Austria

Dal 1° gennaio 1995 l’Austria è uno Stato membro dell’Unione europea (UE). Nonostante la sua posizione geografica nel cuore del continente, è occorso molto tempo prima che questo paese trovasse una propria via d’accesso all’UE. Sia le forze politiche che il popolo austriaco hanno avuto e, in qualche misura, conservano tutt’oggi, posizioni ambivalenti riguardo all’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). Per molti versi, il processo di adesione dell’Austria all’UE può costituire un modello per la futura evoluzione dell’Europa (v. anche Criteri di adesione): un’Unione più intergovernativa oppure più federalista (v. Federalismo), un’Unione in cui il potere è concentrato a Bruxelles oppure nelle capitali degli Stati membri.

I primi passi verso l’integrazione: 1945-1967

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Austria riacquistò la sua piena sovranità – e di conseguenza la capacità di avere un ruolo attivo negli affari esteri – soltanto nel 1955, con il Trattato di Stato per la restaurazione di un’Austria indipendente e democratica. Fin dagli albori, la giovane cosiddetta Seconda repubblica cercò di trovare una propria collocazione nel nuovo assetto dell’Europa postbellica. Poco dopo aver ottenuto l’indipendenza, l’Austria divenne membro delle Nazioni Unite (1955) e, nel 1956, del Consiglio d’Europa. I primi approcci dell’Austria con le Comunità europee (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica) furono fallimentari soprattutto a causa del suo status di neutralità permanente. Eppure, sin dagli anni Cinquanta tutti i governi si adoperarono per intrattenere relazioni sempre più strette con le Comunità. Contemporaneamente alle Comunità europee, il 3 maggio 1960 fu fondata l’Associazione europea di libero scambio (European free trade association) di cui l’Austria fu uno degli Stati fondatori. L’EFTA offrì ai suoi membri (provenienti tutti dalla compagine occidentale dell’Europa, data la situazione politica al tempo della Guerra fredda), l’opportunità di gestire in modo unitario i propri interessi rispetto alle Comunità, compensando così parzialmente la debole posizione in qualità di paesi non membri del mercato interno in evoluzione.

Il blocco neutrale all’interno dell’EFTA, ossia Austria, Svezia e Svizzera, si era avvicinato alle Comunità già nel 1961 con l’idea di un Accordo di associazione. Per mantenere e garantire il suo status di neutralità, l’Austria fu costretta a negoziare un regolamento speciale, che all’epoca venne accettato da tutta la Commissione europea. Le trattative giunsero inaspettatamente a uno stallo quando la Francia, nel 1963, sotto la presidenza di Charles de Gaulle, rifiutò l’adesione del Regno Unito. La Svezia e la Svizzera limitarono i loro sforzi per aderire alle Comunità, mentre l’Austria perseguì la sua politica integrazionista ottenendo che gli Stati membri della Comunità economica europea (CEE) prendessero una decisione cruciale: nel 1965, il Consiglio diede formale mandato alla Commissione per aprire i negoziati con l’Austria. Malgrado l’Austria fosse considerata come parte integrante dell’Europa occidentale, i suoi sforzi risultarono vani. Non fu solo il suo status di neutralità a costituire un impedimento, ma anche i suoi rapporti con l’Italia si rivelarono un ostacolo insormontabile. Da un lato, l’URSS contrastava l’adesione dell’Austria appellandosi al suo status di neutralità permanente e all’articolo 4 del Trattato di Stato per la restaurazione di un’Austria indipendente e democratica, che proibiva qualunque forma di unione politica o economica con la Germania. Dall’altro lato, l’Italia era contraria all’adesione e a ulteriori trattative a causa della questione ancora irrisolta del Trentino-Alto Adige (ceduto dall’Impero Austro-ungarico all’Italia a seguito del trattato di pace alla fine della Prima guerra mondiale. La notifica della risoluzione della controversia tra l’Italia e l’Austria a questo riguardo avvenuta avvenne soltanto il 19 giugno 1992).

Un nuovo approccio: 1967-1973

Nel giugno del 1967 il completo fallimento dei negoziati di adesione alle Comunità europee costrinse l’Austria a modificare la sua strategia nei confronti dell’Europa. I governi austriaci – negli anni Sessanta sotto i cancellieri del Partito popolare austriaco (Österreichische Volkspartei, ÖVP) e dal 1970 al 2000 sotto quelli del Partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Österreichs, SPÖ) – dovettero cercare una via d’uscita dall’isolamento rispetto al sempre più stabile mercato comune da un lato e, dall’altro, alla posizione geografica del paese, caratterizzata da una lunga linea di confine resa inaccessibile dalla cortina di ferro.

Dopo l’insuccesso del 1967 l’Austria avviò una serie di iniziative bilaterali affiancate da iniziative multilaterali (queste ultime insieme ai rimanenti Stati membri dell’EFTA) per l’integrazione europea. Le iniziative bilaterali miravano a rafforzare le relazioni con i paesi europei senza contemplare l’obiettivo finale di entrare a far parte della CEE, e portarono, nel dicembre 1969, alle trattative per un accordo provvisorio sull’abolizione bilaterale delle barriere doganali nel settore industriale. Queste trattative furono favorite dall’Italia, che ritenne sufficienti gli sforzi compiuti dall’Austria in merito al problema del Trentino-Alto Adige. Sebbene l’obiettivo non dichiarato dell’Austria fosse ben più ambizioso di quello ufficiale (ossia quello di integrare il mercato agricolo nelle trattative per l’accordo provvisorio), le Comunità europee non erano interessate, in quel momento, a un’area di libero scambio bilaterale globale. Ciò nonostante, il 26 ottobre 1970, il Consiglio diede mandato alla Commissione per avviare le trattative con l’Austria al fine di raggiungere un accordo provvisorio bilaterale. L’Austria ribadì che, qualunque passo si fosse intrapreso verso l’integrazione, il suo status di neutralità permanente sarebbe rimasto indiscusso.

Nel frattempo, le iniziative multilaterali avevano favorito negoziati preliminari tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA. Quando, nel novembre 1969, il Consiglio conferì un secondo mandato alla Commissione per aprire le trattative tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA, i due binari delle iniziative austriache poterono convergere e già nel luglio 1971, la Comunità economica europea si dichiarò favorevole a un accordo di libero scambio con i membri dell’EFTA. In seguito a serrate trattative (conclusesi il 22 luglio 1972), l’Accordo di libero scambio tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA entrò in vigore nel gennaio 1973 (l’area di libero scambio, comunque, fu istituita solo nel 1977, quando tutte le barriere doganali sui prodotti industriali furono abolite). L’accordo del 1972 tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA, la cosiddetta Cooperazione di prima generazione CEE-EFTA, fu istituito non come un accordo di associazione regolamentato dall’art. 238 del Trattato CEE, ma come un trattato sui generis ai sensi dell’articolo 113 del Trattato CEE.

L’integrazione in fase di realizzazione: 1973-1989

Gli anni seguenti furono offuscati dagli ultimi residui della Guerra fredda e dal profilarsi di una crisi economica causata soprattutto dalla crisi petrolifera. I cambiamenti dell’economia globale costrinsero sia gli Stati membri della CEE sia quelli dell’EFTA a fronteggiare l’urgente necessità di riaffermare la loro competitività nei confronti degli Stati Uniti e del Giappone, nonché di alcuni paesi neoindustrializzati. Sebbene con l’accordo del 1972 fosse già stata abolita la maggior parte delle barriere doganali, si moltiplicavano i regolamenti e i requisiti (in materia di protezione sanitaria, di sicurezza e tutela dei consumatori). Questi regolamenti variavano da uno Stato membro all’altro e costituivano una limitazione al commercio ben più significativa rispetto a quella alquanto modesta delle barriere doganali. In particolare, queste barriere di tipo non doganale, al commercio aggiungevano costi alla già debole economia europea. Tuttavia, i rapporti tra la CEE e l’EFTA migliorarono quando si arrivò alla prima riunione del Consiglio congiunto, che si tenne il 9 aprile 1984 a Lussemburgo. Il punto culminante del Consiglio congiunto fu indubbiamente la cosiddetta Dichiarazione di Lussemburgo. Tale dichiarazione esprimeva la forte volontà politica da entrambe le parti di creare un’area economica dinamica nell’Europa occidentale e stabiliva inoltre un programma di sviluppo per la futura cooperazione economica europea che in ultimo avrebbe portato alla creazione del più esteso sistema di libero scambio del mondo. La Dichiarazione di Lussemburgo, con la sua decisione implicita di stabilire uno Spazio economico europeo (SEE), fu il punto di partenza della cosiddetta “cooperazione di seconda generazione” CEE-EFTA.

Fra il 1984 e il 1989, gli Stati membri dell’EFTA e della CEE perseguirono questa nuova strategia basata su una cooperazione sempre più stretta fra le due comunità, raggiungendo accordi su molte questioni specifiche volti ad allentare o rimuovere le barriere doganali. Per quanto, alla fine del 1988, si fossero prodotti oltre venti progetti specifici, questi non riuscirono in modo sostanziale ad assicurare uno sviluppo consistente della cooperazione; entrambe le parti giunsero alla conclusione che fosse necessario un nuovo approccio.

L’Austria osservò attentamente i progressi delle Comunità europee, in particolare i risultati del Libro bianco sul completamento del mercato interno del 1985 (v. Libri bianchi) e dell’Atto unico europeo del 1986. Entrambi davano un nuovo, vigoroso impulso all’integrazione interna della CEE, e l’Austria temeva sempre più di essere esclusa dagli sviluppi futuri del mercato interno. Questa eventualità rappresentava una seria minaccia in quanto due terzi del commercio estero dell’Austria dipendevano per l’appunto da quel mercato. Di conseguenza, nel 1987, l’Austria stabilì un approccio nuovo e globale, mirato a una partecipazione totale al mercato interno. In sostituzione del precedente approccio a due binari ne sviluppò uno a tre binari: accordi tra la CEE e l’EFTA, accordi fra l’Austria e la CEE, e la cosiddetta “euro compatibilità”, ossia l’applicazione autonoma della legislazione CEE (vale a dire, l’adattamento della legislazione nazionale all’Acquis comunitario della CEE).

Soltanto dopo due anni, l’Austria si rese conto che suoi questi sforzi non avrebbero portato al risultato sperato, e che si rendeva necessario un cambiamento radicale di strategia. L’allora presidente della Commissione europea, Jacques Delors, era pienamente consapevole che l’Austria mirava a compiere una svolta individuale verso l’adesione alla CEE. Poiché queste iniziative avrebbero interferito con il suo modello preferito di comunità parallele, tentò di bloccarle, offrendo all’EFTA, il 17 gennaio 1989, una cooperazione più stretta con le Comunità all’interno del SEE, sulla base di organismi decisionali ed esecutivi comuni. Delors sperava che con questa offerta avrebbe potuto realizzare il suo desiderio di rafforzare l’integrazione piuttosto che estendere le Comunità.

Sulla via dell’adesione alla CEE: 1989-1994

Ciò nonostante, a seguito di lunghi e approfonditi dibattiti pubblici, il 17 luglio 1989 il governo austriaco presentò la sua candidatura per l’adesione alle Comunità europee. Nella storiografia austriaca tale richiesta è nota come la cosiddetta “Lettera a Bruxelles” e può essere considerata come una svolta, tra le altre, nella storia austriaca postbellica. Nel rapporto del governo federale austriaco del 17 aprile 1989, risultava evidente che il desiderio del paese di far parte a tutti gli effetti del mercato interno poteva realizzarsi soltanto con un’adesione totale alle Comunità. I Länder austriaci svolsero un ruolo decisivo non solo grazie al sistema federale della Repubblica, ma anche grazie alla loro influenza politica sull’elettorato austriaco. I Landeshauptleute (governatori) appoggiarono il governo federale, approvandone i passi intrapresi, e l’11 maggio 1989 la seconda Camera del Parlamento nazionale, il Bundesrat, espresse il suo consenso esortando ulteriormente il governo federale a garantire la piena integrazione dei Länder e dei comuni nel processo d’integrazione. Poche settimane dopo, la prima Camera, il Nationalrat, presentò una risoluzione attraverso la quale sollecitava il governo federale a richiedere l’adesione alla CEE come membro a pieno titolo. L’Austria era politicamente consapevole dei problemi che sarebbero sorti a causa del suo status di neutralità permanente e del divieto di unione politica ed economica con la Germania sancito dall’articolo 4 del Trattato di Stato, ma era convinta di poter trovare una soluzione. L’opinione pubblica si mostrò cauta ma favorevole all’iniziativa del governo e anche l’industria e i sindacati la appoggiarono. Alcuni settori della società temevano che l’Austria avrebbe perso la sua specifica identità e che sarebbe stata assorbita piuttosto che integrata; altri paventavano la possibilità che il territorio nazionale venisse “svenduto” a ricchi cittadini dell’UE, desiderosi di stabilire la loro seconda residenza nelle località sciistiche alpine. Alla fine, sia i critici che i sostenitori decisero alla fine che il futuro dell’Austria sarebbe stato più al sicuro all’interno delle Comunità europee, per evitare il rischio di ricadere nell’isolamento economico a medio termine.

Così gli Stati membri della CEE e dell’EFTA dovettero affrontare una situazione delicata: da un lato l’offerta della CEE di negoziare con tutti i membri dell’EFTA (Austria inclusa) per un accordo sul SEE; dall’altro si poneva il problema di come gestire allo stesso tempo la richiesta austriaca di piena adesione alla CEE e la possibilità che altri Stati membri dell’EFTA potessero imitarla. La situazione politica europea si complicò ancor più quando, il 6 giugno 1989, Michail Gorbačëv annunciò ufficialmente l’abbandono della “dottrina di Brežnev”, o della sovranità limitata, in favore della cosiddetta “dottrina di Sinatra”, che consentiva alle nazioni del Patto di Varsavia di decidere dei loro affari interni, accelerando così, seppur involontariamente, il crollo del blocco orientale.

Il 1° luglio 1990 ebbero inizio i negoziati per il SEE che si conclusero rapidamente il 21 ottobre 1991. L’Austria era impegnata in trattative bilaterali con la CEE per stipulare un trattato di transito per i TIR, il quale avrebbe potuto concludersi proprio quel giorno (quel trattato avrebbe costituito successivamente un altro ostacolo durante i negoziati di adesione). Nel frattempo, la Commissione europea aveva emesso il suo avis rispetto alla richiesta di adesione dell’Austria, dando via libera ai negoziati, ma sottolineando al contempo che lo status di neutralità permanente poteva risultare problematico.

Quando, il 7 febbraio 1992, gli altri Stati membri sottoscrissero il Trattato di Maastricht, l’Austria dichiarò subito la sua volontà di accettare il nuovo acquis comunitario, pienamente consapevole della situazione ancora più problematica che sarebbe sorta in materia di Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Il Consiglio europeo riunitosi a Maastricht aveva richiesto alla Commissione di elaborare uno studio sulle eventuali conseguenze di un allargamento dell’UE. La Commissione presentò il documento il 24 giugno 1992. Il rapporto della Commissione affermava chiaramente che l’UE era in grado di sostenere un allargamento fino a sedici Stati membri (Austria, Svezia, Finlandia e Norvegia) purché si fossero attuati alcuni adattamenti istituzionali (per esempio: la ponderazione dei voti nel Consiglio, dei seggi nel Parlamento europeo, ecc.) e i nuovi Stati membri avessero ratificato il Trattato UE. Per fortuna, la Commissione propose adattamenti istituzionali aritmetici, evitando così approfondite discussioni politiche e patteggiamenti.

Sulla scia dell’Austria, anche Svezia, Finlandia e Norvegia presentarono la loro candidatura per aderire alla CEE/UE e i negoziati di adesione ebbero inizio il 1° febbraio 1993 (per la Norvegia il 5 aprile dello stesso anno). Le trattative per l’adesione poterono basarsi sui risultati dei negoziati in merito al Trattato SEE, accelerando così tutto il processo (durante i negoziati SEE, infatti, era già stato analizzato più del 60% della legislazione nazionale dei paesi candidati). Il 12 aprile 1994 i negoziati si conclusero con esito positivo. Ostacoli come il transito dei TIR, le seconde residenze e lo status di neutralità permanente poterono essere superati successivamente con risoluzioni sui generis: il trattato per il transito dei TIR tra l’Austria e la CEE fu incorporato nel pacchetto di adesione con una validità di 10 anni dalla data della stessa; l’Austria poté mantenere la sua normativa, all’epoca discriminante, riguardante la seconda abitazione per un periodo transitorio di altri 5 anni dalla data di adesione; (3) l’Austria dichiarò la sua volontà di adempiere ai suoi doveri in accordo con la PESC e di non aderire ad alcuna iniziativa militare (partecipare a campagne militari, far parte di alleanze militari, insediare basi militari straniere nel proprio territorio, ecc.).

Il governo federale austriaco, insieme ai governi regionali e alle amministrazioni comunali, lanciò un’estesa e massiccia campagna informativa per convincere il popolo austriaco della necessità di aderire all’Unione europea. Le politiche austriache sull’ambiente, sul transito delle merci e, naturalmente, sullo status di neutralità permanente, furono al centro del dibattito pubblico. In alcune occasioni furono sollevate obiezioni astruse in opposizione all’adesione (quali ad esempio il fatto che sarebbe stata permessa l’importazione di cioccolato prodotto con il sangue di bue o che i termini alimentari specifici, altra eredità dell’impero austro-ungarico, sarebbero scomparsi). Tuttavia, quando la stampa si espresse a favore dell’adesione, la campagna riscosse finalmente successo. Un altro risultato positivo giunse dal Parlamento europeo, il quale, il 4 maggio 1994, votò in favore dell’adesione dell’Austria con 378 voti favorevoli su 517.

Il 12 giugno 1994 si tenne il referendum sull’adesione austriaca all’UE e il risultato fu una schiacciante vittoria dei voti a favore con un’affluenza alle urne particolarmente alta (81,72%, con il 66,58% dei voti a favore dell’adesione e soltanto il 33,42% contrari). I voti contrari non prevalsero in nessun distretto politico. Tutte le fasce sociali si espressero a favore (no -laureati 60-65% e laureati 70%) nonché tutte le categorie professionali (liberi professionisti 63%; dipendenti 67%; operai 64%, con l’eccezione degli agricoltori con il 27%). Esaminando la votazione rispetto alle preferenze politiche dell’elettorato, si osservarono differenze significative: la percentuale dei voti a favore nell’SPÖ fu del 73%; nell’ÖVP del 66%; nel Partito della libertà (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ) di Jörg Haider del 41%; nel partito dei verdi (Die Grünen) del 38% e nel Forum liberale (Liberales Forum, LiF) del 75%. Potrebbe sorprendere che l’ÖVP non avesse ottenuto l’adesione più alta, dato che era il principale sostenitore dell’adesione, ma tale risultato si spiega con la cospicua presenza di agricoltori nelle file del partito.

I primi passi come Stato membro e la prima presidenza UE: 1995-1999

Il 1° gennaio 1995 l’Austria diventò uno Stato membro dell’UE. Fin dall’inizio mostrò la piena volontà di partecipare a tutti i settori dell’integrazione e firmò l’accordo di Schengen nel maggio 1997. Nel secondo semestre del 1998 l’Austria assunse per la prima volta la presidenza dell’Unione europea. Il 16 dicembre 1998, l’allora ministro degli Affari esteri, Wolfgang Schüssel dell’ÖVP, presentò al Parlamento nazionale austriaco una relazione molto positiva, nella quale sosteneva che il lungo cammino dell’Austria per uscire dal completo isolamento era finalmente giunto al termine, proprio nel cuore dell’Europa. L’allora cancelliere federale, Viktor Klima dell’SPÖ, trasse le stesse conclusioni davanti al Parlamento europeo lo stesso giorno a Strasburgo. Il governo austriaco era particolarmente fiero del fatto che l’Unione europea avesse accettato il successivo allargamento sotto la presidenza austriaca, rendendo quindi possibile il superamento definitivo del regime postbellico.

Nel corso del 1999 il clima politico in Austria divenne delicato e ciò venne confermate dai risultati delle elezioni generali del 3 ottobre. L’SPÖ si confermò al primo posto (33,15%: -4,91; 1.532.448 voti; 65 seggi: -6), l’ÖVP perdette il secondo posto (26,91%: -1,38; 1.243.672 voti; 52 seggi) a vantaggio dell’FPÖ di Jörg Haider (26,91%: +5,02; 1.244.087 voti; 52 seggi: +11) con un margine di soli 415 voti, mentre i Verdi mantennero il loro quarto posto (7,4%: +2,59; 342.260 voti; 14 seggi: +5). Durante la campagna elettorale, l’ÖVP aveva annunciato che avrebbe lasciato il governo se avesse perso il secondo posto. Tuttavia, dopo un periodo di forte sgomento, il partito avviò trattative esplorative con l’SPÖ, ancora in corso durante il Consiglio europeo di Helsinki, dove, inter alia, fu concordata la CIG (Conferenza intergovernativa) del 2000.

La fase sanzionatoria: 2000

Dopo un interminabile negoziato, l’ÖVP interruppe le trattative con l’SPÖ e, nel gennaio 2000, cominciò a negoziare con l’FPÖ. Quando entrambi i leader dei partiti, Wolfgang Schüssel e Jörg Haider, raggiunsero un accordo, la reazione degli Stati membri dell’UE fu a un tempo radicale e perplessa. Il 31 gennaio 2000, gli altri quattordici Stati membri imposero all’Austria una serie di sanzioni che sarebbero state applicate nel caso in cui l’ÖVP avesse formato un governo con l’FPÖ. La presidenza dell’UE, allora detenuta dal Portogallo, fu sostanzialmente costretta ad annunciare le sanzioni in tre fasi che il gruppo dei Quattordici avrebbe imposto: i governi dei Quattordici non avrebbero promosso o accettato alcun contatto ufficiale bilaterale a livello politico con un governo austriaco che comprendesse l’FPÖ; sarebbe stato negato qualsiasi appoggio a candidati austriaci per ricoprire posizioni nelle organizzazioni internazionali; gli ambasciatori austriaci nelle capitali dell’UE sarebbero stati ricevuti solo a livello tecnico. Il 1° febbraio 1999, la Commissione europea rilasciò una dichiarazione nella quale rendeva note le intenzioni del gruppo dei Quattordici ribadendo che l’UE era stata fondata sui principi della libertà, della democrazia, del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nonché sul principio di legalità, insinuando così che un governo di coalizione tra l’ÖVP e l’FPÖ non avrebbe soddisfatto questi requisiti. Nello specifico, il Parlamento europeo aveva espresso la sua posizione in una risoluzione che condannava le posizioni di Haider, confermando l’indignazione europea per le affermazioni rese in passato da Haider che esprimevano un’ideologia «offensiva, xenofoba e razzista». La risoluzione sottolineò esplicitamente che «ogni governo austriaco deve rispettare lo spirito e la lettera dei principi fondamentali del Trattato».

Incurante di questa ingerenza negli affari interni (le elezioni generali austriache del 1999 si erano svolte al di sopra di ogni sospetto e in nessun modo le si poteva definire contrarie a un qualsiasi principio democratico; inoltre, le opinioni di Jörg Haider non erano una novità ed egli, in precedenza, aveva già preso parte a eventi internazionali e a sessioni plenarie del Comitato delle regioni – CDR, dell’UE senza alcuna opposizione), il governo di coalizione tra il l’ÖVP e l’FPÖ prestò giuramento davanti al presidente austriaco il 4 febbraio 2000. Alla vigilia dell’insediamento, il 3 febbraio 2000, il futuro cancelliere Wolfgang Schüssel e il leader dell’FPÖ, Jörg Haider, sottoscrissero una dichiarazione congiunta in risposta alle preoccupazioni internazionali. Con la dichiarazione sulla “Responsabilità dell’Austria. Un futuro nel cuore dell’Europa” il governo austriaco riaffermava «la risoluta fedeltà dell’Austria ai valori spirituali e morali che costituiscono il patrimonio comune dei popoli dell’Europa». Inoltre, esprimeva l’impegno del governo nei confronti dei diritti umani, condannava «qualsiasi forma di discriminazione, intolleranza e demagogia», si impegnava a rispettare i principi dell’UE come espressi nell’articolo 6 del Trattato UE e ribadiva il sostegno austriaco all’allargamento dell’UE.

Le sanzioni erano state radicali in termini politici, ma allo stesso tempo non decisive, poiché non prevedevano sanzioni economiche né mettevano in discussione l’adesione o la posizione dell’Austria in qualità di membro dell’UE. Ovviamente il gruppo dei Quattordici era pienamente consapevole che sarebbe stato pressoché impossibile rettificare le sanzioni istituite dai Trattati UE (il Trattato UE consente agli Stati membri di imporre sanzioni ad altri Stati membri solo in caso di grave e persistente violazione) e aveva scelto quindi una via bilaterale. L’indecisione è ancor più comprensibile se si considera che il gruppo dei Quattordici riuscì a cooperare con l’Austria all’interno della struttura dell’Unione europea, e quindi con i membri del governo austriaco durante le riunioni del Consiglio, con il rappresentante permanente all’Unione europea e i membri della rappresentanza permanente dell’Austria durante le riunioni del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) e i gruppi di lavoro del Consiglio, con i membri austriaci del Parlamento europeo nonché con i membri austriaci del Comitato economico e sociale (CES) e il CDR (con Jörg Haider come membro, in qualità di governatore della Carinzia) durante le riunioni delle commissioni o sessioni plenarie.

Come deciso dal gruppo dei Quattordici, le sanzioni non pregiudicarono l’adesione dell’Austria all’UE e quindi le autorità austriache presero parte a pieno titolo ai negoziati della CIG (Conferenza intergovernativa) del 2000. Dietro le quinte, il governo austriaco, e rispettivamente il cancelliere Schüssel e il ministro degli Affari esteri, Benita Ferrero-Waldner, si adoperarono sin dall’inizio affinché le sanzioni venissero abolite. A facilitare la situazione intervennero le dimissioni, il 28 febbraio 2000, di Jörg Haider da leader dell’FPÖ. Dopo due settimane fu evidente che le pressioni esterne non solo non avrebbero costretto il governo austriaco a dimettersi, ma avrebbero persino rafforzato la sua posizione interna data la diffusa disapprovazione del popolo austriaco rispetto alle sanzioni. Soltanto quando l’Austria accettò un riesame esterno della sua situazione politica da parte del gruppo dei cosiddetti “tre saggi, nominati dalla Corte europea dei diritti umani, entrambe le parti riuscirono a uscire da quella situazione assai intricata. I “tre saggiresero pubblica la loro relazione l’8 settembre 2000 e il risultato immediato fu che le sanzioni furono sospese il 12 settembre 2000.

Le sanzioni imposte erano state interpretate individualmente e poi applicate dai membri del gruppo dei Quattordici: comprendevano una serie di provvedimenti e misure, come il boicottaggio delle gite scolastiche, degli scambi culturali e delle esercitazioni militari. Lo scopo ultimo delle sanzioni, ossia quello di far dimettere il governo, non fu mai raggiunto e anzi fece sì che una larga fetta della popolazione austriaca le percepisse come un’espressione di ostilità nei confronti della loro nazione anziché uno strumento per aderire ai principi dell’UE. Il risultato più significativo delle sanzioni fu un crescente malcontento da parte degli austriaci nei confronti dell’UE, dell’integrazione europea e delle prospettive di allargamento. Quest’ultimo punto è di particolare interesse: i governi austriaci, infatti, compresi quelli di coalizione fra l’ÖVP e l’FPÖ (il primo governo Schüssel dal 4 febbraio 2000 al 28 febbraio 2003 e il secondo governo Schüssel, dal 28 febbraio 2003 all’11 gennaio 2007) erano stati tra i principali sostenitori dell’allargamento fino ai Balcani, in contrapposizione all’elettorato austriaco (soltanto riguardo alla domanda d’adesione della Turchia i governi austriaci sono in linea con la posizione contraria del proprio popolo).

La fase postsanzionatoria: 2001-2005

Dopo l’abolizione delle sanzioni, la situazione ufficiale tra l’Austria e gli altri Stati membri dell’UE migliorò rapidamente, al punto che osservatori esterni avrebbero potuto pensare che non fosse mai esistita. L’Austria aveva beneficiato dei provvedimenti istituiti dalle politiche regionali e strutturali e stava tramutando la sua precedente situazione di confine isolato a causa della cortina di ferro in un prosperoso sviluppo delle regioni di confine. Nonostante gli effetti positivi, l’incubo dell’Austria di essere invasa dal traffico di transito europeo divenne oggetto di una delle maggiori dispute con l’UE. L’accordo di transito tra l’Austria e l’UE faceva parte del pacchetto di adesione, ma era cessato nel 2005. La Commissione europea, il Parlamento europeo e molti Stati membri consideravano l’accordo di transito come un elemento estraneo al mercato interno, a causa delle limitazioni imposte sul numero di TIR a cui era permesso percorrere le autostrade austriache nel transito da un paese all’altro. In contrasto con questa posizione, l’Austria considerava l’accordo come uno strumento ecologico in grado di ridurre le minacce all’ambiente e alla salute dei cittadini. Ma la lotta dell’Austria per la cosiddetta “internalizzazione dei costi esterni” contro la lobby europea degli autotrasportatori e contro quegli Stati membri sedi di industrie era una causa persa in partenza (v. anche Lobbying). Allo scadere del primo accordo di transito, l’Austria insieme ad altri Stati membri sensibili alla tutela dell’ambiente aveva alla fine costretto l’Unione europea ad approvare delle leggi ecocompatibili sulla circolazione dei mezzi pesanti; ciò nonostante, quel dossier in particolare finì per accrescere l’opinione negativa di gran parte del popolo austriaco contro l’UE.

Facendo parte della “zona euro”, il 1° gennaio 2002 l’Austria, insieme ad altri undici Stati membri, adottò l’euro come moneta unica, e questo divenne un altro punto critico della politica austriaca nei confronti dell’UE. Sebbene appoggiata dal governo e dall’industria, la nuova moneta fu criticata da una fascia molto ampia della popolazione austriaca, in particolare dai sindacati, che la ritennero la causa diretta o indiretta dell’incremento dei prezzi. Effettivamente i prezzi erano aumentati, ma questo non poteva essere imputato all’euro in quanto tale, bensì al risultato delle politiche dei prezzi di alcuni settori dell’economia.

Nel follow-up della CIG del 2000 e quella successiva del 2004, il governo austriaco mirò a un cambiamento sostanziale alla struttura istituzionale e al conseguente adattamento. Alla fine, l’Austria fu uno dei primi Stati membri a ratificare il Trattato costituzionale nel 2005 (v. Costituzione europea).

Come già sopra menzionato, tutti i governi austriaci sostennero il processo di allargamento che il 1° maggio 2005 portò all’adesione di dieci nuovi membri e inoltre, convinti che l’Unione fosse vincolata dalle promesse fatte a Romania e Bulgaria, ne sostennero l’adesione il 1° gennaio 2007. D’altro canto, l’Austria avrebbe dovuto affrontare una situazione difficile per il suo mercato del lavoro qualora i suoi confini fossero stati aperti, senza alcuna restrizione, a lavoratori emigrati dai nuovi Stati membri. L’Austria ritrovò nella vicina Germania e in particolare nell’allora cancelliere Gerhard Schröder, un alleato con le stesse preoccupazioni. Entrambi i paesi non solo temevano ondate incontrollate di disoccupati in cerca di lavoro provenienti dai cosiddetti paesi “a basso salario” (la Polonia in particolare) ma, allo stesso tempo, dovevano anche affrontare l’opposizione crescente dei sindacati all’allargamento. Questi ultimi prevedevano tempi duri per i loro iscritti, a causa delle forti pressioni che i livelli salariali avrebbero subito quando gli operai austriaci e tedeschi si sarebbero confrontati con competitori disposti a lavorare per salari più bassi. Lo slogan “wage dumping”, i salari sotto costo imputati all’allargamento dell’UE, entrò nell’uso comune non soltanto tra i sindacati ma anche fra gli euroscettici di tutte le fasce della società (v. Euroscetticismo). Austria e Germania riuscirono a convincere gli altri Stati membri che la minaccia era reale e non pura fantascienza. Il confine tedesco, condiviso con la Polonia e la Repubblica Ceca, e il confine austriaco, condiviso con Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Slovenia, avrebbero chiaramente reso entrambi i paesi la prima tappa naturale per emigranti disoccupati provenienti dai nuovi Stati membri, considerato altresì che il livello salariale era molto basso paragonato a quello di Austria e Germania. I paesi in via d’adesione si considerarono maltrattati dai loro vicini e lamentarono di non poter prendere pienamente parte al mercato interno. L’obbligo del voto all’unanimità per l’adesione di nuovi Stati membri rafforzò la posizione dell’Austria e della Germania. Infatti, alla fine dei negoziati di adesione, riuscirono a far aggiungere una clausola che imponeva ai nuovi Stati membri un periodo di transizione di un massimo di sette anni dalla data di adesione, durante i quali gli altri Stati membri potevano chiudere le loro frontiere ai lavoratori emigranti. Questa vittoria parziale non fece crescere il consenso nell’opinione pubblica nei confronti dell’UE e del suo allargamento; gran parte della società austriaca, infatti, la considerò una necessaria misura difensiva contro l’ingerenza dell’UE. La situazione si fece ancora più delicata per il governo austriaco quando le federazioni padronali richiesero un’apertura anticipata del mercato alla forza lavoro straniera, legittimando ancor più l’incubo dei rappresentanti sindacali. Sebbene le cifre dimostrassero chiaramente che l’Austria era uno dei paesi che aveva maggiormente beneficiato del processo di allargamento, il popolo era convinto e, per certi versi, continua a esserlo tuttora, che l’espansione rappresentasse una minaccia per loro e per i loro figli, soprattutto per quanto concerneva la situazione del mercato del lavoro.

La seconda presidenza UE e periodo successivo: 2006-2007

Alla fine del 2005, di fronte ai sondaggi d’opinione che mostravano un crescente tasso di euroscetticismo, il governo austriaco dovette far fronte alla richiesta di adesione da parte della Croazia e della Turchia alla vigilia del turno austriaco alla presidenza, nel gennaio 2006.

L’alleanza con la Germania, che in precedenza si era rivelata così efficace, in questo caso non funzionò poiché l’allora governo tedesco di sinistra era uno dei più forti sostenitori dell’adesione turca all’UE. Quello stesso governo tedesco aveva perso le elezioni generali nell’autunno del 2005, ma era ancora in carica quando il Consiglio per gli Affari generali ed esteri dovette votare sull’apertura dei negoziati d’adesione. Il cancelliere designato, la cristiano-sociale Angela Merkel, aveva promesso durante la sua campagna elettorale di appoggiare l’Austria, favorendo ogni offerta alla Turchia salvo l’adesione a pieno titolo. La posizione dell’Austria sembrò molto isolata. Dopo interminabili trattative, l’Austria riuscì finalmente a raggiungere un accordo: anche le trattative con la Croazia sarebbero state aperte, ignorando così il parere contrario di due Stati membri e consolidando quindi la sua forte partnership con i paesi dei Balcani occidentali; le trattative con la Turchia sarebbero incominciate ma con un risultato aperto; la Commissione avrebbe dovuto redigere una relazione sulla valutazione dell’impatto dei futuri allargamenti. A quel punto il governo austriaco si trovò in una posizione ancora più precaria rispetto al periodo che precedette la decisione dell’ottobre 2005 di sostenere la richiesta della Turchia dell’apertura dei negoziati. Il 1° gennaio 2006 l’Austria dovette assumere la presidenza dell’UE per 6 mesi e aprire le trattative con la Turchia discutendone i primi capitoli.

Il governo Austriaco si concentrò pienamente sui compiti della presidenza UE e raggiunse risultati molto apprezzati: gli esiti del summit di primavera del Consiglio europeo svoltosi a marzo 2006, con il quale si concordò un rilancio della Strategia di Lisbona e si propose di sviluppare una politica europea per l’energia (v. Politica dell’energia); la finalizzazione del pacchetto di norme per l’attuazione delle future politiche strutturali e di coesione (v. Politica di coesione); l’accordo politico dopo le lunghe e accese discussioni per la Direttiva sui servizi e, in particolare, la presentazione e l’accordo sulla prima roadmap che avrebbe portato in ultimo a una Revisione dei Trattati europei prima della scadenza delle elezioni dirette del Parlamento europeo del 2009.

L’eccellente operato della presidenza austriaca dell’UE fu ben accolto e approvato dall’elettorato austriaco, ma non giovò al governo nelle elezioni generali del 1° ottobre 2006. Con una bassa affluenza alle urne (appena il 78,5%, il 5,8% in meno rispetto alle elezioni del novembre 2002), l’ÖVP perse il primo posto (34,3%: -8,0%; 1.616.493; 66 seggi: -13) a vantaggio dell’SPÖ (35,3%: -1,2; 1.663.989 voti; 68 seggi: -1) con un margine di 47.493 voti. I Verdi raggiunsero appena il terzo posto (11,0%: +1,5; 520.130 voti; 21 seggi: +4) rispetto all’FPÖ (11,0%: -1; 519.598 voti; 21 seggi: +3) di Jörg Haider, che nel frattempo aveva subito una scissione. Il nuovo partito di Haider riuscì a malapena a entrare al parlamento con un ristretto margine (4,1%; 193.539 voti; 7 seggi). Il cambio di leadership all’interno del nuovo governo di coalizione (dall’ÖVP all’SPÖ) non comportò alcun cambiamento nella politica austriaca in merito all’UE. Come dichiarato nel programma di governo presentato dalla coalizione formata dall’ÖVP e l’SPÖ, il nuovo governo si sarebbe battuto «per una forte Europa unita», inclusi, inter alia, l’approfondimento dei valori comuni, il rafforzamento del modello di stile di vita europeo, l’ulteriore sviluppo della politica estera e di sicurezza comune e il superamento di qualsiasi divario esistente nel mercato interno europeo. Inoltre, il governo considerava la promozione di una maggiore fiducia tra il popolo austriaco nel progetto europeo come una questione di particolare importanza. Per quanto riguarda il processo d’allargamento, il governo avrebbe garantito che venisse condotto con attenzione e cautela, tenendo conto della capacità europea di accogliere altri membri. Il nuovo governo austriaco riteneva che l’integrazione europea fosse incompleta senza i paesi dei Balcani occidentali. In merito ai tentativi compiuti dalla Turchia per diventare membro dell’UE, il programma di governo affermava molto chiaramente che era «nell’interesse degli Stati membri dell’UE guidare la Turchia e la sua popolazione verso i valori e gli standard europei in modo mirato ma allo stesso tempo cauto». Il programma ribadiva che l’Austria si era «adoperata per raggiungere una conclusione aperta delle trattative con la Turchia» e avrebbe continuato a sostenere innanzitutto un approccio graduale, mirato a creare una comunità su misura che comprendesse la Turchia e l’Europa. Se l’esito delle trattative avesse stabilito come obiettivo finale l’adesione della Turchia all’Unione europea, i cittadini austriaci avrebbero avuto in ogni caso l’ultima parola attraverso lo strumento referendario. Sullo sviluppo futuro dell’Unione europea, il governo considerava il Trattato costituzionale come una base equilibrata e costruttiva e avrebbe preso parte attiva nelle discussioni a esso associate. Tuttavia, il nuovo governo, così come quello precedente, avrebbe promosso la cosiddetta “Europa dei progetti concreti” e anche un utilizzo più efficace e trasparente dei trattati in vigore per avvicinare maggiormente la politica UE ai cittadini d’Europa.

