Convenzione Nazionale sul futuro europeo della Slovacchia

Istituita a seguito dell’accordo raggiunto dal Consiglio europeo di Nizza nel dicembre 2000 (v. anche Trattato di Nizza), la Convenzione nazionale sul futuro europeo della Slovacchia mirava a facilitare l’introduzione di un dibattito pubblico sulle questioni inerenti all’avvenire dell’Unione europea (UE). La dichiarazione di Nizza delineava quattro questioni centrali che riguardavano la semplificazione dei trattati, lo status della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il ruolo dei parlamenti nazionali e le delimitazioni delle competenze tra Unione europea e Stati membri. Subito dopo il summit di Nizza, il capo negoziatore e viceministro degli Esteri della Slovacchia, Ján Figel’, mise in evidenza l’importanza di un forum in cui gli slovacchi potessero discutere non soltanto del futuro dell’UE, ma anche del futuro europeo della Slovacchia.

L’obiettivo della Convenzione nazionale, riunitasi per la prima volta nel maggio 2001, era quello di avviare un dibattito che coinvolgesse tutta la nazione. Per raggiungere tale scopo, fu posta particolare enfasi sulla composizione dell’Assemblea, nel tentativo di rispecchiare la pluralità del paese. Furono inclusi rappresentanti dei partiti politici parlamentari, del mondo accademico, delle chiese, dei gruppi d’interesse, dei sindacati, dei comuni, delle regioni nonché di organizzazioni non governative. Tra i partecipanti vi erano leader di partiti politici come Mikuláš Dzurinda, Béla Bugár, Pavol Hrušovský, Robert Fico e Vladimir Mečiar. I due fronti del mondo industriale, sindacati e organizzazioni padronali, erano rappresentati dai rispettivi leader (Ivan Saktor e Michal Ľach) insieme a vescovi, magistrati, rappresentanti dei principali think tank, quali l’Istituto per gli affari pubblici, l’Associazione slovacca per la politica estera, e accademici. Il ministro degli Esteri Eduard Kukan aprì l’incontro inaugurale, seguirono poi i discorsi di Dzurinda, Mečiar e Peter Weiss, presidente della Commissione parlamentare per gli Affari esteri.

La Convenzione si rivelò un forum importante per il dibattito. Un aspetto particolarmente significativo fu che diversamente da altre istituzioni come il parlamento o il consiglio dei ministri, dove i politici di diverso schieramento erano incentivati a essere in disaccordo, gli esponenti slovacchi di tutto lo spettro politico giunsero a larghe intese su molteplici questioni. Ad esempio, la seconda sessione tenutasi nell’ottobre 2001, portò a un rafforzamento del consenso politico generale sulla necessità di lanciare un dibattito pubblico più ampio e profondo sul ruolo e sulle posizioni della Slovacchia nell’Unione europea allargata. Inoltre, in quella sessione, la convenzione concordò sul rafforzamento del principio comunitario nell’attività delle istituzioni europee (v. anche Istituzioni comunitarie), e sostenne la necessità di una maggiore trasparenza della riforma istituzionale, avvicinando così l’UE ai propri cittadini, rafforzandone la legittimità ed eliminando il deficit democratico.

Sebbene anche gruppi di cittadini fossero presenti ai dibattiti della Convenzione, alcune riunioni furono dominate dai leader politici. Ad esempio nella terza riunione, avvenuta nel marzo 2002, il presidente slovacco Rudolf Schuster fece un discorso fondamentale, in cui delineò la sua visione dell’UE, sostenendo che essa sarebbe dovuta diventare un attore globale. Ispirandosi agli scritti di Milan Hodža, primo ministro cecoslovacco tra le due guerre, Schuster auspicò un’Europa veramente federale. Consapevole dei passi che la Slovacchia doveva ancora compiere, il presidente invitò la Slovacchia a proporre idee positive rispetto all’integrazione (v. anche Integrazione, teorie della), mettendola in guardia sull’impatto potenzialmente deleterio di tentativi volti a definire negativamente la Slovacchia in relazione all’UE (v. Bilčík, 2003).

La quarta riunione della Convenzione ebbe luogo nel luglio 2002 dopo il primo incontro di un gruppo di lavoro più piccolo. La dichiarazione finale del Convegno mise in rilievo che una serie di diritti e libertà fondamentali dell’UE sarebbero dovuti essere parte integrante di ogni documento costituzionale, ma fece anche notare che, per quanto la Carta dei diritti fondamentali concordata a Nizza fosse un buon punto di partenza, sarebbe stato necessario incorporare nel testo le tradizioni costituzionali dei futuri Stati membri. Inoltre, la Convenzione, su richiesta soprattutto dei Cristiano-democratici, ma con l’ampio sostegno di tutti i delegati, invitò a includere nella Carta il riconoscimento dei valori morali e spirituali del cristianesimo. Ciò nonostante, sempre consapevole che l’adesione della Slovacchia non era ancora certa (v. anche Paesi candidati all’adesione), la Convenzione frenò ogni aperta critica nei confronti dell’Unione europea. Tutte le critiche rimasero nascoste dietro un linguaggio moderato e furono inserite in un contesto di plauso per i successi dell’Unione e per i vantaggi dell’adesione slovacca, per il paese stesso, ma anche per l’UE.

Dopo il Consiglio europeo di Copenaghen del 2002 (v. Criteri di adesione), nel quale la Slovacchia fu invitata ad aderire all’UE, ebbe luogo la quinta e ultima riunione della Convenzione. Considerato che l’adesione ormai dipendeva solo dalla ratifica del trattato, l’assemblea cominciò a rivolgere critiche molto più aspre verso l’Unione europea e alcune sue proposte. L’idea di un presidente del Consiglio europeo eletto, ad esempio, fu ritenuta inadeguata, pur riconoscendo la necessità di apportare delle modifiche della presidenza dell’Unione europea. Inoltre, per mantenere l’equilibrio tra piccoli e grandi Stati membri dell’UE, la Convenzione invitò l’Unione ad adottare un sistema tale da non alterare l’equilibrio nel quadro istituzionale. Inoltre, la Convenzione si appellò all’UE affinché prestasse maggiore attenzione alla comunicazione con i cittadini. Tuttavia, la Convenzione apprezzò molti aspetti della bozza del trattato, compreso l’articolo che si riferiva alla necessità di creare relazioni privilegiate con i paesi che si stavano avvicinando all’Unione.

La Convenzione nazionale costituì un importante strumento istituzionale nella politica interna, ma rimase poco utilizzato (v. Bilčík, 2003). L’adesione della Slovacchia all’UE si concentrò soprattutto sugli aspetti tecnici delle trattative e della trasposizione dell’acquis comunitario. Sebbene il soddisfacimento dei criteri tecnici fosse la condizione sine qua non per l’adesione, era importante che i politici slovacchi si impegnassero nel processo e che tutti i cittadini si rendessero conto delle implicazioni dell’adesione slovacca. Sebbene la Convenzione avesse contribuito a far emergere le idee dei comuni cittadini attraverso gruppi della società civile e i loro leader politici, l’adesione rimase una questione essenzialmente d’élite.

Tim Haughton (2010)




Democrazia liberale della Slovenia

Il processo d’integrazione della Slovenia nell’Unione europea (UE) ha coinvolto attivamente diversi attori che vi hanno partecipato in modo differente. Tra questi, il partito politico Democrazia liberale della Slovenia (Liberalna demokracija Slovenije, LDS).

L’LDS è l’erede della Lega della gioventù socialista della Slovenia, che nel 1990 si riorganizzò come Partito liberale democratico. Nel marzo 1994 si unì al Partito democratico, a una fazione dei Verdi sloveni e al Partito socialista di Slovenia, formando la Democrazia liberale della Slovenia.

L’adesione della Slovenia all’UE (v. Criteri di adesione) era una questione di priorità assoluta. Nel suo programma, l’LDS affermava inequivocabilmente che il suo obiettivo politico principale era l’integrazione più rapida possibile della Slovenia nell’Europa (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). L’adesione non era ritenuta soltanto un progetto dell’LDS o del governo, ma piuttosto un progetto nazionale che avrebbe rafforzato la posizione internazionale della Slovenia. Ciò nonostante, nel programma del partito l’adesione all’UE veniva menzionata come un obiettivo astratto, senza che fosse previsto alcun provvedimento concreto. L’LDS, in quanto partito di maggioranza parlamentare (e quindi di governo) descrisse in dettaglio il processo di adesione della Slovenia nell’UE in molti altri documenti, preparati e adottati dal governo o dall’Assemblea nazionale.

L’LDS assunse una posizione a favore dell’integrazione europea, ritenendo che rispecchiasse gli sforzi e i valori della democrazia liberale europea. L’entusiastica approvazione dell’integrazione slovena nell’UE ricevette il sostegno di tutto il partito. Basandosi soprattutto sui previsti vantaggi economici che sarebbero derivati dall’adesione, i membri del partito erano convinti che non esistesse una valida alternativa all’essere europeisti. L’LDS considerava l’adesione all’UE una scelta molto vantaggiosa per la Slovenia, poiché avrebbe aumentato il suo prestigio politico e la sicurezza geopolitica e fornito un quadro duraturo per il proprio sviluppo economico e i progressi in campo accademico, scientifico, culturale, politico.

Con l’adesione all’UE come obiettivo primario, il programma dell’LDS si distingueva poco da quello degli altri partiti politici. Tutti i maggiori partiti politici in Slovenia sostenevano fortemente l’adesione all’UE. In un clima così favorevole, nel 1997 venne firmato l’Accordo di cooperazione per l’adesione della Slovenia all’UE (v. Paesi candidati all’adesione). Tale accordo rispecchiava il consenso sulla cooperazione di base tra i maggiori partiti politici che agivano per l’adesione slovena all’UE. L’accordo fu firmato dai rappresentanti di tutti i partiti del parlamento tranne il Partito nazionale sloveno, che era contrario all’adesione. L’accordo sancì l’interesse della Slovenia per un’adesione a pieno titolo nell’UE e stabilì l’istituzione di un Coordinamento permanente dei partiti parlamentari. Questo organismo agì da mediatore tra le differenti posizioni dei vari partiti in merito al processo di adesione e facilitò il coordinamento dei principali partiti politici con lo scopo di raggiungere un accordo generale.

I progressi verso l’integrazione della Slovenia nell’UE furono particolarmente rapidi. La candidatura all’adesione fu presentata nel 1996, l’inizio ufficiale dei negoziati di adesione avvenne nel 1998, i negoziati si conclusero nel 2002 e l’adesione diventò ufficiale nel maggio 2004. I preparativi per la partecipazione e i negoziati si estesero per più di due legislature. I governi successivi ebbero una composizione politica analoga, con coalizioni dove l’LDS mantenne la leadership della vita politica slovena. L’unico periodo nel quale l’LDS non fu partito di governo fu un breve intermezzo, dal giugno al novembre 2000. Eppure il processo di adesione non subì battute d’arresto, a dimostrazione del vasto sostegno in favore dell’integrazione del paese nell’UE da parte dei maggiori partiti politici.

