell’Unione europea dell’Austria (dal 1° gennaio 2006 fino al 30 giugno 2006).

Dopo aver frequentato le scuole superiori in Svizzera e in Austria, dal 1960 al 1965 W. ha studiato legge nelle facoltà di Giurisprudenza delle Università di Vienna, Grenoble e al Trinity College di Cambridge. L’anno successivo ha frequentato il Collegio di Brugge in Belgio specializzandosi in diritto europeo ed economia. Dopo aver concluso l’anno di pratica legale in Austria (Gerichtsjahr) ha iniziato a lavorare per il dipartimento Integrazione economica del ministero per gli Affari esteri austriaco nel 1966, del quale ha assunto la guida dal 1987 al 1996.

Dal 1968 al 1973, ha rappresentato l’Austria presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York e poi, fino al 1975, è stato ambasciatore austriaco in Egitto. Ha ricoperto il ruolo di addetto stampa del ministero per gli Affari esteri durante il governo Bruno Kreisky.

Nel 1981 è stato nominato ambasciatore austriaco a Nairobi e rappresentante permanente austriaco presso le Nazioni Unite impegnato nei programmi UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) e Habitat (Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani), sempre a Nairobi. Dopo il suo rientro in Austria nel 1986 ha assunto l’incarico di direttore del segretariato generale del ministero degli Affari esteri, incarico ricoperto fino al 1987.

Dal 1987 fino al 1996 è stato viceambasciatore austriaco presso l’Unione europea; durante questo periodo ha contribuito ai negoziati per l’Adesione dell’Austria all’Unione europea. Inoltre, dal 1993 al 1996 è stato vicedirettore del dipartimento Integrazione economica e politica al ministero per gli Affari esteri, del quale ha assunto la dirigenza dal 1997 al 1999. A partire dal settembre 1999 ha guidato la rappresentanza permanente dell’Austria presso l’Unione europea a Bruxelles ove vi è rimasto fino al mese di marzo del 2007, cessando dal servizio per il raggiungimento dell’età pensionabile.

Durante il semestre di presidenza austriaca dell’Unione europea (dal 1° gennaio al 30 giugno 2006) l’attività dell’ambasciatore W. e del suo gruppo si è concentrata su quattro obiettivi: il rafforzamento della fiducia dei cittadini nel progetto europeo e nelle Istituzioni comunitarie; il consolidamento e l’ulteriore sviluppo del modello di vita europeo con la sua alta qualità di vita, la sicurezza sociale, i suoi standard elevati per l’ambiente e il rispetto della diversità europea; l’incentivo all’occupazione e alla crescita economica, tra l’altro nel quadro dell’Agenda di Lisbona e considerando gli elementi stabiliti a Hampton Court (summit dell’UE dell’ottobre 2005); il ruolo dell’Unione quale partner nel mondo. Nel settore della politica estera, un argomento focale è stato l’integrazione nell’assetto politico europeo e l’avvio verso il benessere e la stabilità degli stati dell’Europa sudorientale dopo le guerre balcaniche.

In particolare, l’Austria durante la presidenza si è adoperata per un rapido svolgimento delle trattative sulle prospettive finanziarie e sulla suddivisione dei fondi per una pronta attivazione dei Programmi comunitari nel 2007. Inoltre, W. e il suo gruppo, in quel periodo, hanno posto l’accento in particolar modo sulla continuazione del dibattito sul futuro dell’Unione europea (v. anche Convenzione europea; Costituzione europea). I capi di Stato e di governo nel giugno 2005, in seguito al risultato negativo delle consultazioni referendarie in Francia e nei Paesi Bassi, avevano proposto una fase di riflessione. La relazione intermedia congiunta delle presidenze britannica e austriaca ha delineato la panoramica del dibattito nei singoli Stati membri, evidenziando che la maggior parte di questi aveva utilizzato tale fase in modo proficuo. Nel quadro degli obiettivi generali della cosiddetta fase di riflessione, la presidenza austriaca ha puntato su una gestione pragmatica a cui hanno fatto seguito misure e risultati più concreti sotto forma di consultazioni, conferenze (la “Sound of Europe” incentrata sulla cultura e sull’identità europea tenutasi a fine gennaio del 2006 a Salisburgo e la conferenza sulla sussidiarietà il 18 e 19 aprile 2006 a St. Poelten) e altre campagne informative per coinvolgere i cittadini nel dibattito sull’Europa e per cercare di far sorgere un radicato atteggiamento positivo delle persone nei confronti dell’Europa. Invece, nel settore dell’occupazione e della crescita economica, l’Austria ha identificato la promozione di posti di lavoro e della crescita economica come uno dei compiti più urgenti della politica europea assieme alle priorità stabilite a Hampton Court per quanto riguarda la ricerca, l’innovazione, l’università, le sfide demografiche, l’energia, l’immigrazione e la sicurezza. Oltre alle priorità già nominate, W. è stato incaricato, in veste di rappresentante permanente dell’Austria a Bruxelles, di coordinare il vertice più importante nella storia moderna dell’Austria: il Vertice dei capi di Stato e di governo dell’UE, dell’America Latina e dei Caraibi tenutosi dall’11 al 13 maggio 2006 con oltre 60 delegazioni al fine di promuovere il dialogo transatlantico sia da un punto di vista economico che politico e di sottolineare il ruolo dell’Europa come attore globale. In questo contesto la presidenza austriaca ha contribuito all’elaborazione di un nuovo regolamento per l’accordo di partenariato che è stato attivato nel 2007.