Sintesi e prospettive

Può darsi che l’Austria e il suo popolo siano scettici nei confronti di alcuni aspetti dell’integrazione europea, come si potrebbe desumere dal calo di consensi dopo l’esito decisamente positivo del referendum sull’adesione, o ancora dalla diminuzione dell’affluenza alle elezioni del Parlamento europeo (1996: – 67,73%; 1999: – 49,40% [media UE: 49,8%]; 2004: – 42,43% [media UE: 45,5]). In entrambi i casi, consenso generale e affluenza alle elezioni del Parlamento europeo, l’Austria non si discosta dalla media degli altri Stati membri dell’UE. Tuttavia, nessuno, né i partiti politici né le fasce sociali, metterebbe mai seriamente in discussione l’adesione austriaca. Tutti gli Stati membri hanno i loro problemi specifici con taluna o talaltra politica dell’UE e difendono la propria identità nazionale all’interno di un’Europa unita.

In realtà, fin dal 1° gennaio 1995, gli investimenti esteri diretti sono aumentati più del 300% e, nello stesso periodo, gli investimenti austriaci all’estero sono cresciuti del 120% circa, il tasso di esportazione austriaco è raddoppiato e il tasso di importazione è aumentato del 75%. Anche in confronto alla vicina Svizzera, comunemente nota come uno dei paesi più ricchi nella classifica dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), l’Austria era in grado di raggiungere se non superare i risultati del paese confinante: mentre il PIL pro capite dell’Austria si stabilizzava al 110% della media UE, quello svizzero passava dal 132% del 1995 al 117% del 2002. Gli stessi esiti positivi si osservano anche nel campo dell’occupazione: in 10 anni di appartenenza all’UE, l’Austria ha generato più di 165.000 nuovi posti di lavoro (almeno 70.000 direttamente riconducibili alla sua adesione all’UE). Analizzando i risultati di uno degli indicatori politici chiave, ossia il tasso di occupazione, l’Austria ha raggiunto l’obiettivo stabilito dall’UE del 70% già all’inizio del 2005, con il 69,3% (nello stesso periodo l’obiettivo fissato a Lisbona di un tasso d’occupazione femminile del 60% era stato persino superato con il 63,1%). L’entrata in vigore, il 1° gennaio 1999, dell’Unione economica e monetaria ha svolto un ruolo nel calo del deficit pubblico e nella stabilizzazione della situazione economica globale del paese.

I Länder austriaci non solo hanno svolto un ruolo importante nella fase iniziale del processo di adesione, ma hanno anche trovato una propria collocazione all’interno dell’UE attraverso il Comitato delle regioni, i cui membri sono gli stessi governatori, e il processo decisionale austriaco rispetto alla politica UE, dove hanno un ruolo alla stessa stregua del governo federale. Adesso prendono parte attiva e, insieme al governo federale, promuovono le posizioni dell’Austria all’interno del contesto istituzionale. Le città e i comuni austriaci hanno beneficiato della cooperazione internazionale grazie all’appartenenza all’UE, specialmente tramite le cooperazioni oltre confine sotto l’ombrello della Politica regionale dell’UE (v. Politica di coesione). Anche le città e i comuni sono integrate nelle politiche UE dell’Austria.

Fin dagli inizi la Camera di commercio austriaca ha appoggiato l’approccio integrazionista del paese nei confronti l’Unione europea in vista delle ampie opportunità che essa avrebbe rappresentato per l’economia, e il suo successivo sviluppo e collocazione nel mercato in via di globalizzazione. Se i summenzionati organismi amministrativi regionali e locali, la Camera di commercio e la Federazione industriale austriaca criticano il sovraccarico dell’amministrazione, parzialmente dovuto alla nuova legislazione UE e i costi aggiuntivi per l’industria dovuti alle decisioni UE nei settori dell’ambiente, della sanità e della tutela del consumatore, tuttavia, nel complesso considerano il bilancio positivo e continuano a dare forte sostegno alla partecipazione austriaca all’UE.

In qualche modo, i sindacati austriaci adottano una posizione leggermente più critica. A loro avviso, il primato che esercita la politica economica e monetaria, orientata verso la stabilità, è motivo di critiche, quali il tasso di disoccupazione in Europa, ancora alto, e il modello sociale europeo, sotto la pressione permanente della politica economica. Inoltre, considerano la tendenza verso una sempre maggiore liberalizzazione del mercato come una potenziale minaccia per gli interessi dei lavoratori.

Il settore agricolo in Austria mantiene una posizione ambivalente rispetto all’UE, ma il livello del consenso sta aumentando. La riforma della Politica agricola comune (PAC) figurerà certamente al centro delle attività delle Camere austriache dell’agricoltura negli anni a venire.

L’Austria aveva una lunga strada da percorrere per raggiungere l’obiettivo finale dell’adesione a pieno titolo all’UE, e ci è riuscita. Per molti versi, il paese si è dimostrato un buon esempio come Stato membro dell’UE: critico rispetto ad alcuni dettagli, ma positivo riguardo al grande progetto dell’integrazione europea.

Klemens Fischer (2010)




Belgio

«La pace non sarà garantita se il problema tedesco non troverà soluzione in un quadro generale», dichiara Paul-Henri Spaak, ministro degli Esteri belga, il 6 dicembre 1944 davanti alla Camera dei deputati. «Per assicurare la pace», continua Spaak in questo celebre discorso, «bisogna costruire l’edificio che la manterrà». Questo comporta tre livelli: «Quello che domina e comprende gli altri due si chiama sicurezza collettiva. Il livello intermedio potrebbe essere definito alleanza europea, l’altro intese regionali» (v. Spaak, 1980, p. 59).

A qualunque livello ci si ponga, gli Stati devono capire che «non può esserci un’organizzazione efficace se non viene corretto il principio di sovranità nazionale assoluta e integrale». Ma, essendo impossibile chiedere «a ogni paese di sottoscrivere gli stessi obblighi in ogni angolo del mondo», è indispensabile che «le intese regionali siano una sorta di organo esecutivo della politica di sicurezza collettiva». Infine, parlando specificamente del Belgio, Spaak sottolinea «che il tempo in cui era possibile separare gli interessi politici del paese dai suoi interessi economici è completamente superato». Sicurezza politica e prosperità economica devono coincidere e, in quest’ottica, «o il Belgio vedrà accrescersi il suo spazio economico, o conoscerà ore difficili».

Questo discorso, che è anche un programma, è il frutto dell’esperienza accumulata in una trentina d’anni che hanno coinciso, dall’inizio della Prima guerra mondiale alla fine della Seconda, con un mutamento profondo dello scenario internazionale e hanno costretto i paesi piccoli, in particolare, a rivedere radicalmente le proprie posizioni e a elaborare una nuova “dottrina”.

Precisando che è necessario tener conto dell’evento fondamentale, rappresentato dall’indipendenza del Congo belga nel 1960, in termini di immagine ma soprattutto di perdita di una carta vincente sulla scena internazionale, questa “dottrina” può essere delineata come segue.

Il Belgio ritiene che il suo ruolo sia tutt’altro che trascurabile, a patto che vengano soddisfatte quattro condizioni: partecipare a intese fondate su regole di cooperazione e non di dominio; «esercitare all’interno di questi organismi una diplomazia della relazione e della concertazione, che dia ai rappresentanti belgi una posizione relativamente forte grazie alla continuità delle funzioni nel capo di questi rappresentanti, alle relazioni e alla capacità di farsi ascoltare che possono acquisire, alla conoscenza che hanno di possibilità di intraprendere iniziative realistiche»; identificarsi all’interno delle istituzioni con le finalità di queste ultime, piuttosto che adottare «una posizione di richiesta costante di tutela di interessi particolari di ordine economico o finanziario, o ancora di sollecitazione di appoggi diplomatici»; «intervenire con proposte ragionevoli […] senza dissipare il proprio credito moltiplicando le iniziative su qualsiasi argomento» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 3).

In altre parole, il Belgio che insiste sulla necessità di rispettare le regole e i meccanismi istituzionali vigenti, dà prova di una certa volontà di potere tipica dei piccoli Stati che trovano nella Comunità un mezzo per costringere i Grandi al compromesso.

La traduzione, assolutamente pacifica (v. anche Neutralità), di questa volontà di potere è la capacità d’influenza, che presuppone che il Belgio sia riconosciuto come un membro leale dell’organizzazione di cui fa parte. Sul piano europeo, dove la sua influenza è da lungo tempo superiore alle sue dimensioni e al suo peso reale, il Belgio non ha alcuna difficoltà a “partecipare al gioco”, dato che i suoi interessi economici vanno spesso in direzione dell’integrazione (v. Integrazione, metodo della).

Questa valutazione generale richiede, tuttavia, una qualche rettifica per quanto riguarda il periodo precedente ai Trattati di Roma. In effetti, se il Belgio, con il Lussemburgo, ha costituito quel “laboratorio dell’Europa” che è il Benelux, ricavandone importanti dividendi, e inoltre, dal patto di Bruxelles del 1948 in poi, ha svolto un ruolo trainante in termini di alleanze regionali, bisogna tuttavia sottolineare il fatto che il suo contributo alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e alle iniziative successive non sarà esente da difficoltà.

Il Piano Schuman solleva forti resistenze negli ambienti industriali belgi, a causa della solidarietà esistente fra l’industria carbonifera e la siderurgia per il tipo di controllo finanziario esercitato su entrambi i settori dalle due grandi holding finanziarie – Société générale de Belgique e Société de Bruxelles pour la finance et l’industrie (Brufina). La vivace opposizione dell’industria carbonifera è legata, in particolare, alle gigantesche operazioni di modernizzazione richieste dagli impianti minerari valloni. Il fatto è che, come scrive il segretario generale del ministero degli Affari economici, Jean-Charles Snoy et d’Oppuers, nel giugno 1950: «Con o senza il Piano Schuman, il problema carbonifero belga dev’essere risolto!» (v. Dumoulin, 1988, p. 273).

Ma le resistenze non provengono solo dagli ambienti carboniferi, che trascinano anche quelli siderurgici. Nel 1950, il Belgio risolve la dolorosa questione della monarchia, con il passaggio dei poteri reali da Leopoldo III al figlio Baldovino, che salirà al trono l’anno seguente. Sul piano costituzionale, cioè l’ambito che al centro del dramma tra il 1940 e il 1950, non è previsto, come nella costituzione di altri paesi che saranno ben presto membri della CECA, una rinuncia alla sovranità nazionale a beneficio di istanze inter o sovranazionali. Questa situazione induce il ministro belga degli Esteri Paul van Zeeland a ottenere l’inserimento, nel Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, della clausola per cui la CECA si costituisce per una durata di 50 anni.

Quest’iniziativa, che rappresenta una garanzia agli occhi del Belgio, è anche il segno di una estrema prudenza, addirittura di una certa diffidenza, nei confronti di qualsiasi attentato alla sovranità nazionale. Fra il 1951 e il 1957 numerosi elementi denotano le difficoltà dell’ingresso del Belgio in Europa, malgrado le maggioranze parlamentari incoraggianti raggiunte in occasione delle votazioni relative ai progetti di legge che approvano i trattati.

Assai reticente nei riguardi della sovranazionalità della CECA, van Zeeland fino all’aprile 1954 avanza numerose difficoltà in merito alla Comunità europea di difesa (CED), in un primo tempo, e al progetto di statuto della Comunità politica europea (CPE), in seguito, a tal punto che i federalisti (v. Federalismo) l’accuseranno di essere stato «il sottomarino responsabile del siluramento della CPE» (v. Dumoulin, Dujardin, 1997, p. 197). Ma il ministro degli Esteri, che da un lato è fautore di una cooperazione europea limitata all’applicazione dei principi del libero scambio e dall’altro teme per ragioni attinenti alla politica interna che una revisione della costituzione riapra la questione reale, non è il solo a manifestare diffidenza. Il giovane Baldovino I, nell’agosto 1954, esprime la sua opposizione all’organizzazione, a Bruxelles, della conferenza che rappresenta l’ultima chance per la CED, annunciando che sarà in vacanza e quindi non potrà ricevere i partecipanti alla riunione, come impone la più elementare cortesia. Ancora nel febbraio 1957 il re minaccia di non firmare i Trattati di Roma.

Dal 1954 al 1957 il portafoglio degli Esteri cambia di mano; lo detiene Paul-Henri Spaak, in un governo composto da socialisti e da liberali che succede al governo dei cristiano-sociali al potere dal 1949.

Il ritorno di Spaak agli Esteri segna un cambiamento di rotta, anche se rimangono delle difficoltà. Dopo il fallimento definitivo della CED e, sulla sua scia, della CPE, Spaak, di concerto con i partner del Belgio all’interno del Benelux e in collaborazione con personalità come Jean Monnet, elabora uno scenario per uscire dalla crisi, il cui approdo, attraverso il memorandum Benelux, è la Conferenza di Messina alla fine di maggio del 1955.

Dalla creazione del Comité Spaak nell’estate del 1955 alla firma dei Trattati di Roma nella primavera del 1957, il ruolo del Belgio è trainante e illustra perfettamente il concretizzarsi della “dottrina” esposta in precedenza. Esperto di negoziati internazionali, adeguatamente affiancato e assecondato, una volta guadagnata la fiducia dei partner, Spaak fa entrare definitivamente il Belgio in Europa, non senza aver definito una linea di condotta che sarà ormai quella della diplomazia europea del paese. I suoi immediati successori – Victor Larock, poi Pierre Wigny – nel periodo in cui Spaak svolge le funzioni di segretario generale della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), in seguito i successori più lontani nel tempo – come Pierre Harmel –, dopo il suo ritorno agli Esteri dal 1961 al 1965, assicurano la continuità indiscutibile di una politica che ha conosciuto crisi importanti, fra cui quella delle relazioni con la Francia del generale Charles de Gaulle.

I momenti cruciali di questo conflitto sono noti. Da un lato, la crisi aperta dalla sospensione sine die dei negoziati relativi all’ingresso del Regno Unito nella CEE (29 gennaio 1963), dall’altro, la cosiddetta “crisi della sedia vuota”.

In seguito alla conferenza stampa del generale de Gaulle del 14 gennaio 1963, che annuncia la fine dei negoziati con il Regno Unito, Spaak denuncia energicamente «il metodo diplomatico adottato», giudicandolo «assolutamente inammissibile».

Attaccando la visione gollista di un’Europa «autarchica, egoista e insensibile ai problemi posti dalla sua stessa esistenza», Spaak si attira una bordata di critiche, non solo in Francia – “Candide” lo qualifica il 31 gennaio 1963 come l’“anti-gollista n. 1 d’Europa” – ma anche in Belgio. Il potente “Libre Belgique”, quotidiano della borghesia cattolica, come pure gli ambienti dei nazionalisti valloni francofoni, accusano Spaak di atteggiarsi a “campione dell’antigollismo, se non dell’anti Francia, e di lasciarsi trascinare verso la politica del peggio con il pretesto di sanzionare un procedimento ritenuto scorretto, rischiando così di provocare il crollo del Mercato comune e facendo il gioco delle forze tendenti a indebolire l’Europa”, a cominciare dagli Stati Uniti (v. “Courrier Hebdomadaire du CRISP”, 1965, p. 2).

Dopo la decisione del generale de Gaulle di mettere in atto la politica detta “della sedia vuota” – a Bruxelles e a Lussemburgo – in seguito al fallimento, il 30 giugno 1965, del Consiglio dei ministri della CEE sul regolamento finanziario della politica agricola comune, il meccanismo comunitario si blocca. Spaak allora si presenta come un uomo desideroso di trovare un compromesso con la Francia. Respingendo qualsiasi idea di rappresaglie, suggerisce alcune formule per riprendere i contatti a Sei, arrivando a suscitare nei suoi confronti riserve appena dissimulate negli ambienti comunitari europei e anche nei gruppi militanti del Movimento europeo, con cui era solito apparire profondamente solidale. Tuttavia, l’atteggiamento belga beneficia, fra gli altri, dell’appoggio di “La Libre Belgique”, mentre in Francia “Le Monde” del 3 luglio 1965 afferma che «in definitiva, è in Belgio, e più precisamente in M. Spaak, che si trova il migliore avvocato delle tesi francesi!».

Non può che sorprendere la diversità d’atteggiamento fra il 1963 e il 1965, non solo da parte del ministro degli Esteri, ma anche del governo e della maggioranza parlamentare socialista e cristiano-sociale. Tuttavia la contraddizione è solo apparente, perché, dopo le dichiarazioni di Spaak del gennaio 1963, in cui si parlava di «diktat» e di «umiliazione» a proposito del comportamento gollista, è innegabile che l’atteggiamento del 1965 mira alla riconciliazione e al ritorno della Francia al tavolo dei negoziati, in altre parole è un’iniziativa conforme alla “dottrina”.

In questa prospettiva, il rilancio europeo all’Aia nel 1969 è l’occasione per illustrare le opinioni di Pierre Harmel, secondo il quale i paesi delle dimensioni del Belgio «non sono efficaci sul piano diplomatico, se non per il valore delle idee di cui [si fanno] veicolo» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 5). In effetti, nell’aprile 1970, si costituisce il Comitato Davignon (v. Davignon, Étienne), che riunisce i direttori degli affari politici dei Sei. L’ambizione non è quella di creare un’Europa politica di tipo federale, o anche confederale, ma di assicurare una concertazione a sei sui problemi politici d’interesse comune: conferenza sulla sicurezza, Medio Oriente, relazioni con l’Est, badando al tempo stesso – in particolare da parte belga – di non spingersi troppo lontano prima che l’adesione britannica divenga effettiva. Questo comitato di alti funzionari si organizza, in un primo tempo, nel quadro dei Sei, senz’altro fondamento che la volontà degli Stati, e prepara le riunioni dette di armonizzazione a livello di ministri degli Esteri. L’originalità del sistema consiste nel dare alla consultazione tra paesi un carattere vincolante e permanente su tutte le questioni importanti di politica estera.

Questo tipo di comitato non pone problemi di dottrina: non è neppure il segretariato politico di una qualsivoglia confederazione di futura creazione. Per alcune materie coperte dai Trattati di Parigi e di Roma, si assicura la cooperazione della Commissione europea, sollecita il parere della Commissione quando i suoi lavori comportano conseguenze sulla CEE e i suoi servizi. È una formula d’attesa che, pur preoccupando i fautori di un’Europa sovranazionale, consente di scongiurare il pericolo di vederli provocare una crisi, come era accaduto in occasione del Piano Fouchet.

Durante questo periodo il Belgio si prefigge diversi obiettivi: l’Unione economica e monetaria, l’Allargamento delle comunità, il passaggio al periodo definitivo per la CEE, la cooperazione pragmatica nell’ambito politico per portare l’Europa comunitaria a esprimersi con una sola voce in materie come la conferenza sulla sicurezza o la crisi in Medio Oriente. Infatti, per citare Étienne Davignon, che spesso paragona l’Europa a Tarzan, bisognava constatare che era dotata di «una morfologia abbastanza sviluppata, ma ancora piuttosto sommaria dal punto di vista dell’eloquio» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 6).

La cooperazione procede attraverso “conferenze al vertice”, con momenti forti e momenti deboli. Quello di Copenaghen, nel 1973, è giudicato severamente dalla Commissione senatoriale belga competente. A Parigi, nel dicembre 1974, vede la luce la formula nuova del Consiglio europeo, che devono consentire di globalizzare e politicizzare ulteriormente i dossier sottoposti alle decisioni del Consiglio dei ministri della CEE. Ma il Belgio accoglie in modo tiepido la formula dei “Vertici”, in quanto a suo avviso spesso si collocano al di fuori del quadro istituzionale dei trattati, rischiando di costituire delle sovrastrutture, con pratiche e meccanismi di decisione paralleli, che anche sotto l’apparenza degli obiettivi comuni indeboliscono il dinamismo dell’integrazione, erodono palesemente le istituzioni comunitarie, già fortemente logorate, minacciano dall’esterno e intaccano dall’interno l’Acquis comunitario.

All’incirca nello stesso periodo, la Costituzione belga è finalmente adattata alle realtà scaturite dall’interdipendenza e dalla costruzione europea. L’articolo 25 bis introdotto nel 1970-1971 recita: «L’esercizio di determinati poteri può essere attribuito da un trattato o da una legge a istituzioni di diritto internazionale pubblico».

Al tempo stesso, questa revisione assicura il trasferimento di importanti competenze nazionali alle regioni e alle comunità culturali. Questo significativo riassetto dei poteri e delle istituzioni del Belgio non è che il primo di una serie che trasformano il paese in Stato federale e, di conseguenza, attribuiscono alle entità federate competenze definite in materia europea (v. Kerremans, 2000).

È nell’ottica della ricerca di un equilibrio fra le posizioni rispettive di comunità e regioni, il cosiddetto “consenso alla belga”, che bisogna inquadrare le posizioni del Belgio nel settore delle politiche comuni. La crisi degli anni Settanta, attraverso l’inflazione, la minaccia che pesa sull’occupazione, la crisi energetica e le conseguenze del primo allargamento, ha dimostrato che il punto di non ritorno non era poi garantito così saldamente come si era creduto e che l’Europa doveva compiere una scelta politica fra la salvezza collettiva e le formule nazionali protezionistiche, o ancora che l’opzione riguardava un’unione europea profonda e «una perdita marcata di indipendenza, perfino di autodeterminazione»(v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 11).

In questo contesto il primo ministro belga Léo Tindemans è incaricato di elaborare un rapporto sull’Unione europea (29 dicembre 1975) (v. Rapporto Tindemans). In esso propone che questa sia costruita sulla duplice base delle istituzioni comunitarie, d’ispirazione sovrannazionale o federale, e della cooperazione politica, d’ispirazione intergovernativa o confederale, a condizione che esistano fra i due apparati legami sufficienti per «definire una visione politica comune, globale e coerente”. Criticato sia dai federalisti, che ritengono che il rapporto si allontani dallo schema Monnet, sia dai fautori della rigida separazione fra sfera economica e politica, il rapporto offre «una concezione d’insieme dell’Unione europea […] che ha prevalso nel corso del tempo» (v. de Schoutheete, 1986, p. 528).

Durante i tre decenni successivi al rapporto Tindemans, «la continuità del ruolo integrazionista assicurato dal Belgio nell’Europa del dopoguerra» (v. Kerremans, Beyers, 1998), inaugurato da Spaak, non viene smentita. Lo testimoniano i “successi” collezionati, in genere, nel corso delle presidenze del Consiglio dei ministri (11 volte fra il 1958 e il 2001).

Mentre il Belgio, come Stato, diviene federale nel 1980 e lo spazio europeo, agli occhi di alcuni, diventa ciò che consentirebbe alle regioni – che aspirano a un’autonomia sempre maggiore – di sbarazzarsi del livello nazionale, la politica europea mantiene tutto sommato una notevole coerenza nella continuità. Servita da validi diplomatici e funzionari della Banca nazionale o del ministero delle Finanze e degli affari economici, è seguita con estrema attenzione, talvolta perfino incentivata, anche dal primo ministro. I governi guidati dai cristiano-sociali fiamminghi di Wilfried Martens, negli anni Ottanta, e di Jean-Luc Dehaene, dal 1992 al 1999, poi dal liberale fiammingo Guy Verhofstadt dal 1999 al 2007, sembrano seguire la stessa linea europea. Una linea che è quella di un “eccellente allievo della classe europea”, sebbene per molto tempo questa valutazione non sia stata valida nell’ambito della trasposizione del diritto comunitario in diritto nazionale. Ed è proprio il caso di parlare, da questo punto di vista, di berretto d’asino.

Nell’Unione europea a Quindici il Belgio appare come uno degli Stati più favorevoli alla prosecuzione dell’integrazione, come dimostrano, per esempio, le prese di posizione a sostegno della cooperazione rafforzata, dell’Europa della sicurezza e della difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa), o ancora gli sforzi per ottemperare ai criteri di convergenza ed entrare nell’unione monetaria nel 1999. Agli occhi dei dirigenti belgi, l’allargamento a Est, preparato dall’adozione dei criteri di adesione da parte del Consiglio di Copenaghen del 1993, non dovrà attuarsi a scapito dell’“approfondimento”, cioè dello sviluppo di politiche comuni e del rafforzamento delle istituzioni comunitarie. Quest’orientamento federalista talvolta li mette in contrasto con altri governi, in particolare quelli dei paesi più grandi, che sono decisi a salvaguardare i loro margini di manovra. Così, nel 1994, la candidatura del primo ministro Jean-Luc Dehaene a presidente della Commissione europea, sostenuta dalla Francia e dalla Germania, fallisce a causa del veto del governo conservatore di Londra. Dieci anni dopo, Guy Verhofstadt andrà incontro alla stessa sorte. Il governo britannico sembra serbargli rancore per le sue prese di posizione all’epoca della crisi irachena, durante la quale si era mostrato reticente nei confronti della politica americana e della sua iniziativa di riunire a Bruxelles, il 29 aprile 2003, un vertice della “vecchia Europa”, per cercare di rilanciare la politica europea di difesa. Nel 2004 il primo ministro belga è di nuovo ostacolato dal fatto di non appartenere al Partito popolare europeo, che si conferma il gruppo più importante del Parlamento europeo dopo le elezioni di giugno (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo).

Per tutto il periodo che ha inizio a Maastricht (v. Trattato di Maastricht), la diplomazia belga è in prima linea nella battaglia per la riforma delle istituzioni comunitarie che precede le Conferenze intergovernative (CIG). È così nel 1996-1997, prima del Trattato di Amsterdam, nel 2000 prima del Trattato di Nizza e di nuovo nel 2003. Si tratta di pianificare il processo decisionale nella UE per renderlo più efficace e democratico, nella prospettiva dell’allargamento a venticinque, o anche a più paesi. Il governo belga si mostrato mostra favorevole a un accrescimento dei poteri del Parlamento europeo, che in effetti acquisisce nuove competenze a ogni Revisione dei Trattati. Auspica anche un rafforzamento della Commissione, che deve restare, a suo parere, «il motore della meccanica comunitaria», ma sembra avere qualche esitazione sul numero ottimale dei commissari. È favorevole anche all’estensione del voto a maggioranza qualificata, al Consiglio, che rappresenta una garanzia di sovranazionalità e passa attraverso una ponderazione dei voti nel Consiglio attribuiti a ciascuno Stato membro.

Nel 1997, prima ancora della firma del Trattato appena concluso, è il Belgio a prendere l’iniziativa di chiedere la riunione di una nuova CIG, per regolare i “punti irrisolti” di Amsterdam, cioè per trovare una soluzione alle questioni istituzionali rimaste in sospeso. Sostenuto dalla Francia e dall’Italia, ottiene una risposta positiva. Ma Nizza non riesce a regolare realmente i problemi. Per il Belgio, questo vertice rappresenta una doppia delusione. Da una parte, si scontra con i Paesi Bassi per la questione della ponderazione dei voti nel Consiglio, dove ne ottiene solo 12 contro i 13 del suo vicino (e 29 per ciascun paese “grande”), mentre in precedenza entrambi disponevano di 5 voti. Dall’altra, soprattutto, le decisioni prese dopo aspre contrattazioni non sembrano idonee a migliorare il funzionamento delle istituzioni, né il clima delle relazioni fra Belgio e Paesi Bassi, che nel 2005 sono turbate da una serie di incidenti, in seguito alle dichiarazioni del ministro degli Esteri e del vice primo ministro a proposito della “inconsistenza” del primo ministro olandese.

In questo contesto, il governo belga figura tra quelli che spingono per l’adozione di un nuovo metodo per riformare l’Unione europea. Assicurandosi il turno di presidenza dell’Unione europea nel secondo semestre del 2001, svolge un ruolo decisivo nella convocazione di una Convenzione europea incaricata di elaborare una costituzione. È il Consiglio europeo di Laeken, sotto la presidenza di Guy Verhofstadt, a decidere di mettere in cantiere la “Convenzione sul futuro dell’Unione europea”, che lavora a Bruxelles all’elaborazione del progetto di trattato costituzionale presentato nel 2004. Fra le tre personalità politiche a capo della Convenzione vi è l’ex primo ministro belga Jean-Luc Dehaene.

I voti negativi dei francesi e degli olandesi in occasione dei referendum organizzati nel 2005, in vista della ratifica del progetto di trattato costituzionale, sono per il Belgio un fulmine a ciel sereno. E nel momento in cui quella che non si configura come una crisi passeggera sollecita a trovare una soluzione, il primo ministro belga, in un manifesto politico presentato all’inizio di dicembre 2005, andando controcorrente, perora la causa degli Stati Uniti d’Europa. Così facendo, non si allontana dalla linea classica difesa dal Belgio. In occasione della sua presentazione, spiega che il manifesto costituisce una «sorta di protesta contro il fatto che nessuno sembra più orgoglioso di parlare d’Europa». E aggiunge: «è necessario far uscire l’Europa da questa spirale negativa degli ultimi mesi», offrire «un’alternativa al cinismo», tentare «un approccio più entusiasta, soprattutto tra i giovani che hanno votato “no” al trattato costituzionale». Perché oggi, continua il primo ministro, «gli uomini politici cercano di minimizzare l’integrazione europea», considerata talvolta come “un incubo”, “un insulto”, perché «tutto quello che va storto è colpa dell’Europa».

Denunciando il pericolo di perdere la direzione indicata dalla storia, il primo ministro belga ricorda che la direzione è quella della federazione, perché «tutti i paesi europei sono piccoli paesi». Quindi, «se l’Europa vuole avere un ruolo da svolgere, bisognerà integrarsi, come dimostra la storia americana».

In concreto, Verhofstadt propone la creazione di due cerchi concentrici di paesi. Da una parte, «un’organizzazione di Stati europei che vuole la pace e la stabilità» e, dall’altra, «un centro politico di paesi che condividano una politica socio-economica più coerente». Questo centro, questo nucleo, iniziatore degli Stati Uniti d’Europa, sarà composto dai paesi dell’“eurozona”, che fonderanno un governo socio-economico, investiranno nel progresso tecnologico, svilupperanno uno spazio di libertà, sicurezza e di giustizia e un esercito europeo.

Bisogna attribuire all’impegno europeo e all’attivismo del primo ministro Verhofstadt e del ministro degli Esteri Louis Michel, prima che questi diventi membro della Commissione Barroso (v. Barroso, José), quel che rappresenta una sorta di svolta in rapporto alla marcata prudenza dei loro predecessori, perché le “posizioni audaci”, perfino “poco diplomatiche”, dei due ministri li portano ad «impegnarsi in dibattiti senza concessioni» (v. De Winter, Türsan, 2001, p. 2).

In questo contesto, l’idea di un’Europa a due velocità non è affatto nuova. Il suo rilancio non suscita entusiasmo, se non, in una certa misura, nel Presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, che vi ritrova un’eco delle sue posizioni per la realizzazione di alcuni aspetti del Trattato. Per il resto, le reazioni sono negative o attendiste. Il 9 gennaio 2006, a Vienna, il cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel dichiara: «La Costituzione europea non è morta, ma non è in vigore» (“Die Presse”, 10 gennaio 2006). In altri termini, la questione posta alla presidenza austriaca mirava a verificare se questa avrebbe potuto rilanciare il processo di ratifica del trattato o ne avrebbe preparato l’atto di morte. Ma si può inquadrare la situazione anche in un’ottica più ottimistica, considerando che tutte le opzioni sono aperte: dall’organizzazione di un nuovo voto in Francia e nei Paesi Bassi alla rinegoziazione. In questo contesto, Schüssel ritiene “inopportuna” l’idea di un nucleo in un’Europa a due velocità, perché i paesi dell’Unione devono riflettere insieme sul suo avvenire. O, come sostiene il ministro degli Esteri austriaco, Ursula Plassnik, l’Europa deve passare dall’“autoanalisi” all’“autoterapia”.

È evidente che questo atteggiamento permette di guadagnare tempo, in attesa delle elezioni francesi e olandesi del 2007, in quanto le posizioni degli uni e degli altri appaiono contrastanti. I punti di vista di Chirac e Verhofstadt si scontrano con quelli del cancelliere tedesco Angela Merkel, per la quale far entrare in vigore alcune delle disposizioni della Costituzione tralasciando le altre, senza sapere che cosa ne sarà, metterebbe in pericolo l’equilibrio globale.

Se questa posizione attendista sia accompagnata da una riflessione, o addirittura da un lavoro in profondità, sul contesto generale è un interrogativo d’importanza capitale. Ora, a detta del primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker, che non ama a priori l’idea di un’Europa “a geometria variabile” o di un’Europa nocciolo duro, l’Europa è «in una fase di pausa piuttosto che di riflessione».

Quindi attendismo e anche deficit di quello che Jean-Claude Juncker denuncia come assenza del desiderio d’Europa. Nel giugno 2005, alla vigilia del referendum in Lussemburgo sul progetto di trattato – che rivela anch’esso un certo malessere – il primo ministro di questo piccolo paese, unito al Belgio da tanti legami, segnala che la sua generazione, l’ultima a conservare la memoria collettiva della Seconda guerra mondiale, è anche l’ultima per la quale la costruzione europea è un processo irreversibile destinato ad assicurare la pace. E, a proposito delle generazioni più giovani, per le quali questa memoria collettiva non esiste o ha acquisito lo status di storia museificata, si tratta di sapere quale Europa vogliamo a partire dal momento in cui sappiamo quello che non vogliamo più (v. Dumoulin, 2005, p. 31).

Quanto detto permette ora di trattare l’atteggiamento dell’opinione pubblica belga nei riguardi della costruzione europea. Se è ammissione generale che il Belgio è “un buon allievo dell’Europa”, in particolare per l’eccellente qualità del personale diplomatico incaricato delle questioni europee, un’altra costante è il relativo disinteresse dell’opinione pubblica per questi temi, addirittura l’assenza di considerazione per l’impatto della presenza delle istituzioni a Bruxelles.

Se pure, come si è già sottolineato, il voto sui trattati europei indica con chiarezza che nel Parlamento belga si è sempre trovata una maggioranza sostanziale a favore della costruzione comunitaria e che l’opposizione effettiva è stata in genere limitata, dai sondaggi d’opinione emerge mancanza di interesse, di informazione e di impegno. Nel 1973 i belgi considerati nel loro complesso sono, fra tutti i popoli europei, quelli meno interessati ai problemi della Comunità europea, meno informati di danesi, lussemburghesi o tedeschi, e si collocano in fondo alla lista dei sei paesi fondatori della Comunità circa l’atteggiamento favorevole. Una constatazione che non richiede rettifiche sostanziali nel corso del tempo (v. Bursens, 1999).

Come spiegava ai suoi tempi Jacques-René Rabier, inventore dell’Eurobarometro, i belgi non manifestano né ostilità, né una resistenza radicale al movimento di unificazione europea. La mancanza di informazione non può essere attribuita alle carenze dei media in materia. Si può tentare una spiegazione che mette in risalto quattro fattori: l’invecchiamento della popolazione, che comporta un allontanamento dalla vita socio-politica; la proporzione di lavoratori indipendenti, il cui comportamento politico risponde spesso a caratteristiche peculiari; l’allontanamento generalizzato del cittadino dalla res publica in un paese in cui, in generale, si ritiene che gli abitanti si preoccupino assai più delle realtà concrete e immediate che dei progetti di una certa ampiezza; il ruolo di polarizzazione dell’attenzione dell’opinione pubblica svolto dai problemi legati alla coabitazione di due grandi comunità linguistiche e culturali, fiamminga e francese, che compongono il Belgio.

A fronte dell’atteggiamento dell’opinione pubblica, l’importanza della presenza dell’Europa in Belgio può apparire paradossale, perché laddove i belgi la percepiscono in generale come una fonte di fastidio per la circolazione automobilistica, soprattutto in occasione dei Consigli, di rincaro dei prezzi degli immobili e di scontento per i vantaggi reali o presunti di cui beneficia la funzione pubblica europea, sia i media che gli ambienti politici, sociali ed economici interessati hanno fatto di “Bruxelles” il sinonimo del luogo in cui vengono prese le decisioni europee.

L’equazione che nel vocabolario assimila Bruxelles all’Europa, e viceversa, ha una storia, che inizia con un fiasco spettacolare. In quella che appare come una «cacofonia totale» (v. Spierenburg, Poidevin, p. 46), il 23 luglio 1952, si apre a Parigi la conferenza dei Sei destinata a decidere definitivamente sulla questione della sede della CECA. Il Belgio ha già proposto e ripropone la candidatura di Liegi, luogo simbolico sul piano del carbone e dell’acciaio, in seguito a una energica azione di Lobbying da parte delle forze vive della Cité ardente. A tal punto energica che il governo e il Parlamento belga si schierano ufficialmente a favore di questa candidatura. Quindi Paul van Zeeland, ministro degli Esteri, è costretto a rifiutare la proposta olandese, appoggiata dalla Germania e dal Lussemburgo, di scegliere Bruxelles.

