Unione europea dei federalisti

L’Unione europea dei federalisti (UEF) fu fondata sessant’anni fa (Parigi, 15 dicembre 1946) con l’unificazione in una organizzazione europea dei movimenti federalisti nazionali nati negli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale, durante la guerra e subito dopo. Vanno ricordati, in particolare: l’Europa-Union svizzera (1934), la Federal Union britannica (1938), il Manifesto di Ventotene (1941), il Movimento federalista europeo (1943), il Comitato francese per la federazione europea (1944), il Movimento federalista olandese (1945), il movimento francese. La Fédération (1945), l’Europa-Union tedesca (1946). Occorre anche ricordare che durante la guerra si svolsero in Svizzera e in Francia le prime riunioni sopranazionali dei federalisti a Ginevra e a Parigi, nel quadro della partecipazione dei federalisti alla Resistenza antifascista. Nel federalismo si è in effetti vista l’unica strada attraverso cui realizzare la pace e la democrazia in Europa e diffonderle su scala mondiale.

Nel ripercorrere qui, in modo sintetico i sessant’anni di vita dell’UEF, si possono distinguere sette fasi.

 Fondazione e definizione degli orientamenti di fondo (1946-1949).

Si debbono qui sottolineare cinque aspetti fondamentali, il primo dei quali è rappresentato dalla scelta federalista cioè dalla convinzione che l’unità irreversibile e democratica dell’Europa possa realizzarsi solo attraverso la costruzione di uno stato federale.

Sotto questo aspetto, l’UEF si è sempre contrapposta alla scelta confederalista, che allora era rappresentata soprattutto da Winston Churchill, e veniva definita unionista, e successivamente troverà in Charles de Gaulle il suo più autorevole sostenitore. La scelta federalista, che emerge nel convegno di Hertenstein del 15-22 settembre 1946 e poi al momento della fondazione ufficiale avvenuta a Parigi il 15 dicembre 1946 è stata da allora il fondamentale elemento qualificante dell’identità dell’UEF. Ciò non impedirà la partecipazione dei federalisti alla organizzazione, assieme ai confederalisti, del Congresso dell’Aia (7-10 maggio 1948) e alla successiva costituzione del Movimento europeo, comprendente praticamente tutte le organizzazioni a favore dell’unità europea. Dominato all’inizio dalle tendenze confederaliste, il ME, a partire dalla presidenza di Paul-Henri Charles Spaak (1899-1972) nel 1950, sarà guidato da un orientamento prevalentemente federalista. Questa linea sarà sostenuta in particolare, oltre che dall’UEF e dalle Jeunesses fédéralistes europeennes (JEF) ad essa strettamente collegate, dal Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa (CCRE) (v. Consiglio dei comuni d’Europa), dall’Associazione europea degli insegnanti (AEDE), dalla Federazione internazionale della casa d’Europa (FIME), dal Centro internazionale di formazione europea (CIFE). Una linea sostanzialmente confederalista sarà per contro espressa, a livello dei movimenti per l’unità europea (v. Movimenti europeistici), dal Movimento per la Paneuropa di Richard Coudenhove-Kalergi (1894-1972).

Il secondo punto fermo della linea generale dell’UEF è rappresentato dal concepire l’unità europea come una tappa fondamentale e un impulso decisivo verso l’unità mondiale. L’idea di “un’Europa unita in un mondo unito” significa in sostanza individuare nella kantiana pace universale l’obiettivo ultimo della lotta federalista e rifiutare quindi qualsiasi forma di nazionalismo paneuropeo. Questo orientamento non poté tradursi per molto tempo in un legame con l’organizzazione dei federalisti mondiali, dal momento che essi erano contrari alle unificazioni regionali. Ma la situazione è cambiata a partire dagli anni Ottanta e si è infine giunti, in occasione del (V.) congresso dell’UEF (Genova, 19-21 marzo 2004), alla sua adesione al World federalist movement.

Il terzo aspetto rilevante nell’orientamento generale dell’UEF è il rapporto fra la corrente federalista integrale e il federalismo istituzionale. La prima corrente si rifà agli insegnamenti di Pierre Joseph Proudhon ed ha avuto nel francese di origine russa Alexandre Marc il suo massimo esponente all’interno dell’UEF, di cui fu il primo segretario generale. Il federalismo integrale, che ebbe un peso prevalente nei primi anni di vita dell’UEF, è caratterizzato fondamentalmente dalla convinzione che il sistema federale debba avere come sue componenti basilari non solo le entità di carattere territoriale (dai comuni alle unioni di Stati), ma anche quelle di natura funzionale-professionale.

La corrente istituzionalista ha in Alexander Hamilton (teorico dello Stato federale e uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, cioè del primo Stato federale della storia) la sua stella polare e in Altiero Spinelli il suo punto di riferimento principale nelle file dell’UEF. Secondo questa corrente, le unità costitutive del sistema federale non possono essere che le istituzioni di natura territoriale. L’orientamento istituzionalista acquisì un peso preminente nell’UEF a partire dal 1949 e fece prevalere il principio secondo cui l’organizzazione dei federalisti deve proporsi di riunire tutti coloro che sono favorevoli alla federazione europea, anche se hanno diversi orientamenti ideologici, comunque appartenenti all’arco democratico. Le tesi dei federalisti integrali, va sottolineato, sono rimaste comunque una componente del patrimonio teorico dell’UEF. Esse hanno fornito in particolare un grande contributo alla definizione del modello economico-sociale europeo imperniato sulla sintesi fra competitività e solidarietà (l’economia sociale di mercato recepita nella Costituzione europea), e pertanto diverso e originale rispetto al modello americano e a quello proprio del sistema economico-sociale collettivistico. Vanno qui soprattutto ricordati i principi del minimo sociale garantito e del servizio civile obbligatorio elaborati dai federalisti integrali già negli anni Trenta.

Il quarto aspetto da ricordare in riferimento alla linea generale dell’UEF è l’idea dell’Europa unita come terza forza fra USA e URSS. Questa parola d’ordine sottolineava in generale il contributo che l’unificazione europea era chiamata a dare alla pacificazione non solo dell’Europa, ma del mondo, ed esprimeva in particolare la volontà di contrastare la divisione dell’Europa in blocchi contrapposti e lo scoppio della guerra fredda. A questo riguardo ci fu, a partire dal primo congresso dell’UEF svoltosi a Montreux dal 27 al 30 agosto 1947, una evoluzione che si espresse nella formula «cominciare in Occidente», coniata dall’olandese Hendrik Brugmans, che fu il primo presidente dell’Ufficio esecutivo dell’UEF e rettore del Collegio d’Europa di Bruges dal 1950 al 1972. Con questa parola d’ordine si prese atto che la formazione dei blocchi era la conseguenza oggettiva del crollo dell’Europa e della formazione di un sistema bipolare dominato dalle due superpotenze. Nello stesso tempo divenne chiaro che l’unificazione europea poteva essere avviata solo nella zona di influenza occidentale, perché in tale quadro il sistema egemonico era meno rigido e la potenza guida americana favoriva con il Piano Marshall, in funzione della politica di contenimento dell’URSS, l’integrazione europea (v. Integrazione, Teorie della; Integrazione, Metodo della). Si precisò d’altra parte che, se nell’Europa occidentale si fosse perseguita con determinazione l’unità sopranazionale, questa avrebbe cambiato l’equilibrio Est-Ovest, messo in crisi il blocco sovietico e aperto la strada all’unificazione di tutta l’Europa. La validità di questa impostazione è stata confermata dal processo storico e l’Unione europea esprime un orientamento in favore di una partnership ugualitaria USA-UE e di un proprio ruolo autonomo ed incisivo per la pace nel mondo. Ciò emerge in particolare nel documento “Un’Europa più sicura in un mondo migliore” approvato dal Consiglio europeo nel 2003, su proposta dell’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune, Javier Solana. Il rapido avanzamento verso una federazione in senso pieno è d’altro canto la premessa imprescindibile perché l’UE possa perseguire efficacemente questo orientamento.

Il quinto aspetto da prendere qui in considerazione è rappresentato infine dalla linea strategica dell’UEF. Si può dire che l’UEF è giunta nel 1949 a definire, fondamentalmente sulla base delle riflessioni di Spinelli, un orientamento che da allora ha costituito, pur con gli adeguamenti alle diverse situazioni concrete, la struttura portante della strategia della lotta per la federazione europea. Quattro sono gli elementi fondamentali da sottolineare a questo riguardo. I governi nazionali democratici sono allo stesso tempo strumenti e ostacoli rispetto all’unificazione europea. Sono strumenti nel senso che sono costretti dalla crisi storica degli Stati nazionali, che ha fatto emergere l’alternativa “unirsi o perire” (l’incapacità strutturale di affrontare i problemi di fondo della nostra epoca senza una collaborazione sempre più profonda ed estesa fra di loro), ad attuare una politica di integrazione europea. Sono nello stesso tempo ostacoli perché la tendenza oggettiva alla conservazione del potere nazionale li spinge a scelte che rinviano sine die una piena federalizzazione, indispensabile per realizzare una unità europea irreversibile, democratica ed efficiente. Questa contraddizione può essere superata solo con l’intervento di una forza politica federalista autonoma dai governi e dai partiti, e quindi capace di esercitare una pressione democratica che spinga i governi a compiere la scelta pienamente federale che spontaneamente non sono in grado di fare.

La forza federalista deve riunire tutti coloro che sono favorevoli alla federazione europea, avere carattere sopranazionale ed essere in grado di mobilitare efficacemente l’opinione pubblica. Lo strumento insostituibile con cui i federalisti possono imporre la scelta federale è l’assemblea costituente, secondo il modello della Convenzione di Filadelfia che ha dato vita alla Costituzione federale americana. Il metodo della costituente europea è caratterizzato, a differenza di quello della conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative), da tre principi fondamentali: nella costituente deliberano i rappresentanti dei cittadini, che sono nella grande maggioranza favorevoli all’unificazione europea, e non i governi che sono spinti a difendere il potere nazionale; si decide a maggioranza (v. Maggioranza qualificata) e in modo trasparente, mentre la conferenza intergovernativa delibera con Voto all’unanimità e in segreto; è possibile la ratifica a maggioranza che supera il diritto di veto nazionale.

Per far passare la scelta federale e costituente, i federalisti devono saper sfruttare i deficit di efficienza (decisioni unanimi sulle questioni fondamentali) e di democrazia (v. Deficit democratico) (svuotamento dei meccanismi democratici nazionali non accompagnato dalla formazione di un vero sistema democratico sopranazionale) che caratterizzano l’integrazione portata avanti dai governi e che sono destinati a produrre situazioni critiche nelle quali la mobilitazione dell’opinione pubblica può imporre l’alternativa costituente democratica.

Dalla campagna per il Patto federale europeo a quella per la Comunità politica europea (1950-1954).

L’UEF fu guidata in questa fase da una specie di triunvirato formato dal francese Henri Frenay, dal presidente della Europa Union tedesca, Eugen Kogon e da Spinelli, e coadiuvato dalla segreteria generale affidata dal 1950 al 1958 all’italiano Guglielmo Usellini. Due furono gli impegni federalisti fondamentali in quegli anni.

Il primo fu la campagna per il Patto federale europeo. Essa consistette nel tentativo di trasformare l’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa (la cui nascita aveva le sue radici nel Congresso dell’Aia) nell’assemblea costituente della federazione europea. Lo strumento fondamentale fu una petizione in cui si chiedeva all’Assemblea consultiva di redigere un testo di patto federale e di raccomandarne la ratifica agli Stati membri del Consiglio d’Europa. Questi avrebbero dovuto impegnarsi a farlo entrare in vigore non appena esso fosse stato ratificato da un numero di Stati con una popolazione complessiva di almeno cento milioni di abitanti. La petizione nel corso del 1950 fu firmata da oltre 500.000 cittadini italiani, da 1/3 dei 30.000 sindaci francesi e ottenne in Germania le adesioni della larghissima maggioranza dei cittadini in occasione di referendum organizzati, con la collaborazione delle amministrazioni comunali, a Breisach, Castrop-Rauxel, Monaco, Bad-Reichenall e Traunstein.

La campagna per il Patto federale non raggiunse il suo obiettivo, ma pose le basi per realizzare la seconda e assai più incisiva azione di questa fase, che fu imperniata sull’art. 38 della Comunità europea di difesa (CED) e sulla Comunità politica europea (CEP) e in cui gli interlocutori fondamentali dei federalisti a livello dei governi furono Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Quando, in connessione con la ricostruzione della Germania occidentale, si dette vita su impulso di Jean Monnet alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e si aprirono le trattative sulla CED, l’azione dell’UEF fu determinante per ottenere il collegamento (tramite l’art. 38 della CED) fra la creazione dell’esercito europeo e l’attribuzione all’Assemblea parlamentare della CECA (definita per l’occasione Assemblea ad hoc) del compito di redigere un progetto di unione politica.

Il progetto della CEP, presentato nel marzo 1953, avrebbe inquadrato in un sistema con forti, anche se non piene caratteristiche federali, la CECA, la CED e il disegno – sostenuto in particolare dal ministro olandese Johan Willem Beyen – di un’integrazione economica complessiva. La sua accettazione avrebbe quindi creato premesse assai solide per un rapido avanzamento verso lo Stato federale europeo. La CEP non giunse però in porto perché era legata alla CED, che fu bocciata dall’Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954.

La divisione dei federalisti di fronte ai Trattati di Roma (1955-1963).

La grave crisi legata alla caduta della CED non fece venir meno nei governi dei paesi fondatori della CECA la spinta a continuare la politica di integrazione europea, che aveva la propria radice profonda nella strutturale inadeguatezza degli Stati nazionali ad affrontare i problemi di fondo. Prevalse d’altra parte la scelta di portare avanti l’integrazione comunitaria solo sul terreno economico che, a differenza di quello politico-militare, non avrebbe posto fin dall’inizio il problema di trasferire gli aspetti fondamentali della sovranità a istituzioni sopranazionali. Il rilancio deciso a Messina (v. Conferenza di Messina) nel giugno 1955, sulla base di proposte di Monnet e dei governi del Benelux, portò alla firma il 25 marzo 1957 a Roma (v. Trattati di Roma) dei Trattati istitutivi della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o Euratom) e della Comunità economica europea (CEE). Pur non essendo indicato nei Trattati di Roma – a differenza dalla Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman) del 9 maggio 1950 – l’obiettivo della federazione europea, la convinzione che guidava i loro ispiratori (in particolare Monnet e Spaak) era che l’avanzamento dell’integrazione economica avrebbe portato al rafforzamento degli embrioni federali (Commissione europea autonoma dai governi, diritto comunitario e ruolo della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Parlamento europeo di cui era prevista l’elezione diretta (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), passaggio al voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri) presenti nel sistema comunitario e, quindi, al successivo passaggio dall’integrazione economica a quella politica.

Di fronte a questa nuova fase del processo di integrazione europea i federalisti si divisero. Da una parte, la grandissima maggioranza dei federalisti tedeschi, guidati da Ernst Friedländer (1895- 1973), e di quelli olandesi, guidati da Brugmans e il movimento francese La Fédération, guidato da André Voisin (1918-1999), ritenne che si dovesse puntare sulla dinamica messa in moto dalle nuove Comunità, e in particolare dalla CEE. I federalisti dovevano accettare una impostazione gradualistica e, quindi, sostenere attivamente l’integrazione economica e impegnarsi a favore del rafforzamento degli embrioni federali del sistema comunitario. L’obiettivo dell’assemblea costituente doveva essere perseguito in una fase più avanzata dell’integrazione europea a cui i Trattati di Roma avrebbero portato. Dall’altra parte, Spinelli (che si portò dietro la maggioranza dei federalisti italiani, francesi e belgi) era convinto che le Comunità europee non fossero in grado di realizzare progressi rilevanti dell’integrazione europea. Di conseguenza i federalisti dovevano criticare in modo intransigente queste iniziative dei governi e contrapporre ad esse con una grande azione di mobilitazione popolare – l’elezione nel maggior numero possibile di città europee di un Congresso del popolo europeo, che si ispirava all’esperienza del Congresso del popolo indiano guidato da Gandhi – la rivendicazione della federazione europea e della costituente come unico mezzo efficace per realizzarla. Poiché l’alternativa “unirsi o perire” costituiva una situazione esistenziale per gli Stati nazionali, la rivendicazione federalista avrebbe avuto la possibilità di imporsi quando fosse diventata evidente l’inadeguatezza del sistema comunitario. D’altra parte, le rivendicazioni della federazione e della costituente sarebbero scomparse dal panorama politico se i federalisti non avessero svolto una costante azione dal basso e si fossero limitati all’appoggio delle iniziative governative.