Nella sua lunga ed esemplare carriera diplomatica, W. ha svolto un ruolo di primissimo piano nel processo d’integrazione europea e può essere considerato uno degli artefici della politica europeista dell’Austria.

Elisabeth Alber (2007)




Wulf-Mathies, Monika

W.-M. (nata Baier; Wernigerode, Harz 1942) si contraddistingue per il suo straordinario impegno politico e sindacale che l’ha portata a ricoprire alti incarichi in Germania, affrontando con profonda sensibilità i problemi sociali e del lavoro, e ad assumere la carica di Commissario europeo per le politiche regionali, incarico ricoperto per quattro anni.

Iscritta nel 1965 tedesco alla Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD), dal 1968 al 1971 W.-M. ha ricoperto il ruolo di vicecapo servizio presso il ministero federale dell’Economia retto da Karl Schiller. In seguito, dal 1971 al 1976, è stata addetta a varie funzioni presso la Cancelleria federale di Willy Brandt e Helmut Schmidt e, a partire dal 1973, ha assunto la carica di capo della divisione delle politiche sociali.

Fin dall’inizio degli anni Settanta W.-M. ha ricoperto vari ruoli nel sindacato dei servizi pubblici e dei trasporti Gewerkschaft Öffentliche Dienste, Transport und Verkehr (ÖTV). Nel 1976 diventa membro del comitato direttivo dell’ÖTV ed è rieletta nel 1981. Responsabile per il settore socio-sanitario e per la politica delle donne, nel giugno del 1982 succede al presidente dimissionario dell’ÖTV Heinz Kluncker, conservando l’incarico dal 1982 al 1994. Nel 1988 diventa vicepresidente del consiglio di amministrazione della Deutsche Lufthansa dopo essere stata membro del consiglio di amministrazione a partire dal 1978.

A partire dal 1° gennaio 1995 W.-M. assume la carica di commissario europeo per le politiche regionali nella Commissione europea presieduta da Jacques Santer. Sotto la sua guida viene elaborata l’“Agenda 2000”, grande programma per l’Europa in vista del secondo millennio, e una riforma dei fondi strutturali in grado di accompagnare l’Unione europea (UE) verso l’Allargamento a Est. Questa riforma ha visto, tra i suoi principali obiettivi, una più chiara ripartizione delle responsabilità tra la Commissione europea e gli Stati membri in riferimento all’attuazione dei Programmi comunitari e alla gestione dei fondi strutturali, per favorire un più ampio decentramento, senza pregiudicare la qualità della gestione e del controllo dei programmi. Inoltre, W.-M. ha curato i rapporti di lavoro con il Comitato delle regioni ed è stata responsabile per le politiche del Fondo di coesione di concerto con Neil Kinnock e Ritt Bjerregaard. Membro del Comitato per la parità fra donne e uomini della Commissione europea, W.-M. non ha mai perduto occasione per imporre l’applicazione del mainstreaming nella concezione e nell’applicazione delle politiche strutturali.

Nel luglio 1999, W.-M. si dimette dalla Commissione europea per ricoprire il ruolo di consulente per le politiche europee del Cancelliere tedesco Gerhard Schröder, incarico che ricopre dal 1999 al 2000. Dal 2001 al 2006 è presidente del Movimento europeo tedesco (Netzwerk europäische Bewegung Deutschland).

Elisabeth Alber (2012)




Zagari, Mario

Z. nacque a Milano il 14 settembre 1913. Laureatosi all’Università di Milano in giurisprudenza, si avvicinò allo studio dell’economia politica e fu borsista presso l’Università di Berlino divenendo poi assistente all’Università di Milano.

Durante la guerra prestò servizio militare come ufficiale degli Alpini, inquadrato nella divisione Julia, riportando una decorazione al valor militare. Entrato nella lotta clandestina, contribuì a dar vita al Movimento di unità proletaria, nato a Milano nel gennaio 1943 sotto la guida di Lelio Basso. Dopo il ritorno in patria di Pietro Nenni, Z. partecipò alla formazione del Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), nella cui direzione entrò a far parte.

Z. partecipò attivamente alla Resistenza militare romana, in particolare agli scontri di Porta San Paolo. Nell’ottobre del 1943 venne arrestato e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, dal quale però riuscì a evadere. Riprese dunque l’attività partigiana nel fronte militare della Resistenza, e fu membro effettivo e poi supplente del Comitato di liberazione nazionale. Risale a questo periodo la frequentazione e l’amicizia con Eugenio Colorni, uno degli europeisti della prima ora, coautore insieme ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene.