La Conferenza di Parigi, alla fine, decide di non decidere e di adottare l’abile proposta del lussemburghese Joseph Bech di cominciare i lavori a Lussemburgo, lasciando la questione della sede provvisoriamente aperta.

Non sembra che a Bruxelles la delusione sia particolarmente cocente, dato che sul piano nazionale la questione è stata risolta a favore di Liegi, ma è opportuno precisare che tre anni dopo, quando le circostanze la faranno di nuovo salire alla ribalta dell’attualità, affermerà con più forza le sue ambizioni.

All’epoca della Conferenza di Messina, poi dell’apertura dei lavori del Comitato Spaak, Bruxelles, come le capita regolarmente, ha avviato imponenti lavori pubblici. Questa volta, l’obiettivo di questo cantiere perpetuo che è la capitale belga è la preparazione dell’Esposizione universale del 1958 e, al tempo stesso, la risposta alla pressione del traffico automobilistico che, come accade dappertutto, conosce un notevole incremento.

Le conseguenze immediate della Conferenza di Messina, insieme alla prospettiva dell’Expo ’58, hanno avuto senz’altro un ruolo determinante nella volontà di Bruxelles di svolgere ormai una funzione più definita nel contesto della piccola Europa.

La prima riunione dei capi delle delegazioni che compongono il comitato uscito dalla Conferenza di Messina, meglio conosciuto con il nome di Comitato Spaak, ha luogo il 9 luglio 1955 nella sede del ministero degli Esteri belga a Bruxelles. L’organizzazione del lavoro adottata esclude fin dall’inizio che le riunioni in seguito continuino a svolgersi nel ministero. Infatti le commissioni che vengono istituite dovrebbero lavorare dal martedì al venerdì di ogni settimana, a partire dal 22 luglio. Per questo motivo due immobili sono destinati ai lavori del comitato, prima che quelli della conferenza preparatoria dei Trattati di Roma si tengano al castello di Val Duchesse dal giugno 1956 al marzo 1957. Sempre a Val Duchesse, nel 1957, si svolgono le riunioni del comitato provvisorio istituito a Roma in occasione della firma dei trattati.

Per quanto riguarda la sede, la decisione è rinviata fino all’ultimo, come nel 1952. A Parigi, il 6 e 7 gennaio 1958, viene affrontata la questione. E si decide di non decidere. L’assemblea si riunirà a Strasburgo, la Commissione a Bruxelles o a Lussemburgo. Quindi i Sei, contrariamente all’intenzione di insediare le istituzioni in un unico luogo, si ritrovano con tre “capitali”.

Il governo belga, e senz’altro parte dell’opinione pubblica, sono molto delusi dall’atteggiamento francese. Quindi la questione del comportamento francese in merito al problema della sede sarà spesso argomento di conversazione fra i diplomatici belgi attivi a Parigi e i responsabili francesi, sia prima che dopo il ritorno al potere del generale de Gaulle. Sotto questo aspetto, l’ambasciatore del Belgio a Parigi ritiene che l’importante sia guadagnare tempo.

Nei mesi successivi, l’ambasciatore o i suoi collaboratori incoraggiano Bruxelles a trarre vantaggio dalla situazione esistente che tende a diventare ogni settimana che passa sempre più permanente. Così, in previsione dei colloqui franco-belgi del 12 settembre 1958, l’ambasciatore raccomanda di non affrontare la questione, in modo da non provocare un’opposizione formale. In compenso, giudica auspicabile compiere un passo con Bonn, affinché il cancelliere non faccia promesse contrarie ai desideri del Belgio all’interno di un accordo generale franco-tedesco. Il ministro degli Esteri, Pierre Wigny, al corrente del punto di vista di Konrad Adenauer, che non intende cedere a nuove rivendicazioni di de Gaulle, in particolare per quanto concerne la capitale dell’Europa, non tiene conto di questi consigli. L’11 settembre, prima con Maurice Couve de Murville e poi con de Gaulle, affronta la questione della sede ed espone i suoi argomenti, alcuni dei quali avrebbero potuto provocare la collera dei fiamminghi. Oltre agli argomenti noti, infatti – Parigi è la capitale di una grande potenza, è già sede della NATO, dell’UNESCO, dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) – Wigny afferma che Bruxelles, come sede delle istituzioni, avrebbe potuto rendere alla Francia il servizio supplementare di francesizzare in qualche modo queste organizzazioni.

Al tempo stesso, Wigny cerca di convincere i lussemburghesi. Il 4 settembre 1958 ha un lungo incontro con Bech e gli comunica che se il Lussemburgo “cedesse” la CECA, il Belgio lo appoggerebbe nelle compensazioni, come per esempio l’Università europea. Mettendo in guardia il suo interlocutore dall’adottare una politica attendista, di cui altri partner, a cominciare dall’Italia, si avvantaggerebbero in materia di compensazioni che invece si potrebbero far prevalere in favore del Lussemburgo, Wigny subisce un rifiuto che Bech rinnova nel 1960.

Le considerazioni esposte finora consentono di sottolineare un punto essenziale. L’assenza di decisione fra i Sei in merito alla questione della sede, a partire dal 1958, permette di capire meglio che Bruxelles, per il suo status provvisorio, non è stata oggetto di piani a lungo termine per quanto riguarda l’insediamento dell’amministrazione europea, la quale si è installata in maniera disordinata fino al progetto di creazione di un quartiere europeo.

Nel 1958 la dispersione dei servizi amministrativi delle Commissioni CEE ed Euratom pone un problema facilmente comprensibile. Si impone quindi una centralizzazione. Nel 1961 inizia la costruzione di un enorme edificio noto con il nome di Berlaymont, che è concluso nel 1969. Fra queste due date, è stato firmato il Trattato di fusione. D’altronde, l’annuncio del ritiro della Francia dall’organizzazione militare dell’Alleanza atlantica da parte di de Gaulle, nel marzo 1966, spinge il governo belga a muoversi nella prospettiva di accogliere lo SHAPE in Belgio e poi il Consiglio atlantico a Bruxelles.

Dal principio degli anni Settanta, e parallelamente agli allargamenti successivi, l’aumento del numero degli impiegati legati al ruolo europeo e internazionale di Bruxelles non ha subito flessioni. Terza città di congressi nel mondo, sede di 419 missioni diplomatiche nel 2003, Bruxelles offrirà, due anni dopo, 100.000 impieghi, su un totale di 62.500, legati più o meno direttamente alle istituzioni europee, ossia 25.050 funzionari permanenti e temporanei, 8500 persone occupate in settori vicini (missioni diplomatiche, rappresentanze di città e regioni, giornalisti) e 67.000 impieghi indiretti.

A causa delle esigenze sempre nuove e indubbiamente anche per il fatto di non aver beneficiato per molto tempo dell’autonomia necessaria, essendo oggetto degli interessi fiamminghi e francofoni, Bruxelles, se si dà credito ad un numero consistente di osservatori, è stata letteralmente lasciata in balia dei promotori immobiliari e dell’assenza di una visione d’insieme circa il suo sviluppo.

Certo, l’Atelier de Recherche et d’Action Urbaine (ARAU) nasce nel 1968, seguito nel 1974 da Inter-Environnement Bruxelles, per rivendicare una prospettiva che sia oggetto di concertazione e di scelte democraticamente condivise in materia di urbanistica e di piani di sviluppo del territorio. Ma purtroppo sembra legittimo affermare che la “bruxellizzazione”, termine che designa uno smembramento urbano intenso a favore delle attività economiche, è proseguita. Alcune delle voci più critiche parlano di una “colonizzazione di Bruxelles da parte dell’Unione europea”.

Così, mentre l’“eurosfera” si sviluppa, veicolando immagini e pregiudizi generalmente poco favorevoli nella popolazione di Bruxelles, che critica lo status e la fiscalità privilegiati di cui beneficiano gli eurocrati, come pure le rivendicazioni che costoro formulano in materia di scuole, asili, ecc., la pressione sulle autorità locali, e perfino nazionali, è molto pronunciata.

A questo proposito, sono importanti gli anni che seguono le prime elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale nel 1979.

Il 20 novembre 1980, il Parlamento invita gli Stati membri a definire finalmente la sede delle istituzioni comunitarie. Il 7 luglio dell’anno seguente, decide di tenere le sue sedute plenarie a Lussemburgo e le riunioni delle Commissioni a Bruxelles. Una decisione che il governo lussemburghese impugna di fronte alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), avendo causa vinta e ottenendo l’accordo dei governi dei Dieci sul congelamento dell’insediamento delle istituzioni europee.

Di fatto è all’opera un lavoro sotterraneo: in particolare, i conservatori britannici ne sarebbero i principali artefici. Nell’ottobre 1985 uno di loro, il deputato Peter Price, presenta un nuovo progetto di risoluzione che viene adottato dal Parlamento.

Nel 1988, il deputato conservatore britannico Derek Prag prepara un rapporto dedicato al Parlamento, che la sua commissione politica adotta il 1° dicembre. Il 18 gennaio 1989, dato che quasi tutti i gruppi politici dell’assemblea hanno lasciato libertà di voto ai loro membri, i deputati adottano il rapporto in cui si chiede che, oltre alle sessioni ordinarie a Strasburgo, il Parlamento possa tenere delle sessioni speciali a Bruxelles.

Nello stesso anno Bruxelles diventa la Région de Bruxelles-Capitale. Il 18 ottobre, l’esecutivo regionale annuncia la sua volontà di realizzare un piano regionale di sviluppo, che sarà portato a termine tra il giugno 1992 e il marzo 1995.

Mentre il governo belga mantiene un silenzio assoluto, vengono messe in atto contemporaneamente “manovre politiche provenienti da Strasburgo per presentare Bruxelles come una città infernale”. Nel marzo 1990, l’annuncio dell’intenzione di costruire un nuovo emiciclo a Strasburgo, e le minacce di Roland Dumas di bloccare qualsiasi decisione sulle sedi di future istituzioni se non viene riaffermata solennemente la vocazione di Strasburgo come sede del Parlamento, avvelenano il clima. Queste manovre inducono l’ufficio del Parlamento, il 14 marzo, a pronunciarsi per il mantenimento di dodici sessioni ordinarie a Strasburgo.

Nel 1991, la questione della sede del Parlamento sembra mescolarsi a manovre che coinvolgono il problema della sede della Commissione. Nel gennaio 1991, durante la guerra del Golfo, il Parlamento tiene una seduta plenaria a Bruxelles che i francesi decidono di boicottare. In febbraio, il Bureau allargato decide di tenere d’ora in poi una “seduta di lavoro”, aperta a tutti i deputati, ogni mercoledì a Bruxelles.

A Maastricht si decide ancora una volta di non prendere decisioni, perché fallisce il tentativo di mediazione di Giulio Andreotti, orientato a inserire nel nuovo trattato un protocollo relativo alla sede definitiva del Parlamento, del Consiglio e della Commissione. Nel 1992, a Edimburgo, Bruxelles è confermata nel suo status di sede della Commissione e del Consiglio, mentre Strasburgo resta la sede del Parlamento dove si terranno dodici sessioni plenarie all’anno; le sessioni supplementari avranno luogo a Bruxelles.

Michel Dumoulin (2009)




Bulgaria

La tradizionale immagine della Bulgaria comunista presso l’opinione pubblica occidentale ha rappresentato un paese sempre rigidamente allineato sulle direttive sovietiche, monolitico nella sua struttura politica (al punto che nel gergo politico italiano la parola “bulgaro” indica il forzato unanimismo) e impiegato dai servizi di sicurezza sovietici per compiere missioni “sporche”, come l’esecuzione di dissidenti esuli in Occidente o persino l’attentato al pontefice del 1981. Al di là degli stereotipi, la lunga vicenda della Bulgaria durante il socialismo reale appare molto più complessa e articolata. La Bulgaria ha ricevuto, anche dalla più recente storiografia sul comunismo, minore attenzione rispetto ad altri casi nazionali come quello dell’Ungheria, della Polonia, della Cecoslovacchia (v. Repubblica Ceca; Slovacchia), della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) (v. Germania; Riunificazione tedesca), della Romania, per non parlare delle eresie iugoslava e albanese. Questo perché, a differenza di tutti questi casi, il comunismo bulgaro non ha mai sofferto una profonda crisi interna di consenso (Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, RDT) né si è particolarmente distinto come caso di “comunismo nazionale” in polemica con Mosca (Romania) o addirittura eterodosso (Iugoslavia, Albania). Il caso bulgaro mostra tuttavia alcune caratteristiche peculiari che occorre ricordare per comprendere il successivo processo che ha portato il paese, a circa un ventennio dalla caduta del regime monopartitico, alla piena integrazione nell’Unione europea (v. anche Integrazione, metodo della). Dopo il periodo di Gheorghj Dimitrov, che fu un dirigente del comunismo internazionale e costruttore della Bulgaria stalinista a partire dal 1944, la leadership del partito comunista e quindi del paese venne mantenuta da Todor Živkov ininterrottamente dal 1956 al 1989. Egli fu un tipico prodotto del processo di destalinizzazione voluto da Chruščëv in Europa orientale dopo la morte di Stalin e con il XX congresso del PCUS. Živkov fu capace di condurre per decenni una linea politica moderata, pragmaticamente allineata ai voleri di Mosca. È ancora oggetto di controversia storiografica se la breve stagione ai vertici della politica culturale del paese della figlia del segretario generale, Ljudmila Živkova (scomparsa prematuramente nel 1981), avrebbe potuto o meno trasformarsi in una stagione di liberalizzazione. Caduto l’anziano leader per una sollevazione all’interno dello stesso partito comunista, l’eredità di Živkov aveva consegnato al paese un partito post-comunista profondamente radicato e pragmatico: già dal settembre del 1990 veniva rinominato Partito socialista bulgaro sebbene l’adesione all’Internazionale socialista sarebbe arrivata solo nel 2003. Dopo il 1989 si formò un sistema politico che compì in tempi più rapidi rispetto ad altri paesi (come la Romania) una decisa scelta europeista. Sin dal formarsi del multipartitismo (l’emendamento costituzionale che aboliva il ruolo guida del partito comunista venne adottato all’inizio del 1990), tutte le principali forze politiche convergevano sulla necessità di integrare la Bulgaria nelle strutture di sicurezza, politiche ed economiche occidentali in modo da garantire al paese il “ritorno in Europa”.

Le relazioni ufficiali con la Comunità europea si stabilivano in Bulgaria al crepuscolo del regime comunista, a partire dall’agosto del 1988. Già dal maggio del 1990, alla vigilia delle prime elezioni multipartitiche che avrebbero visto a giugno l’imprevista vittoria del partito comunista, il governo Lukanov concludeva un accordo commerciale con la Comunità economica europea (CEE). Nella crisi del Comecon la dirigenza postcomunista ritenne opportuno orientare il commercio bulgaro verso l’Occidente. L’accordo di associazione con la Comunità del marzo 1993 apparteneva alla seconda generazione degli accordi associativi, che contenevano nella loro strutturazione un esplicito quadro politico-istituzionale indirizzato al processo di integrazione europea. Nell’accordo si definiva una prima impalcatura del dialogo politico tra la Bulgaria e l’Unione europea, nonché dell’assistenza tecnica e finanziaria al processo di integrazione, ad esempio con il Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (PHARE), poi Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD) e ISPA (Instrument for structural policies for pre-accession); si estendevano inoltre le aree del libero scambio tra l’Unione e la giovane democrazia. Il 14 dicembre del 1995 la Bulgaria presentava una formale richiesta di adesione all’Unione europea. Il bilancio degli anni Novanta mostra da un lato la crescita esponenziale dei rapporti economici bulgaro-europei, dall’altro la delusione del paese per l’esclusione, al Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre del 1997, dal primo round di negoziati per il pieno ingresso nell’Unione. Nel gennaio del 1995, in forza dell’accordo di associazione, venivano a cadere le barriere alle esportazioni industriali bulgare nell’Unione; analogamente, all’inizio del 1997 cadevano le restrizioni sulle esportazioni di metalli. Da un punto di vista generale vi fu un aumento deciso delle esportazioni, incluse quelle agricole, nonostante non facessero parte dell’accordo di libero scambio. Il ritorno al potere nell’aprile del 1997 dell’Unione delle forze democratiche (all’epoca il principale cartello di forze politiche di opposizione al governo socialista) produsse, secondo molti osservatori, un effetto estremamente positivo sulle opzioni di integrazione del paese. Arrivato al potere dopo una profonda crisi economica e monetaria negli anni 1995-1997, il nuovo governo attuò quelle riforme strutturali che l’Unione europea riteneva indispensabili per iniziare le trattative per il recepimento dell’Acquis comunitario. Il governo di centrodestra guidato da Ivan Kostov adottò politiche estremamente impopolari che ridussero e appianarono il consistente deficit statale, stabilizzarono il quadro macroeconomico (sviluppo delle infrastrutture e privatizzazioni delle aziende di Stato) e semplificarono il contesto politico e amministrativo (fu ad esempio adottata una drastica riduzione dei ministeri). Occorre aggiungere che, nella valutazione della decisione dell’Unione europea (dicembre 1999) di aprire ufficialmente all’inizio dell’anno successivo i negoziati con la Bulgaria, alcuni analisti scorsero una conseguenza degli assetti scaturiti dalla crisi internazionale del Kosovo.

La necessità di includere velocemente la Bulgaria nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), anche di fronte a una ripresa del ruolo internazionale della Russia di Vladimir Putin, spinse i governi occidentali ad “incentivare” il governo bulgaro attraverso l’offerta dell’inizio dei negoziati per l’adesione all’UE. Come in altri casi si saldava una relazione tra l’appartenenza europea e quella alla NATO. La metà degli anni Novanta era stata infatti segnata in Bulgaria da un complesso dibattito sulle scelte strategiche del paese in cui, anche all’interno dei socialisti allora al potere, non mancavano voci decisamente neutraliste se non filorusse. Si era fatta strada la convinzione, diffusa anche in Romania, che una doppia esclusione, tanto dall’Unione europea quanto dalla NATO, avrebbe relegato i due paesi in una “zona grigia” geopolitica tra l’Europa occidentale e la Russia. In pratica un “doppio fallimento” avrebbe definitivamente allontanato i due paesi balcanici dal contesto euro-atlantico e quindi dall’Occidente. Durante il ritorno dei socialisti al potere (1994-1997) le tendenze neutraliste erano forti nella coalizione di governo: l’opzione di una nuova “alleanza orientale” con la Russia non era più completamente fuori dall’agenda politica. Fu anche in questo caso il governo dell’Unione delle forze democratiche ad imprimere una decisa svolta filo-atlantica alla politica estera bulgara nel corso del 1997. La piena adesione alla NATO sarebbe tuttavia giunta soltanto successivamente. Le oscillazioni della politica bulgara nel corso degli anni Novanta e l’approccio selettivo e gradualista dell’Alleanza atlantica e dell’amministrazione di Bill Clinton esclusero Bulgaria e Romania dal primo allargamento a Est, concretizzatosi subito dopo la guerra del Kosovo nel vertice NATO di Washington nell’aprile del 1999. Il cambio di amministrazione negli Stati Uniti e gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 interruppero brevemente il processo; con il Vertice di Praga del novembre 2002 (v. anche Vertici) sarebbe giunto l’invito ufficiale all’adesione, che si sarebbe realizzata per la Bulgaria nel corso del 2004.

Dal punto di vista del vero e proprio processo di integrazione definitosi attraverso le trattative tra l’Unione europea e la Bulgaria sul complesso recepimento dei criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione), e in particolare dei capitoli dell’acquis comunitario, il cammino bulgaro è stato difficile e accidentato. Se nei primi rapporti della Commissione europea, prima e dopo l’avvio ufficiale dei negoziati per l’adesione, l’attenzione si focalizzava sulle debolezze strutturali dell’economia bulgara, nei rapporti successivi le maggiori preoccupazioni riguardavano gli affari interni e la giustizia. Nel primo rapporto della Commissione dopo la presentazione ufficiale della candidatura bulgara, rilasciato il 15 luglio 1997, si descriveva la sostanziale stabilità delle istituzioni democratiche bulgare nonché il pieno rispetto dei diritti della minoranza turca e delle altre minoranze nazionali. Molto più preoccupante era la situazione economica anche, e soprattutto, a causa della crisi monetaria che aveva prodotto nel 1996 una recessione percentuale di 10 punti. Le politiche economiche del primo quinquennio di democrazia post-comunista venivano definite nel rapporto della Commissione come fortemente limitate e incapaci di realizzare la costruzione dell’economia di mercato. Si esprimevano tuttavia apprezzamenti per gli intendimenti riformatori del nuovo governo. In sintesi, la Commissione europea riteneva che la Bulgaria soddisfacesse i criteri politici, ma fosse profondamente carente nelle politiche economiche e non avesse sostanzialmente recepito i capitoli dell’acquis in alcuni settori (soprattutto ambiente, agricoltura, giustizia e trasporti) dove apparivano gravi ritardi strutturali. Nonostante il linguaggio burocratico («La Commissione dovrebbe aprire i negoziati con la Bulgaria nel momento in cui essa abbia compiuto sufficienti progressi nel soddisfare i criteri di adesione definiti dal Consiglio europeo di Copenaghen») il rapporto rappresentava una decisa bocciatura per le speranze di Sofia.

Il rapporto dell’8 novembre del 2000, tre anni dopo l’inizio del processo riformatore apertosi con le elezioni del 1997, mostrava un quadro nettamente differente e migliore. Le strutture della cooperazione bulgaro-europea si erano ulteriormente rafforzate. il Consiglio di associazione, i comitati tecnici ed economici, le relazioni interparlamentari avevano compiuto una intensa attività in un quadro di integrazione economica e cooperazione ulteriormente rafforzato (oltre la metà del commercio estero bulgaro era ormai diretto verso l’UE). Dal punto di vista politico e della qualità democratica, si esprimeva soddisfazione per le riforme intraprese, ma anche preoccupazione per la popolazione rom. Si dedicava molta attenzione nel rapporto alla questione della complessiva debolezza strutturale del potere giudiziario nel sistema bulgaro. La valutazione sulla costruzione dell’economia di mercato era marcatamente positiva per i processi di stabilizzazione compiuti. Il recepimento dei capitoli dell’acquis mostrava una forte accelerazione da parte dello Stato balcanico. Nello specifico delle politiche pubbliche, il sistema giudiziario emergeva come il punto più critico. La forte corruzione, la penetrazione della criminalità organizzata nonché la forte instabilità politica gettavano, all’inizio del decennio, molte ombre sulla possibilità di integrazione del paese. L’instabilità sconvolgeva il panorama politico bulgaro con la vittoria elettorale, nel 2001, dell’ex monarca Simeone II con un movimento politico “personale” che sconfiggeva i partiti tradizionali. Il rapporto della Commissione del 6 ottobre 2004 da un lato dichiarava come l’ordinamento giudiziario avesse cominciato a rafforzarsi nel budget e nella capacità operativa, dall’altro lamentava la grande penetrazione della corruzione nella sfera pubblica. L’economia, dopo il disastro degli anni 1996-1997, mostrava indici positivi con una crescita annua tra i 4 e i 5 punti percentuale: la Bulgaria presentava, nelle parole del rapporto, una economia di mercato funzionante. I capitoli dell’acquis venivano provvisoriamente a essere chiusi con una buona valutazione, sottolineando la richiesta di un maggiore impegno nella lotta anti-corruzione. L’obiettivo dell’accesso nel 2007 si concretizzava definitivamente con il rapporto del 26 settembre 2006. l’Unione europea, nonostante il rapporto 2004 avesse chiuso i negoziati e i trattati di adesione fossero stati firmati nel corso del 2005, aveva posposto fino agli ultimi mesi dell’anno la decisione finale sull’ingresso di Bulgaria e Romania. L’Unione aveva infatti sospeso il via libera per poter verificare che i due paesi realizzassero entro la data dell’adesione (1° gennaio 2007) alcune misure urgenti. In caso contrario il Consiglio europeo avrebbe ritardato di un anno l’ingresso dei due nuovi Stati membri. I punti più critici per i bulgari erano la debolezza del sistema giudiziario, la lotta alla corruzione, la cooperazione di polizia e la lotta al crimine organizzato, la lotta al riciclaggio di denaro, il controllo amministrativo in agricoltura e la prevenzione dell’encefalite spongiforme bovina. Il rapporto sugli sforzi compiuti dalla Bulgaria nel breve intervallo di tempo tra il maggio e l’ottobre del 2006 mostrava che il paese aveva intrapreso passi positivi in ciascuna di queste politiche pubbliche. Il sistema giudiziario era stato riformato con regole certe sulle nomine dei giudici e miglioramenti delle procedure penale e civile; nella lotta alla corruzione erano stati adottati provvedimenti per la trasparenza dell’attività dei partiti e delle proprietà degli uomini politici, così come un deciso impulso era stato dato alle inchieste giudiziarie sulla corruzione e il crimine organizzato; per quanto riguarda le funzioni amministrative nelle politiche agricole, la Bulgaria aveva pressoché completato i sistemi di controllo dei fondi e il sistema di identificazione fondiario. Nonostante la necessità di ulteriori progressi, l’Unione europea accoglieva così la Bulgaria al suo interno all’inizio del 2007, utilizzando le clausole di salvaguardia consentite dal trattato di accesso (come la possibilità demandata agli Stati membri di sospensione della libera circolazione dei lavoratori). Tra gli ambiti dove l’Unione richiedeva un ulteriore sforzo e si impegnava a esercitare un’attività di monitoraggio vi era quello delle riforme istituzionali, affinché risultasse rafforzata l’indipendenza del potere giudiziario.

La riforma costituzionale è stata in Bulgaria un processo molto complesso. Come tutte le costituzioni dell’Europa orientale, fortemente basate sull’intangibilità della sovranità nazionale, si è resa necessaria un’opera emendativa per consentire la compatibilità con il diritto comunitario e le istituzioni comunitarie. Tuttavia è prevedibile che le riforme costituzionali continueranno per garantire la necessaria quota di cessione di sovranità all’Europa.

In conclusione, la vicenda della Bulgaria è quella di un paese che, seppure tra forti ritardi strutturali e fasi di instabilità politica ed economica, ha perseguito con determinazione e pragmatismo l’obiettivo dell’integrazione europea. Oggi il paese è governato da una “grande coalizione” tra i socialisti, il partito della minoranza turca e i monarchici di Simeone II, e la permanenza in Europa sembra essere un obiettivo condiviso dalle classi dirigenti bulgare. Ha prodotto tuttavia una forte inquietudine in Europa il fatto che alle ultime elezioni presidenziali abbia raggiunto il turno di ballottaggio un candidato ultranazionalista.

Daniel Pommier Vincelli (2009)




Cipro

Alla fine della Seconda guerra mondiale la popolazione di Cipro, all’epoca colonia britannica, si aspettava l’applicazione del diritto di autodeterminazione, con l’obiettivo manifesto di raggiungere l’unificazione dell’isola con la Grecia. Il governo di Ankara si opponeva a tale eventualità che riteneva contraria ai propri interessi e a quelli della popolazione turca dell’isola, discendente dai funzionari ottomani o dai greci islamizzati nel periodo di occupazione ottomana (1571-1878). Durante la lotta anticoloniale degli anni 1955-59 l’organizzazione segreta Ethniki organosis Kyprion agoniston (EOKA), composta da greco-ciprioti, combatté contro gli inglesi usando armi importate clandestinamente dalla Grecia per ottenere l’unione con la madrepatria (enosis). Molti turco-ciprioti furono astutamente impiegati dalle forze coloniali inglesi nei ranghi della polizia con l’incarico di identificare i guerriglieri catturati e torturarli per ottenere informazioni sull’organizzazione dell’EOKA. Ciò fu alla base dell’aumento nella tensione fra le due comunità cipriote, quella greca, a cui apparteneva l’82% della popolazione, e la restante minoranza turca. Da parte turca, nel 1958 venne fondata l’organizzazione per la resistenza turca Türk mukavemet teskilati (TMT) con l’obiettivo di contrastare gli intenti dell’EOKA e di agire in favore della divisione dell’isola fra la Grecia e la Turchia (taksim), un’ambizione della seconda nota dagli anni Quaranta. Tuttavia, dal momento che i turco-ciprioti erano sparsi in tutta l’isola, l’opzione di una provincia esclusivamente turco-cipriota non sembrava possibile senza trasferimenti di popolazione.

Neppure in sede ONU la soluzione dell’unione con la Grecia risultò condivisibile, perciò l’arcivescovo Makarios, il leader dei greco-ciprioti, accettò la proposta inglese di indipendenza, soprattutto perché sia gli inglesi che i turco-ciprioti minacciavano l’alternativa della divisione dell’isola tra greci e turchi, con i conseguenti spostamenti di popolazione. L’11 febbraio 1959 a Zurigo fu siglato l’accordo fra Grecia e Turchia sul futuro di Cipro, mentre il 19 febbraio gli stessi paesi, insieme con il Regno Unito e i rappresentanti delle comunità greca e turca dell’isola, decisero, durante la Conferenza di Londra, l’istituzione di una Repubblica Cipriota (RC) indipendente, la cui costituzione sarebbe stata preparata da un esperto svizzero imparziale, includendo la clausola che sia l’unione con la Grecia che quella con la Turchia, nonché la divisione dell’isola, sarebbero state proibite. Tre ulteriori trattati furono incorporati negli articoli della Costituzione: un patto di garanzia con il quale Gran Bretagna, Grecia e Turchia dichiaravano di agire come garanti dell’indipendenza cipriota; un trattato di istituzione che sancì la presenza di basi militari (a Dhekelia e Episkopi) e altri privilegi per gli inglesi a Cipro; un trattato di alleanza che prevedeva la presenza sull’isola di forze militari greche e turche. L’indipendenza di Cipro fu quindi proclamata il 16 agosto 1960. Il nuovo Stato ebbe una nuova bandiera, ma non un proprio inno nazionale.

Durante i primi due anni dell’indipendenza la normale funzione della RC fu ostacolata dalla mancanza di intesa e cooperazione fra le politiche dei greci e dei turchi che partecipavano al governo e all’amministrazione in proporzioni che non corrispondevano a quelle effettive delle due comunità nella popolazione. Nonostante i turco-ciprioti costituissero il 18% della popolazione contro l’82% dei greco-ciprioti, ai primi la Costituzione riservava il 30% dei seggi parlamentari e degli incarichi nell’amministrazione pubblica e addirittura il 40% nelle forze dell’ordine e in quelle armate. La RC doveva avere un presidente greco e un vice-presidente turco, entrambi eletti a suffragio universale dalle rispettive comunità, per la durata di cinque anni. Nel 1963 Makarios, eletto come primo Presidente, propose al vicepresidente turco Fazil Küçiük 13 emendamenti alla Costituzione per facilitare l’assunzione di decisioni a livello amministrativo, fra cui l’abolizione del diritto di veto presidenziale e vicepresidenziale che ostacolava la legiferazione, l’introduzione del voto a maggioranza congiunta nella legislatura, l’unificazione delle municipalità e del sistema giudiziario, la rettifica delle proporzioni di partecipazione comunitaria all’amministrazione. La Turchia condannò le proposte, minacciando un’azione militare se queste fossero state introdotte, provocando così la ripresa degli scontri fra EOKA e TMT. Come conseguenza, i turco-ciprioti abbandonarono il governo e le cariche che ricoprivano nella pubblica amministrazione e nella polizia, per istituire un’amministrazione parallela a Nicosia nord. Da allora solo cittadini greco-ciprioti partecipano alle istituzioni statali. Con la mediazione inglese fu decisa una tregua agli scontri armati tra i due movimenti di guerriglia e la costruzione di una barriera fra il quartiere greco e quello turco della capitale, conosciuta come “linea verde”. Il 4 marzo 1964 venne costituito un corpo militare internazionale dell’ONU (UNFICYP) con l’incarico di salvaguardare la pace sull’isola. Il mandato iniziale sarebbe dovuto durare sei mesi, ma da allora a oggi è sempre stato rinnovato. Nonostante la presenza del contingente ONU sull’isola, nei primi sei mesi del 1964 le reciproche aggressioni causarono 600 vittime complessive tra greci e turchi.

Intanto la Turchia si serviva dell’enclave turca di Kokkina, cittadina sulla costa nord-ovest dell’isola, per sbarcare armi e provviste per i guerriglieri della TMT. In conseguenza di ciò, nell’agosto del 1964, Kokkina fu attaccata dalla Guardia nazionale di Cipro, composta esclusivamente da greco-ciprioti, e per rappresaglia alcuni giorni dopo aerei turchi bombardarono pesantemente con il napalm i vicini villaggi greci. La guerra fra Grecia e Turchia fu evitata a stento grazie all’intervento dell’ONU, ma ogni residua fiducia tra le due comunità era ormai perduta. Nel 1968 iniziarono negoziati intercomunitari sotto la direzione dell’ONU, che si trascinarono fino al 1974. Il 15 luglio 1974 la giunta dei colonnelli, al potere dal 1967 ad Atene, organizzò un colpo di Stato per destituire Makarios e annettere Cipro alla Grecia. Cinque giorni dopo, le forze militari di Ankara misero in atto l’invasione di Cipro che provocò l’immediato spostamento di 165 mila greco-ciprioti dal nord al sud e di 45 mila turco-ciprioti nella direzione opposta. In una seconda avanzata, conclusa alla fine di agosto del 1974, le truppe turche arrivarono ad occupare il 37% del territorio di Cipro. Al nord rimasero 20 mila greci a cui vennero negati i basilari diritti di libertà di movimento, culto, istruzione e lavoro (oggi ne permangono solo circa 600). L’invasione turca realizzò così la divisione della popolazione creando due parti omogenee in quanto a nazionalità degli abitanti, progetto alla base dei piani espansionistici turchi.

Nel febbraio 1975, nel territorio occupato dalle forze militari turche, fu proclamato lo Stato federato turco di Cipro; nel novembre 1983, unilateralmente e senza alcun riconoscimento internazionale, eccetto che quello della Turchia, fu proclamata la Repubblica turca di Cipro del Nord (RTCN), un modo per mascherare la diretta responsabilità della Turchia come forza di occupazione militare e di controllo effettivo di una parte della legittima RC. Intanto il governo della RC protestava nei consessi internazionali contro le procedure seguite dai turchi per l’espulsione dei greco-ciprioti rimasti al nord, contro l’insediamento di numerosi turchi anatolici nella cosiddetta RTCN, fatto che stava modificando l’equilibrio demografico complessivo dell’isola, e contro gli atti vandalici a danno degli edifici religiosi cristiani nei territori occupati. Dal 1974 numerose risoluzioni dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali, compresa la Comunità economica europea (CEE), chiedevano l’immediato ritiro delle truppe turche dal territorio cipriota, il ritorno dei profughi alle loro proprietà, chiarezza sulla sorte delle persone disperse durante l’invasione turca e il ripristino dell’autorità della RC su tutta l’isola. Tuttavia, molte potenze internazionali continuano a considerare il problema della divisione di Cipro come una disputa intercomunitaria fra i greco-ciprioti e i turco-ciprioti e non come una situazione di illegittima invasione e occupazione di una parte dello Stato cipriota dalla Turchia.

L’occupazione militare del 37% del complessivo territorio cipriota privò l’economia dell’isola del 70% della sua capacità produttiva nell’agricoltura, nell’industria, nelle risorse minerarie e negli stabilimenti turistici. Tuttavia, durante il primo decennio seguito ai tragici avvenimenti dell’estate del 1974, la RC riuscì a far resuscitare la propria economia, arrivando nel 1988 al superamento della soglia indicata dalla Banca mondiale come indicatore delle economie ad alto reddito pro capite (v. Christodoulou, 1992, p. 287), sebbene lo sviluppo politico ed economico di Cipro inciampasse spesso sul problema costituzionale, ostacolando molti tentativi di riforma e di modernizzazione. Oggi l’economia cipriota è basata prevalentemente sul settore terziario.

Il 19 dicembre 1972 la RC firmò un accordo di associazione con la CEE, entrato in vigore il primo giugno 1973. L’obiettivo era l’istituzione di un’unione doganale in due fasi in un periodo di dieci anni: durante la prima fase avvenne la graduale diminuzione delle imposte doganali sui prodotti agricoli e industriali scambiati fra Cipro e CEE. Tuttavia l’invasione turca e la conseguente divisione dell’isola provocarono l’adozione di una politica molto cauta da parte della CEE per l’inaugurazione della seconda fase, causando una tensione nelle relazioni tra RC e CEE (v. Kranidiotis, 1992, pp. 168-170). La situazione cominciò a mutare con l’entrata nella CEE, nel 1981, della Grecia, che appoggiava il progresso nei rapporti di Cipro con la Comunità europea (CE). Dal 1983 la CEE divenne l’acquirente della maggior parte dei prodotti dell’isola e il suo più grande fornitore. Dal 1977 la RC e la CEE avevano sottoscritto diversi protocolli di collaborazione economica e tecnica finalizzati alla fornitura di prestiti, finanziamenti e contributi per lo sviluppo di fondi idrici ed elettrici, al sostegno e alla ristrutturazione di aree urbane a ridosso di entrambi i lati della linea verde di Nicosia, al rinforzo della competitività dell’imprenditoria cipriota, ecc. Infine, grazie alla pressione greca, l’unione doganale fu firmata nell’ottobre 1987.

La domanda di adesione alla CEE fu presentata da Cipro il 4 luglio 1990. Già nel 1988 il governo della Grecia aveva esortato Cipro a depositare la domanda, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti avevano esposto parere sfavorevole. L’avis positivo della Comunità fu pubblicato nel 1993. Un anno prima era stata istituita una commissione composta da 12 membri del Parlamento europeo e da 12 membri del Parlamento cipriota con l’obiettivo dell’avvicinamento e del rafforzamento dei rapporti e della comprensione fra le due parti. Nel frattempo la RC partecipava, quale paese associato alla CE, ai programmi europei: MEDA, LIFE, SYN-ERGY, BC-NET e BRE, COST, Leonardo, Programma Socrates, Gioventù per l’Europa, MEDIA, e altri.