Questa divergenza, non sugli obiettivi di fondo ma sull’approccio strategico, portò alla divisione dell’UEF e alla formazione di due organizzazioni che fino al 1963 proseguirono ciascuna per la propria strada. I sostenitori della linea Brugmans-Friedländer dettero vita nel 1956 all’Azione europea federalista (AEF), cioè a una struttura di coordinamento raggruppante l’Europa Union tedesca, il Movimento federalista olandese, la Fédération, la Féderal Union britannica e altri piccoli gruppi federalisti in Belgio, Lussemburgo, Danimarca e Italia. La linea di Spinelli si tradusse, sul piano politico-organizzativo, nella trasformazione nel 1959 dell’UEF nel Movimento federalista europeo sopranazionale (MFEs). Questa organizzazione aveva una struttura fortemente centralizzata composta dalle sezioni regionali, che esprimevano direttamente gli organismi europei, mentre a livello nazionale esistevano solo commissioni di coordinamento. Il MFEs operò soprattutto in Italia, Francia e Belgio, fu presente in Germania e Austria ed ebbe come associati i federalisti svizzeri e lussemburghesi. L’azione fondamentale dei federalisti spinelliani consistette nel raccogliere fra il 1957 e il 1962 il voto di circa 640.000 cittadini per il Congresso del popolo europeo e quindi per la costituente europea.

La lotta per l’elezione diretta del Parlamento europeo e la ricostituzione dell’UEF (1964-1973).

A partire dal 1964 il MFEs e l’AEF cominciarono a collaborare in modo progressivamente più intenso e giunsero infine alla riunificazione nella nuova UEF nel 1973. Alla base di questo processo ci fu una evoluzione della linea politico-strategica di entrambe le organizzazioni nei confronti dell’integrazione comunitaria.

Di fronte all’esperienza del successo dell’integrazione economica, nonostante la Francia fosse guidata da un uomo come Charles de Gaulle, programmaticamente contrario all’unificazione sopranazionale, i federalisti del MFEs si convinsero che il sistema comunitario fosse assai più solido di quanto avevano immaginato al momento del rilancio di Messina. Ritennero perciò che l’alternativa federalista dovesse essere perseguita puntando sull’evoluzione della CEE e non sul suo crollo. Questa evoluzione, cioè lo sviluppo degli embrioni federali del sistema comunitario, che avrebbe aperto la possibilità di attivare un processo costituente dell’unità federale europea, non poteva d’altra parte essere affidata semplicemente all’automatismo funzionalistico (v. Funzionalismo). Per superare le fortissime tendenze al mantenimento della sovranità nazionale, che si manifestavano soprattutto, ma non soltanto, nella linea confederalista di de Gaulle, i federalisti dovevano attuare una azione continuativa e sistematica di mobilitazione dell’opinione pubblica e fare leva sulle contraddizioni dell’integrazione derivanti dai suoi deficit sul piano dell’efficienza e della democrazia.

Per quanto riguarda i federalisti dell’AEF, essi superarono il loro atteggiamento quietistico di fiducia nel passaggio pressoché automatico dall’integrazione economica a quella politica e di sostegno piuttosto acritico dell’azione dell’eurocrazia e delle iniziative dei governi. Essi si convinsero in effetti della necessità che il lavoro di consulenza nei confronti della classe politica fosse integrato da una azione più militante a favore delle rivendicazioni federaliste e da un serio e tenace sforzo di mobilitazione dei cittadini. La piattaforma fondamentale sulla quale si realizzò la convergenza e quindi la riunificazione dei federalisti fu la campagna per l’elezione diretta del Parlamento europeo (PE). L’elezione europea, che era prevista dai trattati comunitari (v. Trattati), veniva incontro alla necessità obiettiva di coinvolgere i cittadini europei in un processo integrativo che progrediva in modo tecnocratico e metteva quindi in discussione il principio di legittimità democratica proprio degli Stati membri. L’elezione diretta non era legata ad un automatico rafforzamento dei poteri del PE – proprio per questo era più facile superare la resistenza alla sua attuazione – ma avrebbe fatto nascere una fortissima dinamica in questa direzione in connessione con la formazione di un sistema partitico europeo (v. Partiti politici europei) e la necessità di mantenere gli impegni assunti nella campagna elettorale europea. In sostanza, l’elezione europea avrebbe aperto la strada a sviluppi federali attraverso l’assunzione da parte del PE di un ruolo costituente permanente.

La campagna per l’elezione europea – condotta in stretta collaborazione con il Movimento europeo, che dal 1968 al 1972 fu presieduto dall’ex presidente della Commissione della CEE Walter Hallstein – si svolse senza interruzioni con l’attuazione di diverse iniziative di mobilitazione dell’opinione pubblica. Vanno ricordate in particolare: l’Azione frontiere, che ebbe come promotori i federalisti tedeschi; il Fronte democratico europeo, promosso dai federalisti francesi; la proposta di legge di iniziativa popolare (sottoscritta da 65.000 cittadini con firme autenticate) per l’elezione diretta dei rappresentanti italiani nel PE, presentata nel 1969 al Senato dal MFE italiano guidato da Mario Albertini; le manifestazioni con migliaia di partecipanti organizzate con la JEF, e definite contro- Vertici, a Roma nel giugno 1967, all’Aia nel dicembre 1969 e a Parigi nell’ottobre 1972 in occasione delle Conferenze dei capi di Stato e di governo dei paesi comunitari tenutesi in queste città.

La lotta per l’elezione diretta del PE fece da sfondo alla ricostituzione dell’UEF, che fu proclamata dal congresso di Bruxelles del 13-15 aprile 1973. Si dette vita ad una organizzazione che, a differenza del MFEs, era fondata sulle organizzazioni nazionali, ma aveva una struttura federale e non era un semplice organo internazionale di collegamento, come era stata la prima UEF e ancor più l’AEF. Come presidente fu eletto il francese Étienne Hirsch (che era stato presidente della Commissione esecutiva dell’Euratom ed era stato silurato da de Gaulle per il suo atteggiamento federalista, e nel 1964 era diventato presidente del MFE) e come segretario generale fu nominata l’italiana Caterina Chizzola, che ricoprì tale carica fino al 1990. Il preambolo dello statuto della nuova UEF definiva Kant, Hamilton e Proudhon come padri del federalismo e indicava fra i documenti fondamentali di riferimento: le direttive della Federal Union del 1939; i principi per una nuova Europa della Europa Union svizzera del 1940; il Manifesto di Ventotene del 1941; la Dichiarazione dei resistenti europei di Ginevra del 1944; il programma di Hertenstein del 1946; la Dichiarazione del congresso dell’UEF di Montreux del 1947; la Dichiarazione politica del congresso dell’Europa Union tedesca del 1949; la Carta federalista, fatta approvare dai federalisti integrali nel congresso del MFEs di Montreux del 1964; il documento approvato dal congresso di Nancy del MFEs del 1972.

Dall’elezione diretta del Parlamento europeo al progetto di costituzione promosso da Spinelli all’Atto unico europeo (1974-1986).

Dopo un decennio di campagna popolare federalista a favore dell’elezione diretta del PE, il Vertice di Parigi del dicembre 1974 assunse finalmente l’impegno di realizzare questo obiettivo. La pressione dei federalisti ebbe successo, e non è un caso, in una fase di seria crisi dell’integrazione europea. Nella prima metà degli anni Settanta fallì in effetti il primo progetto di Unione economica e monetaria, che era stato lanciato senza affrontare simultaneamente, come chiedevano i federalisti, il problema del rafforzamento delle istituzioni comunitarie.

In un contesto di crescente instabilità monetaria e di stagnazione economica emerse la concreta possibilità che i risultati dell’integrazione economica fino ad allora ottenuti andassero perduti. L’interesse vitale per l’integrazione fece scattare nei governi della Comunità, che aveva cominciato il suo allargamento, il riflesso unitario. Ci si rese conto che l’integrazione non poteva andare avanti senza il coinvolgimento dei partiti e dell’opinione pubblica. Dopo aver ottenuto l’impegno ad attuare l’elezione europea, l’UEF concentrò la sua capacità di azione nell’ottenere che questo impegno fosse mantenuto, il che avvenne nel 1979.

L’attività di consulenza e di supporto nei confronti dei decisori si accompagnò a una serie di manifestazioni pubbliche con migliaia di partecipanti, le più importanti delle quali furono: la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975, in cui si decise che l’elezione europea si sarebbe tenuta anche se il Regno Unito e la Danimarca non vi avessero partecipato (alla fine parteciparono); la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Bruxelles del giugno 1976, che decise il numero di parlamentari europei da eleggere. Le aspettative di rilancio dell’integrazione suscitate dalla decisione sull’elezione europea – occorre qui ricordare – permisero l’istituzione del Sistema monetario europeo (SME), voluto in particolare dal presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, e fortemente appoggiato dall’UEF. Lo SME, creando una relativa stabilità monetaria, invertì la tendenza al regresso dell’integrazione economica.

Dopo l’elezione del 1979 il nuovo campo di azione dell’UEF fu il sostegno all’assunzione da parte del PE di un ruolo costituente. Qui si realizzò una perfetta sinergia fra l’azione di Spinelli (che dopo essere stato eurocommissario era diventato europarlamentare) all’interno del PE e quella dell’UEF all’esterno per coinvolgere i cittadini, le forze politiche e sociali, gli enti locali. Sotto l’impulso di Spinelli, il PE giunse dopo alcuni anni di lavoro ad approvare il 14 febbraio 1984 un progetto di Costituzione contenente progressi decisivi in direzione federale e in cui, in particolare, si prevedeva la ratifica a maggioranza (come per la Costituzione di Filadelfia). Il contributo dell’UEF (guidata da Albertini dal 1975 al 1984 e poi dal britannico John Pinder fino al 1990) all’iniziativa del PE si manifestò con una azione sistematica e capillare, di cui ricordiamo qui come momenti particolarmente importanti: la manifestazione con 5.000 partecipanti a Strasburgo il 17 luglio 1979 di fronte alla sede del PE in occasione della prima seduta dopo l’elezione di giugno; il congresso del Movimento europeo presieduto da Giuseppe Petrilli a Bruxelles il 24 marzo 1984; la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Fointainebleau del 25 giugno 1984 (v. anche Accordi di Fontainebleau); l’approvazione di risoluzioni a favore del progetto del PE da parte dei Parlamenti italiano, tedesco e belga; la spettacolare manifestazione di Milano (con i suoi 100.000 partecipanti si trattò della più grande manifestazione popolare della storia della lotta federalista) in occasione del Consiglio europeo del 28-29 giugno 1985, che decise a maggioranza la convocazione di una Conferenza intergovernativa per la revisione dei Trattati comunitari (v. Revisione dei trattati); la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1985.

Il progetto del PE non fu accettato dai governi, ma, come affermato ebbe ad affermare più volte il Presidente della Commissione europea Jacques Delors, rappresentò un fattore di grandissima rilevanza nel processo che portò all’Atto unico europeo (AUE). L’AUE ha potuto rimettere in moto l’integrazione europea anche perché ha aperto una fase di riforme istituzionali, che hanno parzialmente recepito il progetto del PE.

L’impegno per l’unificazione monetaria e la Campagna per la democrazia europea (1987-1996).

Con l’entrata in vigore dell’AUE si realizzava un rilancio dell’integrazione europea, che ebbe come manifestazioni fondamentali la quasi completa realizzazione del. Mercato unico europeo e l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (TDM) nel 1993. Con il TDM si dava vita all’Unione europea (UE), che avviava l’estensione, su base intergovernativa (v. Cooperazione intergovernativa), dell’integrazione ai settori della politica estera, di sicurezza e difesa (v. Politica europea di sicurezza e difesa), della Giustizia e affari interni, e soprattutto realizzava l’unificazione monetaria. Questi sviluppi, accompagnati da importanti avanzamenti sul piano istituzionale (in particolare: rafforzamento dei poteri del PE, estensione del voto a maggioranza da parte del Consiglio, cittadinanza europea), vennero promossi soprattutto dal presidente della Commissione europea Jacques Delors, dal presidente francese François Mitterrand e dal cancelliere tedesco Helmut Josef Michael Kohl. Decisivo fu d’altra parte il cambiamento epocale del quadro internazionale, connesso con la caduta del Muro di Berlino (v. Germania), la fine della guerra fredda e la riunificazione tedesca. L’esigenza, che l’UEF ha sostenuto fin dalla sua nascita, di collegare organicamente la ricostruzione della Germania alla creazione di una comune sovranità europea, per realizzare il definitivo affratellamento fra i francesi e i tedeschi e tutti i popoli europei, rappresentò in effetti un fattore fondamentale dei progressi integrativi compiuti negli anni Novanta.

In questo contesto si colloca il ruolo svolto dall’UEF, che ebbe come presidente, dopo John Pinder, l’italiano Francesco Rossolillo, dal 1990 al 1997, e l’olandese Gerard Vissels come successore di Caterina Chizzola nella funzione di segretario generale. L’impegno più generale e comprensivo fu rappresentato dalla campagna per la democrazia europea attuata dal 1987 al 1996. Se l’obiettivo di fondo era (come sempre) la federazione europea e il metodo costituente democratico, le rivendicazioni concrete attraverso cui si articolava la campagna erano: l’eliminazione dei controlli ai confini fra i paesi della Comunità-Unione; il parallelismo fra allargamento e approfondimento; il rafforzamento del ruolo del PE e della Commissione e estensione del voto a maggioranza; il superamento del monopolio governativo della funzione costituente.

Gli aspetti più rilevanti della campagna per la democrazia europea furono: la raccolta di firme per petizioni alle autorità comunitarie; la presenza sistematica con migliaia di manifestanti in occasione dei più importanti consigli europei (Bruxelles 1987, Hannover 1988, Strasburgo 1989, Roma 1990, Maastricht 1991, Edimburgo 1992, Torino e Firenze 1996); il referendum consultivo sul ruolo costituente del PE, che venne chiesto dai federalisti con una proposta di legge di iniziativa popolare (con 120.000 firme autenticate) e che si svolse in Italia in coincidenza con le elezioni europee del 18 giugno 1989 (88% di voti a favore con una partecipazione al voto dell’82%); il sostegno alla ratifica del TDM e l’intervento particolarmente attivo nel difficile referendum tenutosi in Francia il 20 settembre 1992.

Nel quadro della campagna per la democrazia europea i federalisti, che fin dagli anni Sessanta erano intervenuti a favore della moneta europea (v. Euro) (ad esempio l’azione-frontiere del 1968 fu dedicata a questa rivendicazione), svolsero una azione specifica per favorire la partecipazione del maggior numero possibile di Stati membri dell’UE all’unificazione monetaria. Alla base di questo impegno c’era la considerazione che la moneta unica avrebbe reso più che mai urgente la necessità di un governo democratico europeo.

La Campagna per la Costituzione europea (1997-2006).

L’UEF ebbe come presidente dal 1997 al 2005 il tedesco Jo Leinen e come segretario generale il francese Bruno Boissiere. Nel 2005 diventava presidente l’italiana Mercedes Bresso e segretario generale l’austriaco Friedhelm Frischenschlager. A partire dal congresso di Vienna del 18-20 aprile 1997 la Costituzione federale europea e la costituente europea, da sempre la stella polare della lotta federalista, diventavano oggetto di una specifica campagna che costituisce il filo conduttore dell’azione svolta da allora e tutt’ora in corso. Alla base di questa scelta vi era la convinzione che l’UE, per il grado di integrazione raggiunto e per i problemi emersi nel mondo post-bipolare, si trovi di fronte a della sfide esistenziali. La costruzione della federazione europea, indicata nella Dichiarazione Schuman, e quindi l’attivazione di una procedura costituente democratica, sarebbero la condizione insostituibile per evitare di andare verso un’Europa disgregata e impotente. Le sfide esistenziali sono fondamentalmente: l’urgenza di integrare la moneta europea con un governo economico e sociale sopranazionale; l’allargamento, che è destinato a bloccarsi e a fallire senza un approfondimento che realizzi una efficace solidarietà fra paesi più avanzati e meno avanzati; l’esigenza pressante di una capacità dell’UE di agire efficacemente sul piano internazionale (il che implica la piena federalizzazione della politica estera, di sicurezza e di difesa) per poter fornire un contributo determinante alla creazione di un mondo più giusto e più pacifico.