L’LDS agì immancabilmente attraverso i canali governativi e parlamentari. Ebbe, quindi, forte potere e ascendente quando esercitava il potere esecutivo, influenzando ad esempio il modo in cui la politica veniva concepita e messa in atto. Il processo d’adesione all’UE fu quindi portato avanti dall’LDS. Il governo iniziò a creare organismi per gestire l’integrazione europea, in particolare l’Ufficio governativo per gli Affari europei, la cui funzione consisteva nel coordinare gli affari europei in Slovenia e nell’assicurare che l’amministrazione nazionale promuovesse posizioni uniformi rispetto all’UE. Il governo di coalizione dell’LDS, che si insediò nel 2002, aveva promesso di indire un referendum sull’adesione all’UE nel 2004. Il referendum, di natura consultiva, scatenò contrasti tra i partiti politici sloveni pro UE. Fu trovata una soluzione di compromesso con un emendamento alla Costituzione e con la dichiarazione che l’Assemblea nazionale sarebbe stata vincolata al suo risultato.

L’LDS era anche il principale partito dell’organo legislativo, l’Assemblea nazionale, in seno al quale si adoperò per raggiungere la convergenza sulle posizioni negoziali e sull’adozione della legislazione europea. L’LDS cooperò con gli altri partiti della coalizione e dell’opposizione in diverse istituzioni parlamentari, in particolare nella Commissione per gli Affari europei e nella delegazione slovena presso la Commissione parlamentare congiunta. Vennero comunque perseguiti gli obiettivi espliciti della Commissione per gli Affari europei di coordinare tutte le attività connesse all’adesione della Slovenia e di monitorare i progressi nell’armonizzazione della legislazione slovena con l’Acquis comunitario. Nel 1998 fu istituita la Delegazione slovena della Commissione parlamentare congiunta al fine di assicurare il dialogo politico a livello parlamentare nel processo di adesione. La Commissione per gli Affari esteri doveva approvare tutte le posizioni negoziali governative prima che venissero presentate a Bruxelles. Inoltre, tutti gli altri organismi operativi dell’Assemblea nazionale presero parte attiva nel processo di armonizzazione della legislazione slovena con quella UE, a seconda dei settori legislativi. L’Assemblea nazionale contribuì quindi in modo piuttosto efficace al processo di adesione e guidò attivamente l’attività del governo nella fase di preadesione (v. Strategia di preadesione).

L’Assemblea nazionale, inoltre, discusse e/o adottò tutti i documenti chiave quali la Strategia di adesione all’UE della Repubblica di Slovenia, approvata nel febbraio 1998, il Programma nazionale per l’adozione dell’acquis entro la fine del 2002, approvato nell’aprile 1999, la Dichiarazione sulla politica estera, adottata nel dicembre 1999 e la Risoluzione sulla strategia di sicurezza nazionale della Repubblica di Slovenia, approvata nel luglio 2001. Un passo importante nel processo d’adesione fu compiuto con l’approvazione del nuovo regolamento nell’aprile 2002, che permise l’adozione molto più rapida della legislazione necessaria per l’armonizzazione dei regolamenti e dell’acquis, e i necessari emendamenti alla Costituzione nel marzo 2003. Tutti i documenti redatti e adottati furono preparati per permettere alla Slovenia di soddisfare tutti i criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione) e quelli relativi alla capacità amministrativa stabiliti dal Consiglio europeo di Madrid. I documenti definivano gli obiettivi strategici e di sviluppo, le politiche, le riforme e le misure necessarie per la loro realizzazione. La Slovenia, quindi, espresse in tutte le risoluzioni e documenti strategici e al più alto livello politico il proprio sostegno e la disponibilità a diventare membro dell’UE.

L’obiettivo dell’adesione all’UE non fu presentato soltanto come il più importante, ma anche come il più complesso della Slovenia. L’LDS era pienamente consapevole che i futuri negoziati che la Slovenia avrebbe affrontato a Bruxelles sarebbero stati ardui. L’UE non era considerata solo una grande opportunità, ma anche un potenziale pericolo e un problema. Tuttavia, si ritenne che gli aspetti negativi potessero superarsi con un’adesione graduale, che avrebbe lasciato il tempo sufficiente per prevedere tutte le possibili conseguenze negative e per introdurre misure adeguate contro gli eventuali effetti indesiderati.

Nell’aprile 1998 il governo nominò la delegazione di negoziatori, composta da un di esperti di 10 membri, guidata da Janez Potočnik. L’attività dei negoziatori incluse l’analisi della legislazione, l’armonizzazione della stessa con l’acquis comunitario e la preparazione delle posizioni negoziali della Slovenia per ciascuno dei 31 capitoli del negoziato. Le trattative furono ardue e richiesero decisioni complesse da parte slovena, che spesso furono causa di controversie in patria. L’LDS espresse il suo disappunto per il fatto che l’UE non potesse accordare la piena applicazione dell’acquis ai lavoratori sloveni a partire dalla data di adesione. Ciò nonostante, l’LDS ritenne il risultato delle trattative all’altezza delle aspettative e conforme agli interessi a lungo termine della Slovenia. I negoziati di adesione e le discussioni sui costi e i benefici dell’adesione attirarono l’attenzione dell’opinione pubblica, che si confermò a favore dell’UE. Gli elettori sloveni sostennero con forza l’adesione all’UE nel referendum del marzo 2003 (89,64% a favore).

Anche i contatti politici e le affiliazioni ai partiti si rivelarono molto importanti, e furono un canale insostituibile a cui la Slovenia ricorse per influenzare le attività della UE in merito all’allargamento. L’LDS collaborò con le istituzioni UE a Bruxelles e con i partiti politici europei. Oltre a relazioni di natura prettamente formale, fu stabilita un’intera rete di contatti personali informali. L’LDS è membro dell’Internazionale liberale dal 1992 e del Partito europeo dei liberali, democratici e riformisti (ELDR) dal 1998. In varie occasioni l’ELDR ha organizzato seminari per promuovere contatti più stretti fra i partiti e in qualche misura ha assistito l’LDS in questo processo. Inoltre, il congresso dell’ELDR, ospitato dall’LDS, si è svolto a Lubiana nel settembre 2001.

La Slovenia è riuscita ad aderire all’UE in un periodo, relativamente breve, di soli dodici anni, dopo il riconoscimento internazionale della sua indipendenza. L’adesione poté contare sulla comune volontà politica della maggioranza dei partiti parlamentari. Eppure il contributo dell’LDS al processo d’integrazione europea è stato considerato particolarmente determinante, forte e vincente. La Slovenia ha armonizzato in larga misura la propria legislazione con l’acquis dell’UE, ha modificato la propria Costituzione e ristrutturato profondamente il proprio apparato amministrativo. A ogni modo, l’LDS non avrebbe potuto solo raggiungere da solo il suo obiettivo, senza il consenso politico e il sostegno pubblico a favore dell’adesione slovacca all’UE (v. anche Slovacchia).

Katarina Vatovec (2006)




Europa-Union Deutschland

Europa-Union Deutschland è un’associazione e un’organizzazione non governativa impegnata nella cooperazione europea, che si propone come “buona coscienza” e “iniziativa dei cittadini” per l’Europa. Fondata il 9 dicembre 1946 a Syke, nei pressi di Brema, nella Germania settentrionale, è la sezione tedesca dell’Unione europea dei federalisti (UEF). Europa-Union non è legata a un partito politico o a una confessione particolari. Lo statuto dell’associazione federale (nella versione del 14 novembre 2003) menziona come obiettivo principale la «promozione dell’internazionalismo, della tolleranza in tutti gli ambiti della cultura e del principio della comprensione fra i popoli, allo scopo di creare gli Stati uniti d’Europa su base federativa e democratico-statale» (v. Federalismo).

Attraverso seminari e azioni rivolte all’opinione pubblica riguardanti la costituzione dell’Unione europea e altri temi europei, Europa-Union Deutschland si adopera per influenzare l’opinione pubblica, i partiti politici, i parlamenti e i governi e per diffondere i propri obiettivi inerenti alla politica europea. L’associazione si riconosce negli obiettivi del “programma di Hertensteiner” del 21 settembre 1946. Europa-Union è organizzata in senso federale e ha associazioni a livello distrettuale e di Land. L’organo più importante dei congressi di Europa-Union è il comitato federale. Gli Jungen europäischen Föderalisten svolgono un ruolo importante come organizzazione giovanile di Europa-Union, perché contribuiscono a coinvolgere anche i giovani nel lavoro per l’associazione e negli obiettivi di un’Europa organizzata in senso federale.

Gli esordi e i precursori di Europa-Union Deutschland sono riconducibili ai dibattiti intavolati nel periodo fra le due guerre mondiali in molti paesi europei, per comprendere come si potesse scongiurare in modo duraturo una guerra in Europa. I fautori del federalismo vedevano nella soppressione degli Stati nazionali sovrani e nella creazione di uno Stato federale europeo la soluzione più adeguata per evitare la guerra e una concentrazione di potere. La Paneuropa-Union del conte Richard Coudenhove-Kalergi, fondata nel 1923 a Basilea, rappresentò l’embrione delle successive associazioni europeiste in concorrenza reciproca. In seguito alla fondazione di Paneuropa in Svizzera si formarono diversi gruppi tutti impegnati a favore di un’Europa federale, i quali nel giugno 1934 crearono una Europa-Union autonoma, che prese le distanze dalla Paneuropa di Coudenhove-Kalergi. Negli anni della Seconda guerra mondiale presero forma idee concrete e proposte per un’Europa federale: nel Regno Unito con Pax union, fondata nell’agosto 1938, che in seguito cambiò nome in Federal union, in Italia con il celebre Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi (1941), e in Francia con Combat, il gruppo di resistenza creato nel dicembre 1941.

Era comune a tutte queste iniziative la convinzione che il nazionalismo e il razzismo avrebbero potuto essere dominati nel modo migliore attraverso un’Europa unita. Nel settembre 1946 la Europa-Union svizzera invitò tutti i federalisti europei a un incontro a Hertenstein sul Vierwaldstätter See. Le 12 tesi formulate in quell’occasione sono entrate a far parte della storia del federalismo europeo come “Programma di Hertensteiner” e rappresentano il fondamento ideale più importante del programma di Europa-Union Deutschland, che fu fondata poche settimane più tardi.

La storia immediatamente precedente alla fondazione di Europa-Union Deutschland è segnata dalla situazione politica nella Germania occupata dagli Alleati e divisa in quattro zone di occupazione nei primi anni del dopoguerra. Nel dicembre 1946 fu fondata a Parigi l’UEF; dato che i tedeschi, pur essendo stati invitati, non avevano ottenuto dalle autorità occupanti le autorizzazioni per spostarsi, a tenere banco a Parigi furono soprattutto italiani, francesi e olandesi. Solo pochi tedeschi, che erano andati in esilio in Svizzera per salvarsi dalle persecuzioni naziste, parteciparono alla conferenza della UEF. Il ruolo più importante lo svolse Heinrich Georg Ritzel, un socialdemocratico tedesco che negli anni dal 1937 al 1947 era stato segretario generale di Schweizer Europa-Union. Ritzel, già nel maggio 1946, aveva viaggiato nelle zone di occupazione occidentali nella Germania occupata per diffondere le sue idee sull’Europa.