Nel 1995 fu decisa l’apertura dei negoziati di adesione con Cipro. La conferma della candidatura cipriota, accompagnata dalla dichiarazione che le trattative per l’adesione sarebbero state condotte solo con il governo legittimo della RC e che non sarebbero state subordinate a una soluzione del problema politico di Cipro, provocò la reazione della parte turca e lo stallo nel dialogo fra le due comunità per una soluzione al problema della divisione dell’isola. Nel luglio 1997, inoltre, la Turchia minacciò di procedere all’annessione della parte nord dell’isola in caso di adesione di Cipro alla CE senza la partecipazione dei turco-ciprioti. Tuttavia, sebbene la RC avesse proposto la partecipazione ai negoziati di una delegazione mista greco-cipriota e turco-cipriota, le autorità turche si erano opposte a questa soluzione. Per l’Unione europea (UE), comunque, l’adesione di Cipro avrebbe dovuto essere valutata sulla base dei criteri posti a tutti i candidati membri in relazione alla presenza di una democrazia stabile, di un’economia forte, di un’amministrazione rispettosa dei diritti dell’uomo e dei progressi effettuati nell’adeguamento all’Acquis comunitario, e non in base alla politica di un terzo paese, cioè la Turchia, che tentava di tenere Cipro in stallo bloccando la risoluzione del problema della divisione dell’isola. Il Consiglio europeo di Copenaghen (dicembre 2002) dichiarò conclusi i negoziati di adesione e il 16 aprile 2003 fu firmato ad Atene il Trattato di adesione di Cipro all’UE, che sarebbe diventata effettiva a partire dal primo maggio 2004.

Parallelamente agli ultimi negoziati fra la RC e l’UE, si svolgevano i tentativi dell’ONU di elaborare un piano complessivo di soluzione della questione cipriota che entrasse in vigore prima del 2004, nel tentativo di evitare l’adesione all’UE da parte di un paese occupato militarmente da un altro paese che a sua volta aspirava a diventare membro dell’UE. La volontà di arrivare a un compromesso fra le due comunità cipriote prima del maggio 2004, sulla base di diversi piani proposti dall’ONU, fu però ripetutamente bloccata dalla parte turca. Il quarto Piano Annan, che prevedeva due Stati costituenti una “Repubblica di Cipro unita”, fu sottoposto il 24 aprile 2003 a referendum simultaneamente presso le due comunità cipriote: quella turca si espresse a favore, mentre la comunità greca votò contro. Il rifiuto popolare greco-cipriota era rivolto al contenuto del piano e non alla riunificazione in sé che, se sulla base delle risoluzioni dell’ONU, continua a essere l’obiettivo della diplomazia greco-cipriota. Il giorno prima del referendum l’amministrazione turco-cipriota aveva annunciato la parziale rimozione delle restrizioni che impedivano la libera circolazione dei cittadini da una parte all’altra dell’isola aprendo due varchi ad accesso regolato. L’iniziativa, pur nella diffusa gioia dei greco-ciprioti di rivedere nuovamente a distanza di 30 anni le proprie terre, seppure occupate dai militari turchi, non mancò di destare la preoccupazione che fosse orientata a cementare una presunta sovranità separata nei territori sotto occupazione turca, poiché ai greco-ciprioti che si recavano al nord veniva chiesto di esibire il proprio passaporto e ricevere un permesso vistato dalla RTCN come se entrassero in uno Stato estero. Da parte greco-cipriota, il governo della RC annunciò il 30 aprile 2003 la revoca delle restrizioni commerciali esistenti dal 1983, permettendo ai prodotti turco-ciprioti l’esportazione verso l’UE. Queste iniziative politiche furono accolte con entusiasmo dalla popolazione, che iniziò a fare pressione sul mondo politico per indirizzare la propria posizione verso la soluzione della situazione di stallo che tiene divisa l’isola.

La popolazione cipriota è generalmente persuasa che, in qualità di membro dell’UE, Cipro assumerà maggior visibilità politica garantendo così lo sviluppo dell’economia dell’isola, ma anche una possibile soluzione diplomatica dell’occupazione turca. L’opinione pubblica, da parte sia greco-cipriota che turco-cipriota, confida ormai più nell’UE che nell’ONU per trovare una strategia di riunificazione che non abbia come modello il già rifiutato Piano Annan, né altra soluzione che preveda due entità statuali separate. Parallelamente alle trattative per l’adesione turca all’UE, la RC cerca di ottenere il suo riconoscimento politico da parte della Turchia, l’allontanamento dei coloni e dei militari turchi e l’instaurazione di uno Stato unitario composto da greco-ciprioti e turco-ciprioti. Inoltre, si moltiplicano le iniziative per facilitare la reciproca conoscenza culturale, soprattutto fra i giovani di entrambe le comunità nazionali cipriote, tramite la realizzazione di incontri intercomunitari e la comune partecipazione di giovani greco-ciprioti e turco-ciprioti a eventi culturali e sportivi, a livello sia locale che internazionale.

Cipro è considerata membro dell’UE nella sua interezza, sebbene le politiche comunitarie siano sospese, finché l’occupazione turca persista, nei territori non soggetti al controllo della RC in seguito all’invasione turca del 1974. Tuttavia, finanziamenti europei vengono devoluti anche alla parte turco-cipriota allo scopo di diminuire la disparità nello sviluppo economico fra le due parti e per facilitare l’eventuale futura unione dell’isola. La RC partecipa alle istituzioni dell’UE con un membro nella Commissione europea, sei europarlamentari, quattro voti nel Consiglio dei ministri UE, sei rappresentanti nel Comitato delle regioni, sei nel Comitato economico e sociale, un membro nella Corte dei conti e un giudice nella Corte di giustizia dell’Unione europea. Inoltre, dal 1° gennaio 2008, l’economia cipriota è entrata nell’area monetaria dell’Euro, elemento che ha portato stabilità economica, trasparenza nei prezzi, eliminazione delle commissioni di cambio e aumento degli investimenti in capitale nel mercato finanziario cipriota.

Evangelia Skoufari (2009)




Danimarca

Nel secondo dopoguerra il processo di cooperazione e di integrazione europea ha conosciuto una svolta qualitativa, sia per caratteristiche che per intensità, rispetto ad altri periodi della storia europea (v. anche Integrazione, metodo della). Questa svolta ha altresì profondamente influenzato e mutato la natura delle relazioni della Danimarca con l’Europa. Tuttavia, al fine di comprendere in che modo la Danimarca ha affrontato le sfide poste dall’integrazione europea nel dopoguerra, è essenziale tenere presente gli eventi del periodo tra le due guerre e nel corso della Seconda guerra mondiale. L’interpretazione dell’esperienza storica danese e alla struttura della sua identità nazionale hanno giocato un ruolo fondamentale nel definire l’atteggiamento danese nei confronti dell’integrazione europea, ma lo stesso vale per altri aspetti, tra cui ad esempio il perseguimento di quello che era ritenuto l’interesse nazionale in senso sia politico che economico, la gestione politica della questione dell’adesione alla CEE/UE (Comunità economica europea/Unione europea) all’interno del sistema politico danese, nonché l’evoluzione e la natura dell’integrazione europea stessa (v. anche Integrazione, teorie della). Illustreremo qui le principali caratteristiche del rapporto tra la Danimarca e il processo d’integrazione europea nelle sue diverse fasi cronologiche, analizzando alla fine gli aspetti più generali di tale rapporto dal dopoguerra a oggi.

Il periodo 1945-1949

Nell’immediato dopoguerra la Danimarca partecipò piuttosto blandamente ai dibatti e agli sforzi in atto in merito all’estensione della cooperazione regionale europea, mostrando scarso interesse soprattutto per la creazione di un’Europa federale, gli Stati Uniti d’Europa (v. Federalismo). Gli sforzi della Danimarca si concentrarono piuttosto sull’ampliamento della cooperazione nordica in direzione di un coordinamento politico con l’Organizzazione delle Nazioni Unite (iniziativa coronata dal successo) e sul tentativo (fallito) di creare una unione doganale europea associata al Piano Marshall e una unione difensiva tra Danimarca, Norvegia e Svezia, come alternativa o integrazione alla partecipazione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Comunque, non si può affermare che la Danimarca fosse totalmente disinteressata ai dibattiti su un’Europa federale. Fu costituita una diramazione danese dell’European parliamentary union (EPU), principalmente ad opera dei liberali e dei conservatori, che ebbe peraltro pochi aderenti nonostante fosse presieduta da Thorkil Kristensen, ministro delle Finanze nel governo liberale tra il 1945 e il 1947. Nel 1948 il dibattito sull’Europa in Danimarca ebbe una ripresa in concomitanza con il Congresso dell’Aia organizzato da Winston Churchill e dal Movimento per l’Europa unita (United European movement, UEM). La delegazione danese al congresso era tutt’altro che consistente, ma i 32 delegati guidati da Thorkil Kristensen erano tutti rappresentanti di spicco dei principali partiti borghesi danesi e dell’élite imprenditoriale e culturale. Era anche la delegazione più numerosa della Scandinavia, dato che Svezia e Norvegia avevano inviato rispettivamente soltanto 19 e 12 delegati. Dopo il Congresso dell’Aia, il ramo danese dell’EPU si unì all’UEM, rompendo in tal modo con l’organizzazione madre.

Al Congresso dell’Aia partecipò un solo socialdemocratico, Frode Jakobsen. Lo fece da privato cittadino perché il suo partito non gli aveva permesso di partecipare ufficialmente come esponente del partito. I socialdemocratici erano saliti al governo nel 1947 e il nuovo governo, non da ultimo il primo ministro Hans Hedtoft, non avrebbe permesso che le questioni europee distraessero gli sforzi dal progetto di un rafforzamento della cooperazione nordica. D’altro canto, i socialdemocratici danesi non si sentivano del tutto tranquilli nel voltare le spalle ai dibattiti europei. Il partito fu attaccato dalle organizzazioni borghesi che lo accusavano di disinteressarsi degli affari internazionali rifiutandosi di prendere parte ai dibattiti sul futuro dell’Europa. All’interno dell’Internazionale socialista (Committee of the international socialist conferences, COMISCO) i socialdemocratici danesi cominciarono a fare pressioni sui laburisti affinché adottassero un atteggiamento più positivo nei confronti dell’Europa, e in particolare dell’idea di costituire un Consiglio d’Europa. Nel 1949 i socialdemocratici si unirono alla corrente danese dell’UEM e il governo agì in accordo con i partiti borghesi, auspicando l’adesione al Consiglio d’Europa del quale la Danimarca divenne uno dei membri fondatori nello stesso anno.

Il periodo 1950-1960

«A mio giudizio, la politica danese deve mirare a una piena partecipazione a tutte le principali forme di cooperazione europea, non da ultimo considerato il fatto che vi prende parte anche la Germania. D’altronde, occorre anche conoscere che le relazioni con Svezia, Norvegia e Inghilterra sono così strette che non possiamo aderire a i piani di cooperazione europea che escludano queste nazioni» (v. Olesen, Villaume, 2005, p. 271). Queste erano le conclusioni del consulente di diritto internazionale del ministero degli Esteri danese, Max Sørensen, quando nel 1950 gli fu chiesto di analizzare gli scenari del futuro sviluppo del Consiglio d’Europa. Il suo giudizio acuto e lungimirante anticipava quello che sarebbe diventato il vero dilemma della politica europea della Danimarca a partire da quel momento e fino all’adesione formale alla CEE nel 1973. L’Europa, e in special modo la Germania Ovest, promettevano di diventare il motore economico della ricostruzione e della modernizzazione postbellica europea, e quindi il principale mercato di sbocco per le esportazioni danesi. D’altro canto, nel 1950 il Regno Unito costituiva il principale partner commerciale della Danimarca, in quanto acquistava non meno del 55% del totale delle esportazioni agricole, e poiché queste rappresentavano all’epoca i due terzi di tutte le esportazioni danesi, il mercato britannico era di importanza vitale per l’intera economia. Considerazioni di opportunità politica imponevano dunque di non abbandonare la Gran Bretagna. Se la Danimarca si fosse dovuta unire a una associazione europea, avrebbe preferito compiere questo passo assieme alla Gran Bretagna e agli altri Stati scandinavi per controbilanciare l’influenza dell’Europa meridionale, e in particolare della Germania Ovest, all’interno di tale associazione. L’esperienza della Seconda guerra mondiale si era conclusa da appena cinque anni.

Il dilemma tra avvicinarsi all’Europa e allo stesso tempo assicurarsi l’appoggio della Gran Bretagna e del resto della Scandinavia, determinò l’approccio del governo danese ai piani europei proposti dalla Francia nel 1950-1951, cioè il Piano Schuman, il Piano Pleven (v. Pleven, René) e il Piano per la costituzione di un mercato agricolo comune (“Pool verde”). La Danimarca era interessata della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e alle trattative per il Pool verde più di quanto non lo fossero la Gran Bretagna e il resto della Scandinavia. Tuttavia le autorità danesi non vedevano di buon occhio gli aspetti sovranazionali della CECA e del Pool verde, nel timore che accettando di fare parte di questi accordi settoriali la Danimarca avrebbe corso il rischio di dover accettare il Piano Pleven e la Comunità europea di difesa (CED), restando bloccata in una “piccola Europa” politica e sovranazionale senza la partecipazione britannica. Era stata la politica danese «per generazioni» – come ebbe ad affermare un alto funzionario del ministero degli Esteri – quella di evitare di essere assorbiti dalla Germania, e questa preoccupazione determinava ancora in larga misura il rifiuto danese nei confronti della CED e dell’esercito europeo (v. Olesen, Villaume, 2005, p. 254).

Il dilemma danese si fece ancor più acuto quando i piani della CED fallirono e gli sforzi furono invece volti alla creazione di una Comunità economica europea (CEE) tra le sei nazioni della CECA – sforzi che si rivelarono fruttuosi con la firma dei Trattati di Roma nel 1957. Le previsioni del 1950 si stavano infatti rivelando esatte. La Germania aveva rafforzato la sua posizione di partner commerciale della Danimarca, mentre il mercato britannico ristagnava. La CEE prevedeva perfino la creazione di un mercato comune per i prodotti agricoli, un aspetto che gli inglesi non intendevano considerare nella loro controproposta di creare una grande area di libero scambio (Organizzazione Europea per la cooperazione economica, OECE) che comprendesse anche la CEE.

Fu in questa situazione che partire dal 1956-57 le associazioni di agricoltori danesi e il partito liberale danese Venstre cominciarono a esortare i governi guidati dai socialdemocratici a mostrare maggiore interesse per la CEE, a saggiare il terreno e a negoziare con i Sei in merito alla fattibilità di un’adesione della Danimarca, anche senza la compartecipazione degli inglesi. Malgrado i governi socialdemocratici presieduti da Hans Christian Hansen e il suo giovane ministro degli Esteri, il filoeuropeista Jens Otto Krag, cercassero di tenere tutte le porte aperte, non contemplarono mai seriamente, in quel periodo, l’ipotesi di portare la Danimarca nella CEE senza il Regno Unito e gli altri paesi nordici.

Quando uno studio condotto nel 1958 dal governo mostrò che nel caso in cui la Danimarca fosse entrata a far parte della CEE circa il 40% della produzione industriale danese avrebbe rischiato di trovare una concorrenza tanto agguerrita nel mercato interno da causare una significativa riduzione della produzione, i rappresentanti dell’industria e il Partito conservatore cominciarono ad appoggiare le posizioni del governo. Ciò alleggerì le pressioni su quest’ultimo in merito all’adesione della Danimarca alla CEE, ma non sciolse affatto il dilemma danese relativamente al mercato comune. La soluzione caldeggiata dal governo era quella di creare un’alleanza doganale nordica da inserire nell’area di libero scambio dell’OECE, che incorporasse la CEE e includesse anche il libero scambio dei prodotti agricoli. Si trattava peraltro di un pio desiderio. Verso la fine del 1958, il governo francese mise fine a ulteriori discussioni sulla proposta britannica di un’area di libero scambio; i progetti di un’unione doganale nordica erano ancora in alto mare, e si profilava altresì una nuova minaccia: spinti dalla nascita della CEE e dall’incapacità di creare un’area di libero scambio OECE, la Svezia e la Svizzera riuscirono a persuadere la Gran Bretagna ad appoggiare i piani per la creazione di un’area di libero scambio più limitata (Associazione europea di libero scambio, EFTA) tra sette Stati dell’OECE che non aderivano alla CEE.

Sia al governo danese che all’opposizione questo sviluppo appariva pericoloso. Innanzitutto rischiava di scatenare una vera e propria guerra commerciale, rendendo permanente la spaccatura del mercato all’interno dell’Europa occidentale. Inoltre, l’EFTA avrebbe riguardato esclusivamente il libero scambio dei prodotti industriali, e non anche i prodotti agricoli. Malgrado le concessioni bilaterali da parte degli altri membri dell’EFTA alle esportazioni agricole danesi, la Danimarca era fortemente preoccupata in quanto la divisione CEE-EFTA significava un’esclusione della Danimarca dalla Politica agricola comune (PAC) che la CEE stava progettando, mentre nello stesso tempo non le era consentito di vendere liberamente i suoi prodotti agricoli sul mercato EFTA.

Mentre le associazioni degli agricoltori danesi e Venstre non intendevano sostenere la partecipazione della Danimarca all’EFTA, nella primavera del 1960 il governo di coalizione di socialdemocratici, social-liberali e il piccolo Partito della giustizia, sostenuto dal partito conservatore (e dagli industriali), diede corso alla ratifica al Folketinget, il Parlamento danese. Per molti versi questo risultato rappresentava un gesto simbolico, che testimoniava come il settore agricolo non fosse più in grado di determinare l’orientamento della politica economica estera danese, e rappresentava al contempo una vittoria per quella che è stata definita la tacita alleanza tra i sostenitori di una moderna economia industriale danese, rappresentati da un lato dal Partito socialdemocratico e dal movimento laburista, dall’altro dall’industria e dal Partito conservatore (v. Laursen, 1993, p. 75).

Gli anni 1960-1972

La soluzione EFTA non era considerata soddisfacente nemmeno dai partiti e dalle organizzazioni che avevano sostenuto l’adesione a essa. A questo riguardo occorre specificare meglio la tesi cui abbiamo accennato sopra, secondo cui l’adesione all’EFTA rappresentava la vittoria della modernizzazione industriale sui tradizionali interessi agricoli. Il fatto è che le esportazioni agricole erano un elemento importante per la modernizzazione industriale in Danimarca. «L’agricoltura danese è fondamentale per l’industria di questo paese», spiegava il ministro degli Esteri danese Jens Otto Krag a Ludwig Erhard, ministro tedesco per l’Economia, in un colloquio del 1958, in quanto «l’industrializzazione richiede ingenti investimenti e questi ultimi richiedono a loro volta un a solida bilancia dei pagamenti, per garantire la quale l’agricoltura è indispensabile» (v. Olesen, Villaume, 2005, p. 436).

Non sorprende, dunque, che la Danimarca avesse già pronta la propria richiesta di adesione alla CEE quando il governo britannico nell’agosto del 1961 fece la sua prima domanda in questo senso. Nel Parlamento danese una vasta maggioranza era favorevole all’adesione alla CEE insieme alla Gran Bretagna. La maggioranza superava perfino quella dei 5/6 richiesta dalla Costituzione per approvare un disegno di legge che facilitasse il trasferimento della sovranità nazionale ad autorità internazionali. Qualora non si fosse ottenuta la maggioranza dei 5/6, ma il parlamento avesse ottenuto la maggioranza ordinaria richiesta per l’approvazione di un disegno di legge, quest’ultimo avrebbe potuto essere approvato se il governo avesse indetto un referendum e questo fosse stato approvato con una maggioranza che rappresentasse almeno il 30% dei (possibili) voti totali.

Fino al 1971, si poté sempre contare sulla maggioranza di 5/6, ma nelle elezioni del settembre di quell’anno essa non fu raggiunta. Questo avvenne durante il processo che alla fine aprì la strada all’ingresso danese nella CEE, cosa che si verificò il 1° gennaio 1973. Di conseguenza si dovette indire un referendum, e il 2 ottobre del 1972 i danesi si recarono per la prima volta alle urne per decidere in merito all’adesione della Danimarca alla CEE. Il risultato fu una netta maggioranza del 63,3% di voti favorevoli.

La motivazione della prima domanda di adesione della Danimarca, nel 1961, era stata principalmente economica. Entrare a far parte della CEE insieme alla Gran Bretagna significava che la Danimarca sarebbe entrata in un mercato comune che comprendeva i suoi due maggiori mercati di esportazione e, cosa ancora più importante, esteso anche ai prodotti agricoli. Nel corso dei negoziati a Bruxelles il governo danese riconobbe e accettò anche gli obiettivi politici della Comunità, ma i veri motivi d’interesse erano l’unione doganale e la PAC. Quando, nel gennaio del 1963, il generale Charles de Gaulle di propria iniziativa annunciò che le trattative con la Gran Bretagna si sarebbero dovute interrompere, anche i negoziati con la Danimarca e gli altri Stati candidati furono lasciati in sospeso. Questo stop a ulteriori trattative significava che la Danimarca e la Gran Bretagna si sarebbero dovute accontentarsi dell’adesione all’EFTA. Vista in retrospettiva, l’EFTA non era una struttura svantaggiosa per l’economica danese. Lo smantellamento delle restrizioni quantitative e delle tariffe doganali avveniva più velocemente qui che nella CEE, e l’EFTA si rivelò un’utile campo di addestramento per l’industria danese, dandole la grinta necessaria per affrontare la concorrenza dei mercati mondiali e comunitari. Rispetto alla crescita lenta degli anni Cinquanta, nel decennio successivo la Danimarca fu tra i paesi dell’Europa occidentale che registrarono la crescita più rapida.

Tuttavia, alla metà degli anni Sessanta, l’impressione generale negli ambienti del governo e nell’opposizione era che l’EFTA cominciasse a perdere colpi. Le esportazioni dei prodotti agricoli danesi registrarono un ristagno nel mercato dell’EFTA e per effetto della PAC cominciarono a diminuire nel mercato CEE. Il governo danese fu quindi felice di vedere riattivate nel 1967 le richieste di ammissione del 1967, senza peraltro illudersi che ciò avrebbe effettivamente portato a una conclusione positiva dei negoziati, sfiducia che trovò puntuale conferma allorché de Gaulle rifiutò nuovamente l’allargamento. Alcuni alti funzionari del ministero degli Esteri danese e il primo ministro, Jens Otto Krag, invece, iniziarono a progettare segretamente una nuova iniziativa nordica, mirata a creare un ambizioso Mercato comune nordico autonomo. Il vero senso di questo piano era, da una parte, quello di separare la richiesta di ammissione alla CEE danese da quella inglese, in quanto si temeva che l’antagonismo anglo-francese potesse durare negli anni a venire, e dall’altra quello di creare una forte piattaforma nordica per un approccio congiunto dei paesi nordici alla CEE. Di conseguenza, il Nordek, com’era denominato il progetto di mercato comune, non era principalmente concepito dalle autorità danesi come fine a se stesso, ma piuttosto come una nuova piattaforma attraverso cui avvicinarsi alla CEE. Fu proprio questo obiettivo a decretare alla fine il fallimento del Nordek. L’esplicita finalità europea del piano costrinse la Finlandia a fare marcia indietro proprio quando, nella primavera del 1970, i negoziati sembravano essere giunti a una conclusione; il ritiro della Finlandia causò anche quello della Norvegia e della Svezia.

Il tentativo di condurre in porto l’opzione nordica si rivelò una risorsa per quei partiti che volevano l’ingresso della Danimarca nella CEE. In concomitanza con il definitivo fallimento del Nordek, la Danimarca si stava nuovamente preparando alla terza fase di trattative di adesione alla CEE e, come già menzionato, questa volta l’esito fu positivo. Le trattative danesi con il Consiglio dei ministri e la Commissione europea CEE si svolsero senza intoppi. Nel suo diario, il ministro liberale per gli Affari esteri nel settore economico, Poul Nyobe Andersen, le definì «non problematiche».

All’interno del paese, il nullaosta all’adesione non fu affatto facile da ottenere come poteva indicare il 63% dei voti a favore ottenuti nel referendum del 1972. Nel 1971, la maggioranza dei 5/6 in Parlamento non c’era più e durante la primavera del 1971 i risultati dei sondaggi di opinione cominciarono a mostrare un forte aumento dei voti contrari. Alla fine, si rivelò decisivo il fatto che il governo, tutti i principali partiti eccetto il Partito socialista popolare, i gruppi di interesse più forti e gran parte della stampa si mobilitassero per il “sì”, mettendo in evidenza soprattutto i benefici economici dell’ingresso nella CEE e minimizzandone le implicazioni politiche. A giudicare dai sondaggi d’opinione, si può sicuramente concludere che fu la motivazione economica a persuadere l’elettorato a votare a favore dell’adesione

Il partito del “no”, d’altro canto, incentrò la sua campagna sugli aspetti politici dell’ingresso nella CEE. Furono messi in campo argomenti antitedeschi e anticattolici, ma l’attacco principale fu diretto contro la presunta incompatibilità tra il welfare state danese e la legislazione CEE, contro il coordinamento della politica estera all’interno della nuova struttura della Cooperazione politica europea (CPOE) e, più in generale, contro la perdita della sovranità nazionale nella struttura sovranazionale della CEE. Di contro, il partito del “no” cercò di riproporre la cooperazione nordica come un’alternativa all’adesione, ma non era un argomento facilmente spendibile, proprio perché l’opzione nordica era già stata tentata ed era fallita durante l’intermezzo del Nordek.

Lo schieramento del “no” trovava consenso soprattutto tra i partiti della sinistra e quelli di estrema destra, ma esisteva una forte opposizione all’ingresso nella CEE anche all’interno del partito social-liberale e del movimento laburista socialdemocratico, sia tra i sindacati che nel partito, compresa una minoranza all’interno del gruppo parlamentare. Nonostante il carattere assai eterogeneo dell’opposizione, il blocco del “no” riuscì a formare una organizzazione unitaria, il Movimento popolare contro la CEE, al fine di coordinare la campagna referendaria. Tutti i principali gruppi di opposizione – a eccezione dei Socialdemocratici contro la CEE –parteciparono al Movimento popolare. Fu forse per questa ragione che si cercò di presentare il referendum come una «battaglia del popolo contro l’establishment», senza peraltro riuscire a convincere gli elettori.

Box 1 → Il ruolo del referendum nella politica europea della Danimarca

Gli anni 1973-1993

Il giorno dopo la vittoria nel referendum per l’adesione alla CEE, Krag sorprese l’intera nazione annunciando che avrebbe rinunciato alla carica di primo ministro. Ancor più sorprendente era il fatto che fosse riuscito a garantirsi il sostegno necessario per designare come suo successore Anker Jørgensen, presidente del Sindacato dei lavoratori non specializzati, che nonostante il forte scetticismo all’interno del suo stesso sindacato aveva sostenuto l’adesione della Danimarca alla CEE. Tuttavia, Jørgensen non condivideva lo stesso entusiasmo di Krag per la CEE. Apparteneva a un vasto gruppo di centro all’interno del Partito socialdemocratico che voleva limitare la CEE a un tipo di cooperazione puramente intergovernativa che si occupasse solamente di questioni di mercato ed economiche. Nominando Anker Jørgensen, Krag sacrificò le proprie concezioni europeiste più ambiziose, ma probabilmente lo fece per attenuare la scissione tra europeisti, sostenitori di una cooperazione puramente intergovernativa e dichiarati oppositori della CEE manifestatasi durante la campagna referendaria.

Di conseguenza, la politica danese all’interno della CEE nei suoi primi dieci anni in qualità di Stato membro fu caratterizzata da un approccio di tipo intergovernativo e di basso profilo. Tuttavia la posizione danese in quegli anni non spiccò come particolarmente passiva, in quanto per la CEE nel suo complesso questo fu un periodo di stallo sotto il profilo dello sviluppo e delle riforme, dovuto alle crisi petrolifere e alle controversie su questioni di bilancio. Ma verso la metà degli anni Ottanta la situazione mutò e la CEE attraversò una fase di forte dinamismo, dovuta in primo luogo a uno sforzo congiunto volto a rilanciare l’Europa come attore di primo piano nell’economia internazionale e in secondo luogo all’«accelerazione della storia», come la definì Jacques Delors, determinata dalla fine della Guerra fredda e dalla riunificazione tedesca.

Quando si verificarono questi eventi, i socialdemocratici non erano più al governo. Dal 1982 si era insediato un governo di coalizione di partiti borghesi, con il conservatore Poul Schlüter come primo ministro e il liberale Uffe Ellemann-Jensen come ministro degli Affari esteri. Questo governo iniziò gradualmente ad allontanarsi dalla politica europea difensiva dei precedenti governi; in particolare, il ministro degli Esteri Ellemann-Jensen cercò di dare alla Danimarca una maggior centralità nella politica della CEE. Si trattava peraltro di un obiettivo difficile da raggiungere, poiché in parlamento esisteva ancora una maggioranza guidata da socialdemocratici, social-liberali e socialisti popolari che non condividevano il desiderio di una politica comunitaria più attiva della Danimarca.

Il potere della “maggioranza alternativa”, come veniva chiamata – e che si manifestò anche nelle questioni relative alla NATO – si dimostrò in rapporto alla creazione del Mercato unico europeo. Il governo intendeva sostenere la riforma, ma la maggioranza alternativa la bloccò in parlamento. Dato che non vi era la maggioranza semplice richiesta per la sottoscrizione dell’Atto unico europeo da parte della Danimarca, il governo non poté utilizzare le norme costituzionali per indire un referendum vincolante, e decise quindi di optare per un referendum consultivo, che peraltro avrebbe potuto essere indetto solo con il consenso della maggioranza alternativa. Tale consenso fu ottenuto quando i socialdemocratici e i social-liberali decisero di non votare contro la proposta referendaria e promisero di accettarne l’esito. Il referendum del 27 febbraio del 1986 i voti a favore dell’Atto unico furono il 56,2%, quelli contrari il 43,8%.

Durante la campagna referendaria, i socialdemocratici avevano sostenuto che l’opposizione del partito non era diretta contro l’adesione alla CEE in sé, ma contro determinati aspetti dell’Atto unico, in particolare l’istituzionalizzazione della CPE, l’aumento di poteri del Parlamento europeo e la mancanza di misure adeguate per la tutela dell’ambiente. Inoltre, si temeva che l’Atto avrebbe minato sia il modello del mercato del lavoro danese, sia importanti elementi della cooperazione nordica, come il mercato del lavoro nordico e l’unione nordica dei passaporti. Tuttavia, la sconfitta nel referendum diede l’opportunità di avviare un esame critico e una graduale riformulazione della posizione del partito nei confronti della cooperazione comunitaria. Questo processo venne ulteriormente favorito dal fatto che, nel 1988, i social-liberali furono cooptati nel governo borghese, nonché dallo smantellamento delle strutture della Guerra fredda e dal riemergere della questione tedesca.

Come conseguenza di questo processo di revisione, il governo e il Partito socialdemocratico riuscirono ad accordarsi su un memorandum nazionale congiunto il quale stabiliva la posizione che la Danimarca avrebbe assunto nelle conferenze intergovernative sull’Unione economica e monetaria (UEM) e sull’unione politica, iniziate entrambe nel dicembre del 1990. Il memorandum, che può essere considerato la dichiarazione più schiettamente a favore dell’integrazione mai espressa da a un governo danese, concludeva che la CEE si sarebbe dovuta sviluppare per diventare «un fondamento per l’unità politica ed economica di tutta l’Europa» (v. Petersen, 2004, p. 498).

La versione finale del Trattato di Maastricht o del Trattato sull’Unione europea (TUE) recava alcune significative impronte danesi, in primo luogo e soprattutto in ambiti come agli aiuti allo sviluppo, la tutela ambientale e la protezione dei consumatori (l’istituzione dell’Ombudsman a tutela dei consumatori fu in larga misura un’iniziativa danese) (v. anche Politica dei consumatori). In altri settori la Danimarca combatté una battaglia di retroguardia, principalmente sulla questione dell’inserimento di una dimensione di difesa nella Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e dell’UEM. Nel primo caso, il trattato di Maastricht andava più in là di quanto auspicato, non da ultimo dai socialdemocratici danesi; nel secondo, la Danimarca non riuscì a far inserire nel Trattato una clausola di opting-out per quelle nazioni che non avessero potuto o voluto passare alla terza fase dell’UEM. Alla Danimarca era invece concesso un protocollo speciale in cui si stabiliva che essa avrebbe dovuto indire un referendum prima di poter accedere a tale fase.

Nel dicembre del 1991, a Copenaghen, sia i leader socialdemocratici, sia il governo erano assai soddisfatti del risultato finale. Il Trattato di Maastricht costituiva un risultato talmente positivo che nell’imminente referendum i danesi non avrebbero detto semplicemente “sì”, ma “sì, grazie”, come dichiarò ottimisticamente alla stampa il ministro degli Esteri, Ellemann-Jensen (v. Petersen, 2004, p. 504). Questa previsione fu puntualmente smentita. Chiamati alle urne per decidere in merito all’istituzione dell’Unione europea il 2 giugno del 1992, i danesi si espressero per il “no”, seppure con una esigua maggioranza del 50,7%. Il risultato danese fu molto simile a quello del referendum francese tenuto tre mesi dopo, con la cruciale differenza che in Francia fu il “sì” a ottenere una ristretta maggioranza.

Entrambi i referendum testimoniavano i problemi che l’UE incontrava nell’acquisire una più vasta legittimazione popolare. Ma era il risultato danese a creare in quel momento i maggiori problemi perché il “no”, in teoria, significava che il TUE non poteva entrare in vigore, né in Danimarca, né nel resto della CEE. Tuttavia, era difficile trovare una soluzione al problema, in quanto occorreva soddisfare alcuni requisiti di fondo sia in Danimarca sia nella CEE. Stava quindi alla Danimarca sviluppare una formula di compromesso che non richiedesse però una revisione del TUE (v. anche Revisione dei Trattati), né un nuovo processo di ratifica.

In Danimarca fu raggiunto un cosiddetto “compromesso nazionale” tra i partiti favorevoli alla ratifica del Trattato e il partito contrario, il Partito socialista popolare. Proprio perché quest’ultimo aveva sostenuto il “no” nel referendum sul Trattato di Maastricht, diventava essenziale indurre il partito al compromesso nazionale. D’altro canto, questa posizione dava al partito un notevole peso nella definizione della natura del compromesso. Il nucleo del documento consisteva in una serie di richieste esplicite tra cui le tre più importanti erano le seguenti: la Danimarca non avrebbe potuto partecipare alla cooperazione in materia di difesa dell’UE, non avrebbe preso parte alla terza fase dell’UEM e si sarebbe tenuta fuori dalla dimensione sovranazionale della cooperazione in materia di giustizia e affari interni. Il compromesso nazionale rappresentava un ritorno alla tradizione delle politiche europee danesi, nel senso che rifiutava fondamentalmente gli aspetti sovranazionali e politici dell’Unione e voleva limitare la cooperazione europea a una cooperazione intergovernativa ristretta al mercato e alle questioni economiche. Questa limitazione era ciò che il Partito socialista popolare voleva e, secondo i sondaggi d’opinione, e anche ciò che desiderava la maggioranza della popolazione. L’élite politica dal 1972 poteva anche essere diventata in generale più favorevole all’integrazione, ma era evidente che la popolazione nel suo complesso non ne aveva seguito l’esempio.

Dopo accese discussioni, finalmente, con la Risoluzione di Edimburgo nel dicembre del 1992, il Consiglio europeo concesse alla Danimarca le cosiddette clausole di opting-out, corrispondenti alle richieste del compromesso nazionale. In questo modo si accettava che la Danimarca non fosse obbligata a partecipare alla cooperazione in materia di difesa, alla terza fase dell’UEM e agli elementi sovranazionali di cooperazione in materia di giustizia e affari interni, ma anche che avrebbe potuto aderirvi nuovamente se lo avesse desiderato. Da parte sua, la Danimarca doveva accettare che il Trattato di Maastricht non fosse alterato e che le clausole di opting-out non potessero essere usate per limitare gli obiettivi e lo sviluppo dell’unione tra gli altri Stati membri dell’UE.

La Risoluzione di Edimburgo aveva creato i presupposti per un nuovo referendum. Contrari al Trattato erano le due organizzazioni politiche trasversali e i movimenti del “no”, il Movimento popolare contro la CEE e il Movimento di giugno – una costola del primo, istituito dopo ill “no” dell’anno prima. Nello schieramento opposto, ora tutti i partiti in Parlamento, fatta eccezione per il Partito progressista, formazione di destra, sostenevano il Trattato di Maastricht con le restrizioni della Risoluzione di Edimburgo. Ciò spinse la maggioranza verso il “sì” che, il 18 maggio del 1992 poteva contare sul il 56,8% dei voti favorevoli al “Maastricht senza spine”, come venne soprannominata la nuova formula euro-danese (v. Petersen, 2004, p. 512).

Box 2 → I Movimenti a favore del ”no”

Box 3 → Opt-out della Danimarca dal diritto UE: problema o privilegio

Box 4 → La Costituzione danese e la questione della delega di sovranità

Gli anni 1994-2005

L’“intermezzo” di Maastricht dal 1990 al 1993 aveva dimostrato che la definizione delle politiche danesi rispetto all’UE avveniva all’interno di un triangolo strategico costituito dagli input del sistema UE, dalle posizioni e dalle reazioni della popolazione danese, e dal tentativo dell’establishment politico di armonizzare gli input dell’UE con ciò che si riteneva che sarebbe stato giudicato accettabile da parte della popolazione. Ciò richiedeva un delicato gioco di equilibri, non da ultimo in quanto non sempre era facile cogliere gli umori della popolazione (v. Petersen, 2004, p. 618).