Fondata su questa percezione, la campagna per la Costituzione federale europea avuto ebbe un momento particolarmente forte nella manifestazione del 7 dicembre 2000 a Nizza (in occasione del Consiglio europeo), a cui parteciparono 10.000 persone, fra cui centinaia di amministratori locali. Alle richieste dei federalisti e del PE i governi rispondevano con la convocazione della Convenzione europea presieduta da Giscard d’Estaing. In tal modo venivano recepiti alcuni aspetti del modello della costituente democratica: la partecipazione dei parlamentari europei e nazionali (già sperimentata con l’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea varata a Nizza); la trasparenza delle riunioni; l’ascolto della società civile (v. Forum della società civile; Società civile organizzata). Si manteneva però il principio della decisione finale unanime da parte dei governi e della ratifica unanime. I federalisti compirono ogni sforzo per favorire l’approvazione di un progetto di costituzione più avanzato possibile e considerarono il progetto finale insoddisfacente, ma comunque contenente importanti passi avanti in direzione del federalismo e della partecipazione democratica, e quindi un traguardo da cui ripartire immediatamente.

Si impegnarono quindi a fondo a favore della ratifica, che però venne bloccata dall’esito negativo dei referendum in Francia e in Olanda (v. Paesi Bassi), anche se il progetto stato venne comunque ratificato dalla maggioranza degli Stati e della popolazione dell’UE.

L’azione dell’UEF si trova ora di fronte al problema di come rilanciare il processo costituente. Poiché è il principio della unanimità, cioè del veto nazionale, che impedisce gli avanzamenti che sono drammaticamente urgenti, la scelta che si è compiuta è concentrata sullo scioglimento di questo nodo cruciale. L’obiettivo strategico della Campagna in questa fase è dunque ottenere che il progetto di Costituzione (rielaborato e migliorato per tener conto degli esiti dei referendum in Francia e Olanda) sia sottoposto a un referendum consultivo europeo nello stesso giorno delle elezioni europee del 2009 e che entri in vigore, fra i paesi ratificanti, se sarà stato approvato dalla doppia maggioranza degli Stati e della popolazione dell’UE (v. anche Duplice maggioranza).

Sergio Pistone (2005)




Unione europea dei pagamenti

L’Unione europea dei pagamenti (UEP) fu un accordo per la compensazione e l’aggiustamento delle bilance dei pagamenti in vigore dal 1950 al 1958 tra i paesi europei aderenti all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE).

Voluto fortemente dagli Stati Uniti, che speravano di farne un importante momento di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), l’accordo istitutivo dell’UEP fu firmato il 19 settembre 1950 nel quadro istituzionale dell’OECE. Le trattative che portarono alla costituzione dell’Unione videro la tenace opposizione della Gran Bretagna (v. Regno Unito), che mirava a proteggere il ruolo internazionale della sterlina. Aderirono i governi di Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania federale (v. Germania), Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera e Turchia.

L’UEP nacque con lo scopo preciso di facilitare la progressiva liberalizzazione degli scambi tra i paesi membri su base multilaterale, ma gli ostacoli che nel 1950 impedivano il raggiungimento di questo obiettivo erano molti: dalla rete di accordi bilaterali che soffocava il commercio internazionale, alla penuria di dollari (unico mezzo di pagamento internazionale universalmente accettato), all’inconvertibilità delle monete. Per questo motivo i paesi firmatari vollero che l’Unione si fondasse su un meccanismo multilaterale, capace di economizzare l’ammontare di dollari necessari per sostenere il commercio intereuropeo, e che stimolasse il rafforzamento delle monete e il ritorno generalizzato alla convertibilità.

L’Unione europea dei pagamenti, che era parte integrante dell’OECE non avendo una propria sede né una propria struttura organizzativa, era diretta dal Consiglio dell’organizzazione. Esso delegava la supervisione delle operazioni e della gestione dei fondi a un Comitato direttivo, che prendeva decisioni a maggioranza. Le operazioni previste dall’Unione venivano realizzate dalla Banca per i regolamenti internazionali, che svolgeva la funzione di agente, con sede a Basilea.

L’Accordo che istituiva l’Unione prevedeva in primo luogo che le compensazioni tra le posizioni debitorie e quelle creditorie dei vari paesi fossero effettuate su base multilaterale. Per rendere possibile ciò, i deficit e i surplus non venivano espressi in valuta nazionale, bensì in European currency unit (ECU) (v. Unità di conto europea), una nuova unità di conto definita con una precisa parità aurea (0,888671 gr di oro fino), formalmente slegata dal dollaro statunitense.

La somma algebrica di tutte le bilance di un paese, espresse in ECU, determinavano la posizione debitoria o creditoria di quel paese nei confronti dell’Unione nel suo complesso. In questo modo l’UEP permise di ridurre del 50% la quantità di oro o dollari necessaria per gli aggiustamenti internazionali.

Nell’Unione il regolamento di un eventuale debito netto di uno Stato membro avveniva attraverso un meccanismo che incentivava lo Stato debitore a ridurre lo squilibrio, esigendo contributi in oro o dollari che crescevano percentualmente col crescere del deficit. In questo modo l’Unione facilitò la formazione di posizioni solide nel commercio intereuropeo.

Nel corso degli otto anni in cui funzionò, l’UEP si trovò spesso a dover gestire situazioni difficili e complesse che richiesero interventi specifici e mirati. La crisi più grave fu sicuramente quella della Germania, che immediatamente dopo l’entrata in vigore dell’accordo cominciò ad accumulare una posizione debitoria in continua e inarrestabile crescita. Il Comitato direttivo concesse, in quell’occasione, un credito speciale alla Germania, imponendole, però, condizioni precise di economia interna che si rivelarono poi efficaci. La competenza e l’autorevolezza con la quale questa e altre crisi furono gestite accrebbe notevolmente il prestigio del Comitato direttivo e dell’Unione nel suo complesso.

Già nel 1954, anche grazie all’attività dell’UEP, le economie e le monete europee si erano sufficientemente rafforzate da poter permettere di pensare al ritorno alla convertibilità. In realtà un simile importante passo avvenne solo nel 1958, con l’entrata in vigore dell’Accordo monetario europeo che sostituì l’Unione monetaria europea, ormai non più necessaria.

Daniela Bianchi (2009)




Unione europea di radiodiffusione

Caratteristiche e finalità

L’Unione europea di radiodiffusione (Union européenne de radiodiffusion, UER, o European broadcasting union, EBU, nelle due lingue ufficiali dell’organizzazione) riunisce 71 “membri attivi”, organismi nazionali nel settore radiotelevisivo, appartenenti a 52 Stati in Europa, Nord Africa e Medio Oriente. A questi si aggiungono 46 “membri associati” di 29 Stati in tutto il mondo.

L’UER ha sede a Ginevra, in Svizzera. L’ufficio di Bruxelles rappresenta l’organizzazione presso le istituzioni europee (v. Istituzioni comunitarie), mentre quelli di New York, Washington DC, Mosca e Singapore controllano il buon funzionamento dei servizi di collegamento Eurovision per i programmi di notizie e di altro genere prodotti in ogni regione del mondo.

L’Unione è stata fondata il 12 febbraio 1950 a Torquay, in Gran Bretagna (v. Regno Unito). Nel gennaio 1993 è avvenuta la fusione con l’Organisation internationale de radio et télévision (OIRT), organizzazione analoga dei paesi dell’Est europeo.

L’Assemblea generale dell’UER elegge il consiglio di amministrazione, che si compone del presidente e di quattro vicepresidenti eletti per due anni, e di 19 membri eletti per quattro anni. Il Consiglio si riunisce ogni sei mesi ed è responsabile delle grandi linee strategiche dell’attività. Tra le riunioni del Consiglio la gestione è affidata alla presidenza, che si compone del presidente e dei vicepresidenti. L’attività è suddivisa in quattro settori specifici – televisione, radio, giuridico e tecnico – affidati ciascuno ad un gruppo di membri (assemblee e comitati ristretti).

Il segretario generale dirige, con l’aiuto dei capi dipartimento, i servizi permanenti. I dipendenti dell’UER, a Ginevra e nei cinque uffici, sono circa 300, e nel 2003 il giro d’affari è stato di 296 milioni di euro.

Le attività dell’UER coprono, attraverso il servizio Eurovision, la diffusione e lo scambio di informazioni e servizi culturali e sportivi; inoltre l’UER promuove le coproduzioni, la produzione di serie di animazione, di programmi educativi e di documentari, incoraggia il lavoro di giovani sceneggiatori e il debutto, con l’Eurovision grand prix, di giovani musicisti e danzatori. Dal 1955 l’UER produce ogni anno il Concorso eurovisione della canzone, spettacolo televisivo coprodotto e trasmesso in diretta da oltre 25 emittenti (il numero varia leggermente ogni anno) a un pubblico di oltre 100 milioni di spettatori in tutta Europa.

Di notevole importanza anche la collaborazione nella radiofonia: musica, notizie, sport, e programmi per i giovani, di stazioni regionali e locali, vengono scambiati e diffusi nella rete Euradio, che ogni anno trasmette 4500 concerti e opere e coordina la trasmissione di 440 competizioni sportive e di 120 grandi avvenimenti.

Grande rilievo economico riveste per i membri dell’Unione l’acquisto in comune dei diritti paneuropei di trasmissione di eventi sportivi, nel quadro di Eurovision sport. L’operazione permette agli enti televisivi di ottenere condizioni economiche vantaggiose, facendo pesare la grande visibilità degli eventi trasmessi da tutti i membri, elemento cruciale per le federazioni sportive. Questo vale sia per gli sport di grande popolarità – Olimpiadi, campionati mondiali e europei di calcio, grande ciclismo, gare di Formula 1, principali tornei di tennis – che per quelli minori. Va segnalato tuttavia che i diritti per i campionati mondiali di calcio 2002 e 2006 non sono andati all’UER, ma al gruppo tedesco Kirch Media.

L’UER copre anche la collaborazione nel campo della ricerca e dello sviluppo dei nuovi mezzi di trasmissione, e in quello delle questioni giuridiche.

I 52 Stati rappresentati nell’UER dai rispettivi servizi radiotelevisivi sono: Albania, Algeria, Andorra, Austria, Belgio, Bielorussia, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Repubblica Ceca, Cipro, Croazia, Danimarca, Egitto, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giordania, Grecia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lettonia, Libano, Libia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Malta, Marocco, Moldavia, Monaco, Norvegia, Olanda (v. Paesi Bassi), Polonia, Portogallo, Romania, Russia, San Marino, Serbia e Montenegro, Regno Unito, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Tunisia, Turchia, Ucraina, Ungheria, Vaticano.

Il servizio Eurovision

Il servizio Eurovision è nato nel giugno 1954, con la trasmissione dal Festival “Narcissus” (una manifestazione floreale) di Montreux, cui ebbero accesso contemporaneamente le televisioni di otto paesi. Attualmente esso è il maggior fornitore del mondo in diretta di servizi internazionali di sport, notizie, eventi culturali e di intrattenimento: oltre 15.000 ore di programmi vengono trasmesse in diretta ogni anno. Le emissioni video simultanee vengono inviate dalle stazioni terrestri, fisse o mobili, alla rete di satelliti di Eurovision, e ridiffuse globalmente. La rete permanente di Eurovision dispone di oltre 50 canali digitali via satellite e trasmette oltre 100.000 programmi all’anno. Il servizio è diretto dal Dipartimento operazioni Eurovision, e garantisce la copertura permanente dell’Europa, delle Americhe, di Medio Oriente, Nord Africa, Asia e Pacifico e di altre zone in Africa e sulle coste del Pacifico.

Uno dei servizi più importanti di Eurovision è quello degli scambi dell’attualità tra gli organismi televisivi: i “News exchanges” quotidiani indicati dalla sigla EVN, chiamati nel gergo giornalistico italiano “le Eveline”. Più di 30.000 scambi di immagini di attualità avvengono ogni anno tra i membri di Eurovision, che forniscono i servizi su base reciproca e utilizzano la rete Eurovision per la distribuzione: gli scambi avvengono quotidianamente, al ritmo di oltre 100 al giorno, a ore fisse o nei tempi eventualmente imposti dall’attualità, attraverso il Dipartimento operazioni Eurovision a Ginevra.

Oltre alle “Eveline” (EVN), vi sono altre quattro categorie di scambi: EVS (Sports news exchange), per eventi sportivi e servizi connessi; YNE (Youth news exchange), materie di interesse per i giovani; Regional exchanges, storie di interesse per specifiche regioni europee; e CLA (Live events) copertura in diretta di avvenimenti importanti precedentemente previsti, e di notizie impreviste di rilievo.

Il ruolo attuale dell’UER

Dalla sua fondazione, nel 1950, fino alla metà degli anni Settanta, l’UER ha rappresentato praticamente tutta la radiotelevisione europea, che in tutti i paesi dell’Europa occidentale era prodotta da enti pubblici, in regime di monopolio. In seguito, nell’arco di pochi anni, la situazione è radicalmente cambiata, con l’abbandono nei diversi paesi del monopolio pubblico e l’affermarsi di un largo numero di società radiotelevisive commerciali private.

Il cambiamento ha obbligato ogni ente pubblico radiotelevisivo, e di conseguenza l’UER, a una nuova analisi della propria ragion d’essere e del proprio ruolo. La produzione di programmi radiotelevisivi non era più considerata, a causa di imperativi tecnologici (non più sussistenti) e in base a presupposti politici e giuridici fino ad allora mai posti in discussione, una “naturale” ed esclusiva attività pubblica, emanazione diretta dello Stato. La permanenza di enti pubblici nel settore doveva trovare altre giustificazioni.

In ogni paese, con sfumature diverse per adattarsi alle varie situazioni locali, la risposta è stata trovata nella necessità di fornire un servizio di alto livello qualitativo e di coprire la domanda di cultura, senza i condizionamenti posti dalle esigenze commerciali. Collettivamente, l’UER riflette una posizione analoga, specialmente di fronte alle istituzioni europee, che devono rispondere agli imperativi dei Trattati in tema di libertà di concorrenza (v. Politica europea di concorrenza) e inammissibilità di “Aiuti di Stato” per attività economiche. Da questo punto di vista, l’acquisto in comune dei “diritti sportivi” (di cui si è detto più sopra) ha prodotto diversi problemi: gli accordi tra imprese per ottenere collettivamente vantaggi economici sono infatti vietati sia dal Diritto comunitario sia da quello in vigore in molti degli Stati dell’UER. Il primo esposto alla Commissione europea contro il sistema Eurovision sport risale al 1988: nel 1993 la Commissione esentava il sistema UER dall’applicazione delle norme europee, argomentando che l’azione collettiva dell’UER era piuttosto a favore della concorrenza, dato che le risorse finanziarie dei concorrenti privati erano ben maggiori di quelle dei singoli membri dell’UER. Nel 1996, tuttavia, il Tribunale di primo grado, accogliendo un ricorso, annullava la decisione della Commissione: la vicenda si ripeté nel 2000 con una nuova esenzione decisa dalla Commissione e un nuovo annullamento del Tribunale nel 2002. Anche se le esenzioni sono state abolite dal diritto europeo dalla riforma in vigore dal 2004, la Commissione ha a disposizione strumenti di effetto equivalente. Comunque si concluda, il caso illustra la complessità crescente del contesto industriale e giuridico in cui l’UER si trova ad agire.

Mariano Maggiore (2007)




Unione parlamentare europea

Richard Coudenhove-Kalergi, fondatore nei primi anni Venti dell’Unione paneuropea, decise al suo rientro in Europa nel 1946 dagli Stati Uniti, dove aveva trovato rifugio durante gli anni del secondo conflitto mondiale, di rilanciare il suo programma politico attraverso la costituzione di una nuova organizzazione: l’Unione parlamentare europea (UPE).

Coudenhove-Kalergi, infatti, sviluppando un’idea suggeritagli dallo statunitense Albert Guerard, mirava alla convocazione di un’Assemblea costituente europea che si ponesse come base del nuovo ordine politico europeo postbellico. Egli puntò sull’appoggio di parlamentari europeisti nei singoli paesi, in particolare sui giovani deputati eletti per la prima volta nei rispettivi Parlamenti nazionali, dopo anni trascorsi combattendo nelle file della Resistenza o al fronte oppure reclusi nelle prigioni naziste e fasciste.

Coudenhove-Kalergi promosse in quei primi anni del dopoguerra una strategia per l’unificazione del vecchio continente che faceva leva sulla forza inerziale derivante dalla rifondazione degli Stati nazionali, allo stesso tempo sfruttandone gli elementi di debolezza. I governi europei, in tal modo, sotto la spinta interna di un movimento parlamentare europeista e, al contempo, in considerazione della pressione esterna esercitata dagli Stati Uniti, sarebbero stati quasi costretti a imboccare la via federativa per il nuovo assetto europeo.