Insieme all’industriale Wilhelm Hermes e a Wilhelm Heile, che già nel periodo fra le due guerre mondiali aveva fondato un Verband für europäische Cooperation, Ritzel fece parte di quella ristretta cerchia di persone che hanno avviato la costruzione di Europa-Union Deutschland. Il 9 dicembre 1946, essi riuscirono a fondare Europa-Union Deutschland grazie all’associazione di diversi gruppi europeisti più piccoli. Il nome “Europa-Union Deutschland” era ispirato intenzionalmente al modello svizzero, quindi l’organizzazione svizzera ne era stata in qualche modo l’“ostetrica” (v. Conze 2005, p. 218). Dato che la forza di occupazione britannica, nella sua zona, aveva concesso la fondazione di associazioni fin dall’inizio del 1946, già nella primavera del 1947 fu possibile creare diversi gruppi regionali di Europa-Union in Nordrhein-Westfalen, Bassa Sassonia, Schleswig-Holstein, Berlino, Brema e Württemberg-Baden (v. Niess, 2001, p. 95). Nelle zone di occupazione americana e francese nel corso del tempo si costituirono altri gruppi europeisti, che furono fondati come gruppi regionali di Europa-Union oppure erano in concorrenza con quest’ultima. La fase originaria fu segnata dalle rivalità e dalla battaglia per conquistarsi influenza e denaro.

Tuttavia, Europa-Union seppe imporsi rapidamente sugli altri gruppi europeisti già prima del suo primo congresso, tenuto nel giugno 1947 in occasione del quale 200 delegati si riunirono a Eutin nella Germania settentrionale per dare a Europa-Union una base organizzativa. Nel novembre 1947 Europa-Union Deutschland divenne membro dell’UEF. Nel 1948 – ossia ancora prima della fondazione della Repubblica Federale Tedesca nel maggio 1949 – Europa-Union disponeva già di oltre 200 associazioni distrettuali. Ma la riforma monetaria messa in atto nelle zone di occupazione occidentali determinò una crisi finanziaria di Europa-Union, minacciando di distruggere rapidamente i successi iniziali; in questa situazione vennero in aiuto gli uffici governativi americani concedendo dei finanziamenti. Con l’avvento della Guerra fredda l’American committee for a free and united Europe si sviluppò fino a diventare lo strumento più importante della politica europea degli Stati Uniti. Il sostegno finanziario concesso a gruppi come Europa-Union Deutschland doveva contribuire – questo l’obiettivo – a trasformare la cultura politica in Germania e a favorire la “rieducazione” della popolazione tedesco-occidentale (v. Conze, 2005, pp. 301-302).

Con il congresso di Europa-Union Deutschland di Amburgo nel maggio 1949 si concluse la prima fase del lavoro di fondazione dell’associazione e con la stesura di uno statuto e con l’elezione del pubblicista – perseguitato dai nazisti – Eugen Kogon come nuovo presidente fu inaugurata un’era nuova. Uno degli obiettivi centrali di Europa-Union Deutschland consisteva nell’avvicinare la popolazione dello Stato tedesco-occidentale alle idee europee, per poter esercitare così una pressione sui governi e sui partiti affinché portassero avanti il progetto di un’unificazione europea. Tuttavia l’obiettivo di un movimento di massa era illusorio e l’idea che l’entusiasmo per l’Europa che animava la popolazione si potesse convertire direttamente in azione politica si dissolse. Lo slancio rivoluzionario sul quale puntava anche il nuovo presidente Eugen Kogon non attecchì nella società tedesco-occidentale del dopoguerra.

Ciò nonostante Europa-Union Deutschland continuò a consolidarsi. Negli anni seguenti furono fondate sempre nuove associazioni distrettuali. Anche sul piano internazionale i rappresentanti tedeschi di Europa-Union acquistarono influenza e persero gradualmente il ruolo iniziale di outsider. Nel dicembre 1950, Kogon fu eletto presidente dell’UEF (v. Conze, 2005, pp. 303-306). I primi anni di Europa-Union Deutschland furono segnati dalle riflessioni sul modo in cui avrebbe potuto essere raggiunta nella prassi un’unità europea; l’UEF e anche la sezione tedesca perseguivano a questo proposito l’obiettivo idealistico di poter ottenere quest’unità solo attraverso un atto rivoluzionario dei popoli europei e non per mezzo dei governi a loro parere troppo esitanti.

Il secondo tema che impegnava Europa-Union era la questione del raggiungimento di un’unificazione delle due parti della Germania in un’Europa unita. Già il Congresso di Amburgo del 1949 si era svolto all’insegna del motto “una Germania unita in un’Europa unita” (v. Conze, 2005, p. 308). In questa fase iniziale, un altro tema affrontato era l’idea che l’Europa potesse garantire la pace nel mondo come “terza forza” fra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. L’evoluzione della Guerra fredda e la graduale integrazione limitata a singoli settori, come la cooperazione nel settore del carbone e dell’acciaio, fecero sempre più distanziare le idee di Europa-Union Deutschland dalla concreta politica europea portata avanti dal governo di Konrad Adenauer. Questa situazione fece sì che a metà degli anni Cinquanta Europa-Union imboccasse la strada pragmatica e “funzionalista”; quest’orientamento nuovo provocò, tuttavia, tensioni con l’UFE (v. Funzionalismo).

Quest’ultima continuava a perseguire l’impostazione “rivoluzionaria”, rappresentata dal presidente del comitato esecutivo dell’UEF Altiero Spinelli. Al VII Congresso di Europa-Union, nell’ottobre 1954, il noto giornalista Ernst Friedländer fu eletto presidente; insieme con il banchiere di Colonia Friedrich Carl von Oppenheim, che dal 1957 a 1973 fu a capo di Europa-Union, l’organizzazione conobbe una fase di consolidamento sul piano dei contenuti e finanziario. Questo mutato orientamento, in base al quale Europa-Union perseguiva i suoi obiettivi politici non contro ma con i parlamentari e i governi europeisti, segnò il lavoro dell’associazione negli anni a venire. Malgrado i dibattiti ricorrenti sulla scelta delle strategie e dei temi adeguati negli anni Sessanta e Settanta, questa svolta in direzione di un approccio più pragmatico e realistico non fu mai più abbandonata.

Oggi Europa-Union Deutschland si considera più che mai un moltiplicatore, una rete e una forza trainante critico-costruttiva della politica europea, come viene concepita a Bruxelles e a Berlino.

Martin Große Hüttmann (2012)




Fondazione Friedrich Ebert

L’attività svolta da molti think tank e ONG con base in Slovacchia mirata a costruire una democrazia vitale e contribuire all’adesione della Slovacchia all’Unione europea, è stata sostenuta sia sul piano finanziario che a livello di risorse umane da organismi internazionali. Negli ultimi quindici anni la Fondazione società aperta, la Fondazione per lo sviluppo della società civile, il Fondo tedesco Marshall, la Fondazione per l’istruzione “Jan Hus”, il Fondo inglese per il know-how, il Fondo del Canada, l’Istituto internazionale repubblicano e il Servizio informazioni degli Stati Uniti si sono tutti impegnati attivamente, promuovendo progetti in tutto il paese (v. Bútora, Demeš, 1999). Una tra le più attive è stata la Fondazione Friedrich Ebert (Friedrich Ebert Stiftung, FES).

La FES, creata nel 1925 in memoria di Friedrich Ebert, il primo presidente tedesco socialdemocratico e democraticamente eletto, ha tre obiettivi principali: promuovere l’educazione politica e sociale dei cittadini nello spirito della democrazia e del pluralismo; sostenere, attraverso borse di studio, lo studio e la ricerca dei giovani; incoraggiare la comprensione e la cooperazione internazionale. Con un budget di più di cento milioni di euro e sedi operative in più di cento paesi nel mondo, la FES è stata un organismo influente non soltanto in Slovacchia, ma in tutto il mondo.

Dai propri uffici di Bratislava fondati nel 1990, la FES ha cercato di promuovere buone relazioni bilaterali con la Germania e di assistere la Slovacchia (e precedentemente la Cecoslovacchia) nell’adesione alle istituzioni europee (v. anche Istituzioni comunitarie) e transatlantiche, specialmente all’UE. Le radici socialdemocratiche della FES si sono rivelate importanti. Infatti, la Fondazione ha stretto saldi legami con l’Alleanza della sinistra democratica (Sojusz lewicy demokratycznej, SDL), erede del Partito comunista. L’attività della FES unitamente ai forti legami personali tra Peter Weiss, leader dell’SDL dal 1990 al 1996, e i socialdemocratici tedeschi, hanno contribuito a elaborare un programma socialdemocratico per il partito.

La FES, tuttavia, non si è solo limitata a promuovere gli interessi socialdemocratici, bensì è diventata uno dei più influenti finanziatori di seminari e conferenze, molte delle quali hanno avuto come risultato pubblicazioni utili nella diffusione di idee dirette a un pubblico più vasto. L’impatto della FES si è colto soprattutto nella sua volontà a collaborare con altre ONG, specialmente con organizzazioni slovacche formatesi in patria. Collaborava, ad esempio, con altre ONG quali l’Alleanza delle donne e l’Associazione Alexander Dubček, ma ha anche finanziato la Comunità accademica. Negli anni 1998-2002, la conferenza annuale dell’Associazione slovacca di scienze politiche, che ha avuto tra i suoi relatori accademici stranieri di alto profilo, è stata possibile grazie soprattutto agli aiuti della FES. Allo stesso modo, ha contribuito alla formazione della generazione futura di eurocrati slovacchi, provvedendo alle borse di studio degli studenti impegnati in studi sull’Europa presso istituzioni come l’Accademia Istropolitana Nova. Inoltre, si è adoperata per promuovere buone relazioni con i paesi confinanti, attraverso una serie di tavole rotonde come quella slovacco-ungherese a Dunajská Streda nel febbraio 1999.

Per assistere la Slovacchia nel cammino verso l’UE, le due collaborazioni più proficue sono state quelle con l’Associazione slovacca per la politica estera (Slovak foreign policy association, SFPA) e con i dipartimenti governativi. Dalla metà degli anni Novanta in poi, la FES ha finanziato diversi seminari dell’SFPA. Alcuni di questi erano diretti ai politici, come il discorso del primo ministro portoghese António Guterres, intitolato “Il futuro dell’Europa”, tenuto a Bratislava nel 2001. Altri seminari avevano lo scopo di informare un pubblico spesso trascurato, soprattutto fuori Bratislava. Ne è esempio un forum tenutosi a Prešov nell’aprile 1998, nel quale si prendeva in esame l’impatto che l’allargamento dell’UE avrebbe potuto avere sulle relazioni tra Slovacchia e Ucraina.