Una delle ragioni per cui ciò risultava difficile era ascrivibile al fatto che l’opposizione danese all’UE aveva in qualche modo cambiato la propria composizione politica nel corso dell’ultimo decennio. In generale, la sinistra era diventata più favorevole all’UE, mentre la borghesia e la destra erano divenuti più euroscettici. Questo sviluppo si doveva a varie ragioni. In ambito europeo, dopo Maastricht l’UE aveva avvertito la necessità di avvicinarsi ai cittadini comuni prestando maggior attenzione a questioni post-materiali come i problemi ambientali, la tutela dei consumatori, i diritti dell’uomo e la trasparenza politica. Queste questioni avevano già acquistato maggiore risalto nel Trattato di Amsterdam, siglato nel 1997, che l’anno successivo, fu approvato dall’elettorato danese con il 55,1% dei voti in un altro referendum svoltosi il 28 maggio.

Vi erano però anche fattori interni. Dal 1993 al 2001 la Danimarca fu nuovamente retta da governi guidati dai socialdemocratici – analogamente alla maggior parte dei paesi dell’UE – con Poul Nyrup Rasmussen come primo ministro. Ciò contribuì a dare all’UE in generale e alla politica danese europea un più accentuato profilo socialdemocratico, che trovava buona accoglienza tra l’elettorato di sinistra. Quando Nyrup Rasmussen perse le elezioni nel 2001, fu sostituito da un governo liberale guidato da Anders Fogh Rasmussen. Il suo governo era sostenuto dal Partito popolare danese, una formazione politica di recente creazione che era diventata il partito più apertamente critico nei confronti dell’UE: la svolta a destra dei danesi al volgere del secolo rispecchiava nuovamente la più generale tendenza europea, e ciò spiega in larga misura perché l’euro-scetticismo e il suo rovescio della medaglia, l’ideale di Stato nazione, fossero nuovamente in ascesa in molti paesi dell’UE.

All’interno dell’élite politica, le clausole di opting-out non furono mai tenute in gran considerazione, poiché si riteneva che diminuissero l’influenza della Danimarca a Bruxelles. Col tempo, quindi, aumentarono le pressioni affinché fossero abolite. Tuttavia, il governo di Nyrup Rasmussen doveva procedere con cautela, perché le clausole di opting-out danesi erano considerate il punto di forza dell’accordo tra i cittadini e l’establishment politico raggiunto in occasione del referendum di Edimburgo. Nondimeno, nel 2000, il governo volle saggiare tale accordo e indisse un nuovo referendum sulla partecipazione alla terza fase dell’UEM. Il motivo per cui fu scelta la questione dell’euro dipendeva da vari fattori. In primo luogo, nel 2000, malgrado tutti gli ostacoli l’UE si era impegnata a portare a termine la riforma, ed entrando a farne parte in quel momento, la Danimarca avrebbe avuto la possibilità di aderire proprio quando l’euro era in procinto di essere introdotto come moneta comune. In secondo luogo, la Danimarca aveva già partecipato alle prime due fasi dell’UEM e la corona danese era strettamente ancorata all’euro, sicché i tassi d’interesse e la politica monetaria erano profondamente condizionati dalle decisioni prese dalla Banca centrale europea e dagli incontri dei ministri delle Finanze dei paesi membri dell’unione monetaria, ai quali la Danimarca non prendeva parte. Per il governo questa era un’anomalia che doveva essere corretta. In terzo luogo, nei primi mesi del 2000, i sondaggi d’opinione indicavano una probabile vittoria dei voti favorevoli alla introduzione dell’euro, e questo diede l’impulso decisivo a Nyrup Rasmussen per indire un referendum il 28 settembre.

Ciononostante, il momento scelto si dimostrò poco felice. Nella primavera del 2000, l’UE si trovò a fronteggiare – non molto elegantemente – con la cosiddetta crisi austriaca a seguito della formazione del governo Schlüssel-Haider (v. Haider, Jörg) a Vienna. Le sanzioni imposte all’Austria non furono ben viste in Danimarca: a molti apparvero più una forma di vessazione contro un piccolo Stato da parte di una grande potenza anziché una giusta sanzione per una effettiva cattiva condotta austriaca. Quindi, proprio quando il governo di Nyrup Rasmussen avrebbe dovuto concentrare le forze sulla campagna per il “sì” nel referendum, fu costretto a disperdere molte energie sia all’interno sia nell’UE per neutralizzare la crisi austriaca. All’incirca nello stesso periodo, il valore dell’euro cominciò a diminuire rapidamente, cosa che minò la fiducia nella sua stabilità. A ciò si aggiunse il fatto che la campagna referendaria fu impostata in modo poco felice dal governo, in quanto si focalizzò principalmente sul tentativo di convincere i danesi dell’importanza vitale dell’euro per il benessere dell’economia nazionale. Questa tesi fu messa in discussione dai più stimati economisti del paese, secondo i quali l’adesione all’UEM era sì importante, ma per ragioni eminentemente politiche e non già economiche. L’economia danese, prima e dopo il referendum, aveva – e ha tuttora – un andamento superiore alla media dell’UE – e quindi l’argomento delle catastrofiche conseguenze di una mancata adesione all’euro ebbe pochissima presa sull’elettorato. Nel referendum il “no” raggiunse il 53,2% dei voti, e la clausola di opting-out non poté essere revocata.

Sebbene la clausola di opting-out togliesse incisività alle politiche europee danesi, la Danimarca fu attivamente impegnata nei dibattiti e nel policy-making dell’UE del periodo post Maastricht. La questione dell’allargamento, in particolare, vide un forte attivismo danese, sia nei negoziati di adesione con i paesi nordici dell’EFTA che aprì le porte all’ingresso finlandese, svedese e austriaco nel 1995, sia nelle ancor più difficili e prolungate trattative per l’adesione dei dieci paesi dell’Europa centrale e orientale. Alla riunione del Consiglio europeo di Copenaghen del 1993, l’UE stabilì i cosiddetti “criteri di Copenaghen” (v. Criteri di adesione) che definivano i requisiti politici ed economici che gli Stati candidati avrebbero dovuto soddisfare per ottenere lo status di membri a pieno titolo. Sotto questa luce, assumeva un valore simbolico il fatto che le trattative di adesione fossero portate a termine dieci anni dopo da Anders Fogh Rasmussen e dalla presidenza UE danese al summit di Copenaghen del dicembre 2002, aprendo così la strada per la creazione dell’Europa dei 25 a partire dal 2004.

Gli anni 1945-2005

Spesso, gli storici parlano di un “dilemma dell’integrazione” per spiegare il particolare carattere della posizione danese nei confronti del processo d’integrazione europeo (v. Olesen, 1995, p. 16 e ss.; v. Petersen, 2004, p. 218), in analogia con il “dilemma dell’alleanza” cui si fa riferimento per spiegare la natura delle politiche danesi relative alla NATO. In entrambi i casi, si parte dal presupposto che le politiche danesi siano state determinate da due principali preoccupazioni: la paura dell’abbandono e la paura dell’intrappolamento. Per quanto attiene al dilemma dell’integrazione, la paura dell’abbandono, cioè la paura dell’essere tagliati fuori, ha attirato la Danimarca verso l’integrazione, mentre la paura dell’intrappolamento, cioè la paura di perdere la propria autonomia politica, la ha indotta ad adottare un approccio cauto e funzionalistico (v. Funzionalismo), preferendo la cooperazione intergovernativa all’organizzazione sovranazionale. La paura dell’abbandono è stata messa in relazione con il problema dell’esclusione dagli aspetti economici dell’integrazione europea, mentre il timore dell’intrappolamento era legato alla dimensione politica, in particolare alla cessione di una porzione eccessiva di sovranità nazionale. Pertanto, il dilemma si è fatto più acuto proprio nei periodi in cui la CEE/UE si è mossa nella direzione di un’ulteriore organizzazione sovranazionale.

Si è affermato spesso che la paura dell’intrappolamento è tipica dei piccoli Stati. Secondo alcuni essa avrebbe avuto un ruolo determinante nell’atteggiamento della Danimarca nei confronti dell’integrazione europea in quanto l’identità nazionale danese è stata plasmata in larga misura dal fallimento nella politica internazionale. Nel XVII secolo, la Danimarca era ancora una potenza europea di media grandezza e partecipava attivamente alla politica europea, ma nei secoli a seguire, a causa di alcune sconfitte militari, fu ridotta al rango di un minuscolo Stato, avendo perduto la Norvegia e lo Schleswig-Holstein. L’identità nazionale danese fu influenzata da questi eventi sia negativamente sia positivamente. Negativamente, in quanto la Danimarca ha sviluppato una tradizione di politica estera passiva e di basso profilo, fortemente influenzata dalla vicinanza con la Germania. Positivamente, giacché essa ha cercato di compensare gli insuccessi internazionali costruendo – con un certo successo – una comunità nazionale forte, in base al principio: “Quel che si è perso all’esterno, deve essere conseguito all’interno” (v. Olesen, 2001, p. 61). La creazione di un forte welfare state può essere considerata come un elemento importante in questa strategia, e consente inoltre di spiegare perché proprio il tema dell’assistenza pubblica abbia avuto un ruolo fondamentale nel rifiuto della CEE/UE da parte dei partiti e movimenti danesi contrari all’adesione.

È tuttavia importante ricordare che la costruzione dell’identità danese qui illustrata è una sorta di tipo ideale, rispetto al quale la realtà concreta presenta una miriade di deviazioni. Sebbene, quindi, appaia legittimo sostenere che il progetto europeo non si accordava con la struttura dell’identità nazionale danese nella sua forma idealtipica, resta il fatto che i danesi hanno votato a favore in quattro dei sei referendum europei. Sulla base di queste considerazioni sarebbe opportuno considerare con un certo spirito critico le accuse, mosse spesso alla Danimarca in sede di dibattito europeo, secondo cui questo paese è ed è stato un europeista riluttante, un autentico euroscettico. Dopotutto, la Danimarca si è unita alla CEE già nel 1973, è stata una delle nazioni più rapide nell’adottare e nell’applicare la legislazione comunitaria, ha di norma un ruolo costruttivo nel policy-making, come testimonia il suo contributo al processo di Maastricht, al processo d’allargamento e, più recentemente, al dibattito sulla Costituzione europea; inoltre, anno dopo anno, i sondaggi dell’Eurobarometro hanno dimostrato che i danesi sono tra i più informati in merito alle questioni della Comunità.

Quel che sembra essere vero, tuttavia, è che la Danimarca ha conosciuto un crescente divario tra l’atteggiamento dell’élite politica, sempre più favorevole all’integrazione europea, e quello della popolazione nel suo complesso, la quale non si è mossa nella stessa direzione. All’interno del Partito socialdemocratico, il divario tra la base e la dirigenza è sempre stata evidente, ma negli ultimi dieci anni circa si è approfondito anche quello tra la leadership borghese e il suo elettorato. Un simile fenomeno, peraltro, non si riscontra unicamente in Danimarca, ma anche negli altri Stati scandinavi, in Irlanda, in grandi Stati come il Regno Unito e la Francia e ora anche nei Paesi Bassi, paese per tradizione paladino di tutte le iniziative mirate a rafforzare il processo di integrazione. L’esperienza dei referendum francesi e olandesi sul Trattato costituzionale nel 2005 ne è stata una palese dimostrazione.

Dunque, la sfida dell’anti élite non è affatto una peculiarità danese. Ciò che rende la Danimarca speciale è che essa, con i suoi sei referendum europei, detiene il primato in questo campo tra i paesi dell’UE. Questo fatto è molto eloquente, e spiega la particolare natura del dilemma danese dell’integrazione, ma è lecito supporre che, in futuro, molti altri paesi ricorreranno allo strumento referendario quando dovranno affrontare le questioni europee. Il dilemma danese, a quanto pare, diventa in misura crescente un dilemma europeo.

Box 5 → Commissione per gli affari europei del Parlamento danese

Thorsten B. Olesen (2012)




Estonia

Inizialmente la transizione dell’Estonia verso l’Unione europea (UE) seguì un percorso simile a quello della Lettonia e della Lituania, prima di divergere a metà degli anni Novanta per poi riconvergere verso la fine del decennio. Allo stesso modo dei vicini meridionali, le relazioni dell’Estonia con l’UE furono instaurate il 27 agosto 1991, quando Bruxelles riconobbe l’indipendenza degli Stati baltici dall’Unione Sovietica, dichiarando che «era giunto il momento che la Lettonia, la Lituania e l’Estonia occupassero il loro legittimo posto tra i popoli d’Europa» (Foreign Broadcast Information Service: FBIS-SOV-91-173, 6 settembre 1991, p. 63).

La transizione dello Stato verso l’adesione all’UE fu inizialmente governata attraverso l’accordo di libero scambio che fu concluso il 18 luglio 1994 ed entrò in vigore il 1° gennaio dell’anno successivo. Tale accordo venne in seguito incorporato negli Accordi europei, firmato dall’Estonia con l’Unione europea il 12 giugno 1995. La firma degli Accordi con Estonia, Lettonia e Lituania rappresentò per l’UE il ritorno a casa dei tre Stati baltici: «Dopo molti anni di lontananza, l’evento rappresenta il ritorno degli Stati baltici nella famiglia europea» (Comunicato stampa del Consiglio dei ministri, 12 giugno 1996). L’accordo venne ratificato dal Riigikogu (Parlamento estone) il 1° agosto 1995 e dal Parlamento europeo il 15 novembre. L’accordo aveva l’obiettivo di fornire un quadro istituzionale che sostenesse l’integrazione dell’Estonia nell’Unione europea (v. Integrazione, metodo della). Oltre ad approfondire la cooperazione nel settore economico e commerciale, l’Accordo europeo facilitava anche il dialogo politico e la cooperazione culturale e finanziaria. Il 28 novembre 1995, subito dopo la ratifica dell’Accordo da parte del Parlamento europeo, l’Estonia presentò la sua candidatura per l’adesione all’UE.

Si ritenne che i criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione), pur rappresentando una base solida per valutare le credenziali politiche dei paesi candidati, non considerassero sufficientemente le specifiche condizioni dei singoli Stati. Nel dicembre 1995, quindi, il Consiglio europeo di Madrid richiese alla Commissione europea di redigere pareri (v. Parere) (avis) su ognuno dei nuovi paesi candidati che fossero pubblicati col nome di “Agenda 2000”. Il Consiglio decise inoltre di organizzare una conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) in vista dell’Allargamento dell’UE.

Sul versante estone, diversi organismi contribuirono all’adesione dello Stato all’UE, il più importante dei quali fu il Consiglio di alti funzionari statali. Il Consiglio comprendeva alti funzionari di tutti i ministeri del governo (eccetto il ministero della Difesa) e si riuniva due volte al mese per discutere sul coordinamento delle attività relative all’integrazione dello Stato nell’UE. Il Consiglio venne coadiuvato dall’Ufficio per l’integrazione europea, le cui principali responsabilità erano tenere aggiornato il primo ministro sul processo di integrazione e mantenere un data base completo riguardo all’Armonizzazione della legislazione estone con l’Acquis comunitario. L’Ufficio si occupava anche di apportare ogni modifica al programma nazionale per l’adozione dell’acquis richiesta dal processo negoziale e di aumentare la consapevolezza pubblica e il sostegno all’adesione dell’Estonia all’UE. Le attività del primo ministro, del Consiglio di alti funzionari statali e dell’Ufficio per l’integrazione europea furono strettamente monitorate dai tredici membri della multipartitica Commissione affari europei del Parlamento che venne istituita nel gennaio 1997.

Nel valutare singolarmente le candidature dei paesi, l’Unione europea riconobbe che alcuni Stati realizzavano maggiori progressi di altri e al summit di Lussemburgo nell’aprile 1997, il Consiglio europeo annunciò che aveva deciso «di convocare una serie di conferenze intergovernative bilaterali nella primavera del 1998 per avviare negoziati con Cipro, Ungheria, Polonia, Estonia, Repubblica Ceca e Slovenia sulle condizioni della loro adesione all’Unione e i conseguenti adeguamenti dei Trattati». Sebbene l’Estonia fosse rientrata in questa lista ristretta di candidati grazie soprattutto ai progressi compiuti sul fronte economico, rimaneva comunque il paese più povero tra i candidati dell’Europa orientale ad avviare i negoziati nel 1998, con un PIL pro capite pari ad appena il 23% della media europea. Riconoscendo la delusione dei vicini baltici per non essere stati inclusi nella prima ondata, Tallinn cercò di promuovere l’idea che l’inclusione dell’Estonia avrebbe portato benefici anche alla Lettonia e alla Lituania «facendo conoscere meglio all’UE i problemi e le prospettive di riforma di tutti e tre gli Stati» (v. Lofgren, 1998). Sul piano della sicurezza, si ritenne che avere almeno uno Stato baltico in “Occidente” avrebbe avvantaggiato tutti e tre, poiché qualsiasi minaccia di aggressione da parte della Russia verso un membro dell’UE avrebbe comportato gravi conseguenze per le relazioni della Russia con l’intera Europa, creando pertanto «una sorta di associazione tra il comportamento russo nei riguardi degli Stati baltici e la relazione generale dell’UE con la Russia» (v. Asmus, Nurick 1996, p. 134).

Il 31 marzo 1998, l’UE aprì i negoziati di adesione con la prima ondata di paesi candidati, subito dopo l’entrata in vigore dell’Accordo europeo il 1° febbraio. Esso fornì a ogni paese candidato un partenariato per l’adesione (v. anche Strategia di preadesione), in cui venivano definite «in un unico quadro le aree prioritarie di ulteriore intervento individuate nel parere della Commissione sulla candidatura dell’Estonia all’adesione all’Unione europea, gli strumenti finanziari disponibili per consentire al paese di realizzare tali priorità», nonché le condizioni cui sarebbe stata soggetta tale assistenza. All’epoca, tuttavia, la società estone attraversava una fase di crescente Euroscetticismo. In un sondaggio d’opinione condotto nel maggio 1998, solo il 44% dei cittadini estoni si espresse a favore dell’adesione all’UE e furono sollevate particolari critiche alla velocità del programma di riforme e all’impatto dell’adesione su questioni quali l’agricoltura e l’immigrazione. Inoltre, si riteneva che tale adesione potesse paralizzare l’impronta economica liberista dell’Estonia. Alcuni estoni arrivarono al punto di sostenere che attraversare il Golfo di Finlandia avrebbe significato un “ritorno al socialismo”.

Nel settembre 1998, la Commissione pubblicò la prima delle sue relazioni periodiche sui progressi dell’Estonia verso l’adesione, nella quale pur lodando il Parlamento estone per i progressi compiuti nelle riforme economiche si deplorava il fatto che il Parlamento non avesse ancora apportato le modifiche alla legge sulla cittadinanza «per facilitare la naturalizzazione dei bambini apolidi»

Il processo negoziale fu diviso in quattro fasi: controllo della legislazione, preparazione delle posizioni, negoziati e conclusione dell’Accordo di adesione. Al raggiungimento della penultima fase del processo, il governo formò una delegazione per condurre i negoziati con i rappresentanti dell’UE. Tale delegazione venne guidata dai vari ministri degli Esteri estoni e incluse rappresentanti di tutti i ministeri (escluso quello della Difesa), l’Ufficio dell’integrazione europea e la Missione estone presso l’UE, 47 persone in totale.

La Commissione continuò a monitorare i progressi dell’Estonia verso l’adesione. Nella relazione periodica del 1999, pur apprezzando le riforme economiche intraprese, la Commissione espresse preoccupazione in merito all’adozione della legge sulla lingua, che limitava «l’accesso degli allofoni nella vita politica e economica», costituiva «un regresso» e si sarebbe dovuta modificare. Ciò nonostante, furono avviati i negoziati per 23 dei 31 capitoli dell’acquis, otto dei quali erano stati chiusi alla fine del 1999.

La successiva relazione annuale rilevò con soddisfazione che le esportazioni dell’Estonia verso l’UE erano aumentate raggiungendo il 73% delle esportazioni complessive e che le importazioni dall’UE costituivano il 73% delle importazioni totali. La Commissione esprimeva soddisfazione per l’introduzione delle modifiche alla legge sulla lingua e per l’adozione del programma nazionale di integrazione per i cittadini non estoni, ma sollecitò l’Estonia a garantire che venisse implementata la legge sulla lingua al fine di adeguarla agli standard internazionali e all’accordo europeo. Si raccomandava altresì di rafforzare i poteri dell’Ombudsman (v. Difensore civico) in particolare in merito alla tutela delle minoranze. Alla fine del 2000 tutti i capitoli vennero negoziati e altri otto erano stati chiusi.

Il Riigikogu portò avanti il programma di armonizzazione prestando particolare attenzione all’integrazione dei cittadini non estoni. L’UE si congratulò con il parlamento per gli sforzi compiuti, incoraggiandolo a migliorare ulteriormente il processo di naturalizzazione, a diffondere l’insegnamento della lingua e a sensibilizzare maggiormente la popolazione in generale sulla questione dell’integrazione. Tuttavia, nel marzo 2001, il sostegno all’adesione all’UE scese al di sotto del 40% a causa della velocità delle riforme economiche e del loro impatto sul tenore di vita nonché per ciò che fu avvertita come interferenza della Commissione in merito alle leggi sulla cittadinanza e sulla lingua estoni.

La sesta e ultima relazione periodica sull’adesione dell’Estonia all’Unione europea fu pubblicata il 14 ottobre 2002 e confermò i progressi compiuti nell’integrazione della comunità russofona, con l’eliminazione dei requisiti linguistici per i candidati alle elezioni parlamentari e locali e la promozione dell’apprendimento della lingua e di scambi culturali nell’ambito del programma nazionale di integrazione. Essa attestava inoltre che l’Estonia aveva un’economia di mercato funzionante e che il proseguimento del percorso di riforme intrapreso avrebbe consentito all’Estonia di far fronte alla pressione della concorrenza e alle forze di mercato all’interno dell’Unione (v. anche Politica europea di concorrenza).

Considerando che l’Estonia era riuscita a chiudere provvisoriamente i negoziati di tutti e 31 i capitoli, i capi di Stato e di governo degli esistenti Stati membri al Consiglio europeo di Copenaghen del 13 dicembre 2002 stabilirono che i paesi candidati avrebbero firmato il Trattato di adesione il 16 aprile 2003 ad Atene. Con l’approvazione da parte dell’UE, l’unico ostacolo rimanente per l’Estonia era il referendum sull’adesione all’UE fissato il 14 settembre 2003. Considerato che nell’estate del 2003 il sostegno all’adesione era solo del 48%, non vi era alcuna garanzia che il referendum venisse approvato.

Il referendum sull’adesione all’Unione europea e sull’approvazione della legge sugli emendamenti alla Costituzione ebbe esito positivo, con il 66,8% dei voti a favore, la percentuale più bassa tra quelle registrate negli altri paesi candidati all’adesione dell’Europa orientale. I vincoli potenziali all’economia estone, l’impatto delle riforme sul reddito personale e la perdita di sovranità erano le motivazioni principali dei voti contrari. L’Estonia diventò alla fine membro ufficiale dell’UE il 1° maggio 2004.

Come avvenne in Lettonia, il processo che l’Estonia intraprese per armonizzare le sue strutture politiche, economiche e sociali con quelle dell’UE entrò in conflitto con il processo di costruzione dello Stato nazione che il paese andava attuando allo stesso tempo, in particolare riguardo alla cittadinanza, alla lingua e ai diritti delle minoranze. Il periodo iniziale dell’indipendenza è forse il più importante della storia estone, poiché la repubblica tra le due guerre fornì lo spazio politico all’interno del quale fu promossa per la prima volta l’identità nazionale degli estoni, che a sua volta fu interiorizzata dalla popolazione in generale. Dopo cinquant’anni di occupazione dell’URSS e di politica sovietica della nazionalità, tuttavia, la percentuale autoctona della popolazione estone era diminuita passando dal 90% del 1939 al 64,7% della fine degli anni Ottanta. Partendo dalla riconquista dell’indipendenza dall’URSS, quindi, il nuovo governo nazionale cercò di ricreare la repubblica degli anni fra le due guerre, di sgomberare il proprio territorio da ogni vestigia del dominio sovietico e di rivendicare gli elementi di statualità e lo status di entità nazionale andati perduti.

Al contempo, il nuovo governo estone cercò di distaccarsi il più possibile dal controllo russo. Sebbene il Cremlino fosse stato costretto a riconoscere l’indipendenza degli Stati baltici, il governo russo continuò a trattare l’Estonia, la Lettonia e la Lituania come se facessero ancora parte della sua sfera di influenza. Il desiderio degli estoni di aderire all’UE e quindi di “ritornare in Europa” fu alimentato tanto dalle preoccupazioni relative all’identità nazionale e alla sicurezza, quanto da considerazioni di carattere economico.

Nel tentativo di distaccarsi dalla Russia e di ricreare lo Stato nazione del periodo tra le due guerre, la politica estera e interna dell’Estonia ebbe inevitabilmente un impatto significativo sulla vita delle numerose minoranze russofone all’interno dello Stato e minacciò di mettere a repentaglio gli impegni assunti in merito al rispetto e alla protezione delle minoranze nell’ambito dei criteri di Copenaghen. Il trattamento preferenziale accordato agli estoni autoctoni in termini di diritti di cittadinanza e di lingua spinse l’UE e altre organizzazioni europee a intervenire ripetutamente a favore delle minoranze russofone. La questione dell’integrazione nell’Unione europea pertanto sollevò un importante dibattito in Estonia. Mentre alcuni ritenevano che l’integrazione europea fosse l’unico modo per garantire la sicurezza, per proteggere lo Stato dal controllo russo e per salvaguardare la cultura e l’identità nazionali dall’assimilazione della civiltà ortodossa, altri criticavano l’influenza esercitata da Bruxelles nell’ambito della legislazione sulla cittadinanza e dei diritti delle minoranze nel loro Stato, e ritenevano che l’adesione all’UE minacciasse l’identità che loro speravano innanzitutto di difendere.

Sebbene il presidente Lennart Meri respingesse le critiche secondo cui la nazione estone avrebbe perso la propria identità culturale a causa dell’integrazione europea, sottolineando come gli estoni fossero riusciti a preservare e difendere la loro cultura nel corso dei secoli e che l’Europa alla fine del secolo sarebbe stata in grado di trovare un modo armonioso per associare le aspirazioni condivise con le diverse identità, questa posizione non sembrava valere per l’identità all’interno dei confini dell’Estonia. Le richieste delle organizzazioni europee affinché Tallinn ammorbidisse la sua posizione verso le minoranze russe furono spesso oggetto di forti critiche nel paese. Kristiina Ojuland, leader della delegazione estone presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e futuro ministro degli Affari esteri, criticò l’insistenza del Consiglio affinché l’Estonia garantisse l’istruzione secondaria in lingua russa fino all’età di 18 anni e fino a quando ci fosse stata una sufficiente richiesta da parte dei genitori.

Ciò nonostante, il governo avviò sin da allora un programma nazionale di integrazione, riconoscendo che in Estonia emergendo emergeva un modello di «due società in un unico paese», il quale poteva diventare «pericoloso sia sul piano sociale che su quello della politica di sicurezza. Una volta raggiunto l’obiettivo a lungo termine dell’adesione all’UE, il compito primario dell’Estonia dovrà essere quello di creare una società coesa.

Richard Mole (2008)

Box 1 → Banca centrale della Repubblica di Estonia

Box 2 → Camera di commercio e industria dell’Estonia (ECCI)

Box 3 → Open Estonia Foundation (OEF)

Box 4 → Movimento europeo in Estonia




Finlandia

La Finlandia aderì all’Unione europea nel 1995 assieme alla Svezia e all’Austria. Il paese aveva partecipato attivamente all’integrazione europea sul piano economico sin dall’inizio di questo processo, ma istituzionalmente aveva mantenuto una posiziona distaccata (v. Integrazione, metodo della). Gli unici accordi formali furono quelli associativi con l’Associazione europea di libero scambio (EFTA) nel 1961, seguiti dall’adesione a pieno titolo nel 1986 e da un accordo di libero scambio con la Comunità economica europea (CEE) conclusosi nel 1973. Nel 1989 la Finlandia aderì al Consiglio d’Europa.

L’adesione all’UE rappresentò un cambiamento radicale nella storia della Finlandia indipendente. Persino alla fine degli anni Ottanta, quando la Guerra fredda stava volgendo alla fine, la piena adesione alla Comunità era nella migliore delle ipotesi una visione utopistica e per vari motivi una scelta non fattibile per il paese. L’adesione all’Unione è stata associata a una rapida trasformazione della posizione internazionale del paese, alla fine della Guerra fredda, alla dissoluzione dell’Impero sovietico, all’evoluzione della CE in UE e alla crisi dell’economia finlandese.

Il corso della politica di integrazione finlandese venne subito definito nel secondo dopoguerra. La Finlandia partecipò economicamente alla ripresa e alla ricostruzione europea postbellica attraverso il settore principale delle esportazioni, le industrie forestali. Queste industrie contavano fortemente sull’accesso ai loro tradizionali mercati dell’Europa occidentale del legno segato, della cellulosa e della carta, le cui esportazioni negli anni Quaranta e Cinquanta raggiunsero il picco massimo dell’80% delle esportazioni complessive. Per quanto riguarda le importazioni, il paese dipendeva dai fornitori occidentali di beni di investimento, di macchinari e di prodotti tecnologici. Aveva un’economia tipicamente piccola e aperta, dove il commercio estero generava una parte consistente del reddito nazionale. I cambiamenti del regime economico e commerciale europeo influirono quindi direttamente sulle sue fortune economiche. La dipendenza economica dall’Europa occidentale creò un motivo valido per garantire l’accesso ai suoi mercati tradizionali nonché per mantenere la competitività contro i principali concorrenti in Svezia e in Norvegia, dove l’industria forestale rappresentava analogamente un settore importante delle esportazioni.

Malgrado forti fattori economici legassero la Finlandia all’Europa occidentale, sul fronte istituzionale la sua leadership dovette tenere conto della posizione geopolitica del paese all’interno della sfera di interesse sovietica. L’influenza sovietica nella politica estera, e in certa misura in quella interna, si stabilì come diretta conseguenza del conflitto mondiale. Tuttavia, la Finlandia rimase un’economia di mercato di stile occidentale con un sistema politico democratico e non seguì lo stesso percorso dell’Ungheria e della Cecoslovacchia nella transizione a una democrazia popolare (v. Repubblica Ceca; Slovacchia). Ciò nonostante, il paese rimase sotto l’influenza sovietica e dovette di conseguenza adeguare la sua politica estera. Questo era lo scenario in cui, nell’estate del 1947, la Finlandia fu invitata a partecipare alle discussioni che portarono al Piano Marshall. Dopo un intervento sovietico nel decision-making del governo finlandese, il paese dovette declinare l’invito, in linea con gli altri paesi all’interno della sfera sovietica.

La Finlandia non ricevette quindi gli aiuti previsti dal Piano Marshall e non partecipò all’attività dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE). Non divenne pertanto membro dell’Unione europea dei pagamenti, meccanismo istituito nel 1950 per agevolare il commercio multilaterale tra i paesi appartenenti all’OECE, né tanto meno partecipò al programma di liberalizzazione degli scambi della stessa. A causa di questi fattori, non poté mantenere una politica commerciale del tutto protezionistica e le restrizioni alle importazioni fino al 1961, quando si associò all’EFTA.

A livello mondiale, nel 1948 la Finlandia aderì alle istituzioni di Bretton Woods, ovvero al Fondo monetario internazionale (FMI) e al predecessore della Banca mondiale, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS). Attraverso la BIRS ottenne i prestiti per la ricostruzione che compensarono in misura limitata gli aiuti mancati del Piano Marshall. Nel 1950 aderì inoltre all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) partecipando quindi alle sessioni successive per la riduzione delle tariffe doganali e la liberalizzazione del commercio. L’Unione Sovietica non si oppose all’adesione finlandese a tali istituzioni, considerato che erano tutte riunite sotto l’organizzazione ombrello delle Nazioni Unite, a cui la Finlandia aderì infine nel 1956. Sembra che le obiezioni sollevate dall’Unione Sovietica riguardo all’associazione occidentale, oltre alle ovvie preoccupazioni per questioni in materia di difesa, riguardassero soprattutto gli aspetti economici dell’integrazione europea e in particolare le sue forme istituzionali.

Nel 1944-1952, la Finlandia corrispose all’Unione Sovietica un cospicuo risarcimento dei danni di guerra (circa 570 milioni di dollari americani in valuta del 1952). Ciò gravò pesantemente sul suo sviluppo economico, che fu tuttavia compensato dal commercio fiorente e costante con i precedenti avversari. Nel 1947 un accordo commerciale stabilì i principi fondamentali del commercio finno-sovietico. La Finlandia concesse all’Unione Sovietica il trattamento della nazione più favorita, ad ampio raggio e “incondizionato e illimitato”, che avrebbe creato complicazioni al paese nei successivi negoziati con l’EFTA e con la CEE.

Il commercio finno-sovietico si basava su scambi bilaterali sotto forma di compensazione e baratto, in cui il rublo non convertibile era utilizzato come moneta di scambio e dal 1944 al 1991 rappresentò in media circa il 16% del commercio estero complessivo della Finlandia. Il resto del suo commercio era soprattutto con l’Europa occidentale. Dal 1950 in poi gli scambi di beni economici finno-sovietici vennero regolamentati all’interno di accordi quadro quinquennali e di protocolli annuali più dettagliati. Il sistema di compensazione bilaterale si concluse nel 1990-1991, anni di ristagno e agitazione economici nell’Unione Sovietica. Dal 1991 i paesi commerciarono in valute convertibili.

Durante la Guerra fredda, la Finlandia fu tra i principali partner commerciali dell’Unione Sovietica. Le imprese finlandesi beneficiarono di un accesso preferenziale e relativamente facile ai mercati sovietici dei beni lavorati, dei macchinari e dei prodotti dell’industria pesante, dell’elettronica, dell’alta tecnologia e dei beni di consumo. Mentre il commercio finlandese con i paesi occidentali e orientali era anticiclico, quello con l’Unione Sovietica bilanciò la sua economia rispetto alle recessioni in Occidente e aprì ampi mercati di esportazione alle industrie finlandesi nascenti e alle aziende che non erano competitive in Occidente. Il commercio sovietico fornì ai finlandesi un regime commerciale protezionistico limitato e stabile, mentre la liberalizzazione avanzò in Occidente influendo sul ruolo della Finlandia nell’economia globale.

Il commercio fornì un incentivo economico ad ambo le parti per mantenere relazioni amichevoli anche sul piano politico tra i vari paesi. Lo scenario delle relazioni e degli obiettivi politici, a sua volta, influenzò le realtà economiche. Le relazioni commerciali con un piccolo paese capitalista e con un grande paese socialista vennero utilizzate a scopo di propaganda, soprattutto nell’Unione Sovietica, ma anche in Finlandia i vantaggi derivanti dalle sue relazioni economiche con l’Unione Sovietica servirono da sostegno per attente politiche estere e di integrazione verso l’Occidente.

Sotto il profilo economico, si potrebbe quindi affermare che la Finlandia si sia integrata sia con l’Est che con l’Ovest, allora in Guerra fredda, anche se a livello di commercio e di investimenti la parte occidentale predominò. Dal punto di vista politico, tuttavia, le sue relazioni con l’Unione Sovietica determinarono i limiti entro cui il paese poteva sviluppare relazioni con nuove ed emergenti forme di integrazione dell’Europa occidentale. Negli anni Cinquanta emersero anche forti tendenze protezionistiche che contrastarono la partecipazione ai progetti di integrazione occidentale, ma dagli anni Sessanta in poi tali tendenze divennero minoritarie.

In risposta alla liberalizzazione commerciale in tutta l’Europa occidentale, la Finlandia soppresse i controlli dei tempi di guerra e i regolamenti amministrativi del suo commercio estero nel 1957 e si orientò verso una politica commerciale più liberale con l’Occidente. La vera svolta, tuttavia, avvenne con l’associazione all’EFTA, il cosiddetto accordo finno-EFTA, che implicò anche un impegno politico per tenere il paese al passo con i principali piani di liberalizzazione commerciale regionale in Europa occidentale.

L’accordo finno-EFTA confermò la partecipazione economica del paese all’integrazione regionale ma per preoccupazioni di politica estera, sarebbero state necessarie disposizioni istituzionali speciali. La Finlandia escluse qualsiasi forma di cooperazione politica o sovranazionale. Per il paese l’integrazione europea si limitava all’integrazione economica e più specificamente al libero scambio dei beni lavorati.

L’Unione Sovietica acconsentì all’associazione della Finlandia all’EFTA, ma guardò con sospetto alla piena adesione a tale organismo. Nemmeno i finlandesi vi ambivano, considerato che l’accordo di associazione comprendeva già alcuni vantaggi, quali un più graduale piano di riduzione dei dazi all’importazione. Grande importanza rivestirono le concessioni accordate al paese dagli altri membri dell’EFTA per mantenere inalterato il suo regime commerciale con l’Unione Sovietica. Nei negoziati finno-sovietici dell’autunno del 1960 si concordò che in base al principio della nazione più favorita stabilito nell’accordo commerciale finno-sovietico del 1947, la Finlandia dovesse accordare le stesse preferenze commerciali all’Unione Sovietica di quelle date ai membri dell’EFTA. Secondo i regolamenti del GATT, la Finlandia non aveva la necessità di estendere le preferenze per i membri dell’EFTA anche ai membri del GATT e ciò significò che l’Unione Sovietica ricevette un trattamento speciale dalla Finlandia.

Molti paesi dell’EFTA vi si opposero temendo che l’Unione Sovietica potesse rivolgere loro le stesse richieste. Inoltre ciò violava le norme GATT, ma alla fine, non furono degli obiettivi di politica economica strettamente definiti a giocare in favore dell’accettazione dell’accordo tariffario finno-sovietico del 1960. Le potenze occidentali, quali il Regno Unito, gli Stati Uniti nonché la Svezia, paese non allineato, miravano a mantenere collegamenti più forti possibili con la Finlandia per interessi generali di politica di sicurezza ed estera. Il timore era che se la Finlandia non avesse stabilito relazioni con l’EFTA e non avesse partecipato alla sua integrazione commerciale, l’influenza sovietica sull’economia e sulla vita politica finlandesi sarebbe aumentata e la nazione sarebbe ricaduta nel blocco sovietico. Nello scenario della Guerra fredda, ciò avrebbe rappresentato un chiaro ostacolo per le potenze occidentali in Europa.