Egli, a partire dall’ottobre 1946, diffuse un questionario tra più di 4200 parlamentari di paesi dell’Europa occidentale, nel quale si chiedeva se essi fossero favorevoli alla costituzione di una federazione europea nell’ambito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Pervennero 1735 questionari, con risultati lusinghieri in particolare in Italia, con il 64,5% di risposte affermative, seguita da Lussemburgo, Grecia, Belgio, Francia, Paesi Bassi e Svizzera, che esprimevano percentuali superiori al 50%. Il Regno Unito, l’Irlanda e l’Austria rimasero, invece, al di sotto del 30%, mentre Danimarca, Norvegia e Svezia addirittura sotto il 15% di risposte affermative.

Nei singoli Parlamenti nazionali si costituirono degli intergruppi di deputati, appartenenti a diversi partiti, favorevoli all’avvio del processo di unificazione europea. In Gran Bretagna, ad esempio, nel febbraio 1947 venne creato il Federalist Group of the House of Commons e lo stesse avvenne in Francia il 19 giugno di quell’anno con la nascita di un intergruppo parlamentare, presieduto dal senatore René Coty, futuro Presidente della Repubblica, che arrivò a contare nei primi anni della Quarta repubblica più di 250 tra deputati e senatori, su un totale di circa 900 parlamentari.

Una prima conferenza di questi comitati nazionali si tenne a Gstaad, in Svizzera, il 4-5 luglio 1947 e venne costituita ufficialmente l’Unione parlamentare europea, articolata in comitati nazionali di assemblee liberamente elette, quindi non a partito unico. Una volta all’anno, nel mese di settembre, si sarebbe riunita l’Assemblea generale dell’organizzazione, composta di rappresentanti nazionali in proporzione alla popolazione dei singoli Stati e «in ragione di un delegato ogni milione di abitanti». I presidenti dei comitati nazionali formavano il Consiglio esecutivo, che a sua volta nominava il segretario generale. Nell’attesa del primo congresso ufficiale il greco Léon Maccas venne eletto presidente del Consiglio provvisorio, mentre Coudenhove-Kalergi assunse la segreteria generale.

Il primo congresso dell’UPE si svolse sempre a Gstaad pochi mesi dopo, esattamente dall’8 al 10 settembre. In quella sede 114 parlamentari, provenienti da dieci paesi europei, discussero dei mezzi più efficaci per promuovere le idee federaliste e richiesero la convocazione di un’assemblea costituente, eletta dai Parlamenti nazionali o direttamente dai popoli, con il compito di elaborare una Costituzione europea, di natura federale o confederale, da sottoporre rapidamente all’approvazione dei singoli Stati europei, prevedendo poteri esecutivi, legislativi e giudiziari a livello centrale e una moneta comune. Nella Déclaration de solidarité européenne, approvata il 9 settembre, infatti, si affermava che le guerre nel vecchio continente non sarebbero state eliminate se non attraverso «une transformation de l‘Europe en une communauté indissoluble et fédérée, unie par sa civilisation, par sa volonté de liberté et par son destin commun». Si poneva quindi l’obiettivo della «création des États Unis de l‘Europe par la volonté de ses peuples». Si faceva poi appello ai popoli del mondo affinché aiutassero l’Europa ad adempiere alla sua missione federale, trasformandola in uno dei pilastri della pace mondiale.

Il Congresso di Gstaad dell’8-10 settembre elesse, inoltre, alla presidenza il capogruppo socialista alla Camera dei deputati belga, Georges Bohy, in sostituzione del presidente del Consiglio provvisorio Léon Maccas, mentre Coudenhove-Kalergi venne confermato segretario generale dell’organizzazione. Quest’ultima costituiva il primo forum a livello europeo per i parlamentari nazionali, contribuendo a far superare le inimicizie e le diffidenze tra i popoli, integrando su un piano di totale parità anche i deputati delle ex potenze dell’Asse, come avvenne, proprio a partire dal settembre 1948, con i parlamentari dei Länder tedeschi.

Il Comitato parlamentare italiano per l’Unione europea, costituitosi il 29 maggio 1947 per iniziativa del democristiano Enzo Giacchero, ottenne un rilevante successo con l’approvazione unanime, il 25 gennaio 1948, da parte della Commissione Trattati internazionali dell’Assemblea costituente, presieduta da Ivanoe Bonomi, di un ordine del giorno a favore della creazione degli Stati Uniti d’Europa.

In questa fase Coudenhove-Kalergi fu molto vicino alle posizioni federaliste anche per l’influenza del parlamentare laburista britannico Ronald Mackay, di orientamento, appunto, federalista, il quale, tra l’altro, al Congresso d’Europa dell’Aia del maggio 1948, s’impegnò a nome dell’UPE nella preparazione della risoluzione politica, che contemplava un’assemblea europea.

Nel settembre 1948, al Congresso di Interlaken, l’UPE tracciò le linee fondamentali di una costituzione federale europea con il cosiddetto “Piano di Interlaken“, articolato in due parti. Nella prima si delineava un’architettura istituzionale sul modello elvetico, con un Parlamento bicamerale e un esecutivo, il Consiglio federale, eletto dalle due Camere. Nella seconda parte veniva presentato un programma d’azione per dare attuazione alla proposta.

Il tentativo, tuttavia, di esercitare una pressione sui governi affinché adottassero tale Piano, facendo leva sulle componenti parlamentari europeiste, non diede risultati, incontrando, tra l’altro, la ferma opposizione del Regno Unito.

Un parziale successo si ebbe con la nascita, nel 1949, del Consiglio d’Europa, che si ricollegava in qualche misura all’idea iniziale di un’assemblea europea, per quando fortemente ridimensionata, non contemplando, tra l’altro, un progetto costituente.

Sempre nel 1949, però, i membri britannici e scandinavi dell’UPE, non condividendo una linea politica giudicata sbilanciata in senso federalista, uscirono dall’organizzazione e fondarono all’interno del Movimento europeo una sezione parlamentare, in parte postasi in concorrenza con la stessa UPE. Va tuttavia rilevato che, dopo la costituzione del Consiglio d’Europa, il movimento dimostrò una minore dinamicità rispetto alle attività promosse nei primi anni di vita, per cui Coudenhove-Kalergi, nel 1952, puntò al rilancio dell’originaria Unione paneuropea, mentre decise la fusione dell’UPE con il Movimento europeo, di cui l’UPE divenne il Consiglio parlamentare.

Paolo Caraffini (2017)




Unione per il Mediterraneo

Introduzione: la cooperazione euromediterranea

Viene chiamato “Processo di Barcellona” il processo di cooperazione euromediterranea avviato dall’Unione europea (UE) al fine di instaurare un partenariato globale con i paesi del bacino del mar Mediterraneo, inauguratosi con la Conferenza ministeriale svoltasi a Barcellona il 27 e 28 novembre 1995. Alla Conferenza parteciparono i 15 paesi membri dell’UE e 12 Stati delle coste meridionali del Mediterraneo (Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e Autorità palestinese) e, in qualità di invitati, la Lega degli Stati arabi, l’Unione del Maghreb arabo (UMA) – organizzazione costituitasi nel 1989 tra Algeria, Libia, Marocco, Mauritania e Tunisia con il Trattato di Marrakech – e la Mauritania, in quanto membro di quest’ultima organizzazione regionale. In tale occasione, i 27 Stati hanno sottoscritto la Dichiarazione di Barcellona che prevede l’obiettivo di garantire la sicurezza nella regione del Mediterraneo attraverso tre aree di intervento (cooperazione politica e di sicurezza, cooperazione economico-finanziaria e cooperazione sociale, culturale e umana) allo scopo di realizzare uno spazio euromediterraneo di libero scambio entro il 2010 e un programma di lavoro comune. A seguito dell’Allargamento dell’UE avvenuto il 1° maggio 2004 con l’ingresso di dieci nuovi paesi, due paesi terzi mediterranei o PTM (Cipro e Malta) sono divenuti Stati membri dell’UE. Dopo l’adesione di Bulgaria e Romania, dal 2007 il Partenariato euromediterraneo (Euro-Mediterranean partnership, Euromed) coinvolge 39 paesi (27 paesi membri dell’UE e 12 PTM – Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Autorità palestinese, Siria, Tunisia e i tre paesi candidati all’ingresso nell’UE, Croazia, ex Repubblica iugoslava di Macedonia e Turchia).

Le relazioni euromediterranee della Comunità economica europea fino agli anni Sessanta

I rapporti tra la Comunità europea (CE) (v. Comunità economica europea) e l’area mediterranea rientrano nel settore della cooperazione allo sviluppo (v. anche Politica europea di cooperazione allo sviluppo) e delle relazioni esterne (v. anche Politica estera e di sicurezza comune), e sono stati influenzati dalle relazioni esistenti tra gli Stati europei (nonché, per lo più, dai precedenti legami coloniali di alcuni di essi, in particolare della Francia) e i paesi extracomunitari del Maghreb (Marocco, Algeria e Tunisia) e del Mashreq (Egitto, Giordania, Israele, Libano, Siria, Giordania, Autorità palestinese). Attraverso la Politica commerciale comune della Comunità, che consente la conclusione di accordi per la regolazione del commercio estero, essa ha progressivamente stabilito accordi differenziati con singoli paesi: dagli accordi di Associazione con la Grecia (1962) e la Turchia (1964), in previsione di una futura adesione alla Comunità, ad accordi commerciali preferenziali di varia natura. La peculiarità del rapporto tra CE e area mediterranea – sulla base dell’art. 310 del Trattato della Comunità economica europea (v. Trattati di Roma) –, a differenza di quello con altri paesi in via di sviluppo come, ad esempio, gli Stati dell’Africa sub sahariana, Carabi e Pacifico (ACP) – regolati sulla base degli artt. 182-187 del Trattato CEE –, è dovuta tanto alla vicinanza geografica tra Comunità e PTM quanto alla compresenza tra i paesi del Mediterraneo di Stati europei, africani e asiatici e dalla necessità di garantire la sicurezza e la pace affrontando la complessità e la varietà di questioni politiche, economiche, sociali e culturali. Negli anni Sessanta prevalsero i rapporti bilaterali tra Stati europei e PTM, e soltanto nei primi anni del decennio successivo la CE iniziò a valutare un approccio complessivo e strutturato alle relazioni euromediterranee.

Dalla Politica mediterranea globale (PMG) alla Politica mediterranea rinnovata (PMR)

Nel 1971 il Parlamento europeo (PE) chiese la promozione di una politica unitaria e coerente nei confronti dei PTM e, sulla base di una proposta della Commissione europea si giunse, durante il Consiglio europeo di Parigi (19-21 ottobre 1972), al lancio della Politica mediterranea globale (PMG) per il periodo 1976-1990, che intendeva superare la fase degli accordi commerciali sostituendola con un quadro giuridico e politico unitario nel quale inserire la cooperazione economica, politica, sociale e culturale. Questo tentativo di rafforzare i legami con i PTM, che prevedeva entro il 1° luglio 1977 la rimozione delle barriere per il commercio dei prodotti industriali, a eccezione di quelli tessili e del petrolio raffinato, nonché l’apertura della Comunità a prodotti agricoli del Maghreb, la cooperazione allo sviluppo in termini di cooperazione finanziaria e tecnica e l’individuazione di organismi comuni, naufragò ben presto di fronte a difficoltà e ostacoli dovuti alle crisi internazionali quali quella petrolifera ed energetica del 1973-1974 e del 1979 e alle divergenze manifestatesi tra i paesi della Comunità (il Regno Unito non voleva che fossero messe a rischio le sue relazioni privilegiate con i paesi del Commonwealth; l’Italia e la Francia erano preoccupate di difendersi dalla concorrenza che i PTM potevano esercitare nei settori agricolo e tessile danneggiando le loro economie). A seguito di questa situazione di stallo, aggravatasi con l’ingresso nella Comunità di alcuni paesi europei mediterranei (la Grecia nel 1981, la Spagna e il Portogallo nel 1986), e della creazione dei Programmi integrati mediterranei (PIM), volti a favorire la coesione territoriale e a ridurre i divari tra le diverse regioni della CE ma che finirono per approfondire i divari sociali ed economici tra i PTM e gli Stati comunitari, si affermò l’esigenza di ravvivare la cooperazione euromediterranea. Nacque così la Politica mediterranea rinnovata (PMR), decisa il 18 dicembre 1990 e preceduta nel mese di giugno dalla comunicazione “Un nuovo profilo per la politica mediterranea: proposte per il periodo 1992-1996” della Commissione europea (comunicazione 812/90), alla quale si affiancava parallelamente il forum informale di collaborazione denominato Gruppo 4+5, costituito da quattro paesi comunitari (Francia, Italia, Portogallo e Spagna) e dai cinque paesi dell’UMA allo scopo di potenziare iniziative comuni (soprattutto in campo ambientale) e dal 1991 allargatosi anche a Malta divenendo così il Gruppo o Foro 5+5. La PMR, attivata nel 1992, prevedeva programmi multilaterali di cooperazione sia tra paesi comunitari e PTM, sia tra questi ultimi, investendo molti settori d’intervento – dal trasferimento tecnologico (programmi Med-Campus e Avicenne) al campo culturale, dallo sviluppo economico delle piccole e medie imprese (programma Med-Invest) a quello urbano (Med-Urbs), dal potenziamento dei mass media (programma Med-Media), alla tutela dell’ambiente (programmi Metap e Mast).

La Conferenza e la Dichiarazione di Barcellona: i settori d’intervento del partenariato euromediterraneo

Nell’ottobre 1994 la Commissione europea formulò la proposta di rivedere integralmente i rapporti tra UE e PTM dando vita a un partenariato (comunicazione 427/94) e il Consiglio europeo di Essen (9-10 dicembre 1994) approvò una strategia per il Mediterraneo basata su questa indicazione, anche al fine di riequilibrare l’attenzione verso i rapporti euromediterranei rispetto a quelli verso l’Europa centro orientale a seguito della svolta impressa nel 1989 dalla caduta del comunismo nei paesi di quest’area.

La Conferenza e la Dichiarazione di Barcellona costituiscono l’avvio di un processo di cooperazione multilaterale globale, complementare alle intese bilaterali già stipulate tra i paesi partecipanti tra i quali figuravano Stati coinvolti in conflitti in corso (Turchia e Grecia riguardo alla questione cipriota e Israele e Autorità palestinese in Medio Oriente). Il processo delineato, basato sul dialogo politico, si caratterizzava per l’apertura ad altri soggetti e temi e per una logica incrementale. La cooperazione politica e di sicurezza per la creazione di uno spazio di pace e stabilità prevedeva di istituire un confronto generale e regolare a integrazione delle relazioni bilaterali già inserite negli accordi di associazione e il perseguimento di obiettivi comuni per garantire la stabilità, impegnando le parti ad agire nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e di altri trattati regionali e internazionali, con particolare attenzione per la tutela dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (comprese la libertà di espressione, la libertà di associazione, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione) stimolando gli scambi di informazioni su questi argomenti nonché in tema di razzismo e xenofobia (v. anche Lotta al razzismo e alla xenofobia). Alcuni impegni di ordine generale, da assumersi nel rispetto della sovranità e dell’autonomia degli Stati, erano sottolineati come parte integrante del partenariato politico: lo sviluppo dello Stato di diritto e della democrazia; il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati; la Lotta contro il terrorismo, la Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga; la promozione della sicurezza regionale; la non proliferazione di armi nucleari, chimiche e biologiche; il controllo degli armamenti e il rispetto degli accordi sul disarmo; l’eliminazione di armi di distruzione di massa in Medio Oriente.

Un secondo settore di intervento, il partenariato economico-finanziario, era concepito per promuovere lo Sviluppo sostenibile, il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, la crescita del livello occupazionale e la cooperazione e l’integrazione regionale, provvedendo alla creazione di zone di libero scambio mediante specifici accordi euromediterranei e accordi tra i PTM per l’abolizione graduale e concordata delle tariffe doganali e degli altri ostacoli al libero commercio riguardo ai prodotti manifatturieri, al fine di giungere alla liberalizzazione del commercio agricolo e dei servizi. Era inoltre prevista una cooperazione economica in diversi settori e il rafforzamento dell’aiuto finanziario dell’UE ai PTM. L’adozione di norme sulla certificazione e la tutela dei diritti di proprietà intellettuale, industriale e di concorrenza, l’introduzione di regole necessarie per lo sviluppo di politiche volte a realizzare l’economia di mercato e l’integrazione economica con attenzione ai bisogni sociali locali, la riforma e la modernizzazione delle strutture economiche e sociali al fine di attutirne gli impatti sociali, l’implementazione di meccanismi tesi a sviluppare trasferimenti di tecnologia, l’armonizzazione di tecniche e procedure doganali e l’eliminazione di restrizioni non necessarie allo scambio di prodotti agricoli costituivano le principali misure da attuare. Venivano indicati anche alcuni ambiti prioritari in cui agire per creare le condizioni di una cooperazione economica effettiva (investimenti e risparmio privato, trasferimenti tecnologici, cooperazione regionale, cooperazione industriale e sostegno alle piccole e medie imprese, cooperazione per la difesa dell’ambiente, promozione del ruolo della donna, azioni comuni per la gestione e la tutela delle risorse ittiche, cooperazione per la gestione delle risorse idriche e in campo energetico, ristrutturazione del settore agricolo). La Dichiarazione sottolineava l’impegno delle parti a programmare interventi prioritari anche in altri settori (trasporti, informatica, telecomunicazioni, pianificazione territoriale, cooperazione tra enti e comunità locali, statistica).