Nel vivace dibattito che attraversò il socialismo italiano all’indomani della fine della guerra, in merito ai rapporti con il Partito comunista, alla prospettiva dell’unificazione fra i partiti dei lavoratori e all’attitudine nei confronti dell’Unione Sovietica, Z. si schierò su posizioni autonomiste. In questa prospettiva la creazione di un’Europa “terza forza”, autonoma rispetto alle due superpotenze, era vista come la sola risposta al pericolo che il definirsi di due blocchi internazionali contrapposti in lotta per il potere portasse al soffocamento delle lotte dei lavoratori e della prospettiva socialista. Forte di queste convinzioni, Z. nel 1946 fu tra i fondatori della corrente interna al PSIUP denominata “Iniziativa socialista”, che raccoglieva una buona parte della componente giovanile e si schierava su posizioni di autonomia nei confronti dei comunisti e di confronto con gli esperimenti socialisti nei paesi del Nord dell’Europa, in specie il Regno Unito. Iniziativa socialista ottenne un grande successo al congresso di Firenze dell’aprile 1946, a seguito del quale Z. fu nominato responsabile dell’Ufficio internazionale del Partito socialista italiano (PSI), ma di fronte all’irrigidirsi della dirigenza del partito su posizioni frontiste, Z. nel gennaio 1947 fu tra i promotori della scissione socialdemocratica ed entrò nel Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI).

Il 2 giugno 1946 Z. venne eletto deputato nell’Assemblea costituente. Egli diede il suo contributo soprattutto alla formulazione della parte della Carta relativa al ruolo dell’Italia nella politica internazionale, in specie dell’articolo 11.

Eletto deputato nel 1948 nelle file del PSLI, fu membro della direzione di tale partito (Partito socialista democratico italiano, PSDI, dal 1952) dal 1947 al 1949 e dal 1951 al 1958. Nel 1948 fondò e diresse a lungo la rivista “Iniziativa europea” e poi “Sinistra europea”. Diresse altre numerose testate, tra cui dal 1953 il quotidiano “La Giustizia”, tutte improntate allo sforzo di delineare una politica di sostegno all’integrazione e di analisi delle questioni economiche internazionali.

Z. fece parte della sinistra socialdemocratica e si trovò spesso in polemica con le scelte dell’ala moderata del partito. Gli esponenti di Iniziativa socialista infatti si astennero in Parlamento nella votazione sull’Adesione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, ritenendo che tale scelta compromettesse le prospettive di creazione di un’Europa indipendente dai due blocchi, e continuarono a battersi per l’unità delle forze socialiste. In questa ottica Iniziativa socialista, con Z., Giuseppe Faravelli, Ugo Guido Mondolfo, fu tra le correnti che parteciparono alla nascita del Partito socialista unitario (PSU) nel 1949, guidato da Giuseppe Romita a sua volta uscito dal PSI. Il PSU poi confluì nel PSLI nel maggio 1951.

Nell’ambito europeista, dopo una breve esperienza come membro dell’Assemblea parlamentare della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), Z. fu tra i fondatori, nell’autunno 1955, del Consiglio italiano del Movimento europeo (CIME). In seguito aderì al Comitato italiano per la democrazia europea (CIDE), fondato nel dicembre 1963 da Spinelli, un gruppo di pressione animato da personalità del centrosinistra convinte che il rinnovamento del paese fosse strettamente legato a una politica di costruzione della democrazia europea. Nell’ambito del CIDE, Z. fu tra gli estensori, insieme a Spinelli, Leopoldo Elia e Aldo Garosci, di uno dei documenti più significativi elaborati dal Comitato, la Nota sulla democratizzazione della Comunità, del gennaio 1964, in cui si invitava il governo italiano a chiedere l’elezione diretta del Parlamento europeo entro il 1965.

Nel 1956, all’indomani dei fatti di Ungheria, Z. ebbe colloqui con Guy Alcide Mollet, Pierre Cormin, poi con Morgan Phillips, allo scopo di ottenere il sostegno dell’Internazionale socialista alla sua richiesta di convocazione di un congresso per l’unificazione socialista. Erano soprattutto i socialisti francesi e belgi a spingere per la creazione di un forte partito socialista italiano a sostegno dell’integrazione. Fallito il tentativo del 1956, Z., insieme ad altri esponenti della sinistra del PSDI, come Faravelli, Ezio Vigorelli e Matteo Matteotti, uscirono dal partito per costituire il Movimento unitario di iniziativa socialista, poi confluito, nel giugno 1959, nelle file del PSI.

Nel 1961 Z. divenne membro del Comitato centrale del PSI, con l’incarico di dirigere il Centro di documentazione della direzione socialista. Nel 1962 venne eletto consigliere comunale di Roma. Nel 1963 tornò in Parlamento come deputato del PSI, e fu poi riconfermato in tale posizione nel 1968, nel 1972 e nel 1976. Dal 1964 fu vicepresidente del gruppo parlamentare socialista.

Membro per molti anni, a partire dal 1958, dell’Esecutivo internazionale della Sinistra europea, ne fu vicepresidente, nonché presidente della sezione italiana. Nel 1960 fu uno dei tre inviati dal PSI alla IV Conferenza dei partiti socialisti dei paesi del Mercato europeo comune (MEC) (v. Comunità economica europea) e si batté, contro le tesi tedesche e dei belgi, per approdare quanto prima alle elezioni dirette dell’Assemblea parlamentare europea, nonché alla riunificazione delle tre Comunità.