La FES e il suo impegnato direttore a Bratislava, Michael Petráš, hanno intrecciato buone relazioni con il governo, specialmente dopo il 1998 anche grazie alla presenza nel governo dei politici dell’SDL. In questo caso l’impatto della FES è stato più limitato. Durante i primi due anni di mandato del governo, la FES ha organizzato seminari soltanto nei ministeri guidati da politici dell’SDL, in particolare presso il ministero della Difesa, dove si sono svolti tre seminari sul tema dell’allargamento dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). L’unica eccezione a questa tendenza è stata una tavola rotonda organizzata nel 2001 con il vice primo ministro per gli Affari delle minoranze, Pál Csáky. Durante le ultime fasi dell’adesione (v. Criteri di adesione), la FES, pur trattando temi più generali, ha anche organizzato seminari specialistici. Nel 2002, ad esempio, la FES ha finanziato seminari sul “Monitoraggio europeo” e sulle implicazioni giuridiche della trasposizione dell’acquis comunitario.

È difficile valutare con precisione l’impatto delle attività della FES, ma si può affermare che è stata una delle ONG più attive in Slovacchia. Alla luce dei numerosi seminari (circa cento soltanto dal 1998 al 2004) e pubblicazioni (un’analoga quantità nello stesso periodo), sarebbe inverosimile pensare che durante il processo di adesione tutto questo non abbia aiutato gli slovacchi sia a comprendere meglio l’UE, che a prepararsi nel migliore dei modi.

Tim Haughton (2012)




Gran commissione del Parlamento

I 200 membri del Parlamento unicamerale finlandese, l’Eduskunta, vengono eletti per un mandato di quattro anni da un collegio elettorale uninominale (la provincia di Åland) e da quattordici collegi elettorali plurinominali. La natura dell’attività parlamentare unitamente al modello frammentato del sistema partitico hanno favorito uno stile politico consensuale, con relazioni tra governo e opposizione basate innanzitutto sul compromesso e su negoziati interpartitici. Diversamente dalla politica interna, dove l’influenza dell’opposizione si è indebolita a partire dai primi anni Novanta, sui temi riguardanti l’Unione europea e la politica estera l’obiettivo di costituire larghe maggioranze garantisce che le opinioni dei partiti di opposizione non siano completamente ignorati.

L’attività decisionale del Parlamento si basa sulla costante interazione tra gruppi partitici e commissioni. La maggior parte dell’attività legislativa si svolge all’interno delle Commissioni, soprattutto l’esame dettagliato delle iniziative del governo. La delibera della Commissione è obbligatoria e precede la fase plenaria. Secondo l’articolo 40 della Costituzione, «le proposte del governo, le mozioni dei rappresentanti, le relazioni sottoposte al Parlamento e altre questioni, previsti dalla Costituzione o dal regolamento parlamentare devono essere istruiti dalle Commissioni prima di essere presi in esame dal Parlamento in seduta plenaria». Le Commissioni si riuniscono a porte chiuse, ma possono rendere noti al pubblico i verbali qualora ciò risultasse necessario per raccogliere importanti informazioni.

Recenti riforme costituzionali hanno parlamentarizzato il sistema politico finlandese, consentendo al governo e al primo ministro di uscire dall’ombra del presidente e diventare i leader del processo politico. L’adesione all’Unione europea (v. Criteri di adesione) ha quindi rappresentato una sfida per il parlamento, preoccupato che la sua posizione non risultasse indebolita a seguito delle dinamiche del processo politico dell’UE. Nel 1990, quando in seno all’Eduskunta erano già stati effettuati alcuni adattamenti in funzione dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), la Commissione per gli Affari esteri richiese che il Parlamento e in particolare le sue commissioni permanenti avessero accesso alle informazioni e potessero influenzare la politica nazionale nel processo decisionale relativo allo Spazio economico europeo. L’obiettivo era garantire all’Eduskunta una posizione di potere nell’ambito del processo decisionale UE per ciascuna legislatura nazionale. D’altro canto, gli emendamenti costituzionali miravano al rispetto della separazione tra i rami esecutivo e legislativo; fu accordato al Parlamento il diritto di partecipare alla formulazione della politica nazionale nelle questioni UE e al governo di decidere su tali questioni e rappresentare la Finlandia a livello europeo.

La Gran commissione e la Commissione per gli Affari esteri sono i principali organismi incaricati delle questioni europee; la prima costituisce l’equivalente della Commissione per gli Affari europei ed è presente in tutti i Parlamenti nazionali degli Stati membri dell’UE. La Gran commissione è costituita da 25 membri e 13 sostituti. Inoltre, il deputato che rappresenta le Isole Åland ha sempre diritto a partecipare alle riunioni della Commissione. La Commissione si riunisce generalmente il mercoledì e il venerdì, con riunioni che durano in media dalle due alle due ore e mezza. La Gran commissione tende ad attirare importanti membri dell’Eduskunta.

La Gran commissione partecipa alla formulazione delle politiche nazionali sulle decisioni prese a livello europeo, istruisce i ministri che partecipano alle riunioni del Consiglio dei ministri e verifica il comportamento dei rappresentanti finlandesi in seno al Consiglio europeo.

Sebbene l’Eduskunta non possa essere definito come un organismo legislativo dal forte peso politico sulla legislazione interna, esso ha sottoposto il governo a un esame abbastanza rigoroso sulle questioni UE. Il potere di verifica dell’Eduskunta ha quattro punti forza: la sua posizione è regolamentata dalla Costituzione; è entrato relativamente presto nel processo legislativo dell’UE; gode di accesso illimitato alle informazioni di fonte governativa; la responsabilità di preparare e monitorare le questioni europee viene sottodelegata a commissioni specializzate. In particolare la decentralizzazione della verifica e della formulazione politica trasferite così alle commissioni permanenti aumenta le possibilità per l’intero Parlamento di influenzare la posizione del governo. La delega di potere alle commissioni permanenti avvantaggia sia il governo che i deputati dell’opposizione, poiché un forte sistema di commissioni favorisce un controllo efficiente del governo. Accordi più centralizzati che conferiscono un ruolo molto minore alle commissioni specializzate, come quelli stabiliti dalla maggioranza degli Stati membri, non consentono di beneficiare dell’esperienza cumulativa delle commissioni permanenti. Un sistema decentralizzato, d’altro canto, coinvolge tutti i rappresentanti nelle questioni UE. Un altro aspetto di fondamentale importanza è l’accesso praticamente illimitato, e costituzionalmente regolamentato dal governo, alle informazioni, soprattutto perché le regole costituzionali incoraggiano il governo a fornire volontariamente all’Eduskunta informazioni, senza bisogno di alcuna richiesta specifica da parte dei deputati del Parlamento.

L’attività di verifica della Commissione sulle questioni europee differisce, per un importante aspetto, dalla normale elaborazione della legislazione interna: sia nella Gran commissione che nelle commissioni specializzate la dimensione governo-opposizione non svolge l’unico ruolo determinante. Diversamente da coalizioni a maggioranza stabile dove il potere dell’opposizione può essere escluso, la tradizionale divisione tra governo e opposizione spesso sfuma sulle questioni europee poiché la divisione tra favorevoli e contrari all’integrazione è trasversale agli schieramenti di sinistra e di destra. La Gran commissione si è rifiutata di controfirmare automaticamente le decisioni del governo e ha premuto affinché tutte le informazioni pertinenti fossero messe a disposizione dei rappresentanti del governo e dell’opposizione su basi paritarie. L’obiettivo principale è quello di raggiungere l’unanimità parlamentare – e quindi nazionale – o almeno un largo consenso che possa tradursi in una maggiore influenza in seno al Consiglio dei ministri UE. La coalizione governativa multipartitica, unitamente al ruolo accordato all’opposizione nella Gran commissione favorisce un ampio sostegno all’azione del governo a livello europeo.

Tapio Raunio (2012)




Gustav Heinemann e la riunificazione tedesca

Per cogliere l’importanza, ma anche la singolarità, del percorso politico di H. nella storia politica tedesca del secondo dopoguerra occorre risalire al 1950, a quando cioè H. decise di rassegnare le dimissioni da ministro degli Interni del primo governo Adenauer, incarico che all’epoca ricopriva da appena un anno. Lo strappo si consumò sulla questione del riarmo tedesco, un argomento che nel breve termine avrebbe assunto un significato strutturante nella storia politica tedesca, segnando in maniera ancor più netta il solco tra i fautori della politica di piena integrazione con l’Occidente e coloro i quali temevano, invece, che una siffatta politica avrebbe reso permanente la divisione del paese. In particolare, H. si schierò tra questi ultimi, ritenendo che il recupero di sovranità e la parità di diritti non costituissero un obiettivo, ma un presupposto necessario per evitare lo scoppio di una guerra civile tra i tedeschi dell’Ovest e i tedeschi dell’Est. A suo avviso inoltre non vi era alcuna necessità di fornire un contributo militare al sistema difensivo occidentale, dato che gli alleati si erano impegnati a garantire incondizionatamente la sicurezza della Repubblica federale, e occorreva altresì scongiurare a tutti i costi il pericolo di un risveglio del militarismo tedesco; l’Unione Sovietica avrebbe potuto interpretare il riarmo come una provocazione e reagire con una guerra preventiva (v. Heinemann, 1977, pp. 97-107). La contrapposizione tra gli integrazionisti e i nazional-neutralisti non trovò, d’altra parte, perfetta corrispondenza nel rapporto governo-opposizione. Vi furono, infatti, anche nazional-neutralisti della prima ora come il cristiano-democratico Jakob Kaiser, che all’epoca decisero di continuare la loro battaglia per la Germania unita rimanendo all’interno della compagine governativa. Questa circostanza conferisce al gesto di H. un rilievo ancor maggiore, anche se tra le ragioni contestuali che motivarono la sua scelta di rassegnare le dimissioni da ministro degli Interni vi fu certamente il risentimento personale per il modo con il quale era stato, di fatto, esautorato dalle sue competenze di responsabile per la sicurezza (v. Vinke, 1986). Dal canto suo, Adenauer stigmatizzò l’atteggiamento di H. come quello di un pacifista privo di senso della realtà (v. Schwarz, 1986, pp. 766-774). Il cancelliere renano avrebbe, tuttavia, atteso sei settimane prima di accettare formalmente la richiesta di dimissioni di H., temendo che questo atto avrebbe potuto avere ripercussioni negative sugli equilibri politico-confessionali interni alla maggioranza. H. era pur sempre un autorevole rappresentante della minoranza evangelica nella CDU, nonché presidente del Sinodo della Chiesa evangelica. Il tentativo di H. e di Niemöller di capitanare la componente protestante fuori dalla CDU s’infranse, però, dinanzi all’opposizione della corrente filoadenaueriana, che era interessata a preservare la natura interconfessionale dell’unione (v. Doering-Manteuffel, 1988, pp. 317-335).