Il terzo asse del Processo di Barcellona è rappresentato dal partenariato sociale, culturale e umano, che si fonda sul riconoscimento e il rispetto reciproco di popoli, culture e religioni diverse e sulla valorizzazione degli elementi comuni a civiltà differenti, e prevede altresì lo sviluppo del dialogo interculturale e religioso, il potenziamento del ruolo dei mass media nel favorire la conoscenza delle culture del Mediterraneo, lo sviluppo di programmi e risorse nel campo culturale al fine di aumentare scambi, attività educative, progetti comuni, il rafforzamento dei servizi sanitari e del rispetto dei diritti sociali, e la necessità di coinvolgere la società civile nel dialogo euromediterraneo e nella cooperazione decentrata.

Governance, accordi, programmi e organi del partenariato euromediterraneo

Il partenariato euromediterraneo costituisce un regime internazionale singolare di governance senza un’autorità superiore, dotato di sistemi regolatori tipici del diritto internazionale, ma con un orientamento teso a fare acquisire ai PTM sistemi giuridici convergenti con quello sovranazionale comunitario. Esso si manifesta sia attraverso attività bilaterali tra l’UE e ciascun PTM, sia mediante il dialogo regionale, coinvolgendo l’UE e diversi paesi PTM. Nell’ambito degli accordi bilaterali figurano, tra i più importanti, gli accordi di associazione euromediterranei, conclusi, a partire da quello sottoscritto con la Tunisia nel 1998, con tutti i PTM (incluso quello siglato ad interim con l’Autorità palestinese) a eccezione della Siria (con la quale i negoziati tecnici per l’accordo si sono comunque conclusi nel 2004). Questi accordi hanno sostituito gli accordi preesistenti tra CE e PTM (a eccezione di quelli stipulati con Cipro, Malta e Turchia), hanno previsto istituzioni specifiche (il Consiglio d’associazione chiamato ad adottare misure vincolanti i paesi contraenti, coadiuvato dal Comitato di associazione e dalla Conferenza parlamentare di associazione) e presentano rilevanti differenze tra loro riguardo a modalità, tempi e livello di cooperazione in vista della realizzazione di un’area di libero scambio. Attraverso la dimensione regionale il Processo di Barcellona cerca invece di sviluppare una cooperazione multilaterale e strategica che ha trovato parziale realizzazione soprattutto con l’accordo siglato da Egitto, Giordania, Marocco e Tunisia con la Dichiarazione di Agadir del maggio 2001, entrato in vigore dal gennaio 2003, e aperto a future adesioni (processo di Agadir) e suggellato con l’accordo firmato nella stessa località il 25 febbraio 2004 al fine di creare un’ampia zona di libero scambio tra questi paesi entro il 2010. Altre iniziative in corso degne di nota per le quali sono stati attivati appositi programmi e finanziamenti sono costituite dal tentativo di creare un mercato regionale del gas tra Egitto, Giordania, Libano e Siria (Euro-Arab Masreq Gas Market, EAMGM) e da un analogo sviluppo per la produzione di energia elettrica riguardante i paesi del Maghreb (programma Electric market integration Maghreb 2007-2010).

Allo scopo di far decollare il partenariato euromediterraneo l’UE ha creato, sin dal 1995, il programma Mesures d’accompagnement (MEDA), quale strumento finanziario privilegiato del Processo di Barcellona, che offre misure di supporto tecnico e sostegno finanziario finalizzate alla riforma del sistema economico e sociale dei PTM per la transizione al libero mercato mediante programmi di aggiustamento strutturali e interventi di riforma dell’amministrazione, per lo sviluppo rurale, per l’occupazione e lo sviluppo del settore privato. Il programma MEDA era gestito dalla Direzione generale (DG) Relazioni esterne (già DG1B) della Commissione europea, che aveva il compito di preparare i programmi indicativi triennali in base ai quali l’Ufficio di cooperazione EuropeAid della Commissione europea redigeva i piani di finanziamento annuale e sovrintendeva alle fasi di attuazione dei progetti. Circa l’85% delle risorse distribuite dal programma MEDA (stabilito dal regolamento 1488/96) sono state impiegate negli accordi bilaterali, e soltanto il restante 15% ha interessato la dimensione regionale del partenariato e le spese di funzionamento tecnico degli uffici. Il programma MEDA (nel quale non era più inserita dal 2002 la Turchia, poiché ammessa tra i paesi beneficiari dei finanziamenti stabiliti dalla Direzione generale Allargamento) dopo due fasi (MEDA I, 1995-1999 e MEDA II, 2000-2006, istituito con reg. CE 2698/2000), a seguito dell’inserimento del partenariato euromediterraneo nella politica europea di vicinato o di prossimità dell’UE varata nel 2004 è stato sostituito dallo strumento europeo di vicinato e partenariato (European neighbourhood and partnership instrument, ENPI), previsto all’interno del pacchetto per l’aiuto esterno dell’UE del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) per il periodo 2007-2013. Dotato complessivamente di circa 12 miliardi di euro, dei quali circa il 10% destinati a progetti regionali, esso comprende anche lo strumento di preadesione (Instrument for pre-accession assistance) (v. Strategia di preadesione) e lo strumento di cooperazione allo sviluppo (Development cooperation instrument). Anche la Banca europea per gli investimenti (BEI), sotto forma di prestiti, contribuisce finanziariamente al partenariato, in particolare tramite il Fondo euromediterraneo d’investimento (Facility for Euro-Mediterranean investment and partnership, FEMIP) avviato nel 2002. Tra i progetti regionali finanziati figurano la rete di istituti e di osservatori di politica estera Euromesco, il network di istituti di ricerca economica Femise, la cooperazione in materia statistica (Medstat I e II), la rete di associazioni imprenditoriali Unimed, il programma d’azione a breve e a medio termine per l’ambiente (Short and medium-term priority environmental action programme, SMAP I, II e III), un sistema informativo per la gestione delle risorse idriche locali (Enwis/Semide) e il programma MEDA Water, il programma culturale Euromed heritage (avviato nel 1998 e che, attivo dall’anno successivo, è giunto alla terza fase di finanziamento e sviluppo), il programma euromediterraneo per la gioventù (Euromed youth programme), il programma Euromed visiteurs per i rappresentanti dei mass media e delle organizzazioni non governative (ONG), e le attività Euromed d’informazione e diffusione. Ulteriori sviluppi più recenti riguardano programmi per investimenti nelle telecomunicazioni, nella cooperazione energetica, per il miglioramento dell’efficienza e della regolazione in campo energetica, per la promozione dell’energia solare, per il miglioramento della protezione civile e per la prevenzione dell’influenza aviaria e delle epidemie nell’area mediterranea. Sin dalla nascita del partenariato è anche attivo il Forum civile Euromed, costituito da associazioni e ONG al fine di promuovere il dialogo euromediterraneo tra istituzione e società civile (v. anche Forum della società civile), svoltosi per la prima volta a Barcellona dal 29 novembre al 1° dicembre 1995 e, successivamente, in concomitanza delle conferenze ministeriali euromediterranee.

La Dichiarazione di Barcellona prevedeva riunioni periodiche dei ministri degli Esteri dei paesi partecipanti al partenariato euromediterraneo, istituite da un Comitato euromediterraneo per il processo di Barcellona costituito da un alto funzionario per ogni PTM e per la troika dell’UE (un rappresentante dello Stato che detiene la Presidenza dell’Unione europea, un rappresentante dello Stato che succederà a questo nella presidenza, un rappresentante della Commissione europea e l’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune) nonché, dal 1997, dai rappresentanti di tutti i paesi dell’UE non appartenenti alla troika in qualità di osservatori. Questo Comitato era incaricato di monitorare, valutare lo stato di avanzamento verso gli obiettivi e aggiornare il programma d’azione del Processo di Barcellona, oggetto di verifica durante riunioni tematiche a diversi livelli (ministeriale, funzionari, esperti, ecc.), mediante scambi di esperienze e di informazioni, contatti tra esponenti della società civile e delle istituzioni. Dopo la prima Conferenza euromediterranea di Barcellona sono state convocate otto Conferenze dei ministri degli Esteri del partenariato euromediterraneo. La successiva si è svolta a Malta (15-16 aprile 1997), seguita da quelle di Stoccarda (15-16 aprile 1999) – dove per la prima volta è stata invitata e ha partecipato la Libia in qualità di osservatore, status che ha mantenuto sino a oggi –, Marsiglia (15-16 novembre 2000), Valencia (22-23 aprile 2002), Napoli (2-3 dicembre 2003), Lussemburgo (30-31 maggio 2005), Tampere (27-28 novembre 2006) e Lisbona (5-6 novembre 2007). Oltre a queste, si sono tenute la Conferenze ministeriale ad hoc di Palermo (3-4 giugno 1998) – dove venne presentata la Carta euromediterranea per la pace e la stabilità volta a rafforzare il dialogo politico e a istituire le modalità per la prevenzione e la gestione delle crisi, di cui però la Conferenza di Marsiglia decise di rinviarne l’adozione a data da destinarsi a causa della ripresa del conflitto tra Israele e Autorità palestinese –, la Conferenza dei ministri degli Esteri di Bruxelles (5-6 novembre 2001), gli incontri di mezzo termine dei ministri degli Esteri di Creta (26-27 maggio 2003) e di Dublino (5-6 maggio 2004) e quella dell’Aia (29-30 novembre 2004) convocata per preparare il vertice (v. anche Vertici) del decennale tenutosi a Barcellona il 27 e 28 novembre 2005. Vi sono state inoltre, in particolare negli ultimi anni, diverse riunioni di settore a livello ministeriale, quali quelle dei ministri dell’Economia e delle finanze (la prima tenutasi a Rabat-Skhirat nel giugno 2005) su aspetti del partenariato economico e finanziario (commercio – conferenza di Marsiglia nel luglio 2008 –, industria, ambiente, acqua, società dell’informazione – conferenza del Cairo del febbraio 2008 –, energia, agricoltura e infrastrutture, investimenti e sicurezza degli approvvigionamenti energetici, turismo – conferenza di Fez dell’aprile 2008) e di quello sociale, culturale e umano (cultura – conferenza di Atene del maggio 2008 –, salute, occupazione e lavoro – conferenza di Marakesh del novembre 2008) nonché, più di recente, Per attuare il dialogo tra le varie istituzioni parlamentari dei paesi del Mediterraneo, sulla base del riferimento espresso nella Dichiarazione di Barcellona e su iniziativa del PE, il Forum parlamentare euromediterraneo, fondato nell’ottobre 1998, ha raccomandato nel dicembre 2003 la creazione di un’Assemblea parlamentare euromediterranea (APEM). La Conferenza ministeriale di Napoli, svoltasi nello stesso mese, ne ha sancito la nascita. L’APEM, composta da 250 deputati (120 dell’UE, dei quali 75 designati dai parlamenti nazionali e 45 dal PE, e 120 dei PTM) e articolata in tre Commissioni corrispondenti ai tre settori della Dichiarazione di Barcellona, è dotata di poteri consultivi e si è riunita per la prima volta il 22 e 23 marzo 2004 ad Atene.

Nei primi cinque anni di attuazione molte difficoltà politiche ed economiche, in particolare la rottura del processo di pace avviato tra Israele e Autorità palestinese (processo di Oslo), impedirono il decollo del Processo di Barcellona. Fino al 2000 entrarono in vigore soltanto gli accordi di associazione euromediterranea con la Tunisia, il Marocco, Israele e, in forma provvisoria, con l’Autorità palestinese, e venne utilizzato solo il 26% dei fondi del programma MEDA. Alla Conferenza ministeriale di Valencia, svoltasi nell’aprile 2002, è stato proposto un rilancio del partenariato, con l’adozione di un piano d’azione che riflette lo schema della Dichiarazione di Barcellona. Particolare rilievo è stato dato all’impegno comune nella lotta al terrorismo a seguito dell’attentato alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, all’apertura di un dialogo politico sull’evoluzione della Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD), alla costituzione di un quadro strategico per lo sviluppo sostenibile e allo sviluppo della cooperazione regionale nel campo della giustizia, della lotta al crimine organizzato e alla droga e in tema di immigrazione e circolazione delle persone avviata nel 2003. Sono stati altresì previsti comitati e gruppi di lavoro per valutare e sviluppare nuove iniziative, un accordo per la creazione di una fondazione euromediterranea per dialogo tra le culture e le civiltà (costituitasi nel 2004 e con sede ad Alessandria d’Egitto e a Stoccolma e intitolata all’ex ministro svedese degli Affari esteri Anna Lindh, uccisa in un attentato l’anno precedente) e un programma per la gioventù, l’istruzione e i mezzi di comunicazione. Dall’ottobre 2005 è attivo un Centro di informazione Euromed previsto nell’ambito del Programma di comunicazione e informazione regionale finanziato dall’Ufficio Europeaid e volto a divulgare le conoscenze riguardanti il processo euromediterraneo lavorando con i mass media e la società civile.

Le tensioni politiche tra paesi mediterranei (ad esempio in occasione della crisi tra Spagna e Marocco per l’isola di Perejil, sotto la sovranità spagnola occupata temporaneamente, nel luglio 2002, da truppe marocchine e poi evacuate, o in merito ai fondi concessi all’Autorità palestinese dall’UE e contestati da Israele oppure le ben più gravi guerre del Libano nell’estate del 2006, provocata da attacchi di Hezbollah a Israele, e della Striscia di Gaza condotta da Israele contro il partito Hamas tra dicembre 2008 e gennaio 2009) hanno trovato soluzioni o compromessi al di fuori del partenariato euromediterraneo, relegandolo a un ruolo politico marginale. La Commissione europea è intervenuta con una comunicazione del maggio 2003 per imprimere un impulso alle azioni dell’UE al fine di promuovere i diritti umani e la democrazia all’interno del partenariato euromediterraneo (comunicazione 294/2003) recepito alla conferenza di Barcellona del 2005 prevedendo il finanziamento di un apposito meccanismo finanziario rivolto a tale scopo e, nell’ambito della Politica estera e di sicurezza comune (PESC), l’UE ha adottato una strategia comune quadriennale per il Mediterraneo nel giugno 2000 su decisione del Consiglio europeo, rinnovata con l’approvazione, nel giugno 2004, di una Strategia di sicurezza verso il Mediterraneo e il Medio Oriente che offre un quadro generale delle politiche esistenti sia nel partenariato euromediterraneo, sia nei riguardi dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e di altri paesi quali l’Iran, l’Iraq e lo Yemen. Tuttavia, nonostante i più recenti sviluppi, nella conferenza di Barcellona del novembre 2005 in occasione del decennale del Processo e dell’Anno mediterraneo proclamato dall’UE, è stato constatato il sostanziale fallimento degli obiettivi del partenariato, evidenziato anche dall’impossibilità di vedere riuniti in un vertice comune tutti i capi di Stato e di governo dei paesi partecipanti a causa della mancata partecipazione delle massime autorità dei paesi arabi (a eccezione di Turchia e Autorità palestinese) e dei contrasti esistenti, in particolare a proposito della distinzione tra terrorismo e lotta di liberazione per il proprio paese, non accettata dall’UE e invece proposta dai paesi arabi. La conferenza ha comunque individuato un programma di lavoro per i successivi cinque anni del partenariato, al cui interno, ai tre settori della Dichiarazione di Barcellona si è aggiunto quello riguardante la giustizia, la sicurezza, l’immigrazione e l’integrazione sociale – con i programmi Euromed Justice I (2005-2007), Euromed Justice II (2008-2011), Euromed Police II (2007-2010), Euromed Migration I (2004-2007) e Euromed Migration II (2008-2011) nonché il già citato programma Euromesco e quelli riguardante il Processo di pace in Medio Oriente e i Seminari di Malta di formazione per i diplomatici sull’europartenariato e sulle istituzioni europee –, e ha adottato un codice di condotta comune per contrastare il terrorismo. Il 14 e 15 novembre 2006 si è tenuta a Istanbul la prima conferenza ministeriale euromediterranea sul rafforzamento del ruolo delle donne nella società che ha lanciato il programma regionale “Donne nella vita economica” per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne e contribuire alla loro qualificazione professionale.