Le responsabilità di governo di Z. iniziarono con gli esecutivi di centrosinistra guidati da Aldo Moro e Mariano Rumor, nell’ambito dei quali fu sottosegretario agli Esteri dal 1964 al 1969, a parte la breve parentesi del II ministero Leone. In questa veste Z. ricoprì incarichi legati al settore culturale e della cooperazione scientifica e tecnica internazionale e si occupò anche dei temi del disarmo. Curò particolarmente il rafforzamento dei rapporti fra l’Italia e i paesi dell’Europa dell’Est e con i paesi in via di sviluppo. Nel 1968 fu presidente della Delegazione italiana alla seconda sessione della Conferenza della Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (United Nations conference on trade and development, UNCTAD). In ambito europeo, in questo periodo, Z. si impegnò soprattutto nel realizzare le condizioni per l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità economica europea (CEE), collaborando strettamente con Nenni.

Da un punto di vista degli indirizzi politici strategici, Z. guardava con preoccupazione al gap tecnologico dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti e riteneva necessario che la sinistra si impegnasse a realizzare una politica di programmazione economica e di ricerca su scala continentale.

Dopo l’esperienza di sottosegretario agli Esteri, Z. venne nominato ministro per il Commercio estero nel terzo gabinetto Rumor e nel governo guidato da Emilio Colombo, tra il marzo 1970 e il gennaio 1972. Partecipò così alla realizzazione dell’ingresso della Gran Bretagna nella CEE. Grazie al ruolo di responsabile del Commercio estero, Z. ebbe modo di confermare la sua convinzione che fosse necessario non focalizzarsi sui rapporti Est-Ovest ma guardare anche ai rapporti con i paesi in via di sviluppo e alle dinamiche dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Inoltre, Z. compì, nel maggio 1971, la prima visita ufficiale del governo italiano nella Repubblica Popolare Cinese, firmando un accordo di cooperazione. Successivamente fu responsabile dell’ufficio internazionale della direzione nazionale del PSI, e tra il luglio 1973 e l’ottobre 1974 ministro di Grazia e giustizia nel quarto e nel quinto ministero Rumor.

Z. visse anche l’esperienza di parlamentare europeo. Già membro dell’Assemblea a partire dal 1976, ne divenne uno dei vicepresidenti. Nel 1979 fu poi eletto per il PSI nelle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo, nel quale fu riconfermato nel 1984. Durante l’acceso dibattito sulla nascita del Sistema monetario europeo (SME) nel 1978 egli, in qualità di vicepresidente del Parlamento europeo, rilanciò con forza il tema dell’impatto politico dello SME e la necessità di rafforzare, allo stesso tempo in cui si imponevano rigidi parametri monetari, i meccanismi democratici del processo d’integrazione. Lo SME non andava trasformato per Z. in un vincolo esterno imposto dalle diplomazie ma andava accompagnato dal rafforzamento della politica europea e del Parlamento europeo come campo d’azione futuro delle forze socialiste organizzate in formazioni sovranazionali.

In seguito, Z. fu presidente di vari enti, tra i quali l’Istituto nazionale per l’informazione e, dal 1980, l’Istituto per gli studi sull’Europa e sui paesi in via di sviluppo (ISEPS). In questa veste Z. promosse e partecipò come relatore a numerosi convegni internazionali, in particolare sul tema dei rapporti tra l’Europa e i paesi del Mediterraneo. Dal 1987 fu presidente del CIME fino al 1995, quando fu sostituito da Giorgio Napolitano. In conclusione ci pare significativo riportare alcuni passi delle riflessioni di Z. sul senso dell’integrazione europea rilasciate pochi anni prima di morire: «Il grande errore in cui siamo incorsi tutti, allora [gli anni Cinquanta] come oggi, ha a che vedere con la relazione tra le istituzioni europee e la storia: le istituzioni sono il prodotto della storia, non il contrario. Non esiste una dinamica inevitabile inscritta nella Comunità europea […]. Vedo molti pericoli pendere sul capo dell’Europa, intrappolata in un consumismo frenetico che le fa perdere di vista i suoi obiettivi e la sua identità. Una delle sfide maggiori che l’Europa deve affrontare, di cui mi sono occupato sin dagli anni Settanta, è rappresentata dalle condizioni del Sud del mondo e dal fondamentalismo islamico che ne deriva» (v. Griffiths, 1993, p. 105). Z. Morì a Roma il 29 febbraio 1996.

Francesco Petrin (2010)




Zapatero, José Luis Rodríguez

Z. (Valladolid 1960) crebbe a León in una famiglia benestante di tradizione democratica e progressista. Il nonno paterno, capitano repubblicano, durante la guerra civile era stato giustiziato dai nazionalisti di Franco, mentre il nonno materno aveva sempre professato idee liberali. Il padre amava discutere di politica con José Luis e con il fratello Juan durante la loro adolescenza, inculcando loro in primis i principi della tolleranza e del rispetto dei Diritti dell’uomo.