Passato all’opposizione, H. cercò di costruirsi da solo la propria casa politica ideale, con la costituzione di un movimento politico, “L’unione d’emergenza per la pace europea”, e, nel 1952, attraverso la creazione di un nuovo partito, il Partito popolare per la Germania unita. Tra gli esponenti di spicco della Gesamtdeutsche Volkspartei si ricordano, in particolare, la cofondatrice Helene Wessels, Erhard Eppler e Johannes Rau. Le linee guida del partito erano prevalentemente centrate sulla questione nazionale, come si legge anche nel manifesto programmatico che venne presentato il 29 e 30 novembre 1952:

«Noi vediamo l’obiettivo centrale della politica estera tedesca nel mantenimento della pace e nella riunificazione del nostro popolo in un’unica entità statale […]. La Germania come terra di mezzo e senza vincoli coloniali deve tenersi al di fuori degli schieramenti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica […]. Una posizione per la Germania unita esige l’indipendenza sia da Est che da Ovest […]»(v. Gallus, cit., p. 82 e ss.).

Portatrice in ambito internazionale di una posizione neutralista e del non allineamento, sul piano della politica interna la GVP si riconosceva pienamente nei principi della cultura occidentale e, in particolare, in quelli della democrazia parlamentare e del cristianesimo sociale. Il partito di Gustav H. e di Helene Wessels si rivelò, tuttavia, troppo di nicchia per poter sopravvivere, come la FDP, a quel fenomeno di crescente concentrazione del voto a vantaggio dei due grandi partiti popolari. Sull’esito fallimentare registrato alle elezioni del 1953 – la GVP ottenne solamente l’1,6% dei consensi – sembrerebbe, peraltro, aver pesato in maniera significativa anche l’impatto emotivo degli avvenimenti del 17 giugno 1953 e il conseguente discredito delle posizioni neutraliste. La GVP si sciolse nel maggio 1957, comportando l’ingresso di una parte dei suoi militanti tra le file della SPD (v. Müller, 1990).

L’approdo di H. alla socialdemocrazia tedesca non fu scontato, ma neanche un incidente della storia. In particolare, H. era stato, insieme ad alcuni esponenti della SPD, uno dei principali ispiratori del “Manifesto tedesco” del 1955, ovvero di quel disegno che prevedeva di svincolare la Repubblica federale e la Repubblica democratica dai due sistemi di alleanze militari vigenti e di realizzare l’unificazione all’interno di un sistema di sicurezza collettivo sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’entrata in vigore dei Trattati di Parigi del 1954-1955 segnò il definitivo tramonto dell’illusione di poter risolvere il problema della divisione del paese prima che la Repubblica federale venisse assorbita in un sistema di alleanze militari. Con l’ingresso della Repubblica federale nella NATO, la questione della difesa venne, d’altra parte, separata da quella dell’integrazione europea, così che, a partire da quel momento, risultò sicuramente meno compromettente per le correnti nazional-neutraliste sostenere il progetto di un’Europa unita centrato sull’integrazione economica. La risoluzione della questione della Saar, dopo la bocciatura nell’ottobre 1955 del referendum per l’europeizzazione del territorio, aveva poi eliminato un secondo importante motivo, che fino ad allora aveva reso difficile sostenere il processo d’integrazione. In questo contesto, anche H. supportò la decisione della SPD di votare nel 1957 a favore della ratifica dei trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom).

Gli sviluppi sulla scena internazionale non fecero, però, cambiare idea a H. rispetto alla necessità di esplorare la via del dialogo con l’Unione Sovietica al fine di trovare una soluzione al problema della divisione del paese. Al riguardo, è nota la circostanza che vide H., insieme al liberale Thomas Dehler, sferrare nel gennaio 1958 uno dei più duri attacchi al governo Adenauer che si ricordino nella storia parlamentare tedesca. Nella seduta del 23 e 24 gennaio i due ex ministri del governo Adenauer denunciarono senza mezzi termini il “fallimento” della politica governativa per la riunificazione del paese. Particolarmente efficace (anche se successivamente confutata dagli storici) fu l’accusa rivolta al cancelliere renano di aver deliberatamente sprecato nel 1952, con riferimento alla nota Stalin, la presunta grande opportunità di giungere a una soluzione di compromesso con i sovietici sulla questione nazionale. Il discorso pronunziato da H. in quella occasione è, peraltro, emblematico di quanto il suo impegno politico fosse pervaso dalla sua religiosità. Significativo, in particolare, il passaggio in cui H. paragonò Adenauer a un crociato: «Ritiene che sia una cosa buona che l’Occidente si schieri come un fronte cristiano? Non si tratta di una lotta del cristianesimo contro il marxismo, ma della presa di coscienza che Cristo non è morto contro Karl Marx, ma per tutti noi!» (v. Schwarz, 1991, p. 405 e ss.].

Come membro della Commissione parlamentare agli Affari esteri, H. continuò a occuparsi di politica estera e della questione della divisione del paese anche nel decennio successivo, fino a quando nel 1966 fu chiamato a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia nel governo di Grande coalizione presieduto da Kurt Georg Kiesinger. Al bilancio sostanzialmente positivo della prima esperienza consociativa della storia politica tedesca, H. contribuì con l’importante riforma del diritto penale che, tra le altre cose, portò all’abolizione della prescrizione per i crimini di genocidio.

Fortemente sostenuto da Willy Brandt, che di lì a breve sarebbe divenuto il primo cancelliere socialdemocratico della Bundesrepublik, il 5 marzo 1969 H. fu eletto Presidente della Repubblica ottenendo al terzo scrutinio il 50% dei consensi. Così come era avvenuto in occasione dell’elezione di Theodor Heuss e di Heinrich Lübke, rispettivamente venti e dieci anni prima, anche le elezioni presidenziali del 1969 contribuirono a rendere più chiaramente riconoscibili le dinamiche all’interno e tra le principali forze politiche del paese, anticipando la configurazione partitica della successiva coalizione di governo. Lo stesso H., in una intervista rilasciata il 6 marzo alla “Stuttgarter Zeitung”, definì la sua elezione come un «frammento di cambio di potere». In particolare, l’indisponibilità della CDU a sostenere un esponente socialdemocratico e la decisione della SPD di presentare H. come candidato di punta decretarono anzitempo la fine dell’esperienza consociativa della Grande coalizione. Allo stesso modo, la divisione sulla scelta del candidato che si consumò all’interno della CDU sui nomi di Gerhard Schröder e di Richard von Weizsäcker, la grande disciplina di partito esibita invece dalla SPD al momento dell’elezione di H. e la convergenza dei liberali di Scheel sul candidato socialdemocratico prefigurarono la possibilità di un accordo tra SPD e FDP in vista delle imminenti elezioni per il Bundestag.

H. è stato uno dei presidenti federali più dinamici, ma anche più discussi nella storia politica tedesca, se non altro per il ruolo di moralizzatore che cercò di esercitare in una fase segnata dalle proteste studentesche e dalla crescita di consensi delle forze politiche extraparlamentari. Lo stile informale, la capacità di intercettare con i suoi discorsi i bisogni della gente comune e la particolare attenzione che dedicò alla causa della riconciliazione dei popoli del continente europeo gli valsero il soprannome di “presidente dei cittadini” (Bürgerpräsident).

Gabriele D’Ottavio




I Movimenti a favore del ”no”

I Movimenti a favore del “no” in Danimarca si costituirono dopo la prima candidatura danese per l’adesione alla Comunità economica europea (CEE) nel 1961. Tra i partiti rappresentati in Parlamento soltanto il Partito socialista popolare (Socialistisk Folkeparti), frangia politica di minoranza, si oppose all’adesione. Malgrado tutti gli altri partiti fossero favorevoli all’adesione, a condizione che anche il Regno Unito ne divenisse membro, manifestavano un certo scetticismo nei confronti della CEE. Inoltre, l’adesione era osteggiata da numerosi piccoli partiti di sinistra e di destra, come pure da rappresentanti sindacali, dal Movimento pacifista di allora e dal Movimento della Resistenza della Seconda guerra mondiale. Comune a tutti i gruppi era il timore che la nazione danese corresse il rischio di trovarsi intrappolata in una comunità sovranazionale, il che da un lato avrebbe nuovamente potuto esporre il paese (come nella era accaduta nel caso della Seconda guerra mondiale) al controllo e al dominio tedesco, e dall’altro avrebbe potuto separare la Danimarca dalle nazioni sorelle del Nord.

La prima vera e propria organizzazione per il “no” venne costituita nel gennaio 1962 da persone affiliate al partito di estrema destra Unificazione danese (Dansk Samling) insieme ad alcuni noti socialdemocratici e liberali, in questo caso schieratisi a titolo personale. Un mese più tardi alcuni membri del partito social-liberale costituirono un’organizzazione concorrente che nell’estate del 1962 fu seguita da un’altra organizzazione, sostenuta dal più importante uomo d’affari danese, il magnate del commercio marittimo A.P. Møller (nato nel 1876). Nel contempo il Partito comunista danese fondava a Copenaghen vari comitati locali per il “no”. Malgrado convergessero verso identici obiettivi, le organizzazioni a favore del “no” si osteggiavano tra loro, tanto quanto osteggiavano l’adesione della Danimarca alla CEE, un aspetto da allora caratteristico della storia dei movimenti per il “no”.

In seguito al veto più volte posto all’allargamento da parte del presidente Charles De Gaulle durante gli anni ’60, l’interesse pubblico alla questione dell’adesione era piuttosto limitato e adombrato da altri temi dell’agenda nazionale e internazionale. Malgrado ciò e nonostante le fragili strutture dei movimenti per il “no”, questi furono comunque in grado di elaborare un minimo di argomentazioni a sostegno delle loro tesi e a creare una vaga rete organizzativa comprendente la maggior parte dei sostenitori del “no”. L’importanza di tale fatto divenne chiara quando, nell’autunno del 1970, la Danimarca, in seguito alla conferenza dell’Aja che apriva la strada per un nuovo ciclo di negoziati sull’Allargamento, entrò in quello che sarebbe stato il round decisivo dei negoziati per l’adesione.

La sensazione che fosse giunta l’ora decisiva portò la questione CEE al centro del dibattito politico in Danimarca e ciò coinvolse immediatamente l’elettorato. Tra il 1960 e il gennaio 1970 i sondaggi d’opinione avevano evidenziato un campione stabile con approssimativamente il 50% dell’elettorato favorevole all’ingresso della Danimarca nella CEE insieme con la Gran Bretagna, e con una percentuale di voti contrari mai superiore al 10%. Ma da quel momento la percentuale dei votanti per il Sì cominciò a ridursi mentre i sostenitori del No aumentarono. Così nella primavera del 1971 il partito del Sì si trovò con un vantaggio di soli 7 punti percentuali. Parallelamente il numero delle organizzazioni per il “no” era aumentato in modo drastico. Quando divenne chiaro che la questione della partecipazione sarebbe stata decisa da un referendum, fissato successivamente per il 2 ottobre 1972, venticinque organizzazioni nazionali e 150 comitati locali fondarono, nei primi mesi del 1972, l’organizzazione “Movimento Popolare contro la CEE” (Folkebevægelsen mod EF).