Considerazioni finali e nascita dell’Unione per il Mediterraneo

Diversi sono stati i punti deboli evidenziati dal partenariato euromediterraneo, tra i quali si possono ricordare l’esito deludente delle politiche di aggiustamento strutturale nei PTM, lo scarso coinvolgimento del settore privato, delle piccole e medie imprese e delle società civili dei PTM nel partenariato, l’applicazione unilaterale, senza un confronto politico aperto euromediterraneo, del principio di condizionalità che lega la cooperazione e i finanziamenti europei verso i PTM al rispetto dei principi di democrazia e dei diritti umani, l’incapacità di dar vita a una vera politica multilaterale regionale nell’intera area, riconducendo nel partenariato anche altri paesi esclusi (ad esempio quelli dei Balcani occidentali).

Nel tentativo di rivedere e rinnovare il processo di cooperazione e integrazione con l’area mediterranea nel 2008 ha preso il via lo sviluppo del progetto di Unione per il Mediterraneo. Sulla scia di un dibattito aperto dall’iniziativa politica del neoeletto presidente francese Nicolas Sarkozy nell’ottobre 2007 con le dichiarazioni riguardanti la proposta di creare un’Unione mediterranea, inizialmente intesa come un’unione politica, economica e culturale basata sulla completa eguaglianza delle parti contraenti senza legami con il Processo di Barcellona, il progetto iniziale è stato rivisto nei primi mesi del 2008, a seguito delle critiche mosse dalle Istituzioni comunitarie riguardo alla sovrapposizione di tale Unione con il partenariato euromediterraneo e dai paesi dell’UE non mediterranei riguardo alla loro potenziale esclusione, portando la Francia riformulare la proposta di organizzazione, ribattezzata Unione per il Mediterraneo, quale entità complementare e integrativa rispetto alla cooperazione euromediterranea. Il Consiglio europeo dell’UE del 13 e 14 marzo 2008 ha approvato il principio di creare un’Unione per il Mediterraneo invitando la Commissione europea a presentare proposte e modalità finalizzate ad attuare questo cambiamento e rafforzare le relazioni multilaterali euromediterranee rendendole più visibili ai cittadini della regione. Partendo da questo impulso, la Commissione europea ha presentato nel maggio 2008 la comunicazione “Processo di Barcellona – Unione per il Mediterraneo” (comunicazione 319 del 2008) che si esprimeva per una continuità degli organismi e delle strutture presenti, prevedendone però un rafforzamento e la creazione di una copresidenza (con un presidente espresso dall’UE ed un altro dai PTM) e un segretariato congiunto. Il 13 e 14 luglio 2008, a Parigi, il capo di Stato francese Nicolas Sarkozy, presidente di turno dell’UE e principale promotore di questo sviluppo sin dal suo insediamento all’Eliseo nel 2007 e artefice del primo accordo intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa) in proposito nel vertice tra Francia, Italia e Spagna tenutosi il 20 dicembre 2007 a Roma con la partecipazione dei capi di governo italiano Romano Prodi e spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, ha diretto l’incontro che ha sancito la costituzione dell’Unione per il Mediterraneo (UpM). Tale organizzazione internazionale, dotata effettivamente di una copresidenza affidata a primi ministri (e soltanto temporaneamente, per i primi due anni, in deroga a questa norma, garantita da due capi di Stato, lo stesso Sarkozy e il presidente dell’Egitto Muhammad Hosni Mubarak), ha un proprio Segretariato con sede a Barcellona, incaricato di individuare e promuovere progetti di interesse regionale, subregionale e transnazionale nei diversi settori d’attività. Rispetto al Processo di Barcellona l’Unione per il Mediterraneo si è allargata fino a comprendere 43 paesi: i 27 paesi membri dell’UE, 15 paesi partner del Mediterraneo meridionale e del Medio Oriente (Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Mauritania, Monaco, Montenegro, Autorità palestinese, Siria, Tunisia) e un paese mediterraneo quale membro osservatore (Libia). Finalità principali dell’Unione per il Mediterraneo, evoluzione diretta del Processo di Barcellona e le cui caratteristiche sono state definite con la dichiarazione finale approvata dalla Conferenza dei Ministri degli esteri euromediterranei tenutasi a Marsiglia il 3 e 4 novembre 2008, sono la regolamentazione dell’immigrazione dai PTM, la lotta al terrorismo, la soluzione del conflitto arabo-israeliano e la tutela del patrimonio ecologico mediterraneo. L’organizzazione si è data sei priorità concrete da perseguire negli anni a venire: il disinquinamento del mar Mediterraneo; la costruzione di autostrade marittime e terrestri per migliorare i collegamenti nell’area; il rafforzamento della protezione civile allo scopo di fronteggiare i disastri naturali e quelli causati dall’uomo; la creazione di un piano comune per lo sfruttamento dell’energia solare; lo sviluppo di un’università euromediterranea (inaugurata a Portorose, in Slovenia); un’iniziativa a favore dello sviluppo delle piccole e medie imprese. La bandiera ufficiale dell’Unione per il Mediterraneo è costituita da due strisce orizzontali, quella superiore di colore bianco per simboleggiare il cielo e quella inferiore di colore blu per richiamare il mare.

Gli sviluppi più recenti hanno manifestato diverse difficoltà: il perdurare e l’inasprirsi del conflitto arabo-israeliano con l’invasione di Gaza da parte di Israele alla fine del 2008 ha prodotto uno stallo nel corso del 2009 dovuto alla protesta della copresidenza egiziana verso l’attacco, tradottasi nel blocco del processo di costituzione degli organi istituzionali fino al 12 gennaio 2010 quando è stato nominato alla carica di Segretario dell’UpM l’ambasciatore giordano Ahmed Massa’deh.

La prima inchiesta annuale commissionata dalla Commissione europea all’Istituto Europeo del Mediterraneo (IeMed) al fine di valutare progressi, successi e debolezze del Processo di Barcellona – elaborata all’interno del programma “Promuovere la conoscenza reciproca, la comprensione e la cooperazione tra l’UE e i paesi della Politica di vicinato (EuropeAid/125411/ACT / C/Multi- Lot3), cofinanziato dall’UE nell’ambito del volet regionale dello Strumento europeo di vicinato e partenariato – Instrument européen de voisinage et de partenariat, IEVP, pubblicata nel maggio 2010, ha coinvolto tramite intervista 371 esperti e soggetti provenienti da tutti i paesi dell’UpM che lavorano direttamente nel campo delle relazioni euromediterranee e ha evidenziato rischi di paralisi del partenariato nel medio e lungo periodo legati al conflitto medio orientale, alla scarsità e ai conflitti per l’acqua e alle tensioni sociali che alimentano le migrazioni nell’area mediterranea verso l’UE. Altri punti dolenti riguardanti il partenariato risultano la mancanza di volontà politica nell’attuazione di riforme nei paesi mediterranei, la scarsa integrazione tra gli stati meridionali, mentre vengono fatti risaltare come elementi positivi lo sviluppo della cooperazione e la conoscenza reciproca di culture, religioni e società, il maggior coinvolgimento lobbistico e di organizzazioni della società civile e il miglioramento delle attività economiche (pur senza incrementi occupazionali di rilievo). Il partenariato risulta comunque altamente complesso e differenziato: diverse sono le iniziative e i programmi attivati, ma rimangono da chiarire gravi problemi funzionali e istituzionali legati alle strutture esistenti dell’UpM e al ruolo dell’UE al suo interno.

Giorgio Grimaldi (2010)




Unità di conto europea

L’ECU, acronimo di European currency unit, è l’unità monetaria europea che ha preceduto l’Euro fra il 1979, anno della messa in opera del Sistema monetario europeo (SME), e l’avvio dell’Unione economica e monetaria, il 1° gennaio 1999. A quella data l’ECU è stata sostituita dalla nuova moneta unica in base al rapporto di uno a uno: 1 ECU=1 euro.

A differenza dell’euro, che è una moneta a pieno titolo, paragonabile in tutto e per tutto al dollaro o alle vecchie monete nazionali che ha sostituito, l’ECU rappresentava una semplice unità di conto, vale a dire una moneta fittizia che non è mai stata in circolazione, e la cui funzione fondamentale era quella di esprimere i valori delle prestazioni facenti capo al sistema della Comunità economica europea. Sotto il profilo tecnico, si trattava di una moneta paniere, composta da quote determinate di monete dei paesi membri, secondo una chiave di ripartizione variabile nel tempo a intervalli, in funzione del peso economico di ogni paese e della sua partecipazione al commercio intracomunitario e alle operazioni di sostegno finanziario nell’ambito dei meccanismi di credito comunitari. La composizione iniziale dell’ECU viene descritta nella tabella I, mentre i coefficienti di ponderazione delle diverse monete nazionali e le loro variazioni nel corso del tempo vengono illustrati nella tabella II.

Tabella I. L’ECU come moneta paniere, composizione iniziale

Marco tedesco 0,828 Franco belga 3,66
Lira sterlina 0,0885 Franco lussemburghese 0,14
Franco francese 1,15 Corona danese 0,217
Lira italiana 109 Lira irlandese 0,00759
Fiorino olandese 0,286    

 

Tabella II. Composizione percentuale dell’ECU

Valuta/Data 13.03.1979 17.09.1984 21.09.1989
Franco belga 9,64% 8,57% 8,183%
Marco tedesco 32,98% 32,08% 31,955%
Corona danese 3,06% 2,69% 2,653%
Peseta 4,138%
Franco francese 19,83% 19,06% 20,316%
Lira sterlina 13,34% 14,98% 12,452%
Dracma 1,31% 0,437%
Sterlina irlandese 1,15% 1,20% 1,086%
Lira italiana 9,49% 9,98% 7,840%
Franco lussemburghese 0,322%
Fiorino olandese 10,51% 10,13% 9,980%
Escudo portoghese 0,695%

 

Il valore dell’ECU, ad esempio in lire, dipendeva dalle quantità delle diverse monete che lo componevano (inizialmente 0,828 marchi tedeschi, 1,15 franchi francesi, 109 lire e così via), oltre che dai rapporti di cambio bilaterali fra la lira stessa e le altre monete del paniere. Al momento del varo dello SME la moneta comune valeva così circa 1148 lire, valore intorno al quale si potevano registrare limitate oscillazioni giornaliere. Con maggiore precisione, il valore dell’ECU espresso in termini della moneta i, ovvero il suo tasso di cambio rispetto a tale moneta, veniva espresso dalla sommatoria dei cambi bilaterali Sji nei confronti delle altre monete comunitarie, ciascuno dei quali andava moltiplicato per l’ammontare aj di ciascuna moneta compresa nel paniere. In formula, ECUi=ΣjajSji. I limiti di oscillazione tollerati erano del 2,25% in più o in meno, con l’eccezione del caso della lira, moneta giudicata particolarmente fragile, per la quale il margine saliva al 6% nei due sensi.

Nell’ambito dello SME, l’ECU fu utilizzato per esprimere i tassi centrali bilaterali fra le diverse monete comunitarie e per costruire il c.d. “indicatore di divergenza”, un indice che consentiva di individuare la moneta deviante, in caso di variazioni che tendevano a superare i margini di oscillazione consentiti. In tal modo veniva identificato il paese che sarebbe dovuto intervenire sul mercato per mantenere stabile il valore della moneta comune.

L’ECU ebbe numerosi altri impieghi, anche da parte dei privati, limitatamente per la fatturazione di transazioni relative a beni e servizi e in modo più ampio per la denominazione del valore di prestiti e di attività finanziarie in genere. Ma il suo impiego prevalente, al di fuori dei meccanismi dello SME, riguardò la gestione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e delle politiche comunitarie, a cominciare dalla Politica agricola comune. Quest’ultima, essendo basata su di un sistema di prezzi unici europei, presupponeva infatti necessariamente una moneta di conto comune: una prima avvisaglia del fatto che l’unità economica richiedeva l’unità monetaria. Prima dell’ECU i paesi comunitari adottarono, a partire dall’esperienza dell’Unione europea dei pagamenti (1950), una Unità di conto europea (UCE), avente lo stesso contenuto aureo del dollaro USA. Con la creazione dell’ECU, dopo la fine del sistema a cambio aureo nel periodo 1971-1973, la Comunità si affrancò pertanto dal vincolo che la legava in modo diretto alle sorti del biglietto verde e alle decisioni relative alla politica monetaria statunitense.

Franco Praussello (2008)




Unità di programmazione e rapido allarme

Le innovazioni apportate dal Trattato di Amsterdam (1997) e i successivi sviluppi nell´ambito della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) hanno rafforzato la sua efficacia grazie a organi, strutture e strumenti più operativi e a un Processo decisionale più coerente ed efficace. Per assicurare una maggiore operatività, con questo Trattato l’Unione europea si è dotata della figura del segretario generale del Consiglio europeo, che svolge simultaneamente la funzione di Alto rappresentante per la PESC. Il suo compito è assistere il Consiglio nel settore della politica estera e di sicurezza comune, dando un suo input alla formulazione, elaborazione ed attuazione delle decisioni (v. Decisione) in questa area. Per appoggiare l´operato quotidiano dell’Alto rappresentante, seguire l’andamento della situazione internazionale, contribuire alla definizione delle politiche e facilitare il lavoro delle strutture militari e di gestione delle crisi (in particolare, la forza di reazione rapida), in seno al Segretariato generale del Consiglio, sono stati creati alcuni nuovi organismi. Tra questi, la Unità di programmazione politica e tempestivo allarme (Policy planning and early warning unit, PPEWU).

Detta Unità è stata costituita con lo scopo precipuo di svolgere un’analisi integrata delle questioni internazionali e delle loro implicazioni e la diffusione delle informazioni a tutti gli attori, al fine di consentire all’Unione di reagire in modo più efficace, meno dispersivo e più tempestivo. Tale meccanismo dovrebbe garantire la coerenza della PESC che, di fatto, deve dimostrare la capacità di reazione degli stati membri agli sviluppi internazionali.

L’Unità, prevista dal Trattato di Amsterdam, è stata creata, nell’ottobre del 1999, presso la sede del Consiglio europeo a Bruxelles ed opera sotto la responsabilità dell’Alto rappresentante per la PESC. La sua funzione è quella di permettere agli Stati membri di agire di concerto sul piano politico e logistico e di svolgere quindi un ruolo più importante sulla scena internazionale. L’Unità è composta da esperti provenienti dal Segretariato generale del Consiglio, dagli Stati membri, dalla Commissione europea e dall’Unione dell’Europa occidentale. I suoi compiti principali sono: sorvegliare e analizzare gli sviluppi dei settori che rientrano nella PESC; valutare gli interessi dell’Unione nel campo della PESC; individuare in tempo utile eventi, potenziali crisi politiche o situazioni che potrebbero avere effetti significativi per la PESC; elaborare opzioni politiche ai fini della definizione di politiche in sede di Consiglio.

L’Unità è suddivisa in sette task forces che coprono temi geografici e tematici: Politica estera, Sicurezza e difesa; Balcani occidentali ed Europa centrale; Centro di situazione e Unità di crisi; Temi orizzontali e America Latina; Russia, Ucraina, Area transatlantica, Baltico e Asia; Mediterraneo e Processo di Barcellona, Medio Oriente e Africa; Amministrazione e sicurezza della Unità. Il “Situation center” (SitCen) è composto da personale civile e militare ed è alle dipendenze dell’Alto rappresentante. Essendo composta da diplomatici assegnati dagli Stati membri, l’Unità ha una struttura nazionale/europea permeabile. Ciò facilita il flusso di informazioni tra Bruxelles e le capitali degli Stati membri, che a loro volta garantiscono l’apporto di informazioni delle più grandi reti di servizi diplomatici e di intelligence.

La creazione dell’Unità diede origine a frizioni con il Segretariato generale del Consiglio europeo, con il quale l’Alto rappresentante aveva lavorato dall´inizio dell´avvio della Politica estera e di sicurezza – più tardi, anche di difesa (v. Politica europea di sicurezza e difesa) – istituita con il Trattato di Maastricht (1991). In seguito, è stato stabilito un modus vivendi che prevede una divisione di lavoro: il Segretariato si concentra sugli aspetti giuridici e l’Unità sugli aspetti di pianificazione politica e d’allerta precoce. La creazione di nuove strutture nell’ambito della politica estera e di difesa ed in particolare dello staff militare europeo, che svolge anche compiti di rapido allarme, valutazione della situazione e pianificazione strategica, ha limitato il ruolo della Unità.