Z. studiò dapprima presso la scuola religiosa Discípulas de Jesús, quindi nel Colegio Leonés. Negli anni Settanta si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di León, conseguendo la laurea nel 1982. Parallelamente cominciò a interessarsi alla politica, partecipando nell’agosto 1976, per la prima volta, a una manifestazione pubblica del Partido socialista obrero español (PSOE) a Gijón. In tale occasione fu affascinato dalle parole pronunciate dal leader Felipe González, nonostante le precedenti simpatie comuniste.

Il suo impegno politico iniziò tuttavia soltanto l’anno successivo quando, durante la campagna elettorale per le politiche, Z. aiutò sia il PSOE che il Partido comunista español (PCE). Alla fine, comunque, optò per l’iscrizione al PSOE: il suo primo incarico significativo risale al 1982, quando divenne capo dell’organizzazione giovanile socialista nella provincia di León. Z. in quel periodo sosteneva la sinistra del partito, l’ala che chiedeva cioè a González una politica sociale più coraggiosa.

Dal 1982 iniziò inoltre a collaborare con l’Università di León come assistente di Diritto costituzionale, ma ormai il suo interesse principale era rivolto alla sfera politica. Di conseguenza, nel 1986 fu candidato e venne eletto in Parlamento nelle file del PSOE, diventando il più giovane deputato delle Cortes. Nominato segretario generale del PSOE a León nel 1988, si allontanò progressivamente dalla sinistra del partito, che nei primi anni Novanta aveva trovato un punto di riferimento importante in Alfonso Guerra.

Rieletto in Parlamento nel 1989, nel 1993 e nel 1996, a partire da quest’ultimo anno entrò a far parte dell’esecutivo federale nazionale del partito. Negli anni del primo governo di José María Aznar (1996-2000) si distinse come un intransigente contestatore del piano energetico nazionale elaborato dal Partido popular (PP), oltre che come fautore dell’aumento delle pensioni per i militari non professionisti che avevano combattuto per la Repubblica nella guerra civile. Per il suo impegno, l’associazione dei giornalisti parlamentari gli assegnò nel 1999 il premio come “deputato rivelazione”. Rieletto in Parlamento nel marzo 2000, anno del trionfo del PP, in aprile Z. fondò il movimento “Nueva via”, una sorta di corrente organizzata all’interno del partito a sostegno di una società multietnica, culturalmente aperta e accogliente, attenta ai diritti civili e sensibile ai problemi sociali. Eletto in luglio segretario del PSOE al posto del dimissionario Joaquín Almunia, Z. divenne l’artefice di una linea di opposizione costruttiva al secondo governo Aznar (2000-2004), una linea pragmatica, che prendeva le mosse dalla constatazione dell’alto grado di consenso di cui godevano in quel momento i popolari nel paese.

Nel marzo 2004, a sorpresa, Z. vinse le elezioni politiche sconfiggendo il primo ministro uscente José María Aznar, cui venne imputata non tanto la colpa di non aver saputo prevenire il tragico attentato terroristico alla stazione di Atocha a Madrid, che, tre giorni prima del voto, aveva provocato la morte di 191 persone, quanto le bugie diffuse nei giorni immediatamente successivi, con il maldestro tentativo di attribuirne la responsabilità non a integralisti islamici affiliati ad al-Qaeda, bensì agli odiati separatisti baschi dell’Euskadi Ta Askatasuna (ETA).

Tra i primi impegni assunti da Z. come premier si deve ricordare il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq, in risposta alla crescente avversione dell’opinione pubblica verso quel conflitto. Seguirono quindi provvedimenti economici e sociali tesi a migliorare la rete infrastrutturale del paese, a sostenere la ricerca e diminuire la precarietà nel lavoro, a incrementare pensioni e salari minimi, nonché a garantire l’assistenza alle persone non autosufficienti. Il suo governo si distinse però soprattutto nell’ampliamento della sfera dei diritti civili, grazie a misure che eliminarono progressivamente le discriminazioni verso le donne, gli immigrati e gli omosessuali, e in riferimento a norme a tutela della laicità dello Stato.

Z. si adoperò inoltre nella riforma dello statuto delle autonomie, cercò di mettere fine al terrorismo degli indipendentisti baschi attraverso un dialogo con l’ETA, si impegnò in una politica della memoria tesa a riconoscere i debiti della Spagna democratica nei confronti delle vittime della guerra civile e del franchismo, affrontò la delicata questione della riforma del sistema televisivo e provò infine a incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Il primo governo Z. fu anche caratterizzato dall’adozione di una politica estera europeista, tesa a ricercare innanzitutto la collaborazione con Francia e Germania, laddove Aznar aveva invece privilegiato l’intesa diretta con gli USA. Egli pertanto sostenne il Trattato costituzionale europeo (v. Costituzione europea), che la Spagna approvò tramite referendum popolare nel febbraio del 2005 con oltre il 76% di voti favorevoli, e dopo la bocciatura di quest’ultimo da parte degli elettori francesi e olandesi, promosse il nuovo Trattato di Lisbona.