Box 1 → Il non allineamento militare della Finlandia nell’Unione

In Finlandia, le riduzioni tariffarie dell’EFTA vennero attuate nel 1961-1967. Ciò diede un forte impulso al commercio della Finlandia con i paesi dell’EFTA, la cui quota nel commercio estero finlandese registrò un aumento. Le relazioni economiche con i paesi scandinavi, in particolare con la Svezia, si rafforzarono. Nel 1969-1974, la Svezia fu il maggior partner commerciale della Finlandia, più del Regno Unito, dell’Unione Sovietica e della Germania Ovest. In seguito, gli effetti della liberalizzazione dell’EFTA si equilibrarono e il rincaro del petrolio, il bene di importazione più importante per la Finlandia, aumentò la partecipazione del commercio orientale. Al contempo, tuttavia, le esportazioni si diversificarono e ben presto si sviluppò il commercio intra-industriale. Furono avviati programmi di investimenti industriali su larga scala e migliorò anche la competitività delle industrie del mercato interno.

Ciò creò i presupposti per i negoziati della Finlandia del 1968-1970 sul potenziamento proposto di una cooperazione economica nordica e di un’unione doganale, il cosiddetto Piano Nordek. In termini economici, l’integrazione nordica era una soluzione interessante, poiché le relazioni commerciali e gli investimenti all’interno della regione nordica si erano intensificati a seguito della creazione dell’EFTA negli anni Sessanta, e tale tendenza era ritenuta vantaggiosa per il paese. Nei negoziati per il Piano Nordek, la Finlandia si batté per ottenere condizioni simili a quelle raggiunte nell’accordo con l’EFTA: la struttura istituzionale nordica proposta avrebbe dovuto essere puramente economica senza contenere alcun aspetto di cooperazione politica. I negoziati portarono a un progetto di trattato pronto da essere firmato all’inizio del 1970.

Il piano alla fine fallì per la decisione del governo finlandese di non firmare il trattato nel marzo del 1970. Si verificò nuovamente quanto era successo con l’invito ad aderire al Piano Marshall nell’estate del 1947: l’intervento sovietico nel decision-making finlandese. Prima che i finlandesi prendessero la loro decisione finale sul trattato, la leadership sovietica espresse il suo dissenso all’adesione della Finlandia al Piano Nordek. Ciò creò una barriera politica, che i finlandesi avrebbero potuto sormontare, ma pagando un alto prezzo politico e a rischio di reazioni del tutto imprevedibili da parte del vicino orientale. Nemmeno il governo inoltre era compatto riguardo all’accettazione del Piano Nordek. All’interno della coalizione di governo, il Partito di centro era meno entusiasta del Partito socialdemocratico. Persino il Presidente della Repubblica Urho Kekkonen (1956-1981) non intendeva sfidare i sovietici a tal riguardo. Il piano venne abbandonato con grande disappunto di uno dei suoi più accaniti sostenitori, il primo ministro socialdemocratico Mauno Koivisto, che in seguito prese il posto del presidente Kekkonen (1981-1994).

La rinuncia al Piano Nordek coincise con nuove aperture sul fronte principale europeo. Dopo il Vertice CE dell’Aia, svoltosi nel dicembre del 1969, le porte della comunità vennero aperte a nuovi membri. Altro fattore che contribuì al fallimento del Piano Nordek fu l’intenzione della Danimarca e della Norvegia di perseguire l’adesione alla CE, avendo i finlandesi ribadito che il prerequisito per il successo dei negoziati sarebbe stato che nessuna parte parlasse di adesione con la CE.

Box 2 → La “dimensione nordica”

Nel corso degli anni Sessanta la politica condotta dal presidente Charles de Gaulle di ostacolare il cammino del Regno Unito verso la CEE si adattò perfettamente alla Finlandia, poiché il paese assicurò che l’accordo con l’EFTA del 1961 sarebbe stato sufficiente per far raggiungere alle esportazioni finlandesi i più grandi mercati del Regno Unito. Nel corso del decennio, la Finlandia seguì una politica di integrazione particolarmente prudente e attendista, e non promosse altra iniziativa se non quella nel 1968 di diventare membro dell’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (OCSE) (v. anche Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che ebbe scarsa rilevanza politica. L’Allargamento della CE, tuttavia, pose una sfida ai finlandesi, poiché limitò l’utilità dell’accordo con l’EFTA. E lo stesso effetto ebbe lo sviluppo della politica commerciale comunitaria e delle tariffe esterne. L’Unione Sovietica guardava alla CE con un sospetto maggiore di quello mostrato verso l’EFTA e la leadership finlandese era ben consapevole dei problemi inerenti all’apertura di negoziati con la Comunità.

La Finlandia definì i suoi obiettivi e le sue strategie di negoziato con la CE nel corso del 1970. Mirò a un accordo di natura “puramente economica”, che assicurasse benefici simili a quelli dell’accordo con l’EFTA. Diversamente dalla Svezia, la Finlandia non nutrì mai alcuna speranza di un’adesione a pieno titolo. Anche un’associazione venne ritenuta impossibile a causa delle clausole del trattato di Roma e del presupposto che i paesi associati sarebbero alla fine diventati membri della Comunità (v. anche Trattati di Roma). La Finlandia perseguiva il libero scambio di beni industriali ma nessun accordo istituzionale, e non intendeva aprire alcuna discussione sul settore agricolo.

I negoziati iniziarono alla fine del 1970 e si conclusero a Bruxelles nel 1971-1972. La Finlandia negoziò insieme alla Svezia e all’Austria, che per ragioni personali avevano deciso di non perseguire la piena adesione alla comunità. Nei negoziati, la Finlandia dovette fare una serie di concessioni e accettare dazi aggiuntivi alle esportazioni di carta, poiché soprattutto i francesi cercavano di proteggere le loro cartiere dalle più competitive imprese nordiche. Le tendenze protezionistiche emersero dovunque, anche all’interno della Comunità e soprattutto nel Regno Unito, che precedentemente aveva condotto una politica liberale per le importazioni verso le industrie forestali nordiche. La Comunità a sua volta accettò una serie di misure protettive temporanee da parte dei finlandesi, ma il bilancio complessivo dell’accordo fu a favore della comunità. Alla fine, l’importanza dell’accordo di libero scambio per i finlandesi era cosa ben nota e la CE non evitò di sfruttare uno scenario di negoziato asimmetrico a proprio vantaggio.

Nell’estate del 1972 una bozza di accordo per il libero scambio di beni industriali tra la Finlandia e la comunità era pronto per essere firmato. A differenza di altri governi, che erano disposti ad andare avanti, il governo finlandese decise di rimandare la firma. Bisognò attendere fino all’autunno del 1973 perché venisse finalmente firmato e ratificato l’accordo con la CE, che entrò in vigore all’inizio del 1974, un anno dopo rispetto a quanto avvenne con gli altri paesi.

I motivi del posticipo della firma vennero discussi all’epoca e anche successivamente in Finlandia. Anche se la Finlandia non perseguiva l’adesione alla Comunità, l’accordo di libero scambio era in sé una questione fortemente contestata nell’ambito della politica interna. Diversamente da altri precedenti accordi, il GATT o l’accordo con l’EFTA, lo spettro del libero scambio CE portò l’opinione pubblica e gli esperti economici a soppesare vantaggi e svantaggi della linea politica adottata. La Nuova sinistra che dal 1966 in poi aveva guadagnato terreno, condusse una campagna molto attiva contro l’accordo di libero scambio. I socialdemocratici che erano al governo, si divisero su tale questione, e l’ala sinistra del partito e gli attivisti più giovani fecero pressioni sulla leadership più europeista affinché non accettasse il trattato. Il partito socialdemocratico finì col richiedere una legislazione protettiva che conferisse al governo poteri speciali per intervenire nell’economia nazionale qualora, ad esempio, il libero scambio con la CE originasse disoccupazione o altri problemi di adeguamento. La legislazione interventista venne contrastata dai partiti di destra, che alla fine dovettero approvarla per poter garantire la realizzazione dei fondamentali accordi di libero scambio. La legislazione concernente le cosiddette “leggi di salvaguardia” venne attuata negli anni 1972-1976.

Gli ambienti imprenditoriali sostennero fortemente il trattato, ma ebbero difficoltà a trovare misure adeguate per contrastare la campagna antieuropeista presso l’opinione pubblica, e si concentrarono quindi sugli attori politici. Il Partito di centro, un tempo Lega agraria e forza principale della politica finlandese, si espresse in principio a favore del trattato poiché non incideva sul settore agricolo, da cui attingeva una quota consistente di voti. Molti elettori del Partito di centro nutrivano anche un legittimo interesse nel settore forestale fortemente europeista, poiché guadagnavano una parte sostanziosa del loro reddito dalla vendita di materie prime (legno tondo) alla principale industria di esportazione. A complicare la situazione intervenne il presidente Kekkonen, che era arrivato a ricoprire tale carica dalle file della Lega Agraria, e che presumibilmente associò la sua rielezione come presidente alla tabella di marcia dell’accordo con la CE. Kekkonen, che non aveva sfidanti politici credibili, decise ciò nonostante di candidarsi a un quarto mandato come capo di Stato non attraverso regolari elezioni ma con una votazione in Parlamento. Ottenere la maggioranza necessaria dei 5/6 al parlamento non fu cosa facile e incontrò anche l’opposizione da parte della destra, ma l’associazione tra l’importante questione della politica di integrazione e la sua stessa carica giocò a suo favore. I sostenitori di destra del trattato CE accettarono con riluttanza questo costo aggiuntivo allo stesso modo in cui fecero con le richieste legislative dei social-democratici.

A rendere la situazione finlandese ancora più complessa furono le posizioni mutevoli dell’Unione Sovietica. Fino alla primavera del 1972, la leadership finlandese sperava che l’accordo con la CE non creasse difficoltà con i sovietici. Posto che tale accordo seguiva essenzialmente i principi stabiliti nell’accordo con l’EFTA del 1961, non influendo quindi sulle relazioni commerciali con l’Unione Sovietica, i finlandesi speravano che l’Unione Sovietica lo avrebbe accettato come naturale sviluppo dell’integrazione economica del paese con altri paesi dell’Europa occidentale.

Quando il progetto di trattato venne terminato, nell’estate del 1972, i sovietici, tuttavia, assunsero un atteggiamento più critico. Nelle comunicazioni personali con il presidente Kekkonen espressero il loro desiderio che i finlandesi rimandassero la firma dell’accordo. Seguirono una serie di difficili trattative tra Kekkonen e i leader sovietici in cui il presidente finlandese si batté duramente per far accettare il trattato negoziato ai sovietici. A seguito di negoziati prolungati e di continue rassicurazioni da parte di Kekkonen sulla natura prettamente commerciale dell’accordo e sull’importanza che esso rivestiva per il paese, e poiché i comunisti e le forze di sinistra finlandesi non erano stati capaci di promuovere una maggiore opposizione nazionale, nell’autunno del 1973 l’esito negoziato venne alla fine accettato dai sovietici.

Rimane ancora un mistero il motivo per cui l’Unione Sovietica nel 1972-1973 esercitò simili pressioni sulla Finlandia. Il presidente Kekkonen aveva ottimi rapporti di lavoro e di fiducia con i leader sovietici, a partire da Nikita Chruščёv fino a Leonid Brežnev. I sovietici probabilmente si preoccuparono di garantire la sua rielezione e sperarono che le pressioni interne avrebbero convinto i finlandesi stessi ad accantonare l’accordo con la CE. Anche le relazioni finno-sovietiche attraversarono un momento di crisi dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia nel 1968. Mosca guardò con maggiore sospetto agli sviluppi esteri e nazionali finlandesi. Un’altra spiegazione plausibile è che l’Unione Sovietica mirasse in quel momento a una più ampia struttura commerciale per l’intera Europa che avrebbe favorito il commercio e il trasferimento di tecnologia tra Est e Ovest aiutando il paese a risolvere i propri problemi economici. Può darsi che il rinvio dell’accordo della Finlandia con la CE fosse una mossa strategica e difensiva per assicurarsi che nessun paese verso il quale l’Unione Sovietica nutriva particolari interessi finisse sotto la maggiore influenza della CE mentre altri negoziati erano in corso.

L’accordo di libero scambio con la CE stabilì le relazioni della Finlandia con la Comunità fino al 1994, quando l’accordo sullo Spazio economico europeo entrò in vigore. Le ultime tariffe doganali per i beni industriali vennero abolite nel 1985. La Finlandia bilanciò il libero scambio con la CE con le rassicurazioni che questo non avrebbe influito sulla sua politica estera di neutralità e che le sue relazioni bilaterali con l’Unione Sovietica sarebbero proseguite su queste linee prestabilite. Il mandato del presidente Kekkonen venne esteso fino al 1978, quando fu rieletto per l’ultima volta. Inoltre, nel 1973 la Finlandia concluse un accordo di cooperazione con il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON) dei paesi socialisti e nel 1974-1976 negoziò nuovi accordi commerciali bilaterali con i paesi europei socialisti minori. Sul piano economico questi trattati ebbero poca importanza ma misero in evidenza in modo simbolico la particolare posizione della Finlandia verso il blocco sovietico.

Negli anni Ottanta la politica di integrazione finlandese fu contrassegnata dalla prudenza e dell’attendismo, e i finlandesi non lanciarono altre iniziative. La piena adesione all’EFTA nel 1986 fu una mera formalità, poiché già dal 1961 il paese era di fatto anche se non giuridicamente membro dell’organizzazione. I programmi di cooperazione settoriale (v. anche Programmi comunitari), come il programma europeo per la tecnologia EUREKA, vennero ritenuti allettanti dai finlandesi, cosicché il paese vi aderì nel 1985. Al contempo, le società finlandesi investirono fortemente nell’alta tecnologia, nella ricerca e lo sviluppo e nei partenariati con imprese europee. Negli anni Ottanta le dimensioni degli investimenti diretti esteri della Finlandia crebbero fino a raggiungere livelli senza precedenti, facendo sospettare alcuni analisti che gli imprenditori ritenessero ormai inadeguata la cauta politica di integrazione del paese. Sul piano economico, la Finlandia mantenne e rafforzò al massimo il suo coinvolgimento in Europa, ma gli assetti istituzionali erano saldamente bloccati dal contesto della Guerra fredda. Le preoccupazioni espresse negli ambienti imprenditoriali finlandesi si scontrarono con una tradizione di decision-making consensuale nella politica commerciale e di integrazione, e la politica attendista predominante non poteva essere facilmente contrastata. Per nuovi sbocchi, gli attori economici dovevano attendere l’iniziativa dei responsabili politici o dei cambiamenti nel contesto esterno di così vasta portata da imporre loro un simile cambiamento.

La politica di integrazione finlandese iniziò a cambiare nel 1989. L’ Atto unico europeo del 1986 spinse i paesi dell’EFTA a rivalutare l’utilità dei tradizionali accordi di libero scambio qualora e quando si fosse istituito in Europa un mercato comune più integrato e a più ampio raggio. Dopo un’iniziativa lanciata del Presidente della Commissione europea, Jacques Delors nel gennaio del 1989, si avviarono i negoziati intesi a creare uno Spazio economico europeo tra la CE e i paesi dell’EFTA. L’obiettivo era ottenere un mercato comune europeo più ampio, che tuttavia avrebbe rispettato le norme e le autorità preposte al Processo decisionale della Comunità.

Nel 1989 il governo finlandese stabilì la realizzazione del SEE come obiettivo prioritario della propria politica di integrazione e il parlamento approvò una serie di relazioni governative che definivano le nuove condizioni e i nuovi obiettivi della politica di integrazione del paese. Al contempo, la Guerra fredda giunse al termine e il blocco sovietico si dissolse. La politica estera finlandese era ormai libera dai vincoli imposti dai sovietici e nel 1989-1990 apparve evidente uno spazio di manovra più ampio nella politica estera e di sicurezza finlandese.

Nel 1990, il governo svedese annunciò improvvisamente la propria intenzione di perseguire l’adesione a pieno titolo alla CE. Non essendone al corrente, la leadership finlandese e soprattutto il presidente Koivisto furono colti alla sprovvista e costretti a riconsiderare la possibilità dell’opzione SEE per il loro paese. La decisione svedese, tuttavia, non determinò subito una revisione degli obiettivi dichiarati. Prima ancora, nel 1989, l’Austria aveva dichiarato di voler perseguire l’adesione alla Comunità senza pur tuttavia influenzare la politica finlandese. Considerate le tradizioni e la risaputa saggezza della politica di integrazione finlandese, per la leadership del paese fu sufficiente una soluzione minima come il SEE, che mirava a garantire interessi economici vitali. Prima del 1991, solo un esiguo gruppo di esperti o di politici prevedeva la piena adesione della Finlandia alla Comunità.

Soltanto dopo il colpo di Stato fallito a Mosca nell’agosto del 1991 il presidente Koivisto rivide le sue scelte e, in privato, stabilì l’adesione a pieno titolo alla CE come obiettivo principale della Finlandia. Nel governo, le posizioni dei partiti della coalizione conservatrice si erano orientate a favore dell’adesione alla CE già all’inizio del 1991. Anche il principale partito di opposizione, il Partito socialdemocratico, stava virando verso una posizione europeista. Nel corso del 1991 fu la volta dell’altro partito della coalizione dei conservatori, il Partito di centro, e della sua leadership. Nel marzo del 1992, il parlamento approvò il progetto di legge che consentiva al governo di avviare i negoziati di adesione con la CE/EU.

Il nuovo orientamento delle posizioni e della linea politica avvenne rapidamente, soprattutto in considerazione della cospicua eredità della politica attendista che era stata tipica nel pieno della Guerra fredda. Fu altrettanto importante il fatto che quando si prese finalmente la decisione di puntare verso l’adesione a pieno titolo, questa ricevette immediatamente un ampio consenso dal governo e dall’opposizione e fu fortemente appoggiata anche dalla generalità dei media.

La decisione finlandese di candidarsi alla CE può essere spiegata da diverse angolature. Potrebbero facilmente rintracciarsi motivi economici dietro l’obiettivo dell’adesione a pieno titolo e il fatto che una forte lobby economica la sostenesse. Tuttavia, perché avvenisse il cambiamento, furono necessarie la trasformazione dello scenario geopolitico in Europa e la rimozione dei vincoli alla politica di sicurezza che impedirono ai finlandesi di considerare prima di allora la piena adesione. L’instabilità nell’Unione Sovietica e la sua incerta transizione dal socialismo verso un’economia di mercato e una democrazia traballante influirono altresì sulla politica finlandese. La tabella di marcia dei negoziati di adesione alla CE con Svezia e Austria spinse i finlandesi a cambiare idea, poiché negoziare contemporaneamente con tutti e tre i paesi senza attendere il successivo round di allargamento dell’UE avrebbe procurato diversi vantaggi.

All’epoca della decisione, la Finlandia attraversava una grave crisi economica di uguale entità della grande depressione dei primi anni Trenta. Tutte le decisioni concernenti la politica di integrazione furono prese in un contesto dominato da una crisi economica forte e in rapida ascesa. Per i finlandesi, collocati come erano lungo la storica e classica linea di confine tra Scandinavia e Russia, tra Est e Ovest, la CE e l’UE rappresentavano anche un ideale di comunità occidentale. L’adesione all’Unione non era priva di significato ideologico e di identità politica.

Box 3 → The “Dilemma Two Plates”

I negoziati SEE si svolsero principalmente nel 1990-1991 e le parti restanti vennero concluse nella primavera del 1992. Fu in quella occasione che vennero risolte anche le maggiori questioni di natura economica dell’adesione finlandese all’UE. I negoziati, quindi, durarono solo un anno, da marzo del 1993 fino a marzo del 1994.

Un prerequisito dei negoziati di adesione fu l’accettazione del diritto comunitario vigente e degli obiettivi definiti nel Trattato di Maastricht, che la Finlandia accettò. Il paese dovette anche modificare l’interpretazione della sua tradizionale politica di neutralità in “non-allineamento militare” per renderla più consona alle aspirazioni di una politica estera comune dell’UE. Le principali difficoltà furono i sussidi agricoli e l’applicazione delle politiche regionali (v. Politica di coesione) e strutturali dell’UE nelle particolari condizioni geografiche e climatiche della Finlandia. Tali questioni causarono problemi lungo tutto il cammino fino alle ultime fasi dei negoziati. La svolta avvenne nel marzo del 1994, con il ruolo guida svolto dalla Germania risoluzione nel superamento dei rimanenti ostacoli. Nel maggio del 1994, il Parlamento europeo e il governo finlandese accettarono l’esito dei negoziati e il 24 giugno dello stesso anno venne firmato a Corfù il Trattato di adesione della Finlandia.

Durante i negoziati del 1993, si mise in discussione anche il consenso nazionale e il Partito di centro si divise su tale questione. Alla fine, il governo riuscì a gestire la crisi e con l’appoggio dell’opposizione dei socialdemocratici, la maggioranza delle forze parlamentari mantenne il sostegno alla candidatura all’adesione. Anche le potenti lobby agricole criticarono fortemente l’adesione, ma furono controbilanciate da lobby imprenditoriali e industriali altrettanto forti e da un movimento sindacale europeista.

Box 4 → Gran commissione del Parlamento

Già nel 1992, il governo finlandese si era impegnato a indire un referendum consultivo sul Trattato di adesione. Si votò nell’ottobre del 1994. Dopo una intensa campagna di entrambe le parti, lo schieramento del “sì” ottenne il 57% dei voti e il parlamento successivamente approvò il progetto di legge per l’adesione a novembre, che fu firmata dal Presidente della Repubblica l’8 dicembre 1994.

Il 1° gennaio 1995, la Finlandia, dopo decenni di complessa contrattazione politica e di speciali accordi istituzionali, entrò nell’UE come membro entusiasta e con un approccio costruttivo e positivo di fronte alle sfide affrontate dall’Unione, quali il Trattato di Amsterdam e la realizzazione della fase finale dell’Unione economica e monetaria (UEM).

Juhana Aunesluoma (2008)




Francia

La Francia, come Stato, ha svolto un ruolo fondamentale nella costruzione europea dal 1945. Cofondatrice dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) nel 1948, del Consiglio d’Europa nel 1949, della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1950, promotrice della Comunità europea di difesa (CED), poi dell’Unione dell’Europea occidentale (UEO) nel 1954, coautrice dei due Trattati di Roma del 1957, la Francia è uno degli Stati al centro dell’avventura europea contemporanea. I due regimi politici francesi successivi, la Quarta e la Quinta repubblica (1947-1958 e a partire dal 1958), hanno conferito all’integrazione europea la sua forma attuale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Tuttavia, pur essendo prevalenti i contributi positivi, le caratteristiche della società francese e la cultura politica delle élites spiegano gli arretramenti e le esitazioni di cui la Francia si è resa responsabile.

La Federazione dell’Europa occidentale

La storia ha inizio nel 1943 quando il Comité français de la libération nationale (CFLN), guidato dal generale Charles de Gaulle, decide di riflettere sulla politica del dopoguerra Ad Algeri, sede del CFLN, i lavori sull’avvenire dell’Europa vengono portati avanti nell’estate 1943 da Jean Monnet, commissario incaricato degli armamenti e degli approvvigionamenti, da René Massigli, commissario per gli Affari esteri, dagli alti funzionari Hervé Alphand e Maurice Couve de Murville, da René Mayer, commissario per le comunicazioni e la Marina mercantile, da Laurent Blum-Picard, già direttore delle miniere, e dal generale de Gaulle, presidente del CFLN. Monnet propone l’instaurazione di un regime democratico in Europa e l’organizzazione economica e politica di un’«entità europea», o ancora la costituzione di uno «Stato europeo della metallurgia pesante in Europa». Mayer vorrebbe una «federazione dell’Europa occidentale» (Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, uno Stato renano che comprenda il Bacino della Ruhr, Italia e Spagna) dotata di una moneta comune. Non si trova un accordo all’interno del CFLN, perché la sorte della Germania resta un argomento controverso. Monnet raccomanda di integrare la Germania in un insieme europeo di cui faccia parte «un paese industriale europeo composto dalla Ruhr, dalla Saar, dalla Renania, dal Lussemburgo». De Gaulle scarta questo progetto che rafforzerebbe la Germania ponendo Francia e Germania all’interno di una stessa unione. La tendenza è piuttosto quella di realizzare una costruzione continentale con il futuro Benelux, una parte del Reich – la Renania – l’Italia, la Svizzera e la Spagna, oppure di organizzare un raggruppamento occidentale intorno alla Francia e al Regno Unito. De Gaulle prende in considerazione la creazione di una federazione economica occidentale limitata alla Francia e al futuro Benelux, «alla quale potrebbe aderire la Gran Bretagna», con la Renania indipendente dal Reich. Gli alleati fanno naufragare quest’unione dell’Europa occidentale incoraggiando paradossalmente il governo provvisorio della Repubblica francese (GPRF) ad assumere posizioni senza futuro sul dissolvimento del Reich.

L’OECE e il Consiglio d’Europa

Qualche anno più tardi il discorso del segretario di Stato americano George Catlett Marshall, il 5 giugno 1947, pone come condizione degli aiuti americani l’unità degli europei. Il Quai d’Orsay pensa ad un’organizzazione economica. Francesi, italiani, belgi e olandesi propongono un esecutivo forte. Ma gli svizzeri rifiutano e scandinavi e inglesi si mostrano contrari. La Francia è costretta ad accettare la partecipazione tedesca. L’Organizzazione europea di cooperazione economica si costituisce il 16 aprile 1948. Comprende 18 membri, tra cui le zone di occupazione tedesche occidentali e le dipendenze d’oltremare dei Paesi membri.

La Gran Bretagna impone la regola dell’unanimità. Gli europei riconoscono la loro interdipendenza e la necessità di cooperare in un quadro intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa). In queste condizioni l’organizzazione non può assicurare l’integrazione delle economie, né risollevare l’Europa seguendo un piano comune. Tuttavia la sua opera consente di ripartire gli aiuti americani in Europa, di facilitare i pagamenti intraeuropei creando un’Unione europea dei pagamenti (UEP) e di liberalizzare gli scambi commerciali. La Francia è molto legata all’OECE, un forum intergovernativo europeo non vincolante che ovviamente delude i fautori degli Stati Uniti economici d’Europa.

Nel 1949 il Consiglio d’Europa voluto da Georges Bidault si costituisce a Strasburgo, ma anche in questo caso l’assemblea consultiva non ha poteri decisionali e fallisce nel tentativo di fondare un’unione politica.

Il Piano Schuman

La Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 – una sorpresa – è stata preparata in segreto dal gruppo del Piano di modernizzazione di Monnet, i “congiurati” del 9 maggio. L’establishment amministrativo francese è legato alla cooperazione intergovernativa in Europa con la Gran Bretagna, sia nell’OECE che nel Consiglio d’Europa. Di conseguenza questi ambienti rimangono stupefatti dal Piano Schuman che indirizza l’Europa verso la coppia franco-tedesca e verso una piccola Europa. Non sorprende, quindi, che contro il Piano Schuman si attivi una fronda dei servizi anche a livello ministeriale. Il ministro delle Finanze Maurice Petsche prende contatto segretamente con il cancelliere dello Scacchiere Stafford Cripps per creare un fronte comune dei sostenitori della cooperazione attraverso l’OECE.

Il progetto Schuman-Monnet non rientra nelle preoccupazioni dei parlamentari francesi che fanno parte dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa. L’idea di un’autorità specifica che non faccia riferimento al Consiglio d’Europa è estranea alle loro concezioni. Il Piano Schuman, che sfocia nel Trattato CECA dell’aprile 1951 creando un’Alta autorità del carbone e dell’acciaio, rappresenta una vittoria dei franchi tiratori francesi (v. Trattato di Parigi).

Il fallimento annunciato della CED e della CPE

Qualche mese più tardi le élites politiche devono confrontarsi con i progetti per la costituzione di una Comunità europea di difesa e di un’Autorità politica europea (APE) (v. anche Comunità politica europea). La proposta di un esercito europeo proviene da Monnet, ma viene presentata all’Assemblea nazionale il 24 ottobre 1950 e i servizi prendono in mano i negoziati.

L’appello alla riconciliazione franco-tedesca era al centro della Dichiarazione Schuman, ma il passaggio da un’organizzazione tecnica europea del carbone e dell’acciaio ad una politica e militare suscita maggiori difficoltà. Pochi francesi sono disposti ad accettare il riarmo tedesco. Le immagini irreali di rapporti franco-tedeschi vanificano la buona volontà: l’ambasciatore René Massigli evoca l’avanzata tedesca del 1940. Il generale Crépin non ha alcuna fiducia in un esercito tedesco integrato in un’armata alleata. E come accettare la soppressione dell’esercito francese?

Dopo la firma del Trattato CED il 27 maggio 1952 le élites sono imbarazzate, tanto più che è necessario dare un quadro politico a quest’esercito europeo. A chi dovrà obbedire? Inoltre nel 1952 si installa l’Assemblea ad hoc dei Sei per avanzare delle proposte relative all’Autorità politica europea. Gli uffici del nuovo ministro degli Esteri Georges Bidault, nel gennaio 1953, temono gli effetti negativi della CED e dell’APE sulle responsabilità mondiali della Francia. I servizi economici si oppongono ad un progetto di mercato comune proposto dall’olandese Johan Willem Beyen. Il professor Gros, giureconsulto del Quai d’Orsay, scrive: «Se la nozione di estensione dei poteri fosse adottata ci si può chiedere se gli storici, in seguito, non indagheranno con stupore sul motivo per cui la Francia stessa abbia aperto il problema della sua successione». La burocrazia rifiuta quindi un’APE a tre piedi (CECA, CED e Mercato comune). Prudenza od ostilità verso i due progetti si spiegano in quanto gli attributi essenziali della sovranità nazionale sono messi in discussione. L’integrazione presuppone la fine della moneta francese: rischia di provocare la pastoralizzazione della Francia, il crollo economico del paese nelle sue colonie e la concorrenza fra regioni ricche e povere. Bidault respinge l’idea di un Mercato comune. Se l’Europa è il «nostro destino» – dichiara – «le patrie sono sacre».

Il dibattito politico e sociale in Francia rimette in discussione le costruzioni europee di tipo federale (v. Federalismo). Non sorprende quindi che l’Assemblea nazionale, il 30 agosto 1954, voti contro il trattato della CED.

L’Unione europea occidentale (UEO)

Il fallimento della CED non risolve il problema del riarmo tedesco. Pierre Mendès France si rende conto che gli Stati Uniti sono decisi a riarmare la Repubblica Federale Tedesca e a limitarsi a difendere solo la periferia dell’Europa in caso di attacco russo. Mendès France e Winston Churchill propongono l’allargamento alla Germania e all’Italia del Patto di Bruxelles del 1948 con la denominazione di Unione dell’Europa occidentale (UEO). Quindi la Germania entrerebbe nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) sotto il controllo dell’UEO. Gli accordi di Londra del 3 ottobre 1954 dispongono il riarmo della Germania (12 divisioni). Non avrà in dotazione armi atomiche, chimiche e batteriologiche, né un’aviazione strategica. Stipulerà un accordo con la Francia per la Saar e per 50 anni in Germania saranno di stanza truppe britanniche e americane. Gli accordi di Parigi del 23 ottobre 1954 mettono fine al regime di occupazione in Germania occidentale. L’UEO è soggetta militarmente alla NATO, lo statuto di Berlino è garantito dai tre occidentali. Questi accordi, ratificati con difficoltà dall’Assemblea nazionale francese e dal Consiglio della Repubblica, inducono i sovietici a denunciare il patto franco-sovietico del dicembre 1944 e a creare il Patto di Varsavia.

La costruzione delle Comunità europee

A causa del fallimento della CED a Parigi, la Francia non si sbilancia sulla costruzione europea. In vista di un rilancio auspicato dai belgi il Quai d’Orsay si mostra interessato solo allo sviluppo dell’energia atomica. Il Commissariato per l’energia atomica (CEA) pensa alla costruzione di un laboratorio per la separazione isotopica in cooperazione con i tedeschi. I Paesi del Benelux redigono un memorandum su iniziativa di Paul-Henri Spaak, Beyen e Monnet per la Conferenza di Messina della CECA, alla fine di maggio del 1955. La conferenza, alla quale partecipa il ministro degli Esteri Antoine Pinay, decide di creare un Comitato intergovernativo sotto la direzione di Spaak per studiare le possibilità di integrazione. Il negoziatore francese, Félix Gaillard, smontare riesce a sormontare le diffidenze, ma i servizi rifiutano qualsiasi istituzione sovranazionale. Il punto centrale è la costruzione del laboratorio per la separazione isotopica, mentre il Mercato comune continua ad allarmare i francesi.

Ma le elezioni del gennaio 1956 cambiano le carte in tavola sul fronte europeo perché sale al potere una maggioranza progressista, il Front républicain, guidata da un europeista convinto, Guy Mollet (PS-SFIO, Parti socialiste-Section française de l’internationale ouvrière), assistito da Christian Pineau (PS-SFIO) agli Esteri e da Maurice Faure (radicale) agli Affari europei. Alla conferenza di Venezia (maggio 1956) Pineau annuncia che la Francia accetta l’apertura dei negoziati sul Mercato comune e sull’Europa atomica, perché Mollet è consapevole che la Francia da sola non può più influenzare durevolmente le relazioni internazionali. I servizi dei ministeri francesi continuano a sollevare obiezioni contro il Mercato comune, a eccezione del ministro della Francia d’oltremare Gaston Defferre. Quest’ultimo vorrebbe creare un “mercato comune euroafricano”, quindi chiede e ottiene la creazione di un fondo di investimenti per i paesi e i territori d’oltremare (TOM) (v. Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea) noto come Fondo europeo di sviluppo, in cambio del libero accesso dei mercati dei TOM francesi per i paesi del Mercato comune. Defferre si rende conto che associare i TOM all’Europa occidentale agevolerà la transizione postcoloniale.

Il lavoro dei negoziati per i due trattati è guidato da Faure con l’aiuto di Robert Marjolin, Alexandre Verret ed Émile Noël. Mollet e Pineau sono categorici: la Francia tratta duramente il riconoscimento delle preferenze agricole comunitarie. Sorge una serie di difficoltà a livello di Politica sociale, che i francesi superano grazie ad una serie di clausole sospensive. Il Conseil national du patronat français (CNPF) accetta il Mercato comune, ponendo alcune condizioni, per non correre il rischio di un isolamento autarchico. I Trattati dell’Euratom e della Comunità economica europea sono firmati al Campidoglio a Roma il 25 marzo 1957. In Francia vengono ratificati rapidamente, malgrado il voto negativo di Mendès France, con 342 voti contro 239.

La politica europea di De Gaulle

Il periodo 1958-1969 è senz’altro dominato dalla personalità di Charles de Gaulle e dalle sue idee sull’Europa “europea”.

Un primo periodo favorevole per il Mercato comune è quello compreso fra il 1958 e il 1962. In effetti, dopo una brillante riforma economica e finanziaria la Francia è in grado di sostenere la concorrenza europea. Quindi de Gaulle accetta la prima tappa del Mercato: «Approvo anche il Mercato comune. È conforme agli interessi della Francia. È un trattato commerciale e niente di più, non se abbiano a male quelli che pretendono dell’altro», dichiara nel 1961. La sua politica è conforme agli interessi della Commissione europea quando si oppone alla zona di libero scambio proposta dai britannici, che non prevede politiche comuni né di solidarietà. D’altronde il ministro degli Esteri Couve de Murville interrompe i negoziati il 15 novembre 1958. De Gaulle, sostenuto da Konrad Adenauer, appare come il difensore del Trattato di Roma. I britannici reagiscono creando l’Associazione europea di libero scambio (EFTA) con i Paesi scandinavi, l’Austria, la Svizzera e il Portogallo il 4 gennaio 1960. La Politica agricola comune (PAC), lanciata il 30 giugno 1960, si fonda sulla libera circolazione dei prodotti agricoli, le organizzazioni comuni di mercato, prezzi unificati e garantiti, la preferenza comunitaria, la solidarietà finanziaria. De Gaulle è soddisfatto, mentre si oppone all’Euratom che non sceglie la filiera dell’U-238 (naturale) per le centrali atomiche, preferendo il modello americano delle centrali a U-235 (arricchito).

Il fallimento del Piano Fouchet

I rapporti si fanno tesi in seguito al fallimento del Piano Fouchet. De Gaulle propone un’unione politica a sei, il 16 giugno 1959, per «costruire l’Europa occidentale creando un raggruppamento politico, economico, culturale e umano, organizzato per l’azione, il progresso, la difesa». Monnet, Marjolin, Spaak danno la loro piena approvazione. Ma le diffidenze vengono a galla perché de Gaulle continua a essere l’uomo che ha “una certa idea della Francia” e dell’Europa. La Germania e l’Italia, pilastri dell’Alleanza atlantica, temono un allentamento dei rapporti con gli Stati Uniti. Gli olandesi vorrebbero una partecipazione immediata degli inglesi. Alcuni paesi temono la sparizione delle Istituzioni comunitarie a favore di quest’unione politica intergovernativa.

Ma i Sei, nel febbraio 1961, creano una commissione presieduta da Christian Fouchet. Il 18 luglio annunciano l’intenzione di creare un’Unione di Stati europei, costituita da un Consiglio dei capi di Stato e di governo. Tuttavia Joseph Luns, ministro olandese degli Esteri, si oppone a qualsiasi politica estera comune senza la partecipazione della Gran Bretagna e a qualsiasi politica di difesa fuori della NATO. È chiaro che il generale incute timore. E lo stesso de Gaulle rafforza queste diffidenze modificando il progetto di unione politica il 18 gennaio 1962: le istituzioni della CEE dovrebbero essere subordinate all’organo di cooperazione intergovernativo, mentre è scomparso il riferimento all’Alleanza atlantica. Il 17 aprile 1962, a Parigi, i ministri degli Esteri dei Sei constatano il fallimento del progetto di un’Unione di Stati indipendenti. Il 15 maggio 1962 de Gaulle critica pubblicamente l’Europa integrata sotto una guida straniera. Nelle intenzioni del capo dello Stato il Trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963 dovrebbe compensare il fallimento del Piano Fouchet.