Maria do Céu Pinto (2007)




Vertice di Parigi

Nella primavera del 1974 si realizzò un cambio della leadership politica sia in Francia sia nella Repubblica federale di Germania. In quest’ultima divenne cancelliere, il 14 maggio, il socialdemocratico Helmut Schmidt, ex ministro delle Finanze, subentrando a Willy Brandt, anch’egli esponente della SPD. In Francia, dopo la morte, avvenuta il 2 aprile, del presidente Georges Pompidou, il 19 maggio venne eletto all’Eliseo Valéry Giscard d’Estaing, le cui posizioni rispetto al processo di integrazione europea differivano sensibilmente da quelle del suo predecessore e del generale de Gaulle (v. de Gaulle, Charles). Giscard d’Estaing, infatti, auspicava un superamento del modello di Europe des États, senza spingersi fino all’Europa sovranazionale. In una dichiarazione rilasciata l’8 settembre 1966, pochi mesi dopo aver fondato la Fédération nationale des républicains et indépendants (FNRI), qualificando quest’ultima come «l’elemento centrista ed europeo della maggioranza», egli aveva affermato: «È necessario inventare l’Europa e questo sarà il compito della nostra generazione, definire e proporre gradualmente una costruzione originale: sarà l’Europa esistenziale». Giscard d’Estaing, inoltre, aveva aderito al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, nato su iniziativa di Jean Monnet, e si era espresso a favore dell’adesione del Regno Unito alle Comunità europee. Egli era convinto della necessità di un’autorità europea, ma riteneva che la Commissione non sarebbe divenuta l’embrione del governo dell’Europa a causa della resistenza degli Stati rispetto al trasferimento di competenze importanti a istituzioni sovranazionali. In un’altra dichiarazione del gennaio 1967, egli aveva sostenuto la necessità di organizzare, in maniera sistematica, la collaborazione dei governi e di garantire la convergenza delle loro politiche, rispettando, tuttavia, le loro prerogative. Si trattava di associare strettamente i due metodi: quello comunitario e quello intergovernativo. In tal modo Giscard d’Estaing usciva dal confronto tra confederazione e Stato federale, anche se egli appariva più vicino al primo modello, quello appunto confederale.

Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 1974, egli aveva affermato di ritenere l’Europa una priorità, annunciando, in caso di sua elezione, un’iniziativa della Francia nel secondo semestre di quell’anno, nel periodo della sua presidenza di turno. Nel corso di una conferenza del Movimento europeo, il 2 maggio di quell’anno, egli chiarì ulteriormente quale fosse il suo programma di politica europea: andare oltre l’ambito economico, avviarsi verso una confederazione di Stati e, progressivamente, accrescere i poteri dei parlamentari europei, per giungere, a un certo momento, alla loro elezione a suffragio universale diretto.

Vi erano state diverse sollecitazioni ad avviare una stagione di riforme. Innanzi tutto, la Commissione europea, che il 31 gennaio di quell’anno aveva lanciato l’allarme sulla gravità della crisi della Comunità, chiedendo un rilancio della costruzione europea, migliorando anche il funzionamento delle Istituzioni comunitarie. Il Parlamento europeo, il quale, con una risoluzione adottata il 14 febbraio, oltre a rivendicare l’estensione dei suoi poteri in materia di bilancio, aveva anch’esso posto l’accento sulla debolezza delle istituzioni comunitarie e sulla necessità di metterle in condizione di agire. Infine la dichiarazione del primo ministro belga, Léo Tindemans, il quale il 21 giugno aveva affermato che solo la Francia avrebbe potuto imprimere un nuovo impulso al processo di integrazione europea.

Giscard d’Estaing riteneva che un rilancio del processo di integrazione economica si sarebbe realizzato solo nella prospettiva di una più stretta cooperazione politica, facendo leva su un rinnovato tandem franco-tedesco. Il 14 settembre 1974 riunì all’Eliseo i capi di governo degli altri otto Stati membri della Comunità e il Presidente della Commissione europea, François-Xavier Ortoli, raccogliendo il loro consenso rispetto al progetto di riunioni periodiche al vertice. Un nuovo incontro venne convocato per il 9 e 10 dicembre, sempre a Parigi, con la finalità di dare nuovo slancio al processo di integrazione. In quella sede, i capi di Stato e di governo confermarono la loro volontà di realizzare l’Unione economica e monetaria (UEM) e assunsero anche la decisione di istituire il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), dotando la Comunità di un importante strumento per affrontare la questione degli squilibri regionali. Le novità più rilevanti, però, furono quelle riguardanti l’assetto istituzionale. Venne stabilito, infatti, che i vertici dei capi di Stato e di governo, accompagnati dai ministri degli Affari esteri, si sarebbero tenuti con regolarità, tre volte all’anno e ogniqualvolta risultasse necessario, e tali riunioni periodiche avrebbero assunto il nome di Consiglio europeo, occupandosi sia delle problematiche comunitarie, per le quali era prevista la partecipazione agli incontri anche della Commissione, sia della Cooperazione politica europea (CPE).

Al fine di rendere meno complesso il Processo decisionale, venne inoltre deciso di limitare il ricorso al Voto all’unanimità nel Consiglio dei ministri solo alle questioni di importanza vitale, riaffermando, quindi, il principio originario del Compromesso di Lussemburgo. Vennero distinti più nettamente, inoltre, i ruoli del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) e del Consiglio, stabilendo che il primo dovesse occuparsi delle tematiche prevalentemente tecniche, riservando quelle più propriamente politiche al Consiglio. Alla Commissione sarebbero stati delegati più ampi poteri esecutivi e gestionali.

Se l’istituzionalizzazione delle riunioni al vertice era espressione della visione confederale, intergovernativa, della costruzione europea, l’altra importante decisione assunta a Parigi, superando il veto che sempre la Francia gollista aveva opposto, quella dell’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, rispondeva invece a una logica più sovranazionale e federale. Su questo punto, vi erano state numerose iniziative sia a livello di Assemblea parlamentare europea (ricordiamo il Progetto Dehousse del 1960) (v. Dehousse, Fernand), di Parlamenti nazionali e dei movimenti europeisti, mobilitando anche l’opinione pubblica, come le proposte di legge per le elezioni dirette di singole delegazioni nazionali al Parlamento europeo, ad esempio quella di iniziativa popolare per l’elezione a suffragio universale dei parlamentari italiani a Strasburgo, presentata al Senato della Repubblica l’11 giugno 1969, dopo una raccolta di firme lanciata dal Movimento federalista europeo, dal Consiglio italiano del Movimento europeo e dall’Associazione italiana del Consiglio dei Comuni d’Europa.

Infine dal Vertice venne affidato l’incarico al primo ministro belga, Léo Tindemans, di presentare entro la fine del 1975, dopo aver consultato i governi e gli ambienti rappresentativi della politica, dell’economia, della cultura e dell’opinione pubblica, una relazione di sintesi contenente una serie di proposte finalizzate alla trasformazione delle Comunità in un’Unione europea, richiamando le conclusioni del Vertice, svoltosi sempre nella capitale francese due anni prima, il 19-21 ottobre 1972, in cui i Nove si erano dati come obiettivo, appunto, quello di «trasformare entro la fine del […] decennio l’insieme delle relazioni tra gli Stati membri in una Unione europea».

Le decisioni assunte a Parigi si basavano quindi su un sostanziale equilibrio tra metodo sovranazionale, comunitario e metodo intergovernativo. L’estensione delle competenze della Comunità e della cooperazione politica a più ampi settori richiedeva un più forte coordinamento al vertice, tra capi di Stato e di governo, in considerazione anche di una necessità di sintesi tra i diversi livelli, per la maggiore interdipendenza tra politiche nazionali ed europee. Di qui derivava la scelta di dare continuità e di convocare con regolarità le riunioni dei capi di Stato e di governo, che già si erano tenute a partire dai primi anni Sessanta, ma non con scadenze fisse, dando vita al Consiglio europeo, chiamato a definire i grandi orientamenti della politica comunitaria e a svolgere quasi una funzione di organo “d’appello” per risolvere questioni complesse e che non trovassero una composizione in altre sedi istituzionali comunitarie, come il Consiglio dei ministri. Il Consiglio europeo (che nasceva non in base a un trattato, ma con un accordo tra i capi di Stato e di governo e che avrebbe trovato una forma di istituzionalizzazione solo con l’inserimento nell’Atto unico europeo) era, però, come si è detto, espressione dell’approccio confederale, intergovernativo dell’integrazione. Rimaneva la questione della partecipazione dei cittadini alla costruzione europea. Da qui derivava la scelta di controbilanciare con una legittimazione democratica, tramite l’elezione diretta del Parlamento europeo, e con un potenziamento di quest’ultimo con il Trattato di Bruxelles del 22 luglio 1975, che accresceva i suoi poteri in materia di bilancio. L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo avrebbe coinvolto più direttamente non solo i cittadini nel processo di integrazione europea, ma anche i partiti politici, sollecitati a confrontarsi in una nuova arena politica, in un diverso spazio democratico di dimensioni continentali.

Paolo Caraffini (2016)




Vertici

Non prevista dal Trattato di Parigi e dai Trattati di Roma, che hanno dato vita alle Comunità europee (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, CECA e Comunità economica europea, CEE), la pratica di “riunirsi al vertice” nei momenti cruciali della vita comunitaria è il risultato del conflitto da sempre latente fra “integrazionisti” e “confederalisti”. Da un lato, coloro che basavano il loro credo sul graduale evolvere dei settori di integrazione (agricoltura, industria, dogane, ecc.) in aree di collaborazione sempre più vaste e strettamente legate fra loro, destinate alla fine del processo a sfociare in una vera e propria struttura politica a livello sovranazionale (v. anche Integrazione, Teorie della; Integrazione, metodo della); dall’altro, i fautori del più ortodosso metodo diplomatico di concertazione fra governi sovrani senza i vincoli di strutture istituzionali sovraordinate. La storia ha consacrato nella figura del generale Charles de Gaulle il campione di questa seconda filosofia e l’iniziatore di quel metodo confederale concretatosi in primis nelle riunioni al vertice. Esse, infatti, iniziano nel 1961, pochi anni dopo l’elezione di de Gaulle a Presidente della Repubblica francese nel maggio del 1958.

I Vertici, nella storia della Comunità, saranno in tutto sette fino al dicembre del 1974, quando cederanno il posto al Consiglio europeo che ancora oggi è in cima alla piramide del sistema istituzionale dell’Unione europea (UE). Le caratteristiche principali dei Vertici erano quelle di essere incontri non regolari, ma convocati a seconda delle esigenze del momento; di non confondersi con le Istituzioni comunitarie dell’epoca, ma anzi di mantenere un carattere informale e strettamente intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa); infine, di essere composti dai capi di Stato (nel caso della sola Francia) e di governo dei sei membri fondatori delle Comunità, all’inizio, e dei nove dopo l’entrata nel 1974 di Regno Unito, Irlanda e Danimarca nella Comunità.

Se la “filosofia” politica del generale de Gaulle è stata all’origine della procedura dei Vertici, nel corso degli anni successivi si sono manifestate esigenze strutturali e politiche d’altro tipo, che di fatto hanno poi obbligato la Comunità a modificare la propria fisionomia istituzionale, a cominciare proprio dall’istituzionalizzazione dei Vertici in Consiglio europeo, come avverrà, appunto, nel 1974.

La prima esigenza è legata alla natura stessa del Trattato di Roma che ha dato vita alla CEE: esso si configurava come un Trattato “quadro” che doveva essere riempito di contenuti e di politiche su impulso degli organi di “governo” della Comunità. Nei primi anni questo compito fu svolto dalla Commissione europea assieme al Consiglio dei ministri degli Esteri della Comunità (v. Consiglio dei ministri). Ma con il graduale passaggio da azioni cosiddette di “integrazione negativa” (ad esempio, la rimozione degli ostacoli tariffari) a proposte di “integrazione positiva”, come la Politica agricola comune (PAC), il potere dei due organismi comunitari si dimostrò insufficiente a superare quello che sarà definito come “interesse nazionale vitale”. Sarà infatti proprio sulla questione del finanziamento della PAC, alla metà degli anni Sessanta, che si assisterà alla prima vera crisi comunitaria con il ritiro della delegazione francese dal Consiglio dei ministri (la cosiddetta politica della “sedia vuota”). Di fronte, quindi, al progressivo indebolimento di Commissione e Consiglio, saranno i capi di Stato e di governo a prendere in mano il compito di dare impulso e di indirizzare le politiche comuni.

Per di più, a rafforzare il ruolo dei primi ministri nella politica comunitaria subentreranno altri due fattori. Il primo riguarda l’organizzazione interna di ciascun paese membro della CEE, dove con il crescere degli affari comunitari entreranno nel gioco diversi dicasteri tecnici (Agricoltura, Tesoro, ecc.) oltre ai ministeri degli Esteri. Si porrà quindi un problema sempre più pressante di coordinamento interno, non sempre affrontabile da parte del solo ministro degli Esteri: soprattutto nelle decisioni “vitali” deve subentrare il Primo ministro. La centralità crescente della figura dei premier sarà poi sottolineata anche dalla nascente interdipendenza internazionale nel campo del commercio e dell’industria, che toccherà contemporaneamente le politiche nazionali e comunitarie: di qui la necessità di una sintesi del duplice interesse intorno alle figure dei primi ministri.

Quasi tutto, dunque, congiurava per un intervento diretto dei capi di Stato e di governo nelle questioni comunitarie, anche se questa esigenza cominciò a divenire palese solo dopo la metà del 1960. Vi è quindi un differente significato tra i primi due Vertici del 1961 – dovuti essenzialmente alle preoccupazioni golliste di un’eccessiva crescita del potere sovranazionale della Comunità – e gli altri cinque che si svolgeranno fra il 1967 e la fine del 1974, maggiormente orientati a dettare le nuove politiche della Comunità. Alla luce di queste considerazioni generali, è possibile inquadrare con maggiore precisione il ruolo svolto dai singoli Vertici nel periodo formativo di quella che oggi è chiamata Unione europea.

Parigi, 10-11 febbraio 1961. In preparazione di questo Vertice, voluto fortemente da de Gaulle, nel luglio dell’anno precedente vi era stato un incontro a Rambouillet con il cancelliere tedesco Konrad Adenauer. Per porre un freno allo sviluppo sovranazionale dell’Europa economica, de Gaulle proponeva di avviare una cooperazione in campo politico (v. anche Cooperazione politica europea). L’idea suggerita a Adenauer era quella di tenere conferenze periodiche trimestrali di capi di governo e di Stato e di creare quattro commissioni (esteri, difesa, cultura ed economia) destinate a preparare le riunioni e a mettere in pratica le decisioni. A Parigi, tuttavia, di fronte alle perplessità dei paesi del Benelux sul nascente bilateralismo franco-tedesco e ai timori di vedere indebolita la Comunità, l’unica decisione fu la costituzione di una commissione di rappresentanti dei sei governi per presentare “proposte concrete riguardanti le riunioni dei capi di Stato e di governo e dei ministri degli Affari Esteri”, senza affrontare altri aspetti delle idee golliste.

Bonn, 18 luglio 1961. Previsto in un primo tempo per il 19 maggio, il secondo round dei primi due Vertici si dimostrò molto più efficace, tanto che “Le Monde” di quell’epoca uscì con il titolo Nascita dell’Europa politica. La commissione di studio (commissione Fouchet) (v. Piano Fouchet), che ancora non aveva concluso i propri lavori, ricevette in effetti un nuovo dettagliato mandato di “dare forma alla volontà di unità politica” e di organizzare un sistema di incontri e una struttura decisionale tali da rendere efficace questa nuova funzione.

La commissione Fouchet si mise subito al lavoro, e già nell’autunno dello stesso anno si ebbe un primo abbozzo delle nuove istituzioni competenti in materia di politica estera, cultura e difesa con un Consiglio di capi di governo, un’Assemblea parlamentare, diversi Comitati di ministri (Difesa, Istruzione) e una Commissione esecutiva o Segretariato da collocare possibilmente a Parigi, cosa che cominciò a sollevare non poche perplessità sulle reali intenzioni francesi.