I risultati conseguiti dal governo Z. vennero tuttavia disconosciuti dall’opposizione di destra guidata da Mariano Rajoy, che optò per la linea del “muro contro muro” arrivando perfino a mettere in dubbio la legittimità di un esecutivo eletto, a suo avviso, sull’onda emotiva di una tragedia. Questa strategia politica messa in atto dal PP tuttavia non pagò a livello elettorale, e così, nel marzo del 2008, Z. venne confermato alla guida del paese, trovandosi però a governare in un contesto completamente differente, caratterizzato dalla crisi economica, dall’aumento della disoccupazione, specialmente quella giovanile, e dalle difficoltà politiche derivanti dal mancato raggiungimento della maggioranza assoluta di seggi in Parlamento.

Z. questa volta fu perciò costretto a fare i conti con una crisi che nel paese iberico si aggravò di mese in mese, e che gli impose, suo malgrado, un cambio di linea economica, con un taglio sensibile alla spesa pubblica e al welfare, oltre a una riduzione dei costi della politica. Contestualmente egli provò a ricucire i rapporti con la Chiesa cattolica, che si erano pericolosamente deteriorati nel corso del suo primo governo, nonché quelli con gli USA, raffreddatisi dopo il disimpegno dalla guerra in Iraq, ma subito migliorati sotto la nuova presidenza Obama. Nel frattempo emersero però nuove tensioni interne, che resero più difficili i rapporti tra governo e sindacati: la sconfitta alle Elezioni dirette del Parlamento europeo del giugno 2009, con il PSOE ampiamente superato dal PP, rifletteva bene la fine del feeling tra Z. e il paese.

A livello europeo, Z. ricoprì, in qualità di presidente del governo spagnolo, nel secondo semestre del 2010 la Presidenza dell’Unione europea, seppure in coabitazione con il belga Herman Van Rompuy, presidente permanente del Consiglio europeo. La presidenza spagnola è stata caratterizzata da un forte dinamismo, anche se purtroppo le gravi difficoltà economiche del paese impedirono a Z. di giocare quel ruolo da protagonista che aveva probabilmente auspicato.

Al momento del suo insediamento Z. indicò tra le priorità dell’Unione europea (UE) la piena attuazione delle riforme previste dal Trattato di Lisbona, l’adozione di misure straordinarie in risposta alla crisi economica, un piano UE contro la violenza alle donne e per l’uguaglianza tra i sessi. Durante questo semestre egli si impegnò pertanto su questi punti, e si adoperò inoltre per l’approvazione della strategia “Europa 2020”, che disegnava un futuro nuovo modello di sviluppo per la UE, per una maggiore trasparenza degli istituti di credito europei e per la riforma del Patto di stabilità e crescita. Una particolare attenzione venne infine dedicata ai rapporti tra la UE e i paesi extraeuropei, e furono specialmente rafforzate le intese con gli Stati dell’America Latina.

L’aggravarsi della crisi economica, drammaticamente arrivata sino alle soglie di un rischio default per il suo paese, costringendo Z. a varare un piano di austerità molto severo nel maggio 2010, lo spinse a indire elezioni anticipate per l’autunno del 2011 e a non ricandidarsi alla guida del governo: al suo posto il PSOE schierava Alfredo Pérez Rubalcaba, ministro degli Interni, e dall’ottobre 2010 anche vicepresidente, nel governo Z. Nel biennio 2010-2011 il premier Z. seguì fedelmente le ricette neoliberiste europee per far fronte alla crisi, ma nell’ultima fase del suo mandato avanzò qualche critica all’UE, all’Eurozona e soprattutto alla Banca centrale europea (BCE), auspicando la creazione di un’Unione più integrata e solidale.

Guido Levi (2010)




Zeman, Miloš

Z. (Kolin 1944) descrive la sua prima giovinezza come solitaria e afferma di aver trascorso in quegli anni più tempo sui libri che in compagnia di amici. Dopo essersi diplomato in una scuola secondaria superiore a indirizzo economico, gli fu negato l’accesso a qualsiasi corso di istruzione universitaria, per ragioni politiche relative al retroterra “borghese” della sua famiglia. Trascorsero quattro anni prima che potesse iscriversi alla facoltà di Economia di Praga, presso la quale si laureò nel 1969.

Durante la Primavera di Praga, nel 1968, Z. si iscrisse al Partito comunista guidato dal riformista Alexander Dubcek, ma dopo l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia venne espulso dal partito per le sue critiche nei confronti della nuova linea dura del regime. Nel luglio 1968 chiese di diventare membro del riemergente Partito socialdemocratico, ma non trascorse molto tempo prima che i comunisti riducessero il partito al silenzio. Da quel momento Z. ebbe difficoltà a trovare un’occupazione. Riuscì successivamente a entrare in un’organizzazione sportiva al cui interno sviluppò un centro di pronostici sulle attività sportive. Il centro venne chiuso nel 1984 a causa degli studi critici sugli sviluppi sociali del paese che si svolgevano al suo interno. Allora Z. si impiegò in un’organizzazione agricola dove, tuttavia, si ripropose la stessa situazione e nel 1989 venne licenziato.

Nel novembre 1989, la “Rivoluzione di velluto” fece cadere il regime comunista in Cecoslovacchia e iniziarono a emergere nuovi gruppi politici. Il più eminente fu il Forum civico guidato dall’allora dissidente Václav Havel. Z. entrò a farne parte diventando deputato dell’Assemblea federale cecoslovacca nel 1990. Nel 1992 divenne membro del risorto Partito socialdemocratico cecoslovacco (Česká Strana Sociálne Demokratická, ČSSD) e venne rieletto all’Assemblea federale nelle prime elezioni libere tenutesi nello stesso anno.