Il Folkebevægelsen abbracciava all’incirca l’intero spettro delle opposizioni alla CEE con la significativa eccezione dei “Socialdemocratici contro la CEE”, un gruppo d’opposizione all’interno del Partito socialdemocratico. Quest’ultimo si batteva per organizzare le attività per il “no” in una campagna coordinata nella fase precedente il referendum. La campagna risultò così efficace che il risultato del referendum non era prevedibile con certezza. Ciò nonostante, alla fine il partito dei Sì trionfò con un netto margine in quanto il 63,3% dei votanti scelse di ascoltare le raccomandazioni per il Sì diffuse dal governo, dai grandi partiti e da particolari gruppi d’interesse.

Il Folkebevægelsen continuò l’attività dopo il referendum, operando in favore del ritiro danese dalla CEE, e durante gli anni ’70 costituì una forte organizzazione centralizzata con una rete di gruppi locali operante su scala nazionale di circa 10.000 membri, una casa editrice, una tipografia e il periodico Notat. I leader erano reclutati prevalentemente nei piccoli partiti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra; molti provenivano dal Partito comunista. Ciò, comunque, non impedì la diffusione del sostegno al movimento del “no”.

Alle elezioni del primo Parlamento europeo nel 1979, il Folkebevægelsen ottenne quattro dei sedici seggi danesi e allorché si aggiunse il seggio ottenuto dal Partito socialista popolare, che aveva scelto di presentarsi da indipendente sebbene fosse anch’esso membro del Folkebevægelsen, il partito dei “no” controllò circa un terzo dei seggi danesi. Questa proporzione, nella rappresentanza danese al Parlamento europeo, si rivelò stabile poiché non cambiò fino alle elezioni del 2004, quando i Movimenti a favore del “no” subirono un’amara sconfitta, perdendo due rappresentanti.

Durante il periodo del referendum, in concomitanza con la ratifica dell’Atto unico europeo nel 1986, furono appositamente costituiti nuovi movimenti del “no” in competizione con il Folkebevægelsen. Questi operavano a partire da una differente piattaforma poiché la loro opposizione era diretta contro ulteriori e più vincolanti forme di integrazione, ma non si opponeva all’adesione danese alla CEE in quanto tale. Comunque, il referendum si concluse nuovamente con la vittoria del Sì e la nuova spaccatura politica fra i movimenti del “no” aumentò negli anni successivi e divenne ancor più profonda durante la campagna per il referendum sul Trattato di Maastricht nel 1992.

Nuovi movimenti per il “no” furono creati ad hoc sulla base della formula “«no» a una maggiore integrazione e Sì allo status quo”. Tra questi nuovi gruppi, “Danimarca 92” era il più importante. Dopo lo scarso 50,7% ottenuto dal fronte del “no” nel referendum del 2 giugno 1992 che determinò la mancata ratifica del Trattato di Maastricht da parte della Danimarca, “Danimarca 92” nell’agosto 1992 mutò il proprio nome divenendo il “Movimento di giugno” (Junibevægelsen). Molte delle personalità di spicco del Folkebevægelsen lasciarono l’organizzazione per unirsi al “Movimento di giugno”. Da allora i due movimenti, pressappoco di eguale forza, sono stati in competizione fra di loro; tuttavia, il periodico Notat ha agito fin dal 1992 da anello di congiunzione tra i movimenti a favore del “no”.

Durante gli anni ’90 si verificò un cambiamento nella composizione dell’elettorato dei movimenti per il “no”. Tali movimenti non si erano mai candidati alle elezioni parlamentari nazionali, ma fino al 1990 i loro sostenitori ai referendum provenivano dalle file della sinistra, e principalmente dall’elettorato socialdemocratico. Ciò mutò quando la Comunità europea divenne Unione europea (UE) e un numero crescente di elettori di destra iniziò a sostenere i movimenti per il “no”, un evento recentemente controbilanciato da un crescente numero di elettori di sinistra, ora sostenitori del partito del Sì.

Lo spostamento verso destra comportò degli sforzi per costituire movimenti del “no” con uno spiccato profilo conservatore. Ma questi tentativi si rivelarono piuttosto insoddisfacenti. D’altro canto il partito populista di destra, “Partito popolare danese” (Dansk Folkeparti), fondato nel 1995, ha avuto successo nell’opporsi all’UE, un tema cardine della propria piattaforma politica. Nella campagna del referendum per l’Unione economica e monetaria (UEM) del 2000, il Partito popolare danese giocò un ruolo analogo a quello del Folkebevægelsen e a quello del Movimento di giugno dalla parte del “no”. Il referendum si concluse con il 53,2% contrario all’ingresso della Danimarca nella terza fase dell’UEM, sebbene la Corona fosse strettamente ancorata all’Euro. Durante la campagna, il leader del Partito popolare danese, Pia Kjærsgaard (nata nel 1947) riuscì a far sì che l’indipendenza nazionale e la perdita della sovranità nazionale divenissero le due questioni fondamentali da dibattere, cosa che ovviamente trovò larga eco in gran parte dell’elettorato.

Tra le personalità più influenti dei movimenti danesi del “no” vi sono Jens-Peter Bonde (nato nel 1948) e Drude Dahlerup (nata nel 1945). Poiché Jens-Peter Bonde era stato, negli anni 1970-72, membro dell’organizzazione giovanile del Partito social-liberale danese, si trovò coinvolto nella fondazione del Folkebevægelsen. L’incontro con i più attivi comunisti nell’ambito del Movimento, portò Bonde ad aderire al Partito comunista di cui egli rapidamente ne divenne una delle figure leader. Tale posizione durò fino alla disgregazione del partito nel 1990. Successivamente Bonde non si affiliò ad alcun partito politico. Dopo la bancarotta del periodico Notat nel 1974, Bonde lo riorganizzò e si rivelò l’elemento trainante di quasi tutte le più importanti attività del Folkebevægelsen e della sua leadership. Nel 1979 egli ottenne un seggio nel Parlamento europeo, che ha mantenuto fino al 2008. Nel Parlamento europeo ha promosso vari gruppi politici trasversali. Inoltre è autore di più di 55 libri sull’Unione europea. Sebbene nel 1992 fosse ancora un esponente di spicco del Folkebevægelsen, egli fu al contempo un cofondatore di Danimarca 92 e del Movimento di giugno. Per questa ragione egli lasciò il Folkebevægelsen. Jens-Peter Bonde è il politico danese che si occupa dell’UE con la più lunga carriera. Durante la sua attività ha raggiunto una vasta conoscenza dell’UE, per cui è rispettato perfino dal partito del Sì, sia in Danimarca sia nel Parlamento europeo. D’altro canto, il suo sapersi destreggiare sul piano tattico e retorico, lo ha spesso reso bersaglio di severe critiche.

La carriera di Drude Dahlerup, come figura politica contraria all’UE, iniziò con il suo coinvolgimento nella campagna per il referendum di Maastricht e il ruolo svolto all’interno di “Danimarca 92”, di cui fu leader di primo piano. A quel tempo era nota al pubblico come importante attivista del movimento di liberazione della donna, mentre professionalmente svolgeva attività di ricercatrice in scienze politiche presso l’Università di Aarhus. Nel 1998 si trasferì a Stoccolma dove divenne docente presso l’Università di Stoccolma. Continuò, anche dopo il suo trasferimento, a essere una figura leader del Movimento di giugno e fu un esponente di primo piano nei dibattiti durante la campagna per il referendum sull’UEM. Malgrado non fosse mai stata candidata alle elezioni, dal 1992 al 2002 fu la portavoce principale del Movimento di giugno.

Søren Hein Rasmussen (2010)




Il Comitato Europeo sotto il Governo della Repubblica di Lituania

Il decreto governativo del 1995 gettò le fondamenta del quadro istituzionale della politica europea lituana stabilendo un comitato di coordinamento ad alto livello (la Commissione governativa per l’integrazione europea), un’istituzione di coordinamento (Dipartimento per l’integrazione europea all’interno del ministero per gli Affari esteri) e unità speciali per gli Affari europei in ciascun ministero. Dopo le elezioni parlamentari dell’autunno 1996, che portarono al potere un governo di coalizione guidato dalla conservatrice Unione patriottica, venne ristrutturato il quadro istituzionale. Furono costituiti un ministero degli Affari europei e una delegazione per le trattative.

Tuttavia, dopo la riorganizzazione per ragioni politiche del governo nel 1998, il Comitato europeo sotto il governo della Repubblica di Lituania (più avanti nel testo definito Comitato europeo o CE) rimpiazzò il ministero degli Affari europei. I compiti principali del CE erano il coordinamento delle attività dei ministeri lituani e di altre istituzioni governative (incluso il processo negoziale) durante l’integrazione del paese nell’Unione europea, supervisionare l’implementazione dei programmi nazionali per l’integrazione, svolgere la funzione del segretariato della Commissione governativa per l’integrazione europea e supervisionare l’implementazione delle sue decisioni (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Infatti, il Comitato europeo iniziò a preparare il programma per la Commissione governativa (v. Pettai, Zielonka, 2003) e divenne un’istituzione di grande importanza nel processo negoziale, il 1° gennaio 2001 il suo direttore Petras Auštrevičius divenne il nuovo capo negoziatore della Lituania.

Il Comitato europeo consisteva in 3 dipartimenti e 9 divisioni. Esso impiegava 65 dipendenti dell’età media di trentadue anni. Il CE fondò due istituzioni pubbliche, l’Agenzia lituana per lo sviluppo e il Centro di traduzione, documentazione e informazione. Il CE coordinò i seguenti programmi per l’integrazione: il Programma nazionale di analisi sui cambiamenti sociali ed economici relativi all’adesione della Lituania all’UE; il Programma nazionale di valorizzazione della formazione e delle competenze degli specialisti UE; il Programma per lo sviluppo della pubblica consapevolezza; il Programma di integrazione della Lituania nel Mercato unico europeo; il Programma di promozione di investimenti esteri in Lituania; il Programma nazionale di adozione dell’acquis comunitario; il Programma di sviluppo istituzionale; il Programma nazionale di armonizzazione legislativa; il Centro di traduzione, documentazione e informazione; il Programma di pianificazione della politica regionale lituana. Gli obiettivi principali del Comitato europeo erano: prendere parte alla formazione della politica di integrazione UE della Repubblica di Lituana e assicurare l’effettivo coordinamento della sua implementazione; assicurarsi che la Lituania assolvesse tutti gli obblighi relativi alla partecipazione nella UE, prima del 1° gennaio 2004, eccetto i temi in merito ai quali furono concordati i periodi di transizione; completare le trattative della Lituania con l’UE prima della fine del 2002; promuovere il livello di consapevolezza del pubblico lituano sull’integrazione del paese nell’UE e ricercare la sua approvazione del processo; rendere possibile alle imprese lituane di prepararsi meglio per la competizione sul mercato UE aumentando la loro consapevolezza rispetto ai nuovi requisiti e opportunità nell’UE, e promuovendo le loro competenze; valutare il possibile impatto sociale ed economico dell’integrazione lituana nell’UE, nelle aree più problematiche in relazione ai negoziati e sviluppare un sistema di atti giuridici che regolamentino la valutazione d’impatto;

Le principali attività del Comitato europeo

Una delle aree più importanti delle attività del CE, a parte il lungo processo negoziale, è stata la diffusione di informazioni sull’integrazione della Lituania nell’UE, destinate alle imprese e in generale alla popolazione. Svolgendo tale compito, il CE, nel settembre 2002, annunciò una gara d’appalto rivolta a organizzazioni non governative desiderose di impegnarsi nei processi d’integrazione UE. Il CE era pronto a fornire vari strumenti per il raggiungimento di questo scopo, inclusi conferenze, seminari, dibattiti, libri, serie di articoli, ecc.