Il 19 gennaio del 1962 la delegazione francese presentò un testo ancora più rigido, eliminando ogni riferimento ai rapporti con l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), al fatto che alle nuove istituzioni non era consentito occuparsi di economia, e così via. Il Piano Fouchet fu quindi respinto il 17 aprile 1962 in una riunione dei ministri degli Esteri e con la forte opposizione dei paesi del Benelux, che temevano un eccesso di leadership francese e non accettavano né le richieste di autonomia dalla NATO, né, soprattutto, l’indebolimento delle istituzioni comunitarie, unico baluardo dei paesi di minori dimensioni contro l’emergente asse franco-tedesco. Con il fallimento del piano Fouchet, de Gaulle decise quindi di abbandonare i propri piani per la Comunità per dedicarsi invece a rafforzare il rapporto con Bonn attraverso la firma, il 22 gennaio 1963, del Trattato dell’Eliseo, un accordo bilaterale franco-tedesco che avrebbe dato negli anni molti frutti.

Roma, 29-30 maggio 1967. Gli anni che seguono il fallimento del piano Fouchet sono fra i più travagliati per le nascenti Comunità europee. Gli attriti fra de Gaulle e la Commissione europea, presieduta dal tedesco Walter Hallstein, si acuiscono sino ad arrivare al punto di rottura con la presentazione di un regolamento finanziario sulla PAC che di fatto dà un potere autonomo alla Commissione. La Francia rifiuta e de Gaulle decide di ritirare la delegazione francese dagli organi del Consiglio dei ministri: è la famosa politica della “sedia vuota” che dura sei mesi, dal giugno al dicembre del 1965. A quel punto serve un segnale di ripresa per non fare fallire il sogno comunitario. L’Italia propone il Vertice, prendendo a pretesto la celebrazione del decimo anniversario del Trattato di Roma (25 marzo 1957). Ma la data slitta fino a che il generale de Gaulle non ha l’assicurazione, ottenuta dal Cancelliere tedesco Kiesinger (v. Kiesinger, Kurt Georg), di allontanare dalla testa della Commissione Walter Hallstein, il che avviene puntualmente il 1° di luglio con la nomina del belga Jean Rey.

L’Aia, 1-2 dicembre 1969. Il quadro politico europeo è in questo periodo radicalmente cambiato. De Gaulle si è ormai ritirato dalla vita politica a causa delle gravi difficoltà economiche e di ordine pubblico interne (le rivolte studentesche del 1968) e della sconfitta nel referendum dell’aprile 1969. A succedergli viene chiamato George Pompidou, che trova come controparte tedesca il cancelliere Willy Brandt, anch’egli da poco approdato alla Cancelleria. Entrambi si interrogano sul futuro della Comunità, anche perché nel frattempo si è chiuso il periodo transitorio di applicazione del Trattato di Roma ed è quindi necessario individuare le linee per il futuro.

George Pompidou ha un ulteriore problema: quello di controbilanciare la nascente Ostpolitik di Brandt, che toglie spazio al romantico progetto vagheggiato da de Gaulle di un’Europa dall’Atlantico agli Urali, rovinosamente crollato dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nella primavera del 1968. Per riuscire nel suo intento, Pompidou deve aprire le porte della Comunità al Regno Unito, dopo che de Gaulle lo aveva sdegnosamente respinto in due occasioni, nel 1962 e nel 1967. Si rovesciano quindi le vecchie priorità della Francia e si punta al rafforzamento della Comunità.

L’Aia rappresenta quindi un punto di svolta che dà anche una nuova dignità al Vertice. I Sei prendono tre decisioni principali, e definiscono altresì una serie di orientamenti significativi. La prima decisione è l’Allargamento a Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Norvegia (che respingerà l’offerta con un referendum nel 1973), nel quadro di un impegno politico orientato al raggiungimento di tre obiettivi: completamento, Approfondimento e, appunto, allargamento. L’intento è quello di consolidare le fondamenta della Comunità prima del grande passo dell’allargamento dai Sei a Nove.

La seconda decisione è l’avvio di un ambizioso piano di Unione economica e monetaria (UEM) che si concreterà nel Rapporto Werner sul primo esperimento di disciplina monetaria. Infine, si fa rientrare dalla porta di servizio il vecchio interesse francese alla cooperazione anche nel campo della politica estera: ma visto il fallimento del Piano Fouchet, l’approccio è minimalista e si esaurisce nella richiesta di un Rapporto Davignon (v. anche Davignon, Étienne), sulla Cooperazione politica europea (CPE). In ultimo si aprono le porte all’idea, a suo tempo duramente contrastata da de Gaulle, di un bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) basato su Risorse proprie e alla eventualità di conferire al Parlamento europeo poteri di controllo in materia.

Parigi, 19-20 ottobre 1972. Tanto era stato concreto l’incontro dell’Aia, tanto sarà retorico il Vertice di Parigi. Pompidou rilancia infatti il tema delle finalità politiche della Comunità e indica nell’Unione politica il fine ultimo. Tuttavia, per non prestare il fianco a sospetti, accetta la proposta di incaricare le stesse istituzioni comunitarie di predisporre un piano da sottoporre al Vertice successivo. Un ambizioso obiettivo viene anche indicato per l’UEM, sia decidendo di passare alla seconda fase del Piano Werner, con la nascita del cosiddetto “Serpente monetario”, sia indicando il 1980 come traguardo per il completamento dell’UEM. Come è noto, l’obiettivo verrà ampiamente mancato, ma la necessità di rafforzare la cooperazione europea diventerà sempre più impellente dopo lo shock monetario dell’agosto 1971 provocato dall’abbandono del sistema di Bretton Woods da parte degli Stati Uniti.

Inoltre, per rendere più accettabile l’allargamento si accenna alla necessità di accelerare il varo di politiche sociali (v. anche Politica sociale) e regionali comuni (v. anche Politica di coesione). Infine, si apprezzano i primi passi della CPE e si incarica Davignon di predisporre un secondo rapporto sui progressi da fare nel campo della politica estera.

Copenaghen, 14-15 dicembre 1973. È di nuovo un vertice fallimentare, poiché la coesione fra i Sei va scemando di fronte a tre diverse avversità. La prima è la crescente crisi economica che colpisce l’Europa, facendo saltare di fatto l’UEM sotto i colpi di una crescente inflazione. In secondo luogo interviene la crisi energetica derivata dalla guerra dello Yom Kippur in Medio Oriente e dal conseguente boicottaggio arabo sulla vendita del petrolio. A complicare le cose, infine, si innesta la proposta di Henry Alfred Kissinger di una “Nuova carta atlantica”, che viene letta come la riaffermazione della supremazia americana e della richiesta di un maggiore contributo finanziario europeo (burden sharing) alla difesa comune.

Per di più, l’atteggiamento morbido degli europei nei confronti degli arabi non fa che sottolineare le difficoltà nel dialogo transatlantico. A tale proposito il Vertice approva una dichiarazione sull’identità europea che contribuisce solo a rinfocolare i sospetti di Kissinger su una deriva autonomistica della Comunità. La riunione si svolge in stato di semi assedio, con i ministri arabi alle porte del Vertice per ottenere una chiara risposta europea di condanna nei confronti di Israele (che non parteciperà). Unica nota positiva è l’accordo sul fondo Fondo di coesione, che spalanca le porte all’entrata dei nuovi tre paesi nella CEE.

Parigi, 10-11 dicembre 1974. È l’ultimo Vertice. Esso rappresenta innanzitutto la piattaforma di lancio per tre nuovi leader, tutti eletti nell’anno e di carattere molto pragmatico: Valéry Giscard d’Estaing al posto di Pompidou; Helmut Schmidt che sostituisce il dimissionario Brandt; Harold Wilson, laburista, succede al conservatore Edward Heath.

Ma è soprattutto il rinnovato asse franco-tedesco a dare l’abbrivio a un nuovo vertice di successo. Per preparare bene le decisioni la riunione di Parigi viene preceduta da un incontro informale svoltosi il 14 settembre nella capitale francese tra capi di Stato e governo (noto come “summit picnic”). Si fissa quindi una larga e ambiziosa agenda che prevede sul piano delle politiche il rinegoziato inglese al bilancio comunitario, la ripresa dell’UEM, la politica energetica (v. anche Politica dell’energia), e sul piano istituzionale la regolarizzazione dei Vertici, le Elezioni dirette del Parlamento europeo e il rafforzamento del ruolo della presidenza (v. Presidenza dell’Unione europea).

Sul tema chiave, quello della trasformazione dei Vertici, l’idea francese è quella di mantenere un carattere estremamente informale alle riunioni, sulla base della filosofia all’epoca di moda del library group, ovverosia degli incontri al massimo livello, ma “accanto al caminetto”. In realtà, la regolarizzazione imporrà anche un certo grado di istituzionalizzazione dei Vertici.

A dicembre, quindi, il pacchetto di decisioni è già maturo. Per quanto riguarda le politiche si avvia un negoziato per trovare meccanismi correttivi al contributo inglese al bilancio comunitario, si completa il varo della politica regionale comune e non si abbandona l’idea di un maggiore coordinamento delle politiche economiche nazionali: un buon viatico per il futuro Sistema monetario europeo (SME) del 1979. Sulle questioni istituzionali si arriva rapidamente all’accordo per la sostituzione dei Vertici con i Consigli europei, indetti tre volte l’anno, e certamente meno informali di quanto desiderato da Giscard d’Estaing. Come contrappeso a una decisione che colloca di fatto i capi di Stato e di governo in testa alla piramide del sistema decisionale comunitario (v. anche Processo decisionale), sbilanciandolo sul versante intergovernativo, ci si accorda contemporaneamente per adempiere a un articolo del Trattato che prevede l’elezione diretta del Parlamento europeo, e si esorta ad usare il meno possibile il diritto di veto nel Consiglio. Infine, viene affidato al primo ministro belga Léo Tindemans il compito di predisporre un rapporto sull’Unione europea (v. Rapporto Tindemans).

In definitiva, la nascita e l’esistenza dei Vertici, nei chiaroscuri delle sue alterne vicende, è stata essenziale per creare le basi della attuale Unione europea, anche se al momento della loro trasformazione in Consiglio europeo la loro funzione appariva ormai esaurita, tanto da fare pronunciare a Valéry Giscard d’Estaing la famosa frase: «le Sommet européen est mort. Vive le Conseil européen».

Gianni Bonvicini (2010)




Voto all’unanimità

Il voto all’unanimità costituisce uno dei tre metodi di deliberazione del Consiglio dei ministri previsti dall’articolo 205 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma). Tale disposizione non definisce la nozione di unanimità, che d’altronde è del tutto intuitiva, ma si limita a prevedere che le astensioni dei membri del Consiglio presenti o rappresentati non ostano all’adozione delle deliberazioni per le quali è richiesta l’unanimità. A contrario, va ritenuto che l’assenza di uno o più membri del Consiglio impedisce l’adozione di decisioni (v. Decisione) per cui sia richiesto il voto all’unanimità; la cosiddetta “politica della sedia vuota”, vale a dire la non partecipazione alle riunioni del Consiglio da parte di una delegazione nazionale, può dunque sensibilmente ostacolare il funzionamento di questa istituzione.

Il voto all’unanimità comporta evidentemente l’attribuzione di un diritto di veto a ogni singolo Stato membro. Per tale ragione, tenuto conto della costante tendenza verso una sempre più stretta integrazione che è propria dell’Europa comunitaria, il campo di applicazione di tale metodo è andato progressivamente riducendosi a beneficio del voto a Maggioranza qualificata, nel corso delle varie riforme dei trattati che si sono succedute a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Il voto all’unanimità continua tuttavia a essere previsto in un numero significativo di casi, che possono essere raggruppati in quattro categorie. In primo luogo, i casi di decisioni del Consiglio che mirano a completare certi aspetti ben precisi dei Trattati CE e Unione europea (UE) (v. Trattato di Maastricht), ad esempio l’eventuale complemento dei diritti derivanti dalla Cittadinanza europea (articolo 22 del Trattato CE) o l’adozione dell’atto relativo all’elezione del Parlamento europeo (articolo 190 del Trattato CE) (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). In questa categoria rientrano anche le cosiddette “passerelle” (v. Passerella comunitaria), vale a dire le disposizioni che permettono di modificare in maniera semplificata le procedure decisionali (v. Processo decisionale) previste dai Trattati; ad esempio l’eventuale passaggio di taluni aspetti relativi alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale – attualmente trattati conformemente alle procedure intergovernative del cosiddetto “terzo pilastro” (v. Pilastri dell’Unione europea) – verso le procedure ordinarie proprie del Trattato CE (articolo 42 del Trattato UE) oppure l’eventuale passaggio dall’attuale procedura di decisione del Consiglio all’unanimità previa semplice consultazione del Parlamento europeo alla Procedura di codecisione con voto a maggioranza qualificata in Consiglio nei settori della libera circolazione delle persone e della Cooperazione giudiziaria in materia civile (articolo 67 del Trattato CE), della politica sociale (articolo 137 del Trattato CE) e della politica ambientale (articolo 175 del Trattato CE).

In secondo luogo, i casi di decisioni del Consiglio cui viene riconosciuto un effetto giuridico sovraordinato rispetto alle norme ulteriori adottate dalle Istituzioni comunitarie, ad esempio la cosiddetta “decisione comitatologia”, vale a dire la decisione che stabilisce le condizioni e le modalità che la Commissione europea deve rispettare nell’esercizio delle sue competenze di esecuzione degli atti comunitari (articolo 202 del Trattato CE) (v. anche Diritto comunitario) o la decisione relativa al sistema delle risorse proprie della Comunità (articolo 269 del Trattato CE) (v. Comunità economica europea).

Vi sono poi i rari casi in cui il Consiglio può derogare alle norme stabilite dal Trattato CE, ad esempio l’eventuale regressione della liberalizzazione dei movimenti di capitali (v. Libera circolazione dei capitali) da e verso i paesi terzi (articolo 57 del Trattato CE) o l’eventuale autorizzazione di un aiuto di Stato (v. Aiuti di Stato) che appaia in linea di principio incompatibile col mercato comune (articolo 88 del Trattato CE) (v. Comunità economica europea).

Infine, i casi di decisioni del Consiglio nei settori considerati politicamente sensibili, in cui gli Stati membri sono disposti a cedere la competenza (v. Competenze) alla Comunità soltanto a condizione di avere la garanzia di poter impedire l’adozione di decisioni a loro sgradite. Fra gli ancora abbastanza numerosi casi in questione si possono menzionare le decisioni in materia di Politica estera e di sicurezza comune (articolo 23 del Trattato UE), in materia di cooperazione giudiziaria penale e cooperazione di polizia (articolo 34 del Trattato UE), in materia fiscale (v. anche Politica fiscale) (articolo 93 del Trattato CE) e in parte in materia di Politica sociale (articolo 137 del Trattato CE). Va qui ricordata anche la disposizione che consente al Consiglio di esercitare le competenze implicite della Comunità adottando gli atti necessari per la realizzazione degli scopi del Trattato pur in assenza di basi giuridiche specifiche (articolo 308 del Trattato CE).

I casi relativi a quest’ultima categoria sono quelli per cui è più probabile che ulteriori riforme dei Trattati conducano al passaggio dal voto all’unanimità verso quello a maggioranza qualificata. Così il Trattato di Lisbona – che modifica profondamente gli attuali Trattati CE e UE – generalizza, pur con qualche eccezione di rilievo, il voto a maggioranza qualificata nei settori della cooperazione giudiziaria penale e della cooperazione di polizia.

La nozione di voto all’unanimità va concettualmente distinta da quella di decisione assunta di comune accordo dai governi degli Stati membri, che è prevista ad esempio per la fissazione delle Sedi istituzionali (articolo 289 del Trattato CE) o per la nomina del presidente e dei membri del comitato esecutivo della Banca centrale europea (articolo 112 del Trattato CE) o dei giudici e avvocati generali della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e del Tribunale di primo grado (articoli 223 e 224 del Trattato CE). In queste particolari fattispecie, infatti, la decisione non viene assunta dal Consiglio in quanto tale, ma è di carattere meramente intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa). Per di più essa richiede necessariamente l’adesione positiva di tutti i governi degli Stati membri e un’eventuale astensione, a differenza di quanto previsto per il voto all’unanimità, ne impedirebbe il perfezionamento.

Infine, la nozione qui in esame va tenuta distinta anche dalla nozione di consenso, che è propria del diritto delle organizzazioni internazionali. Il metodo del consenso permette di adottare decisioni senza ricorrere formalmente al voto, quando il presidente dell’organo chiamato a deliberare constati che in seno a tale organo non sussistono più evidenti opposizioni all’adozione della decisione in questione. Introdotto nella Comunità per via di prassi in seguito all’applicazione del cosiddetto Compromesso di Lussemburgo, tale metodo si è poi radicato per quanto riguarda le decisioni di carattere politico del Consiglio europeo. Il precitato Trattato di Lisbona formalizza, all’articolo 9b del Trattato UE modificato, il metodo del consenso come sistema di deliberazione ordinario del Consiglio europeo.

Paolo Stancanelli (2010)