Dopo la divisione della Cecoslovacchia, nel 1993 il Partito socialdemocratico cecoslovacco cambiò il proprio nome in quello di Partito socialdemocratico ceco. Z. venne eletto presidente del partito e successivamente confermato in tale carica in tre successivi congressi del partito. Nel 1998, dopo cinque anni con Z. alla presidenza del partito, il ČSSD, viste le difficoltà attraversate dal governo di minoranza di Václav Klaus in merito a segnalati casi di corruzione e alla crisi economica, emerse come la forza maggiore nella politica ceca, con il 32% dei voti.

Dal 1996 al 1998 Z. fu presidente della Camera dei deputati della Repubblica Ceca, mentre il leader del Partito democratico civico di centrodestra (Občanská demokratická strana, ODS), Václav Klaus, divenne primo ministro. Questa soluzione mostrò l’indebolimento dell’influenza di Klaus sulla politica ceca e sulla gestione politica dell’esecutivo nelle camere parlamentari.

Nel luglio 1998 Z. fu nominato primo ministro, ma non riuscì a formare una coalizione di governo. Decise allora di procedere con un governo di minoranza, dopo che l’Unione democratica cristiana/Partito popolare cecoslovacco (Křesťanská a demokratická unie/Československá strana lidová, KDU/ČSL) uscì dalle trattative per la coalizione. Questo governo durò per quattro anni e Z. raggiunse alcuni importanti risultati. Egli reinserì la partecipazione all’Unione europea (UE) tra le priorità dell’agenda di governo e della politica. Z. riuscì a riorientare la politica di adesione all’UE da questione esclusiva di politica estera a questione di politica interna e di riforme. La sua amministrazione coincise, infatti, con una forte spinta verso l’armonizzazione politica e legislativa all’interno dell’Acquis comunitario. Ciò rese possibili riforme cruciali che non erano state attuate dal governo precedente, come quelle nell’amministrazione pubblica e territoriale e lo sviluppo della politica industriale. In questo senso, Z. fornì quella spinta di cui la Repubblica Ceca era carente, per avviare il processo di adeguamento ai requisiti di adesione all’Unione. Quando ottenne l’incarico, la Repubblica Ceca era descritta dalla Comunità europea come paese “in ritardo”.

Z. come politico non sembrò dare molta importanza alla propria immagine mediatica e non cercò mai di nascondere il proprio disprezzo verso i giornalisti. «Sporcizia, feccia, dilettanti, bugiardi, idioti, prostitute» erano i termini usati sovente da Z. per descrivere i giornalisti (v. Spritzer, 2003). Sebbene Z. godesse della stima di alcuni partiti della sinistra europea, le sue esternazioni non si rivelarono positive per la sua immagine in altre parti del mondo. Durante una visita in Israele paragonò il leader palestinese Yasser Arafat ad Adolf Hitler. Allorché un giornalista della TV israeliana chiese a Z. se avesse voluto affermare che vi erano somiglianze tra il Terzo reich di Hitler e l’Autorità palestinese di Arafat, il primo ministro ceco rispose quanto segue: «Se somiglia a un’anatra, se razzola come un’anatra, se starnazza come un’anatra, se ha il sapore di anatra, è un’anatra» (v. Spritzer, 2003).

Nel 2001 Z. passò di propria volontà le consegne della direzione del ČSSD a Vladimir Spidla. Questa rinuncia gli permise di concentrarsi meglio sul proprio incarico di primo ministro e di ricomporre le divisioni interne al ČSSD. Tuttavia, l’armonia tra i due uomini non durò. Z. mantenne un atteggiamento astioso verso il suo successore, specialmente su temi quali la politica economica e la presidenza. Nel 2003 fece un tentativo fallimentare per ottenere la presidenza. Il primo ministro Spidla non aveva altra scelta che opporsi alla candidatura di Z., poiché quest’ultima avrebbe inevitabilmente diviso il partito, considerato il deterioramento delle relazioni tra la propria fazione e quella di Z. Per la verità, i sostenitori di Z. all’interno della fazione parlamentare del ČSSD rinunciarono a votare per il candidato ufficiale del partito nelle prime elezioni presidenziali del gennaio 2003, spianando così la strada a Z. per partecipare alle seconde elezioni dell’inizio di febbraio, nonostante la sua promessa di ritirarsi dalla politica. Come nelle prime elezioni, la fazione del ČSSD divise i suoi voti e Z. patì una sconfitta imbarazzante al primo turno, per la quale accusò Vladimir Spidla. La divisione interna al ČSSD spianò la strada a Václav Klaus. Tuttavia, le divisioni interne nel ČSSD persistettero. Spidla diede le dimissioni nel maggio del 2004.