Per contribuire al successo dell’integrazione delle società lituane nel mercato UE, il Comitato europeo, insieme al ministero dell’Economia, pubblicava nel 2002 la “Guida per fare impresa nel Mercato unico europeo” (Verslo Europos Sajungos bendrojoje rinkoje vadovas). La pubblicazione offre informazioni dettagliate e ben strutturate, a partire da una conoscenza di base del Mercato unico europeo, fino a consigli specifici ai responsabili del mondo imprenditoriale lituano su come preparare e gestire un programma di esportazioni. Vi sono incluse informazioni su leggi e regolamenti UE, parametri sulla sicurezza dei prodotti e la certificazione di qualità, pratiche di gestione, ecc. Molta attenzione viene data a varie forme di sostegno UE al commercio lituano, in particolare tramite strumenti di politica strutturale e regionale. La Guida è distribuita gratuitamente nei centri di informazione europei. È disponibile per associazioni commerciali, università, amministrazioni regionali e municipali, e biblioteche.

In aggiunta a pubblicazioni singole, per accrescere la consapevolezza e la conoscenza sui processi di integrazione UE, il CE stampa due pubblicazioni periodiche. Nel 1998 iniziò la pubblicazione di “Notizie sull’integrazione” (“Integracijos Žinios”), un bollettino mensile specializzato, a colori, di 20 pagine, sulla partecipazione lituana alla UE, che offriva articoli di analisi e opinione.

Del bollettino erano in circolazione 7000 copie. Veniva distribuito sulla base di libere sottoscrizioni a organismi pubblici nazionali e locali, governo, parlamento, ufficio del presidente, amministrazioni regionali e istituzioni dei governi locali, ambasciate lituane all’estero e ambasciate straniere in Lituania, organizzazioni non governative, istituti per l’istruzione, biblioteche, responsabili commerciali, mass media centrali e regionali, e clero. Ogni mese, vi erano 30-60 abbonati in più che desideravano ricevere regolarmente il notiziario. “Notizie sull’integrazione” era anche distribuito in vari seminari, conferenze e presentazioni collegate all’UE.

Un’altra pubblicazione periodica, avviata dal Comitato europeo, è “Notizie sull’eurobusiness” (“Euroverslo naujieno’). Essa è mirata a contribuire all’effettiva operatività del mondo degli affari lituano nel mercato UE e contiene informazioni relative alle condizioni commerciali nel Mercato unico europeo. Questo bollettino è pubblicato elettronicamente e distribuito gratuitamente dal 2001. È stato uno tra i primi progetti del CE, volto a diffondere informazioni sul Mercato unico europeo nel mondo degli affari lituano. “Notizie sull’eurobusiness” pubblica articoli sulla competitività del commercio lituano, sugli aiuti UE al commercio, sulla politica commerciale UE, sugli standard dei prodotti, commenti su leggi e regolamenti UE e notiziari d’economia dall’Europa, dalla Lituania e dal mondo. Il bollettino è stato stampato in 5000 copie e distribuito gratuitamente tramite associazioni commerciali e centri d’informazione sull’Europa istituiti a livello regionale.

Nel 2001, il Comitato europeo, perseguendo l’altro suo obiettivo relativo alla formazione e all’aggiornamento dei dirigenti e imprenditori lituani per innalzare la competitività delle società lituane nell’UE, iniziò a gestire il programma “Eurobusiness” (“Euroverslas”). Tra i principali argomenti vi erano i principi del funzionamento del Mercato unico europeo, i requisiti UE sui prodotti, le condizioni sul commercio e sugli affari nell’UE, ecc.

Infine in linea con uno dei propri obiettivi, nel 2001 il Comitato europeo organizzò l’esame qualitativo di circa duemila atti legislativi UE nella prospettiva del loro impatto economico e sociale sulla Lituania. (v. Vilpišauskas, 2001).

La riorganizzazione

Il 1° gennaio 2004, il Comitato europeo, avendo la Lituania completato con successo le trattative riguardanti l’ingresso nella UE, venne riorganizzato, relegando le sue funzioni principali all’Ufficio del primo ministro della Lituania (Lietuvos Respublikos vyriausybės kanceliarija). Di conseguenza furono organizzati due nuovi dipartimenti nell’Ufficio del primo ministro: il Dipartimento per l’analisi politica dell’Unione europea e il coordinamento interistituzionale, e il Dipartimento per il coordinamento e il monitoraggio dell’implementazione legislativa europea.

Questi dipartimenti coordinano e partecipano alle decisioni riguardanti le posizioni della Lituania rispetto alle questioni UE in fase di dibattimento e all’armonizzazione degli atti legislativi con le norme UE, come pure alla supervisione della gestione delle risoluzioni e degli obblighi adottati. Il Dipartimento per l’informazione e la comunicazione, con sede nell’ufficio del primo ministro, venne ampliato stabilendovi la divisione di pubbliche relazioni e informazioni sull’Unione europea, la cui missione principale era di fornire al pubblico le informazioni riguardanti le questioni UE. In queste nuove strutture venne inserito il personale precedentemente impiegato dal Comitato europeo. Le funzioni del CE relative al coordinamento della politica di mercato interno all’UE furono trasferite al ministero dell’Economia, dove, per lo svolgimento di queste funzioni, venne costituito un nuovo dipartimento per il coordinamento della politica di mercato interno.

Jolanta Stankevičiūtė (2009)




Il non allineamento militare della Finlandia nell’Unione

Durante la Guerra fredda la Finlandia si dichiarò paese neutrale. Nel 1948 aveva firmato un Tratto di amicizia, cooperazione e mutua assistenza con l’Unione Sovietica, contenente una clausola in base alla quale nessuno dei firmatari avrebbe aderito a una coalizione diretta contro l’altro. Negli anni Cinquanta la neutralità si cristallizzò nella dottrina finnica in materia di politica estera. La Finlandia cercò di tenersi fuori dallo scontro tra le grandi potenze. Questa politica di neutralità implicava un atteggiamento estremamente cauto nei confronti delle varie organizzazioni dell’Europa occidentale. L’adesione alla Comunità economica europea (CEE) era fuori questione a causa dell’opposizione sovietica, ma la Finlandia non aderì nemmeno all’Associazione europea di libero scambio (European free trade agreement, EFTA) come membro a pieno titolo, firmando invece nel 1961 un trattato speciale (FINEFTA) con i paesi dell’EFTA.

Si affermò l’idea che la Finlandia dovesse restare fuori da una integrazione sovranazionale, rifiutando ogni impegno politico che potesse mettere a repentaglio la sua neutralità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). La Finlandia cercò altresì di stabilire relazioni simmetriche con i due blocchi: gli accordi economici con l’Occidente erano compensati da accordi paralleli con l’Est.

Nel corso del tempo, tuttavia, le implicazioni pratiche della neutralità furono interpretate in misura sempre più ristretta, e di conseguenza un numero crescente di attività internazionali fu considerato compatibile con essa. La partecipazione alle attività in favore della pace delle Nazioni Unite, ad esempio, era molto importante per la Finlandia.

Negli anni Ottanta la Finlandia cominciò ad appoggiarsi in misura crescente all’EFTA, di cui divenne membro a pieno titolo nel 1986. Nel 1989 l’idea di un’Area economica europea (AEE) fu proposta come alternativa alla piena partecipazione alla Comunità Europea per i paesi neutrali dell’EFTA. Si trattava di un modo per combinare le “quattro libertà” (v. Libera circolazione delle persone; Libera circolazione delle merci; Libera circolazione dei capitali; Libera circolazione dei servizi) con il rifiuto di assumere impegni di politica estera. L’idea pertanto sembrò subito promettente per la Finlandia. Con la caduta del Muro di Berlino, nell’autunno del 1990 la Finlandia sottopose a revisione l’interpretazione del Trattato di Parigi e il Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza fu rimpiazzato nel 1992 da un Accordo di relazioni di buon vicinato con la Russia. Così come avevano fatto gli altri paesi neutrali dell’EFTA, anche la Finlandia chiese di entrare a far parte della Comunità europea nel 1992, seguendo le orme della vicina Svezia.

All’inizio degli anni Novanta la Finlandia ridefinì la propria condizione di neutralità in termini di “non allineamento militare”, una posizione che implicava una difesa indipendente credibile, ma non comportava la partecipazione ad alcuna alleanza militare. In seguito, sarà adottata la dizione equivalente di “paese non alleato”. Elemento centrale di questa nuova concezione era l’idea che la cooperazione militare con altri paesi fosse possibile, escludendo però le garanzie di mutua difesa. La Finlandia intanto cominciava a impegnarsi nel nuovo schema di cooperazione della NATO-North Atlantic cooperation council (NACC) e Partnership for Peace (PFP) – senza peraltro perseguire l’adesione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Solidarietà e sicurezza ebbero anch’esse un ruolo importante nella campagna referendaria sull’adesione all’Unione europea (UE) (v. Criteri di adesione). Divenne ben presto opinione diffusa che la partecipazione alla UE avrebbe rafforzato la sicurezza del paese, ritenuta più forte di quanto non fosse mai stata in passato.

Nonostante questa ridefinizione, la Commissione europea prestò speciale attenzione al principio del non allineamento militare nella sua valutazione della richiesta di adesione presentata dalla Finlandia. Secondo la Commissione, ciò avrebbe potuto costituire un ostacolo alla piena accettazione della Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Si temeva che i paesi ex neutrali potessero indebolire i progetti di una politica estera e di sicurezza comune.

La Finlandia dichiarò la sua disponibilità ad attuare la PESC e a essere un membro attivo e costruttivo. Per rassicurare l’opinione pubblica interna, fu sottolineata la compatibilità tra la PESC e la politica di non allineamento militare: poiché le decisioni in seno alla PESC erano prese con Voto all’unanimità e non sarebbe stata discussa l’ipotesi di una difesa comune, le politiche dell’UE risultavano compatibili con la politica estera finlandese e sarebbero anzi state ad essa complementari.

Come membro della UE, la Finlandia cercò di mostrare il suo profilo attivo in seno alla PESC. Nella prima Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) cui prese parte (1996-7) propose assieme alla Svezia l’inclusione nel Trattato di Amsterdam di compiti di gestione di situazioni di crisi – i cosiddetti “compiti di San Pietroburgo”. Questa iniziativa non era solo un modo di dimostrare attivismo e disponibilità a compiere passi in avanti in questo campo, ma anche una mossa difensiva: molti altri paesi membri dell’UE proponevano un obiettivo assai più ambizioso di fusione tra l’Unione dell’Europa occidentale (UEO) e l’Unione europea. Questo era troppo per gli Stati non allineati. Poiché anche il Regno Unito si opponeva, i due paesi potevano sentirsi abbastanza sicuri, e anzi orgogliosi del traguardo conseguito.