La crisi delle Comunità

Il 14 gennaio 1963 de Gaulle rifiuta anche l’adesione della Gran Bretagna alle Comunità europee perché è troppo dipendente dagli Stati Uniti. Avrebbe voluto che la Gran Bretagna partecipasse ad una difesa comune europea. Ma deve constatare che la Gran Bretagna si lega agli Stati Uniti acquistando da questo paese missili Polaris (accordi di Nassau del dicembre 1962), mentre il primo ministro Harold Macmillan nel giugno 1962 aveva dichiarato: «l’Inghilterra di Kipling è morta». Monnet e i suoi amici, il 25 aprile 1963, riescono a far votare al Bundestag un preambolo al Trattato dell’Eliseo in cui si ribadisce il legame dell’Europa con la NATO e la necessità di accogliere la Gran Bretagna. Inoltre de Gaulle rifiuta il partenariato atlantico che John Kennedy ha proposto nel discorso dell’Independence Day del 4 luglio 1962 a Filadelfia. Monnet e Kennedy auspicano relazioni atlantiche economiche, e poi politiche e militari, più strette. Al contrario, de Gaulle si è opposto energicamente al progetto di forza multilaterale che avrebbe concretizzato questo partenariato. Per il generale un rapporto egualitario fra Europa e Stati Uniti è possibile solo a patto che l’Europa unita definisca i suoi obiettivi e si garantisca la sicurezza con i propri mezzi alleandosi con i Paesi amici.

Ormai de Gaulle si oppone ai suoi partner del Mercato comune. Denuncia tre miraggi: la sovranazionalità, l’integrazione, l’atlantismo. Walter Hallstein, presidente della Commissione per il Mercato comune, lavora per ampliare i poteri della Comunità, mentre si prospetta il passaggio alla terza tappa del Mercato comune, quella in cui le decisioni saranno prese a Maggioranza qualificata. La Commissione auspica di disporre di risorse comunitarie proprie, quindi di aumentare i poteri di controllo finanziario del Parlamento europeo. Secondo Hallstein il voto a maggioranza deve imporsi al Consiglio dei ministri. Quindi, facendo leva su un ritardo nell’adozione dei regolamenti finanziari definitivi della PAC, fissati per il 30 giugno 1965, de Gaulle decide di lasciare vuoto il seggio della Francia nelle istituzioni comunitarie. Infatti, per bloccare Hallstein, vuole rinviare il passaggio al voto a maggioranza qualificata al Consiglio, previsto dal Trattato il 1° gennaio 1966. Per sei mesi la Francia non è più rappresentata e le istituzioni funzionano a cinque. Nel frattempo de Gaulle vince al secondo turno le elezioni presidenziali del dicembre 1965. La crisi è risolta nel gennaio 1966 grazie alle diplomazie di Lussemburgo e Belgio. Il Compromesso di Lussemburgo del 30 gennaio 1966 stabilisce che nel caso in cui l’interesse vitale di uno Stato sia messo in gioco da una proposta della Commissione, il voto a maggioranza qualificata sia sospeso il tempo necessario di accordarsi per i paesi membri, tornando al funzionamento del Voto all’unanimità. Quando deve essere nominato un nuovo presidente a capo della Commissione unica nel 1967, Jean Rey ottiene il sostegno della Francia contro Hallstein.

Questa crisi impedisce la ripresa di un dialogo sereno sull’adesione britannica. De Gaulle la respinge nuovamente nel novembre 1967 scandalizzando i suoi partner. Le relazioni con gli Stati Uniti, come nel 1962, sono la chiave di volta del conflitto. De Gaulle ha preso posizione contro la guerra in Vietnam sostenuta invece dalla Gran Bretagna. Ha ritirato la Francia dalla struttura militare integrata della NATO, mentre la Gran Bretagna prende violentemente posizione contro la Francia. Il generale ha dichiarato di aver temuto un “assorbimento atlantico” se avesse accettato l’ingresso dell’Inghilterra. I paesi piccoli «si immaginano» che de Gaulle voglia imporre una sorta di «prepotenza francese sull’Europa» (Boegner). Un tentativo di uscire dalla crisi messo in atto da Christopher Soames, genero di Churchill e ambasciatore britannico in Francia, e de Gaulle si trasforma in una trappola. Durante un colloquio segreto de Gaulle prende in considerazione la fine delle Comunità e anche una vera e propria concertazione franco-britannica a scapito degli altri paesi europei. La conversazione viene deliberatamente divulgata in seguito a discutibili manovre del Foreign Office e presentata come un progetto gollista di direttorio a quattro (Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna) dell’Europa. Il generale è accusato di slealtà. In realtà, si trattava probabilmente di restituire alle grandi potenze europee la direzione degli affari del continente a scapito della struttura fondata sull’Alleanza atlantica e le Comunità.

De Gaulle ha mancato l’appuntamento dell’unità europea, mentre gli obiettivi di unione politica che progettava erano degni di considerazione.

L’Europa pragmatica di Georges Pompidou

L’eredità del generale de Gaulle è assunta da Georges Pompidou, eletto Presidente della Repubblica il 15 giugno 1969. Pompidou condivide le concezioni del generale de Gaulle sull’identità dell’Europa e il rispetto delle sovranità nazionali. Ma a differenza del suo predecessore considera l’Europa comunitaria non tanto come uno strumento della politica francese quanto piuttosto come una condizione dello sviluppo economico della Francia. Quindi auspica un’unione economica europea e un’Europa in stile confederale.

Pompidou aveva alternative? La posizione della Francia si è indebolita dopo gli eventi del maggio 1968 e la svalutazione del franco, mentre si sta sviluppando la potenza finanziaria ed economica della Germania federale. L’ingresso della Gran Bretagna nell’Europa comunitaria sembra il mezzo adeguato per tenere in scacco la Germania. Pompidou, ben lontano dagli idealisti europei, vuole che l’Europa sia forte – se possibile, su iniziativa della Francia – per affrontare le realtà di un mondo in crisi. Tutta la sua azione europea prende le mosse dal vertice europeo dell’Aia del dicembre 1969, in cui accetta la presenza della Commissione europea.

PAC e risorse proprie: completamento, rafforzamento, allargamento

Durante questo vertice Pompidou accetta l’ingresso della Gran Bretagna nelle Comunità, a patto di completare la politica agricola comune. Un regolamento finanziario definitivo della PAC viene adottato il 21 aprile 1970. Il 22 aprile il Trattato di Lussemburgo aumenta i poteri di controllo finanziari dell’Assemblea parlamentare europea.

Il presidente ottiene dai suoi partner una cooperazione politica sulle questioni internazionali, senza che tuttavia sia presa in considerazione la difesa. Il Rapporto Davignon (v. Davignon, Étienne) propone una “Cooperazione politica europea” in politica estera. Pompidou sarebbe disposto ad accettarla a condizione che a Parigi sia installato un segretariato politico, ma la proposta viene respinta. La cooperazione politica permetterà una concertazione delle politiche estere nazionali in merito al Vicino Oriente, sulla sicurezza e cooperazione in Europa (Conferenza di Helsinki, agosto 1975), sull’“identità europea”.

Il rafforzamento istituzionale comunitario non viene attuato. Pompidou non si fida del metodo comunitario, ritenendo che la Commissione europea debba restare un esecutore più che un esecutivo. Il rilancio europeo del presidente è intergovernativo. In compenso accetta il progetto di Unione europea presentato al vertice di Parigi nell’ottobre 1972, senza che tuttavia i governi riescano ad accordarsi su un “governo europeo” (Monnet), su un Consiglio supremo (Edward Heath) o su un esecutivo europeo reale (Pompidou).

A causa delle difficoltà del sistema monetario internazionale Monnet lancia l’idea di creare un Fondo europeo di riserva per sostenere le monete del Mercato comune. Pompidou accoglie la proposta di un “piccolo FMI europeo” e di un “fondo comune di riserva”. Per capirne di più Pierre Werner, capo del governo e ministro delle Finanze del Lussemburgo, è incaricato di redigere un progetto di Unione economica e monetaria (UEM), presentato l’8 ottobre 1970, che essendo di ispirazione federalista rafforzerebbe le istituzioni europee. Pompidou accetta solo un coordinamento monetario attraverso le banche centrali (idea di un Fondo europeo di cooperazione monetaria), ma non una moneta comune. I tedeschi, al contrario, non concepiscono un’unità economica europea senza una disciplina monetaria comune.

Ma la crisi monetaria internazionale colpisce i Sei: alcuni difendono la parità della loro moneta, libera altri la lasciano fluttuare. Pompidou si aggancia al sistema mondiale di parità fisse che “riaggiusta” con Nixon alle Azzorre (13-14 dicembre 1971) e con gli accordi di Washington dello Smithsonian Institute, il 18 dicembre 1971. Ma essendo consapevoli della debolezza dell’accordo Pompidou e Willy Brandt rilanciano l’UEM. Gli accordi di Basilea del 21 marzo e del 24 aprile 1972 creano il “Serpente monetario” in cui le monete europee fluttuano congiuntamente entro i margini autorizzati dall’accordo di Washington. Il Vertice di Parigi (19-21 ottobre 1972), forte di questo circolo virtuoso, decide di portare avanti il processo dell’UEM. Ma Pompidou rifiuta di sostenere la parità della lira sterlina nel gennaio 1973. Dopo la svalutazione del 10% e la fluttuazione del dollaro, il 13 febbraio 1973, i Nove si rivelano incapaci di costruire una vera UEM. Il Serpente monetario viene mantenuto, ma ben presto questa solidarietà si spezza. L’UEM fallisce perché i Nove non hanno voluto capire che richiedeva trasferimenti di sovranità e che non c’era intesa fra tedeschi e francesi. Si mostrano altrettanto impotenti nell’elaborare posizioni comuni per affrontare l’embargo conseguente alla guerra del Kippur. In ambito industriale e scientifico la Francia vorrebbe che le Comunità fossero coinvolte nella realizzazione di prototipi di supergeneratori e nel progetto francese di laboratorio di separazione isotopica. Ma non vi saranno decisioni comuni.

Questioni delicate devono essere affrontate in merito alle condizioni dell’allargamento: l’associazione delle dipendenze britanniche d’Oltremare, l’importazione dei prodotti agricoli del Commonwealth (bacon, latte, uova, zucchero dei Carabi), il futuro dell’AELE, la quota-parte britannica nel bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea). Pompidou è impaziente, ma riesce a ripianare le difficoltà con Heath all’Eliseo nel maggio 1971. La Gran Bretagna, la Danimarca, l’Irlanda e la Norvegia sottoscrivono l’adesione alle Comunità il 22 gennaio 1972. In Francia l’allargamento è soggetto a referendum, il 23 aprile 1972. I “sì” prevalgono con il 68% dei suffragi, ma ha votato solo il 36% degli elettori iscritti.

Pompidou ha fatto uscire l’Europa dall’isolamento gollista degli anni 1965-1969 e ha riconquistato la fiducia dei partner. Ma le sue iniziative audaci del 1969 sono state insufficienti per raccogliere le sfide del 1973.

L’Europa confederata dei governi di Valéry Giscard d’Estaing

Valéry Giscard d’Estaing è eletto Presidente della Repubblica il 19 maggio 1974 per sette anni. Si definisce «liberale, centrista ed europeo». Ha fatto aderire il suo partito, i repubblicani indipendenti, al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. È necessario liquidare le questioni del “governo europeo” e delle Elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale. La Grecia, il Portogallo e la Spagna vogliono entrare a far parte delle Comunità, mentre la Gran Bretagna esita a restare. Il nuovo presidente è deciso ad attribuire alla Francia la massima influenza negli affari europei, ma senza adottare posizioni offensive per i partner. Giscard d’Estaing propone di realizzare l’Unione europea per il 1980. Pur non essendo un federalista, sente che l’interdipendenza deve prevalere sull’indipendenza degli Stati. L’opinione pubblica avverte che Giscard d’Estaing è favorevole all’Europa comunitaria.

Il Vertice di Parigi del dicembre 1974

Il Vertice di Parigi del 9-10 dicembre 1974, preparato dalla Francia, decide che i capi di Stato e di governo si riuniranno almeno tre volte all’anno nel Consiglio della Comunità e nel Consiglio della cooperazione politica. Il Consiglio europeo sarà riconosciuto dall’Atto unico europeo del 1986. In compenso la Francia approva l’aumento dei poteri finanziari dell’Assemblea parlamentare europea e la sua elezione a suffragio universale. Questa politica suscita violenti attacchi all’interno della maggioranza presidenziale. Jacques Chirac, che è stato primo ministro, l’8 dicembre 1978 lancia “l’appello di Cochin”: «Come sempre – dichiara – quando si tratta di umiliare la Francia, il partito dell’estero è all’opera con la sua voce pacata e rassicurante. Francesi, non ascoltatela». Alle elezioni europee, il 10 giugno 1979, il partito del presidente, guidato da Simone Veil, ottiene il miglior risultato con il 27,6% dei voti.

Per approfondire la cooperazione politica il primo ministro belga Léo Tindemans redige un rapporto, presentato il 29 dicembre 1975, in cui chiede di rafforzare i poteri dell’Assemblea e della Commissione. Nuove competenze dovrebbero essere trasferite progressivamente alle Comunità e per le decisioni (v. Decisione) del Consiglio dei ministri andrebbe deciso il voto maggioritario. Il rapporto, di ispirazione federalista, è accolto sfavorevolmente dalla maggior parte dei governi. Quindi Giscard assume un atteggiamento più prudente di fronte ai gollisti in vista delle nuove scadenze elettorali (legislative del 1978). Il Rapporto Tindemans viene “insabbiato”, quindi la cooperazione politica si sviluppa in modo limitato e spesso declaratorio in merito alla divisione di Cipro o del Vicino Oriente. È adottata una posizione comune in occasione dell’invasione sovietica dell’Afghanistan: sanzioni limitate contro l’URSS invece di un embargo severo. In compenso Giscard d’Estaing riceve uno “schiaffo” quando nel maggio 1980 cerca di portare “la voce dell’Europa” a Varsavia a proposito degli euromissili.

Il Sistema monetario europeo

Il nuovo Presidente della Commissione europea, il britannico Roy Jenkins, rilancia l’unione monetaria nell’ottobre 1977. Ma i tedeschi, guidati dal cancelliere Helmut Schmidt, esigono innanzitutto politiche di austerità finanziaria e la convergenza delle politiche economiche. Il Presidente della Repubblica e il primo ministro Raymond Barre varano una serie di provvedimenti di austerità approvati dalla Repubblica Federale Tedesca. L’Unione monetaria si giustifica ancora di più dopo gli accordi della Giamaica dell’8 gennaio 1976 che fanno del dollaro il parametro monetario al posto dell’oro.

Il Sistema monetario europeo (SME), entrato in vigore il 13 marzo 1979, stabilisce una serie di regole secondo le quali il tasso di cambio di ciascuna moneta deve oscillare entro una banda pari 2,25% (a eccezione dell’Italia, 6%) al di sopra o al di sotto del tasso di conversione centrale. Gli Stati mettono a disposizione del Fondo europeo di cooperazione monetaria (FECOM) il 20% delle loro riserve di valute. La banca centrale interessata deve intervenire sul mercato, coadiuvata dalle altre banche centrali della Comunità in caso di divergenza. Giscard d’Estaing non spinge per una trasformazione dello SME in Fondo monetario europeo a causa delle critiche dei gollisti.

La PAC resta un oggetto di discordia fra Schmidt e Giscard d’Estaing, perché i due responsabili non hanno trovato un accordo sul finanziamento del budget comunitario. Non c’è più una politica atomica comune a causa dei precedenti rifiuti della Francia. In compenso viene deciso su iniziativa della Francia l’avvio di una nuova politica comune dell’energia. Malgrado la “rinegoziazione” dell’adesione della Gran Bretagna da parte del laburista Harold Wilson, sancita da referendum favorevole nel giugno 1975, il nuovo primo ministro conservatore Margaret Thatcher esige di ricevere dalle Comunità tanto quanto la Gran Bretagna versa di quota, in nome della teoria non comunitaria del giusto ritorno.

Le associazioni e i nuovi allargamenti

Gli Accordi associativi di Lomé I sono firmati per cinque anni, il 28 febbraio 1975, con 44 Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico (ACP) (v. Convenzioni di Lomé). La Francia ha svolto un ruolo trainante in questo rapporto preferenziale con il Sud. Invece le domande di adesione della Spagna e poi del Portogallo alle Comunità nel 1977 sono in conflitto con gli interessi della Francia. Entra in gioco la difesa degli interessi elettorali del presidente, perché gli agricoltori del Sudest, sostenuti da comunisti e gollisti, sono avversi a queste adesioni. Quindi Giscard d’Estaing adotta una politica dilatoria.

Invece l’adesione della Grecia alle Comunità, avanzata il 12 giugno 1975, è sostenuta solo dalla Francia che vi scorge un vantaggio politico per riequilibrare la situazione verso il Sud mediterraneo senza gli inconvenienti delle adesioni spagnola e portoghese. La Grecia entra a far parte delle Comunità il 1° gennaio 1981.

La presidenza di Giscard d’Estaing è stata feconda per l’Approfondimento dell’integrazione. Il presidente stesso ha dato l’impressione di essere un federalista. In realtà ha mantenuto la linea confederale di Pompidou, pur volendo far convergere – e in questo si è differenziato dai suoi predecessori – le politiche di cooperazione degli Stati e le politiche comunitarie delle istituzioni comunitarie.

La politica europea di François Mitterrand

François Mitterrand ha esercitato la carica suprema per quattordici anni, dal maggio 1981 al maggio 1995, quindi più a lungo del generale de Gaulle. L’originalità della situazione dipende dall’appartenenza del capo dello Stato ad una corrente politica lontana dal potere da ventitré anni, la corrente socialista umanista. L’ascesa al potere di François Mitterrand, europeista dichiarato, non si colloca sotto il segno della solidarietà europea, poiché il governo Mauroy decide un rilancio economico senza concertazione con l’Europa. Tuttavia egli propone ai Dieci, nel giugno 1981 e poi nel 1983, un grande spazio sociale europeo senza ottenere alcuna risonanza. Ben presto, nel marzo 1983, la Francia deve scegliere fra il rigore all’ombra dell’Europa o una nuova esperienza solitaria. Mitterrand accetta di mantenere la Francia nello SME (21-22 marzo 1983) e promette di ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti. La scelta europea del governo francese ha salvato il Mercato comune. In cambio la Francia ha beneficiato della solidarietà comunitaria.

La svolta comunitaria è felicemente accompagnata dal rafforzamento dei legami franco-tedeschi quando sale al potere il cancelliere Helmut Kohl, democratico-cristiano, nell’ottobre 1982. La solidarietà fra i due responsabili europei, espressa nel discorso di Mitterrand al Bundestag nel gennaio 1983 a favore degli euromissili, svolge un ruolo essenziale nel rilancio europeo del 1984-1985. L’immagine di Kohl e Mitterrand insieme nel cimitero militare di Verdun, il 22 settembre 1984, trasmette alla coscienza collettiva quella dimensione simbolica che ancora mancava. Motore dell’unità, i rapporti franco-tedeschi conoscono anche delle tensioni in merito al bilancio europeo, all’uso delle armi prestrategiche francesi o alle relazioni con Ronald Reagan.

Il Rinascimento europeo a Fontainebleau (giugno 1984) e Milano (giugno 1985)

Il rilancio europeo di Fontainebleau (v. Accordi di Fontainebleau) e di Milano è opera del presidente, della coppia franco-tedesca e del presidente della Commissione europea Jacques Delors.

La PAC è in parte riformata a Fontainebleau con l’introduzione di quote su un terzo della produzione agricola. La questione dell’assegno britannico viene regolata consentendo alla Thatcher una diminuzione della sua quota parte del budget e ottenendo in cambio che accetti l’aumento delle risorse proprie delle Comunità. Il Consiglio affida a un comitato presieduto dall’irlandese James Dooge il compito di preparare un rapporto sulle questioni istituzionali e a Pietro Adonnino di avanzare delle proposte sull’Europa dei cittadini. Il rapporto Dooge, consegnato il 29 marzo 1985, rivela la coesistenza di due ispirazioni: da un lato, l’ostilità al rafforzamento delle istituzioni, dall’altro l’aspirazione ad un’Europa politica forte. Quindi Mitterrand adotta l’atteggiamento di chi si preoccupa di non provocare uno scontro distruttivo tra le tesi di Bonn e quelle di Londra. In un primo tempo il presidente aveva frenato il processo di adesione di Spagna e Portogallo, poi si era ammorbidito in seguito alla vittoria del PSOE di Felipe González nell’ottobre 1982. E nel 1986 la Comunità europea passa da dieci e dodici membri.

Mitterrand approva le 300 misure a favore del grande mercato interno (giugno 1985) preparate dal nuovo presidente della Commissione europea Delors. Nel giugno 1985 la Francia, la Germania e i tre Stati del Benelux firmano anche la Convenzione di Schengen, che riguarda la graduale eliminazione del controllo alle frontiere. A Milano Mitterrand intende far avallare un Programma comunitario fondato sulla «tecnologia, il mercato interno, la moneta». In compenso temporeggia sulle istituzioni e apre una grave crisi con la Gran Bretagna. Kohl e Mitterrand ottengono la convocazione di una conferenza intergovernativa per riformare i trattati, in seguito al rapporto Dooge e per la realizzazione delle 300 misure del grande mercato unico. Sei mesi più tardi, per modificare i trattati del 1957, viene redatto l’Atto unico europeo che investe sia la sfera comunitaria che la cooperazione politica. Prevede di realizzare il 1° gennaio 1993 un grande mercato interno gestito secondo le regole comunitarie e di innovare in politica estera sulla base della cooperazione. Anche in questo caso l’intesa fra Mitterrand, Kohl e Delors impone il processo alla Thatcher e ai danesi. L’Atto unico europeo, che delinea i contorni di una nuova Unione europea a vocazione politica, è firmato il 17 e il 28 febbraio 1986 a Lussemburgo.

L’Europa dell’eccellenza

Durante la campagna presidenziale nell’aprile-maggio 1988 Mitterrand afferma di voler fare dell’Europa una potenza industriale e uno dei tre poli monetari del mondo con una moneta comune. La costruzione di un’Europa dell’eccellenza, forma moderna della potenza, passa attraverso lo sviluppo di cinque politiche comuni: la moneta, l’alta tecnologia (Eureka lanciato a Parigi nel giugno 1985), l’identità culturale europea, l’Europa sociale e una difesa comune. Mitterrand fa adottare il principio della “personalità culturale” dell’Europa alle assise dell’audiovisivo che si tengono a Parigi il 30 settembre 1989. Si impegna personalmente a favore della Politica degli audiovisivi (televisione ad alta definizione, produzione cinematografica e mediatica per la televisione, creazione di ARTE il 30 aprile 1991). La Francia si batte contro l’egemonia culturale degli Stati Uniti, una battaglia che altri europei non giudicano altrettanto indispensabile. Nell’ottobre 1993 i Dodici definiscono la specificità culturale dell’audiovisivo europeo piuttosto che la peculiarità culturale.

Il progetto di Mitterrand per un’Europa dell’eccellenza passa attraverso la creazione di un’Unione europea in grado di raccogliere sotto un tetto comune le attività delle Comunità (CECA, Euratom, CEE riformata dall’Atto unico) e le iniziative di cooperazione assunte a partire dal 1974 dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Le congiunture internazionali (caduta del muro di Berlino, esplosione dell’ex Iugoslavia, implosione dell’URSS) favoriscono un’accelerazione della costruzione europea che passa anche attraverso uno spazio sociale europeo. Mitterrand lo costruisce facendo adottare, nel dicembre 1989, da undici paesi eccetto la Gran Bretagna la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori.

In campo monetario la Francia, appoggiata dall’Italia, chiede alla Germania la creazione di una moneta unica. La Germania potrebbe accettare di perdere il marco tedesco solo in cambio della creazione di una banca centrale europea indipendente – una proposta approvata da Mitterrand. Il “rapporto Delors” del 17 aprile 1989 propone di stabilire delle parità fisse tra le monete, poi di adottare una moneta unica gestita da un sistema europeo di banche centrali. Kohl tergiversa e Mitterrand esorta la Germania a manifestare uno spirito europeo, quando il problema delle frontiere della Germania riunificata avvelena l’atmosfera. Lo stesso Mitterrand introduce il dubbio sulle sue intenzioni annunciando, nel gennaio 1990, un progetto di confederazione europea aperta ai paesi dell’Est.

Kohl e Mitterrand nell’aprile 1990 propongono ai Dodici alcuni obiettivi per l’Unione politica: democratizzazione dell’Unione, voto di maggioranza al Consiglio, coesione economica, politica monetaria dell’Unione, definizione di una Politica estera e di sicurezza comune (PESC). L’Unione politica servirebbe a far “ingoiare” la pillola dell’accresciuta potenza della Germania riunificata. La riforma delle istituzioni è essenziale per Kohl, che per il momento rinuncia all’idea di una Costituzione europea. Due nuove Conferenze intergovernative sono aperte nel 1990, la prima per la Revisione dei Trattati comunitari, la seconda per costituire un’Unione economica e monetaria.

Il dossier della difesa comune europea mette in gioco le relazioni dei diversi paesi della Comunità con gli Stati Uniti. L’intesa franco-tedesca funziona male sulla difesa: per superare i disaccordi Mitterrand propone a Kohl l’integrazione di forze francesi e tedesche. Il 22 gennaio 1988 vengono creati un consiglio di difesa franco-tedesco, al quale sono invitati italiani e spagnoli, e una brigata franco-tedesca. Mitterrand e Kohl propongono di fare della UEO lo strumento della futura difesa europea, provocando le reazioni di Gianni De Michelis e Douglas Hurd, ministri della Difesa italiano e inglese. Ma nella sorpresa generale gli Stati Uniti accettano il testo franco-tedesco e nel novembre 1991 riconoscono il ruolo delle strutture di difesa europea. Nel maggio 1992 Mitterrand e Kohl annunciano la creazione dell’Eurocorpo a partire dalla brigata franco-tedesca (50.000 unità), destinato ad assicurare missioni di tipo Petersberg definite dalla CIG sull’Unione politica.

Il Trattato di Maastricht

Il Consiglio europeo di Maastricht del 9-10 dicembre 1991 accetta la creazione di un’Unione europea che comprenda le Comunità e le diverse politiche intergovernative dei Dodici. Propone di creare una moneta unica per il 1° gennaio 1999. Ma Mitterrand rifiuta di firmare senza l’impegno inglese a favore della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori. Allora Delors riesce a far sottoscrivere un accordo a undici solo sulla carta sociale. La politica estera e di sicurezza comune entra nella sfera della cooperazione intergovernativa. L’intesa franco-tedesca è salvaguardata al prezzo del riconoscimento dell’eccezione sociale e monetaria britannica. Un’Europa a due velocità è un’Europa dell’eccellenza? Alla fine il Trattato di Maastricht viene firmato il 7 febbraio 1992.

Mitterrand aveva annunciato che il Trattato sarebbe stato ratificato tramite referendum per iscrivere la costruzione europea nelle scelte della società francese. Ormai era passato il tempo dei “despoti illuminati”. Per fronteggiare la coalizione eteroclita dei “no” il presidente non cessa di ricordare la persistenza della nazione e della patria francesi. Un voto negativo in Francia avrebbe sfasciato l’intesa franco-tedesca per lungo tempo. L’accoglienza moderatamente favorevole riservata dall’opinione pubblica francese al Trattato – ratificato con il 51,50% dei voti contro il 48,95% – il 20 settembre 1992 evita il peggio.

Kohl e Mitterrand hanno avuto il coraggio politico di tentare un’avanzata europea in ambiti nuovi, intenzionalmente trascurati dagli artefici del Trattato di Roma del marzo 1957: la cultura e l’identità europee, l’aumento dei poteri del Parlamento europeo, una politica estera e di difesa comuni. La ratifica del Trattato dell’Unione europea permette di aprire i negoziati in vista dell’adesione all’Unione dei paesi della vecchia AELE. I Dodici diventano Quindici il 1° gennaio 1995 (v. anche Paesi candidati all’adesione).

Alla fine Mitterrand ha difeso una concezione federale dei rapporti economici e monetari europei. Si è accontentato, per obbligo o per convinzione, di una cooperazione intergovernativa nelle sfere della politica estera e della difesa. Il progetto socialista iniziale del presidente si è scontrato con la diversità ideologica degli altri Stati europei e con l’ispirazione liberale delle Comunità europee. Mitterrand è comunque riuscito a far costruire concretamente delle politiche europee ambiziose: una PESC, un’Europa sociale, un’Europa degli audiovisivi e un’Europa dell’alta tecnologia, in sintonia con il programma socialista. Ha dimostrato cosa sia un’Europa dell’eccellenza.

Continuità e cambiamenti di Jacques Chirac

Il periodo 1995-2002 è contrassegnato da una novità sul piano politico: la lunga coabitazione fra un Presidente della Repubblica conservatore e neogollista, Jacques Chirac, eletto nel maggio 1995 e rieletto nel maggio 2002, e un primo ministro socialista, Lionel Jospin, a capo di una maggioranza composita: Parti communiste français (PCF), Verdi, Radicali di sinistra e Socialisti).

Chirac non è mai stato all’avanguardia nella battaglia comunitaria europea, come dimostra l’“appello di Cochin” del 6 dicembre 1978. All’opposizione o come primo ministro della coabitazione (1986-1988), sotto Mitterrand, Chirac non è un pioniere dell’unità europea. Nel 1986 è contrario all’Atto unico europeo, ma una volta diventato primo ministro lo fa ratificare. Contrasta l’ingresso della Spagna e del Portogallo nelle Comunità, ma l’accetta nel 1986. Ancora nel 1990 non crede nella moneta unica e definisce visionari i suoi artefici nel 1998.

Una volta eletto presidente Chirac pone fine alle idee di rifondazione europea ed esorta il governo di Édouard Balladur a mettere la Francia in condizione di partecipare all’UEM. L’arrivo al potere come primo ministro del socialista Jospin, nel giugno 1997, riapre il dibattito sulla politica europea della Francia, perché Jospin pone delle condizioni per il passaggio alla moneta unica e per il Patto di stabilità e crescita adottato dai Quindici nel maggio 1997. La sinistra, molto reattiva, ritiene che la crescita non sia presa in considerazione a sufficienza e Jospin reclama l’aggiunta di un capitolo sociale al patto di stabilità. L’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors approva il tema, molto nuovo per l’epoca, del governo economico europeo. Tuttavia Jospin deve rassegnarsi al patto di stabilità, accettato in precedenza da Chirac, in nome della continuità della politica estera. Ottiene comunque un Consiglio europeo dedicato alla politica sociale a Lussemburgo, il 21-22 novembre 1997. Chirac ha imposto la sua linea, ma poiché la situazione economica europea va peggiorando, il patto di stabilità è oggetto di critiche. Il presidente le riprende nel 2002 mettendo in discussione insieme al capo del governo italiano Silvio Berlusconi la soglia del deficit massimo del budget degli Stati membri (3% del PIL).

I progetti di difesa europea

Il dossier della difesa europea acquista risalto a causa della crescita del pericolo a livello internazionale. Il governo Balladur ha proposto di organizzare un “sistema di difesa” europeo dopo la guerra del Golfo e la guerra nella ex Iugoslavia, quando gli europei hanno dovuto rivolgersi alla NATO e agli Stati Uniti. Chirac, essendosi avvicinato alla NATO nel dicembre 1995, accetta di inquadrare il dossier della difesa europea nell’ambito dell’Alleanza atlantica, ottenendo l’approvazione di Berlino nel 1996. L’impiego da parte dell’UEO di gruppi di forza interarma multinazionali (GFIM), sotto il comando europeo, dovrà dipendere dal consenso dell’Alleanza e quindi degli Stati Uniti. Ma si tratta di una difesa “europea”?

I progressi più consistenti provengono dal vertice franco-britannico di Saint-Malo del dicembre 1998, che vede Chirac, Jospin e Tony Blair condividere uno stesso approccio al problema. La dichiarazione sulla difesa europea sembra richiamarsi al quadro giuridico dell’Alleanza atlantica del 1996. Ma per la prima volta il riferimento all’Alleanza non è esclusivo: «L’Unione europea dovrà poter ricorrere ai mezzi militari adeguati (mezzi europei preidentificati all’interno del pilastro europeo della NATO, o mezzi nazionali e multinazionali esterni al quadro della NATO)». I due paesi affermano che la difesa europea è una questione che riguarda i grandi Stati dell’Unione. Saint-Malo ha rappresentato una vera politica intergovernativa al servizio dell’Unione. Ha permesso al Consiglio europeo di Helsinki, nel dicembre 1999, di decidere la creazione di una Forza di reazione rapida europea di 60.000 persone, con 400 aerei da combattimento e 100 navi, adeguata ad affrontare le missioni dette di Petersberg. Ma a questa forza manca l’autonomia per i servizi informativi, le armate guidate, i trasporti. Inoltre la creazione parallela di una forza di reazione rapida della NATO di circa 21.000 persone indebolisce lo sforzo propriamente europeo. «La forza dell’Alleanza serve per fare la guerra, quella dell’Europa per mantenere la pace», avrebbe detto un alto responsabile della NATO. In seguito, con la fine della coabitazione, francesi e tedeschi hanno proposto alla Convenzione sull’avvenire dell’Europa di creare un’Unione europea di sicurezza e di difesa con un numero limitato di paesi membri e una collaborazione in materia di armamenti. Le cooperazioni rafforzate sono inserite nel progetto di Costituzione europea. L’idea di una difesa europea autonoma è progredita? La forza di reazione rapida è limitata sul piano tecnico e operativo, in quanto i paesi europei continuano a non essere convinti dell’opportunità di creare un grande strumento militare europeo, conservando la loro fiducia nel ruolo di protezione degli Stati Uniti. Il Presidente della Repubblica ha riconosciuto, pur senza dichiararlo, che è impossibile mantenere una politica di indipendenza nazionale. Sta proponendo per caso uno scopo ambizioso all’Unione europea?

Gli Stati, motori delle istituzioni dell’Unione europea per Chirac

Una conferenza intergovernativa è incaricata di riformare le istituzioni in vista dell’allargamento. Il Presidente della Repubblica propone di prolungare la durata del mandato di Presidenza dell’Unione europea a tre anni invece di sei mesi e di aumentare le sue capacità di iniziativa di fronte alla Commissione. Inoltre la Commissione dev’essere responsabile di fronte al Consiglio dei ministri. Infine, Chirac vorrebbe associare i Parlamenti nazionali all’opera comunitaria e sottoporre la revisione del trattato a un referendum popolare. Dunque il presidente spinge affinché gli Stati dispongano di uno spazio più ampio all’interno delle istituzioni. Il Trattato di Amsterdam del 1997 è un mezzo fallimento perché la riforma delle istituzioni si rivela impossibile. Chirac se ne accontenta dichiarando che non si deve «confondere la fretta con la precipitazione». Jospin ha approvato e fatto della ratifica del Trattato una delle sue priorità politiche.

La questione delle istituzioni è sollevata nuovamente nel secondo trimestre del 2000 da una nuova conferenza intergovernativa, mentre Chirac, il 4 luglio 2000 a Strasburgo, espone il programma della presidenza francese: preparare l’allargamento, porre l’Europa al servizio della crescita, dell’occupazione e del progresso sociale, avvicinare l’Europa ai cittadini, infine affermare il ruolo dell’Europa nel mondo. Qualche giorno prima, di fronte al Bundestag, ha prospettato l’elaborazione di una Costituzione europea. Il Consiglio europeo di Nizza del 7-10 dicembre 2000, dal punto di vista del Presidente della Repubblica, è un successo: la Commissione avrà un numero di commissari inferiore a 27 e poteri rafforzati. Il suo presidente sarà designato a maggioranza qualificata dal Consiglio dei ministri. Viene esteso l’ambito del voto a maggioranza qualificata. Chirac crede anche in un’identità culturale europea. La nuova regola di Ponderazione dei voti nel Consiglio assegna un poco più di spazio ai paesi più popolati. Sono possibili Cooperazioni rafforzate. Chirac spiega che è necessaria «una federazione di Stati-nazione».

Quali istituzioni vuole Chirac per l’Europa? Si delinea una continuità: le istituzioni comunitarie devono permettere di creare delle cooperazioni rafforzate, consentire ai grandi Stati di decidere più facilmente all’interno del Consiglio. Inoltre, per le poste in gioco che a Chirac appaiono prioritarie – le misure sociali, la fiscalità, la coesione – deve prevalere la regola dell’unanimità.

 La federazione di Stati-nazione e l’avaria franco-tedesca

Jospin approva le decisioni di Nizza, ma intendere lascia trapelare la sua disparità di vedute sull’estensione del voto a maggioranza qualificata e sulla politica sociale. Si è mostrato senz’altro troppo reticente sull’Unione europea. Il 28 maggio 2002 risponde pubblicamente nel suo discorso sull’Europa: «Poiché non sono un europeista tiepido, non accetto un’Europa sbiadita». In fondo propone anche lui una federazione di Stati-nazione, rifiutando un tipo di federazione sul modello nordamericano. Vuole approdare ad un “trattato sociale europeo” per mantenere servizi pubblici forti ed efficienti e realizzare una politica industriale ambiziosa. La differenza rispetto a Chirac sembra tenue, fuorché sulla politica sociale. Ma in realtà il presidente insiste quasi esclusivamente su istituzioni europee forti a livello di presidenza dell’Unione, mentre il primo ministro cerca di dare un contenuto sociale e di cittadinanza al progetto europeo. Jospin ritiene che la politica europea debba governare la mondializzazione e battersi contro la disoccupazione. La sua è un’Europa con un contenuto ideologico keynesiano e di redistribuzione, mentre Chirac crede in un’Unione europea degli Stati.