Christian C. van Stolk (2006)




Zolotas, Xenofon

Z. (Atene 1904-ivi 2004) dopo gli studi in legge all’Università di Atene si specializzò in scienze delle finanze a Parigi, dove recepì le idee riformiste della socialdemocrazia europea. Trasferitosi in Germania, nel 1926 conseguì il dottorato di ricerca presso l’Università di Lipsia con una tesi intitolata Griechland auf dem Weg zur Industrialisierung (La Grecia sulla via dell’industrializzazione), nella quale affrontava il problema storico della modernizzazione economica in un paese agrario. Ritornato in Grecia nel 1928, iniziò a soli ventiquattro anni una brillante carriera accademica all’Università di Atene.

Membro del Consiglio superiore dell’Economia (1932) e della delegazione greca al Consiglio economico dell’Intesa balcanica (1934-1939), Z. si impose nella vita politica nazionale con un indiscusso carisma intellettuale. Benché le sue idee sul socialismo liberale incontrassero il netto dissenso degli ambienti conservatori, egli conservò gli incarichi pubblici dopo il crollo della Repubblica e l’instaurazione della dittatura del generale Metaxas (1936). Nel 1941, all’indomani dell’invasione della Grecia da parte delle forze dell’Asse, fondò l’Unione socialista, assieme ad altri esponenti politici di formazione riformista, tra i quali Iorgos Papandreu, presidente del primo governo nominato dopo la Liberazione.

Nell’ottobre 1944, Z. fu nominato governatore generale della Banca di Grecia, carica che conservò per un periodo di appena tre mesi. In questo breve e tormentato periodo, Z. riuscì ad adottare misure decisive per il risanamento finanziario della Grecia, ridotta alla bancarotta dalle conseguenze economiche dell’occupazione. Siglato l’accordo con le autorità britanniche per la stabilizzazione monetaria del paese, nel mese di novembre varò il piano per la riconversione della dracma. Nell’immediato dopoguerra, Z. fu nominato presidente del Consiglio d’amministrazione della Banca dell’agricoltura di Grecia e responsabile per la Grecia del Fondo monetario internazionale, nonché membro della commissione greca dell’United Nations relief and rehabilitations administrations (UNRRA) per la gestione degli aiuti umanitari americani.

Dopo la fine della guerra civile seguita alla Liberazione (1946-1949), fu ministro per il Coordinamento nel governo presieduto da Dimitrios Kiousopoulos, con il quale nel 1953 si chiuse la parentesi dei governi di coalizione, espressione delle correnti moderate e dei circoli liberali riformisti, che avevano caratterizzato la prima incerta fase di stabilizzazione politica del paese. Nel nuovo quadro politico, delineato dall’ascesa al potere delle destre guidate dal maresciallo Papagos, Z. rimase consulente del governo per le questioni finanziarie. Esaurita la prima fase del risanamento monetario del dopoguerra, nel 1953 egli diede un decisivo apporto alla riforma monetaria che, con un’ulteriore riconversione della dracma e una svalutazione del 50% della moneta greca in rapporto al dollaro, ancorò definitivamente la ripresa economica della Grecia al mercato statunitense.

Nel 1955, quando Konstantinos Karamanlis fu chiamato dal re a sostituire il defunto maresciallo Papagos alla guida del governo, Z. fu nominato di nuovo governatore generale della Banca di Grecia. In piena sintonia con l’orientamento europeista del primo ministro e con la firma, nel 1957, degli Accordi di Roma che prefigurarono la graduale integrazione della Grecia nell’area del Mercato comune europeo, Z. si fece promotore di una politica di stabilizzazione economica e finanziaria volta a sostenere la candidatura del suo paese come futuro Stato membro della Comunità economica europea (CEE).

Passato attraverso i molteplici cambiamenti di regime politico interno susseguitisi in oltre trent’anni di carriera politica, nel 1967, dopo il colpo di Stato dei Colonnelli, Z. abbandonò sia l’incarico di governatore generale della Banca di Grecia sia la cattedra universitaria, con un duplice atto di dimissioni compiuto all’insegna della più netta opposizione nei confronti della dittatura militare. Nel luglio 1974, all’indomani del crollo del regime, fu nominato ministro per le attività di Coordinamento nel governo di unità nazionale presieduto da Konstantinos Karamanlis. Insediatosi di nuovo ai vertici della Banca di Grecia, nel medesimo ruolo istituzionale che aveva rivestito nel biennio 1959-1961, diede un contributo decisivo alla ratifica degli accordi per l’ingresso definitivo della Grecia nella CEE siglati tra il 1979 e il 1981. Dopo la formazione, in quello stesso anno, del primo governo socialista nella storia del paese guidato dal Partito socialista panellenico (Panellinio sosialistiko kinima, PASOK) di Andreas Papandreu, fu sostituito nella carica di governatore generale della Banca di Grecia, divenendone presidente onorario.

Nel 1989, sullo sfondo della grave crisi politico-istituzionale provocata dall’ondata di scandali finanziari che coinvolsero lo stesso Papandreu e numerosi altri esponenti del PASOK, all’indomani di due tornate elettorali tenute a distanza di pochi mesi, Z. accettò all’età di 85 anni di presiedere il governo tecnico, appoggiato dai socialisti, dal partito di centrodestra della Nuova democrazia e dalle sinistre riunite nella coalizione della Synaspismos, incaricato di portare il paese fuori dall’impasse elettorale.

Konstantinos Kornetis (2010)