Tuttavia, lo sviluppo della PESC e della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) andava acquistando un ritmo sempre più accelerato. Durante la prima presidenza finnica del Consiglio della UE (v. Presidenza dell’Unione europea), alla fine del 1999, fu definito il cosiddetto “Obiettivo primario di Helsinki”, in base al quale la UE al 2003 avrebbe avuto proprie truppe di intervento ai fini della gestione delle crisi. La Finlandia diede un contributo generoso, destinando infine un contingente di 2000 uomini alle operazioni dell’Unione europea – il massimo che la legislazione finlandese in materia di mantenimento della pace consentiva di inviare simultaneamente all’estero. La Finlandia prese parte alle prime operazioni di gestione delle crisi dell’UE nel 2003, ma non all’operazione nella Repubblica Democratica del Congo, a differenza della vicina Svezia.

Il primo capo del Comitato militare dell’Unione europea fu il generale finlandese Gustav Hägglund. La sua nomina fu interpretata in Finlandia come un riconoscimento dell’eguaglianza tra Stati membri allineati e non allineati all’interno dell’Unione.

Il profilo politico della Finlandia all’interno della PESC può essere caratterizzato dall’insistenza sui seguenti criteri: gestione delle crisi piuttosto che difesa, utilizzo dei mezzi civili a preferenza di quelli militari nella gestione delle crisi, mantenimento di un forte legame con le Nazioni Unite. In base alla legislazione finnica, la partecipazione a un’operazione di pace è possibile solo se vi è un mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU, o dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (v. Organizzazione europea per la cooperazione economica). Inoltre, tra le varie questioni politiche i rapporti dell’Unione con la Russia hanno sempre avuto un’importanza centrale per la Finlandia, che partecipò attivamente alla stesura della Strategia comune dell’Unione europea nei confronti della Russia.

In generale, la Finlandia non sottolineava eccessivamente il proprio status di paese non allineato, al fine di non essere esclusa dalla cooperazione, appoggiando altresì il ruolo della NATO nell’Europa del Nord. Tuttavia la Finlandia si dimostrò più riluttante degli altri paesi del Nord a dare pieno appoggio all’obiettivo dell’allargamento della NATO agli Stati baltici.

Nella Convenzione europea, la Finlandia non si oppose agli ulteriori passi preannunciati dal Gruppo di lavoro sulla difesa, anche se questo arrivò a proporre innovazioni di grande portata nella PESD. Era facile per la Finlandia accettare la clausola di solidarietà e l’ampliamento dei compiti di San Pietroburgo, mentre l’idea di compiti di gestione delle crisi più impegnativi, l’inserimento di una clausola di difesa comune e la possibilità di una cooperazione strutturata limitata solo ad alcuni paesi membri risultavano più difficili da accettare. Durante la Conferenza intergovernativa del dicembre 2003 la Finlandia assunse una posizione più decisa e propose – con l’appoggio di Austria, Irlanda e Svezia – una forma emendata della clausola di difesa per il Trattato costituzionale (v. Costituzione europea). Essa avrebbe considerevolmente indebolito l’impegno reciproco e come tale non venne accettato dalla Presidenza. Invece, la clausola di mutua difesa fu modificata al fine di tener conto di diverse posizioni politiche in materia di sicurezza. Tale compromesso, agli occhi del governo finnico, avrebbe consentito alla Finlandia di restare un paese non allineato all’interno dell’Unione.

Nel complesso, il non allineamento della Finlandia è stato assai flessibile. Per il paese, in particolare durante i suoi primi 7-8 anni in qualità di Stato membro, l’attivismo in questo campo è stato importante, e non sono stati presi provvedimenti che avrebbero potuto apparire di ostacolo allo sviluppo di politiche comuni. Con il cambiamento di governo nel 2003 si preannunciava l’emergere un atteggiamento più restrittivo. Il Libro bianco (v. Libri bianchi) sulla difesa del 2004 continuava la linea di non allineamento militare, pur dando maggior risalto alle politiche comuni dell’UE e menzionando l’ingresso nella NATO come una possibilità.

Hanna Ojanen (2009)




Il ruolo del referendum nella politica europea della Danimarca

Tra gli emendamenti alla Costituzione danese del 1953 vi fu una nuova sezione riguardante la delega dei poteri a organizzazioni internazionali (articolo 20), insieme a una serie di nuove possibilità per indire referendum. Inoltre, nella Costituzione, la delega dei poteri a organizzazioni internazionali è oggetto di referendum (articolo 42) se una legge implicante tale delega non ottiene la maggioranza dei cinque sesti richiesta nel Folketing (Parlamento unicamerale). Nel referendum i voti devono essere raccolti a favore o contro il disegno di legge. Per respingere un disegno di legge una maggioranza di elettori non inferiore al 30% deve votare contro il medesimo.

Nel 1961-1962 e nel 1967, la Danimarca, insieme a Gran Bretagna, Norvegia e Irlanda, fece richiesta di adesione alla Comunità europea, ma de Gaulle pose ripetutamente il veto all’ingresso della Gran Bretagna, bocciando così anche la richiesta danese, poiché collegata a quella britannica. Le trattative per l’ammissione furono riprese dopo l’incontro all’Aia del dicembre 1969. Il 2 ottobre 1972 venne indetto un referendum in riferimento all’articolo 20 della Costituzione, con il risultato di 63,3% di voti favorevoli e il 36,7% contrari all’adesione. Dal 1° gennaio 1973 la Danimarca divenne quindi membro della Comunità europea insieme a Irlanda e Gran Bretagna.

Tenendo conto del referendum del 1972 sull’ingresso danese nella Comunità europea, la Danimarca ha indetto in tutto sei referendum nazionali sulla Comunità europea/Unione europea. Tuttavia, non tutti questi referendum sono stati indetti in riferimento all’articolo 20.

Nel febbraio 1986, il governo conservatore-liberale indisse un referendum volontario e consultivo allorché il disegno di legge che autorizzava l’adesione della Danimarca all’Atto unico europeo (AUE), fu bocciato dal Folketing. Il governo dichiarò che non vi sarebbe stata alcuna delega alla sovranità danese come conseguenza dell’adesione all’AUE e che perciò un referendum in riferimento all’articolo 20 sarebbe stato inutile. Invece di indire nuove elezioni, che probabilmente non avrebbero portato alla vittoria della maggioranza di governo, quest’ultimo decise di organizzare un referendum consultivo sulla questione, prendendo in contropiede l’opposizione. Tuttavia, l’opposizione accettò di rispettare il verdetto del referendum, e allorché questo espresse il 56% di voti favorevoli, il Parlamento poté finalmente approvare il disegno di legge sull’AUE.

Il referendum sul Trattato di Maastricht del 1992 era previsto dalla Costituzione, essendo la maggioranza parlamentare inferiore ai cinque sesti necessari. Nel referendum del giugno 1992 il rifiuto del Trattato da parte della popolazione con un margine minimo, condusse a un “compromesso nazionale” da realizzare tra il governo e la maggior parte dei membri dell’opposizione, incluso l’euroscettico Partito popolare socialista (v. Euroscetticismo). Il compromesso portò all’approvazione del Trattato di Maastricht, a condizione che la Danimarca ottenesse quattro cosiddetti opt-out che lasciavano la Danimarca fuori dalla politica comunitaria in materia di Difesa, dalla terza fase dell’Unione economica monetaria (UEM) e dalla moneta unica, dalla Cittadinanza europea e dai settori sovranazionali riguardanti la cooperazione nella Giustizia e affari interni (GAI). Inoltre, come parte del “compromesso nazionale”, venne concordato che tutte le future modifiche degli opt-out sarebbero state approvate tramite referendum. Gli opt-out danesi furono accettati dai governi CE con l’Accordo di Edimburgo del dicembre 1992.

Il referendum sull’Accordo di Edimburgo nel maggio 1993 non venne richiesto legalmente perché una maggioranza di cinque sesti fu raggiunta con il sostegno del Partito popolare socialista. Tuttavia il referendum si rendeva necessario a livello politico giacché faceva parte del compromesso tra i principali partiti politici. Per cui il referendum ebbe luogo sfruttando un paragrafo della Costituzione che permetteva di indire un referendum volontario e vincolante (articolo 42, paragrafo 6 con riferimento all’articolo 19).

Nel 1998 non fu possibile raggiungere in Parlamento una maggioranza di cinque sesti sul Trattato di Amsterdam e si tenne un referendum in riferimento all’articolo 20, benché durante il suo svolgimento si discusse in merito al fatto che ciò potesse implicare una delega sostanziale di poteri costituzionali.

Infine, nel 2000, la coalizione di governo socialdemocratico–social-liberale tentò di capovolgere la rinuncia danese di aderire alla moneta unica, l’Euro. Per ragioni legali e politiche fu indetto un referendum in cui gli elettori respinsero la proposta.

La seguente tabella delinea le caratteristiche essenziali dei referendum danesi sulla CEE

Tab. 1. Referendum danesi sull’Europa 1972-2000.

Anno Materia Condizioni dell’indizione Risultato: Percentuale dei “sì” Effetti giuridici
1972 Adesione alla CEE Art. 20:

Obbligatoria

63,6% Decisivi
1986

 

Atto unico europeo Legge:

Volontaria

56,2% Consultativi
1992 Trattato di Maastricht Art. 20:

Obbligatoria

49,3% Decisivi
1993 Accordo di Edimburgo Art. 42 (6) e Art. 19: Volontaria 56,7% Decisivi
1998 Trattato di Amsterdam Art. 20:

Obbligatoria

55,1% Decisivi
2000 Moneta Unica Art. 20:

Obbligatoria

46,8% Decisivi

Gli esponenti politici danesi avevano indetto dei referendum su questioni inerenti all’Europa in misura maggiore di quanto previsto dalla Costituzione. Il Partito socialdemocratico aveva iniziato nel 1971 questa prassi, obbligando il governo borghese in carica ad accettare l’idea che un referendum vincolante dovesse tenersi in ogni circostanza, malgrado non fosse chiaro se un’elezione parlamentare avrebbe espresso una maggioranza di cinque sesti in favore dell’adesione alla CEE. Nel 1986 un altro governo borghese venne a rafforzare questa tendenza, indicendo un referendum sull’Atto unico europeo invece di annunciare nuove elezioni in seguito alla bocciatura in parlamento di tale questione. Infine, il compromesso nazionale del 1992 stabilì un requisito politico necessario per poter indire un referendum qualora gli opt-out concessi avessero subito modifiche.

In sostanza, con o senza l’intenzione esplicita della leadership politica, in Danimarca si è sviluppata una sorta di democrazia diretta legata alla precipua questione della delega di sovranità alle organizzazioni internazionali.

Palle Svensson (2012)