La storia ha tramandato le coppie celebri dell’intesa franco-tedesca: ora, è impossibile annoverare tra queste coppie Chirac e Gerhard Schröder o Jospin e Schröder. Tuttavia il 1995 è un’annata favorevole per il motore franco-tedesco. Chirac e Kohl preparano insieme l’ordine del giorno del Consiglio che lancia la conferenza intergovernativa per il Trattato di Amsterdam. Nel corso del Consiglio franco-tedesco di Norimberga del dicembre 1996 viene definito il concetto di difesa europea. La vittoria di Jospin nel giugno 1997 preoccupa i tedeschi, quindi il 1997 è un anno difficile. Francesi e tedeschi dissentono sulla procedura di voto in seno al Consiglio dopo gli allargamenti. Chirac vuole un francese a capo della futura Banca centrale europea (BCE). Le prese di posizione francesi e tedesche sulla PAC sono antitetiche. Il vertice franco-inglese di Saint-Malo nel 1998 sembra sconfessare la cooperazione franco-tedesca, quello franco-tedesco del giugno 2000 a Magonza la rilancia, come testimoniano «i progressi nella costruzione di un’Europa degli armamenti, insieme alla scelta comune di Berlino e di Parigi per l’aereo di trasporto militare europeo, l’Airbus A 400 M, malgrado le reticenze molto nette dei militari tedeschi, o il rilancio di un progetto per un sistema di osservazione satellitare europeo indipendente», come spiega un giornale. Ma questi progressi non riguardano specificamente gli affari comunitari.

I rapporti franco-tedeschi a Nizza sono molto conflittuali. Chirac e Jospin si sono battuti per ottenere la parità dei voti in Consiglio con la Germania, malgrado la differenza di popolazioni. Berlino è irritata per il «degrado delle relazioni franco-tedesche prima e durante il Consiglio europeo di Nizza», spiega “Le Monde”. La cena franco-tedesca a Blaesheim (Basso Reno) il 31 gennaio 2001 rimette in carreggiata la cooperazione fra i due paesi. Il rafforzamento dell’intesa franco-tedesca è indispensabile per arrivare all’allargamento e per costruire un’Europa potenza.

Con la fine della coabitazione vengono avanzate delle proposte comuni in merito al calendario dei negoziati con la Turchia, all’agricoltura, alla difesa e alla polizia. La Germania accetta di rinviare al 2006 la diminuzione degli aiuti agli agricoltori che Parigi rifiuta a priori. Tedeschi e francesi, e anche gli inglesi, ritengono che l’Unione debba essere dotata di un presidente. La Francia e la Germania cercano di rafforzare il coordinamento economico all’interno della zona Euro. La fine del 2002 è un momento positivo dei rapporti franco-tedeschi. Chirac e Schröder non devono fare i conti con le preoccupazioni elettorali e quindi si muovono con maggior libertà.

Alla fine dei dieci anni del suo mandato quale visione dell’Europa ha trasmesso il Presidente Chirac? Alcuni temi sono ricorrenti nelle sue dichiarazioni: un’Europa dei cittadini e dei popoli, un’Europa potente nelle relazioni internazionali. Egli evoca la diversità culturale dell’Europa unita, celebra i paesi fondatori dell’unità ma vuole allargare l’Europa alla Turchia. Per mitigarne gli effetti nefasti, si batte per la creazione di un gruppo d’avanguardia e di cooperazioni rafforzate. Spiega che un’Europa unita non può esistere senza essere profondamente segnata dalla Francia. Assimila l’identità europea ad una «certa idea dell’uomo che ha dato al progetto europeo il suo orizzonte di libertà, di dignità, di tolleranza, di democrazia» Pone l’accento sulla dimensione “protettrice” dell’Europa. Propone anche un “modello sociale europeo” che fa della lotta contro il “dumping sociale” uno degli obiettivi prioritari. Tuttavia i discorsi del presidente non parlano del senso della costruzione europea, «del “progetto civilizzatore” e geopolitico che l’Europa dovrebbe incarnare», osserva Bernard Cassen. Europeista, Jacques Chirac? «Sono profondamente europeo europeista […] non un euro-realista, ma un euro-entusiasta sulle grandi questioni di fondo», afferma. In realtà il presidente ha sposato in seconde nozze il federalismo europeo di Monnet e di Mitterrand. La fede europea di Chirac è apparsa tiepida. È stato a lungo antieuropeista, per poi aderire gradatamente alla costruzione europea. Perché? Quest’uomo pragmatico, preoccupato di conquistare e di esercitare il potere, non possiede una visione pazientemente elaborata dell’Unione europea. Reagisce da nazionalista moderato che gestisce la necessità da parte della Francia di subire l’Europa. Chirac, al quale viene rinnovato il mandato presidenziale nel maggio 2002, ha comunque la possibilità di segnare la storia e di contribuire al bene dell’Europa unita. La questione irachena nel 2003 dimostra che non è riuscito a far adottare dai Quindici una linea comune. Deciso a far ratificare il progetto di trattato costituzionale tramite referendum, il Presidente della Repubblica non capisce che gli elettori sono pronti a sanzionare duramente il fallimento della politica interna del suo governo (Raffarin) e che l’Europa comunitaria non è più sentita da molti francesi come una protezione contro la mondializzazione liberale. Il 29 maggio 2005 il progetto di trattato costituzionale è respinto dal 54,68% dei votanti contro il 45,32%, facendo precipitare l’Europa dei 25 in una grave crisi di fiducia.

«Fare l’Europa senza disfare la Francia», affermava Georges Bidault nel 1953. In sessant’anni di costruzione lenta dell’unità l’Europa non ha disfatto la Francia. Ma i dirigenti politici di questo paese non hanno ancora capito che l’identità francese del XXI secolo potrà svilupparsi pienamente solo nelle proposte che la Francia farà perché l’Unione diventi un attore globale del nostro mondo. Guy Mollet, fra i capi di governo, Valéry Giscard d’Estaing e François Mitterrand fra i presidenti, l’hanno compreso meglio di altri.

Gérard Bossuat (2005)




Germania

Quadro storico

La storia europea, il potere politico e l’importanza economica, come pure la sua posizione al centro dell’Europa, fanno della Repubblica Federale Tedesca uno Stato europeo del tutto eccezionale. Nel corso del XX secolo la Germania si è resa responsabile di due guerre mondiali e dell’Olocausto, generando in Europa e in altre parti del mondo terrore e sofferenze senza precedenti. L’unificazione europea, che ha subito un’accelerazione dopo la Seconda guerra mondiale, ha rappresentato per la Germania – divisa in due tra Est e Ovest fino al 1990 – un’occasione unica per essere riammessa gradualmente nella comunità internazionale. Nel preambolo della Legge fondamentale, promulgata nel 1949 come Carta costituzionale della Germania Ovest, venne stabilito che tra gli obiettivi centrali della sua politica estera ed europea vi dovesse essere anche quello di «contribuire alla pace nel mondo come membro con parità di diritti all’interno di un’Europa unita […]». Per conseguire quest’obiettivo la Costituzione fu concepita in modo tale da consentire «il trasferimento di diritti di sovranità a organismi internazionali» (art. 24).

Con l’unificazione tedesca, portata a compimento nell’ottobre 1990, venne risolta la cosiddetta “questione tedesca”. La questione si era posta fin dalla fondazione del Reich sotto Bismarck, nel 1871, quando era stata adottata la soluzione “piccolo-tedesca” e non l’opzione “grande-tedesca” che prefigurava un’unione con l’Austria. Anche dopo la Prima guerra mondiale, le potenze vincitrici nel 1918-1919 impedirono una soluzione “grande-tedesca”, vietando l’unione tra la neoistituita Repubblica austriaca e la Repubblica di Weimar. La politica espansionistica aggressiva di Hitler, con l’Anschluss dell’Austria nel 1938 e l’annessione dei sudeti, rappresentò un tentativo di risolvere la questione tedesca con l’uso della forza. La capitolazione della Germania nazista e la divisione del paese in quattro zone di occupazione fecero sì che la questione tedesca rimanesse aperta anche dopo il 1945. La divisione dell’ex impero tedesco in una democrazia liberale occidentale, nella parte ovest del paese (Bundesrepublik Deutschland, BRD, Repubblica Federale Tedesca), e in uno Stato socialista dell’Est (Deutsche Demokratische Republik, DDR, Repubblica Democratica Tedesca) e il loro graduale inserimento nei due sistemi di alleanze, rispettivamente guidati dagli USA e dall’URSS, rappresentarono al più tardi con la costruzione del Muro di Berlino, nel 1961, il simbolo della divisione del mondo nell’epoca della Guerra fredda. L’“opzione per l’Occidente” (secondo l’espressione dello storico Ludolf Herbst), praticabile in un primo tempo solo per la parte dello Stato tedesco-occidentale, con il crollo del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e la fine della Guerra fredda divenne possibile anche per la Repubblica Democratica Tedesca e gli altri paesi dell’Europa dell’Est, prefigurando la creazione di una Comunità paneuropea. La prospettiva, agognata dal governo della Germania Ovest fin dagli anni Settanta, di realizzare l’unificazione tedesca nel quadro di una soluzione europea, con l’inserimento della DDR nella Comunità europea e i successivi allargamenti ai paesi dell’Europa dell’Est nel 2004 e nel 2007 divenne improvvisamente concreta.

Di seguito, e con questo quadro storico sullo sfondo, verranno esaminati la politica europea tedesca dalle sue origini, all’epoca del primo cancelliere Konrad Adenauer, ai giorni nostri, gli attori, le istituzioni, gli obiettivi, gli interessi e le idee guida che la determinano. Si discuterà, inoltre, la questione del valore che la politica europea ha assunto nei partiti politici, nelle associazioni, nell’opinione pubblica e nei media e dei livelli di consenso che si riscontrano presso la popolazione. Infine, si affronterà il tema della collaborazione fra Germania e Italia sempre nel contesto della politica di integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

Box 1 → Europa-Union Deutschland

Obiettivi e premesse della politica europea da Konrad Adenauer ad Angela Merkel

Le basi della politica europea tedesca furono gettate, sotto ogni aspetto, all’epoca del primo cancelliere della Repubblica federale di Germania, il cristiano-democratico Konrad Adenauer; tali fondamenta appaiono ancora oggi determinanti. Per Adenauer l’obiettivo prioritario era quello di riportare la giovane Repubblica federale di Germania nella famiglia dei popoli europei e, dopo pochi anni dalla fine della guerra e della dittatura nazionalsocialista, avviare un nuovo corso politico. In politica estera, la neonata Repubblica federale non era (ancora) un paese sovrano, dal momento che fino al 1955 rimase sotto il controllo delle potenze alleate. L’unificazione europea e la correlata riconciliazione con l’“arcinemico” storico, la Francia, e con gli altri Stati europei era la strada da percorrere, e ciò nonostante le limitazioni di sovranità, se si volevano riconquistare gli spazi di manovra nella politica estera. Adenauer intraprese questa via dell’integrazione con l’Occidente nonostante l’opposizione che esisteva anche all’interno del suo stesso partito; la politica di Adenauer ricevette dure contestazioni anche dai socialdemocratici e da alcuni settori dell’opinione pubblica. Il primo passo in direzione dell’unità europea, realizzato fin dagli inizi degli anni Cinquanta secondo il piano del ministro degli Esteri francese Robert Schuman e il progetto concepito da Jean Monnet di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, o “Unione carbosiderurgica”), fu quindi accolto con favore e sostenuto da Adenauer. Già nel settembre 1949, quindi pochi mesi dopo la fondazione della Repubblica federale nel maggio di quello stesso anno, il primo cancelliere federale nel suo primo discorso di governo aveva affermato: «Non abbiamo dubbi sul fatto che, a partire dalle nostre origini e dal nostro modo di vedere le cose, apparteniamo all’Europa occidentale. Vogliamo intrattenere buoni rapporti, anche sul piano personale, con tutti i paesi, ma in particolare con i paesi vicini, i paesi del Benelux, la Francia, l’Italia, l’Inghilterra e i paesi nordici […]. Tutti questi interessi devono essere ricondotti all’interno di un assetto e di una concordanza che si possono trovare nel quadro di un’unione europea, alla quale auspichiamo di partecipare il prima possibile».

Ma non erano solo di natura politica gli obiettivi che la Repubblica federale si proponeva di perseguire con la politica di integrazione con l’Occidente; un altro obiettivo era quello di accelerare la riconversione dell’economia di guerra tedesca in un’economia di pace e di porre le basi per nuovi mercati di sbocco nei paesi europei. L’integrazione europea prometteva, dunque, di realizzare contestualmente diversi obiettivi politici ed economici; in particolare, l’idea di garantire, attraverso una più stretta cooperazione economica in Europa, la pace nel lungo termine trovò perfetta corrispondenza nell’obiettivo che l’amministrazione americana si proponeva di perseguire nel quadro del Piano Marshall.

I critici in Germania, tuttavia, vedevano nella politica di Adenauer il pericolo che un rigido e irrevocabile inserimento della Repubblica federale nelle strutture occidentali, come la CECA e poi la Comunità economica europea, potesse approfondire la divisione fra Est e Ovest. In particolare, il partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD), con il suo capo Kurt Schumacher, faceva parte del fronte degli avversari dichiarati dell’integrazione occidentale: respinse categoricamente la CECA e accusò Adenauer di tradimento politico nei confronti dell’unità tedesca, obiettivo che era stato, anch’esso, inserito nel testo della Legge fondamentale. Al contrario, per Adenauer l’unificazione europea era il primo passo da compiere se si voleva perseguire l’unità tedesca. Tra i critici della politica europea di Adenauer ci fu anche l’allora ministro dell’Economia e futuro cancelliere federale Ludwig Erhard. Il padre del “miracolo economico tedesco” temeva, infatti, che l’integrazione europea avrebbe potuto rappresentare un ostacolo all’affermazione dei principi dell’economia di mercato e del liberalismo economico. Ma Adenauer riuscì ad imporsi nei confronti dei suoi critici.

Uno dei capisaldi della politica europea tedesca è dato dall’esistenza di uno stretto rapporto di collaborazione con la Francia, percepito come particolarmente evidente all’epoca della politica di riconciliazione promossa da Adenauer e dal Presidente della Repubblica francese Charles de Gaulle. Ancora oggi – malgrado le crisi ricorrenti – la cooperazione con la Francia rappresenta un elemento essenziale della politica europea tedesca. L’obiettivo della politica francese era quello di vincolare in modo duraturo il suo vicino orientale, che aveva procurato più volte alla Francia grandi sofferenze con guerre e occupazioni, all’interno di strutture europee, per tenere sotto controllo in tal modo la potenza economica e politica della Germania. L’accordo dell’Eliseo del 1963 fu il primo passo in direzione di una stretta collaborazione bilaterale sul terreno della politica, dell’economia e della cultura (v. Trattato dell’Eliseo). Quest’accordo ha rappresentato anche in seguito la base del “motore” franco-tedesco, che è riuscito a dare sempre importanti impulsi all’integrazione europea.

I governi dei cancellieri Ludwig Erhard (Christlich demokratische Union Deutschlands, CDU), negli anni 1963-1966, e Kurt Georg Kiesinger (CDU), nel 1966-1969, proseguirono, in linea di massima, sulla via che era stata tracciata da Adenauer. Sotto Erhard, la politica europea tedesca subì, tuttavia, alcuni mutamenti: il padre del miracolo economico cercò di allentare il forte vincolo con la Francia e sostenne apertamente l’Allargamento della Comunità europea alla Gran Bretagna, contro cui si oppose, invece, duramente de Gaulle. Inoltre, Erhard si adoperò affinché l’economia tedesca, orientata alle esportazioni e dipendente dalle importazioni, guardasse oltre le opportunità offerte del mercato europeo, in un’ottica di libero scambio attuato su scala globale.

La prima grande coalizione, formata dalla CDU/CSU (Christlich-soziale Union in Bayern) e dall’SPD e guidata dal cancelliere Kiesinger (CDU), offrì all’allora ministro degli Esteri e futuro cancelliere Willy Brandt (SPD) l’opportunità di acquisire un profilo autonomo sul terreno della politica di integrazione europea; fu certamente lui l’uomo politico che in quegli anni incarnò, nell’opinione pubblica e sulla scena internazionale, gli obiettivi della politica europea tedesca, riuscendo a svilupparli sotto molti aspetti. Alla politica di riconciliazione con la Francia bisognava affiancare una politica orientata verso la normalizzazione dei rapporti con l’Est. La Ostpolitik, appoggiata anche da Kiesinger, ma legata soprattutto al nome di Brandt, non s’inscriveva nel solco della “via particolare” tedesca (Sonderweg), bensì venne perseguita nel quadro di uno stretto accordo con Washington e con i governi degli altri partner europei. In un intervento al Bundestag, nell’ottobre 1967, il ministro degli Esteri Brandt formulò in questi termini il suo progetto: «Lavoreremo con continuità allo sviluppo della Comunità economica europea e delle sue istituzioni. La comunità dei Sei dovrà essere aperta a tutti gli Stati europei che si riconoscono nei suoi obiettivi. In particolare, saluteremmo con favore la partecipazione della Gran Bretagna e di altri paesi […]» (cit. in Müller-Roschach, 1980, p. 182).

Per il cancelliere Kiesinger l’obiettivo prioritario era la mediazione fra Parigi, Londra e Washington. Anche gli spazi di manovra della politica europea tedesca risentirono, tuttavia, fortemente delle crisi europee che attraversarono tutti gli anni Sessanta. Sulle relazioni franco-tedesche gravarono, inoltre, i fallimenti dei piani per un’unione politica e la crisi monetaria dell’autunno 1968, quando le agitazioni del maggio francese portarono al ritiro dei capitali in Francia e a una rivalutazione del marco tedesco nei mercati valutari internazionali. Contemporaneamente, venne avvertita come sempre più evidente l’esigenza di un coordinamento della politica economica e di una collaborazione più stretta nella politica monetaria. Il progetto di un’Unione economica e monetaria europea venne inquadrato nel Piano Werner (v. Werner, Pierre).

Con i cancellierati di Willy Brandt e di Helmut Schmidt, la responsabilità della politica estera ed europea della Repubblica federale ricadde per la prima volta su due esponenti socialdemocratici. Brandt, apparso in un primo tempo come un visionario, diede insieme al successore di de Gaulle, Georges Pompidou, un importante impulso al Vertice europeo dell’Aia, nel dicembre 1969, al rilancio dei negoziati per l’allargamento della Comunità europea alla Gran Bretagna, per l’Approfondimento della collaborazione europea sul terreno della politica estera e della politica economica e monetaria e per le riforme degli organi della Comunità europea, nel quadro di nuova politica che era per la pace in Europa e orientata alla normalizzazione dei rapporti con l’Est. Il rapporto personale instauratosi tra Brandt e Pompidou conferì maggior peso politico alle iniziative franco-tedesche. Tuttavia, nonostante i rapporti di collaborazione, Bonn e Parigi registrarono anche divergenze sostanziali su alcune importanti questioni politiche, come, per esempio, sulle modalità di realizzazione dell’unione economica e monetaria.

Nel 1974 si verificarono contemporaneamente in Germania, Francia e Gran Bretagna importanti cambi di governo. A Bonn Willy Brandt fu sostituito con il capogruppo socialdemocratico al Bundestag Helmut Schmidt. A Parigi venne eletto il nuovo Presidente della Repubblica, Valéry Giscard D’Estaing, mentre a Londra Harold Wilson (partito laburista) succedette al conservatore Edward Heath nel ruolo di primo ministro. A differenza del 1969, quegli anni furono nuovamente segnati da crisi politiche ed economiche (crisi petrolifera). Schmidt optò, quindi, per un approccio molto pragmatico nella politica estera ed europea, che peraltro trovava corrispondenza nel suo particolare modo di pensare la politica. Dopo il raffreddamento dei rapporti con gli USA, Schmidt intensificò i suoi sforzi per una stretta cooperazione con la Francia. Con Schmidt e Giscard D’Estaing il “motore” franco-tedesco riprese a funzionare, determinando una serie di riforme importanti, dal passaggio alle Elezioni dirette del Parlamento europeo, all’istituzionalizzazione degli incontri al vertice dei capi di Stato e di governo (v. Vertici), con la nascita del Consiglio europeo, al varo del Sistema monetario europeo.

Anche Brandt e Schmidt portarono, dunque, avanti il corso integrazionista che era stato inaugurato da Adenauer, perseguendo la collaborazione in quei settori in cui fu possibile raggiungere il consenso con gli altri partner europei. Allo stesso modo, entrambi si mostrarono disponibili a fare concessioni per promuovere l’integrazione europea (fondi regionali, politica agricola). In particolare, la graduale creazione di una politica estera europea, sia pur segnata da continui contraccolpi, si deve in buona parte all’esperto economista Helmut Schmidt e alla stretta cooperazione con la Francia.

La coalizione social-liberale si sciolse nel 1982 da un lato a causa delle pressioni interne a cui Schmidt fu sottoposto in seguito alla sua decisione di avallare l’installazione degli euromissili in Germania (“doppia decisione” NATO), dall’altro a causa delle crescenti divergenze con i liberal-democratici (partito liberal-democratico) in materia di politica economica. Le elezioni del marzo 1983 ratificarono l’esito della sfiducia costruttiva che era stata promossa l’anno prima congiuntamente dai cristiano-democratici e dai liberaldemocratici ai danni del cancelliere Schmidt, segnando il ritorno al potere di un esponente della CDU, Helmut Kohl, il quale avrebbe dato la propria impronta alla politica europea fino al 1998. In un primo tempo, le condizioni della politica europea non apparivano favorevoli. Alla crisi europea (“eurosclerosi”) seguirono tuttavia una serie di iniziative, come l’iniziativa del Piano Genscher-Colombo del 1981, che porta i nomi del ministro tedesco degli Esteri (v. Genscher, Hans-Dietrich) e del suo collega italiano Emilio Colombo, il progetto per una costituzione europea (“Progetto Spinelli”) nel 1984 (v. Spinelli, Altiero) e l’ambizioso programma per il mercato interno del nuovo Presidente della Commissione europea, Jacques Delors, che con l’Atto unico europeo contribuirono alla prima grande Revisione dei Trattati istitutivi. Nella sua dichiarazione di governo del maggio 1983 Kohl annunciò che in politica europea si sarebbe ispirato al pragmatismo dei suoi predecessori, citando una celebre frase di Adenauer: «L’Europa è come un albero che cresce, ma non può essere costruita». Nei suoi primi anni di governo Kohl riportò in primo piano, almeno nella retorica dei suoi discorsi, anche la prospettiva degli “Stati Uniti d’Europa”. All’inizio degli anni Novanta questo obiettivo perse progressivamente d’importanza, fino a scomparire del tutto dal programma politico della CDU. Kohl motivò questo passo, affermando che attorno a questo obiettivo non era possibile ottenere il consenso né dalla Gran Bretagna né dai paesi scandinavi.

Con la caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, la politica europea del governo Kohl fu messa a dura prova. I sempre più frequenti appelli all’unità tedesca – nella DDR i dimostranti gridavano “Noi siamo un popolo!” – suscitarono grande scetticismo e preoccupazione presso gli altri paesi della Comunità europea. Soprattutto Francia, Gran Bretagna e Italia temevano che una Germania unita, politicamente ed economicamente più grande, avrebbe potuto decidere di emanciparsi dai vincoli europei e imboccare una “via particolare” (Sonderweg). I vertici preparatori alle Conferenze intergovernative di Maastricht, che avvenivano parallelamente alla rivoluzione politica nella DDR, offrirono a Kohl e Genscher l’opportunità di rafforzare l’orientamento europeista della Germania. Kohl si impegnò per l’approfondimento dell’integrazione europea e la realizzazione di un’unione economica e monetaria. L’abbandono del marco forte per una valuta comune europea non fu rilevante solo sul versante economico, ma anche e soprattutto per i suoi risvolti politici.

Dopo alcune esitazioni iniziali, il governo federale guidato da Kohl fu, inoltre, tra i più accesi sostenitori dell’allargamento a Est dellʼUnione europea. Le responsabilità storiche della Germania e la prospettiva di importanti vantaggi economici con i paesi vicini ad est ebbero un peso decisivo. Negli anni Novanta si pose, pertanto, anche la questione di come conciliare la politica dell’allargamento con quella dell’approfondimento. Al riguardo, due esponenti di punta del gruppo parlamentare CDU/CSU, Wolfgang Schäuble e Karl Lamers, avanzarono, nel settembre 1994, la proposta di creare in Europa un “Nocciolo duro” (Kerneuropa), formato dai paesi politicamente ed economicamente più avanzati. Il fatto che i due promotori dell’iniziativa ritenessero prematura la partecipazione dell’Italia alla terza fase del progetto per un’unione economica e monetaria ha generato alcune tensioni nei rapporti italo-tedeschi, risvegliando peraltro il timore di una Germania dominante.

Un altro aspetto caratterizzante la politica europea nell’era Kohl sono state le frequenti critiche sollevate dai Länder e supportate, in particolare, dal gemello bavarese della CDU, la CSU. Nel corso delle trattative di Maastricht (v. Trattato di Maastricht), nel dibattito tedesco è affiorato il concetto di Principio di sussidiarietà, che è stato considerato come uno strumento contro la presunta “smania di regolamenti” di Buxelles. D’altra parte, l’abolizione del marco tedesco, che per molti cittadini e cittadine aveva rappresentato una sorta di identità di riserva, non trovò grande sostegno nemmeno tra la popolazione. Le critiche dell’opinione pubblica non ebbero tuttavia l’effetto di far cambiare idea a Kohl e al suo ministro delle Finanze Theo Waigel (CSU), i quali rimasero fedeli al loro progetto. L’obiettivo prefissato era quello di fare dell’Euro una moneta forte come il marco. Il tentativo del governo Kohl di affiancare all’unione economica e monetaria anche un’unione politica naufragò, invece, dinanzi all’opposizione degli altri Stati membri. Anche nella successiva conferenza governativa, che portò al Trattato di Amsterdam (1997), il governo federale si impegnò attivamente per promuovere le riforme istituzionali. Quando Kohl fu costretto in seguito alla sconfitta elettorale del 1998 a cedere la sua carica a Gerhard Schröder (SPD), tutti gli osservatori politici furono concordi nell’affermare che Kohl sarebbe passato alla storia come il cancelliere che era riuscito a coniugare l’unificazione tedesca con l’approfondimento dell’integrazione europea. Come riconoscimento per il suo operato europeo, Kohl ha ottenuto il titolo di “cittadino onorario d’Europa”, un premio che, prima di allora, era stato assegnato solo a Jean Monnet.

Con Gerhard Schröder (nato nel 1944) saliva al potere il primo cancelliere di una generazione che non aveva una memoria personale della Seconda guerra mondiale. Mentre nella retorica di Kohl l’idea dell’Unione europea come comunità di pace aveva sempre avuto un ruolo di primo piano, con Schröder la politica europea venne discussa anche sotto l’aspetto dei costi e dei benefici. Per Schröder l’articolazione degli “interessi nazionali” anche nella politica europea s’inseriva all’interno di un tentativo di «normalizzazione» del paese, nel corso del quale le responsabilità storiche della Germania per la costruzione europea passarono in secondo piano. Solo poco tempo dopo l’inizio del suo cancellierato, dal 1° gennaio 1999, il leader della SPD si era trovato a gestire, insieme al ministro degli Esteri Joschka Fischer del partito Bündnis 90/Die Grünen (Alleanza 90 – I Verdi), la presidenza del semestre europeo. Le difficili trattative per l’“Agenda 2000”, la crisi del Kosovo e le dimissioni della Commissione europea guidata da Jacques Santer misero alla prova il ruolo di “onesto sensale” del governo federale. Negli anni seguenti Schröder e Fischer caldeggiarono un ulteriore sviluppo della politica di sicurezza e di difesa europea (v. Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa). Allo stesso modo, il governo federale rosso-verde – soprattutto grazie all’iniziativa del ministro degli Esteri Fischer – si adoperò per il progetto per una “Costituzione” europea. In particolare, con il suo celebre discorso alla Università Humboldt nel maggio 2000 Fischer diede di fatto avvio a quel più ampio dibattito sulla Costituzione per l’Unione europea che si sarebbe sviluppato in modo dinamico negli anni successivi, rilanciando il tema della federazione europea. Anche l’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea fu portata avanti con il sostegno del governo tedesco. La presidenza della Commissione incaricata di elaborare la Carta dei diritti era stata, peraltro, assegnata a un tedesco, all’ex Presidente della Repubblica Federale Tedesca Roman Herzog. La Carta venne poi ufficialmente approvata nel dicembre 2000 con la solenne dichiarazione di Nizza, il cui summit, tuttavia, non portò alle riforme che sarebbero state necessarie a fronte dell’imminente allargamento a Est. Può comunque essere considerato un successo del governo tedesco il fatto che con la dichiarazione sul “Futuro dell’Unione europea” venne delineata la tappa successiva del dibattito sulla Costituzione (v. Costituzione europea).

A partire dalla fine degli anni Novanta, il governo federale fu in grado di affermare con successo i propri interessi in tutte le questioni rilevanti dell’agenda politica. Al riguardo, soprattutto la nuova disponibilità a impegnarsi anche militarmente nel quadro dell’Unione europea con gli altri Stati membri fu criticata dall’opinione pubblica tedesca. Il governo federale Schröder/Fischer, oltre a sostenere con forza la politica dell’allargamento a Est dell’Unione europea, fu una delle forze trainanti che in Europa si impegnarono per accelerare l’ingresso della Turchia nell’Unione europea. In altri ambiti, però, come la giustizia e la politica interna, la Germania di Schröder assunse un atteggiamento di prudenza, se non addirittura di opposizione nei confronti di una maggiore integrazione. Soprattutto i Länder tedeschi manifestarono la loro preoccupazione che un’ulteriore integrazione nelle materie di loro competenza avrebbe potuto limitare fortemente il loro spazio di manovra. Per Schröder la politica europea non assunse mai il valore di “affare privilegiato”; tuttavia, nel corso del suo cancellierato Schröder finì per abbandonare l’iniziale retorica euroscettica e per promuovere un corso di politica europea in linea con quella dei suoi predecessori.

In seguito al cambio di governo del settembre 2005 che ha portato al potere Angela Merkel (CDU), le opportunità della politica europea tedesca hanno subito un cambiamento. Nella seconda Grande coalizione, con la Merkel come cancelliera e Frank-Walter Steinmeier (SPD) come ministro degli Esteri e vicecancelliere, la gestione della politica europea tedesca è stata affidata a due figure di importanza politica quasi eguale. Fin dall’inizio la Merkel si è adoperata, riscuotendo tra l’altro un certo successo, per un maggior coinvolgimento dei paesi europei più piccoli. D’altro canto, per rilanciare il progetto della costituzione dopo la bocciatura del referendum in Francia e nei Paesi Bassi nell’estate 2005, era necessario un ampio consenso. L’obiettivo del rilancio del dibattito costituzionale ha, di fatto, consentito al governo tedesco di assumere di nuovo il suo tradizionale ruolo guida all’interno dell’Unione europea.

In particolare, durante la presidenza tedesca del semestre europeo nel 2007 (v. Presidenza dell’Unione europea) sono stati ottenuti importanti risultati, come, per esempio, nella Politica europea di vicinato, della Giustizia e affari interni. Il salvataggio del progetto di riforma, che molti consideravano già affossato, è stato dunque anche e soprattutto il frutto di una lungimirante politica di mediazione, attraverso la quale la Merkel è riuscita a coinvolgere, impegnandoli, tutti gli altri partner europei. Con la “Dichiarazione di Berlino” in occasione delle celebrazioni per i cinquant’anni della firma dei Trattati di Roma il governo federale ha, quindi, aperto la strada al Trattato di Lisbona che sarebbe stato firmato nel dicembre 2007. In questa prospettiva, con il suo intervento nel processo costituzionale la Merkel ha, di fatto, già acquisito importanti riconoscimenti sul terreno della politica europea. Le divergenze con il ministro degli Esteri Steinmeier sono state, peraltro, poco rilevanti; eccezione fatta per la questione dell’allargamento dell’UE alla Turchia. Steinmeier ha portato avanti la politica schröderiana di sostegno all’ingresso dei turchi, mentre la Merkel, come presidente della CDU, si è schierata insieme al Presidente francese Nicolas Sarkozy per una soluzione meno impegnativa nel quadro di una eventuale “partnership privilegiata” fra UE e Turchia, e ciò nonostante gli accordi di coalizione costringano la cancelliera a una posizione di supporto alla candidatura della Turchia. Durante la sua prima esperienza di governo (2005-2009) la cancelliera Merkel ha assunto sulla politica europea un controllo maggiore di quanto riuscirono a fare i suoi due predecessori. Kohl e Schröder ebbero, d’altro canto, come ministri degli Esteri due uomini politici, Hans-Dietrich Genscher e Joschka Fischer, molto intraprendenti e smaniosi di codeterminare la politica europea tedesca. La seconda Grande coalizione, pur senza esprimere grandi visioni, è riuscita a partire da alcuni progetti concreti a dare maggior risonanza al tema dell’Europa presso l’opinione pubblica.

Attori e istituzioni della politica europea tedesca

Sull’organizzazione e lo sviluppo della politica europea influiscono in modo significativo le principali caratteristiche del sistema politico in Germania: tra queste, l’assetto federale dello Stato e la collegata logica competitiva tra Bund e Länder; una cultura politica basata sul consenso e il compromesso, tipica delle “democrazie consensuali”; la posizione forte dei singoli ministeri, costituzionalmente garantita dal cosiddetto “principio di competenza”; infine, un sistema di governo di norma basato su governi di coalizione – formati da un grande partito e un “junior partner” o, nel caso della Grande coalizione, da due partner e concorrenti politici di peso quasi uguale. A partire dagli anni Novanta in Germania è stata avviata una più ampia discussione sull’opportunità di riformare il sistema di coordinamento della politica europea. Secondo i critici, l’importanza politica ed economica della Germania non troverebbe effettiva corrispondenza nella posizione espressa dal governo federale nelle trattative a Bruxelles. Francia e Gran Bretagna, quest’ultima in particolare, vengono considerate come assai più efficaci nell’imporre i rispettivi interessi nazionali. Questo è quanto è emerso da un sondaggio sottoposto alle lobby tedesche di Bruxelles nel 2006: alla domanda «qual è il paese che riesce a tutelare meglio i propri interessi politici in Europa?», circa il 70% dei 350 intervistati ha indicato la Gran Bretagna, il 67% la Francia e solo il 20% la Germania. Alla stessa conclusione conduce uno studio presentato alla fine degli anni Novanta dalla Fondazione Bertelsmann: «il governo tedesco nella quotidianità della politica europea […] compete in una categoria che è al di sotto di quella a cui potrebbe realmente aspirare» (v. Bulmer et al., 1998, p. 99). La causa, sostengono gli autori dell’analisi, risiederebbe in talune debolezze organizzative che si riscontrano nel coordinamento della politica europea tedesca. Tra le ragioni, si annoverano la scarsa comunicazione fra i funzionari dei vari ministeri coinvolti, la tendenza ad accordare la priorità agli interessi settoriali dei singoli ministeri, a discapito della possibilità per il governo federale di esprimere una posizione unitaria; la scarsa trasparenza nella ripartizione delle responsabilità politiche tra cancelleria, ministero degli Esteri e ministero dell’Economia. Soprattutto le continue controversie interministeriali sulle competenze, la compresenza di più interlocutori tedeschi nelle varie sedi, a Berlino e nelle istituzioni europee, e un’attività negoziale condotta su più piani paralleli e scarsamente coordinata impedirebbero ai rappresentanti permanenti a Bruxelles di praticare un’azione di Lobbying mirata ed efficace. Ad aggravare i problemi di coordinamento della politica europea tedesca, sempre secondo i critici, avrebbe inoltre contribuito il tentativo dei Länder tedeschi, a partire dagli anni Novanta, di accreditarsi come attori coprotagonisti della politica europea tedesca. Sul piano storico, il problema della ripartizione dei compiti in materia di politica europea si pose, in realtà, sin dai primi anni Cinquanta. Più precisamente, bisogna risalire alla disputa fra il cancelliere Konrad Adenauer, che fino al 1955 esercitò in unione personale anche la carica di ministro degli Esteri, e il ministro dell’Economia Ludwig Erhard. Entrambi lasciarono il segno sulle trattative che nel 1951 approdarono alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio e nel 1957 ai Trattati di Roma. Già allora, però, la politica europea assunse il significato di “pomo della discordia” tra il ministero degli Esteri e il ministero dell’Economia. In particolare, quest’ultimo, a differenza del primo, avrebbe preferito un’area di libero scambio allargata alla più ristretta soluzione del MEC; un’impostazione che, d’altra parte, mal si conciliava con l’integrazione politica perseguita da Adenauer. Per superare il dissidio su chi avesse il diritto all’ultima parola in materia di politica europea, con un provvedimento regolamentare venne stabilito, che nella “democrazia del cancelliere” anche la facoltà di determinare gli obiettivi e le linee direttive sul terreno della politica europea dovesse spettare al capo dell’esecutivo. D’altra parte, la forte impronta economica della CECA e della CEE ha fatto sì che al ministero dell’Economia venisse comunque riconosciuto un ruolo importante nella gestione dell’amministrazione ordinaria. Al ministero degli Esteri venne, invece, assegnato il compito di elaborare i disegni strategici della politica d’integrazione europea della Repubblica federale.

Nei decenni successivi questa divisione del lavoro fra i vari ministeri avrebbe, tuttavia, rivelato anche le sue debolezze. In particolare, la sua funzionalità è stata messa a dura prova dalla progressiva europeizzazione dei singoli settori di competenza – processo che ha subito un’accelerazione a partire dagli anni Ottanta in seguito agli ulteriori trasferimenti di sovranità decisi con l’Atto unico europeo (1987) e soprattutto con il Trattato di Maastricht (1993). Mentre i ministeri svilupparono solo gradualmente, nel corso degli anni Novanta, una propria competenza europea, istituendo dipartimenti ad hoc e canali diretti con Bruxelles, il dipartimento europeo del ministero dell’Economia (Dipartimento E) costituì ancora fino agli anni Ottanta il principale organo di coordinamento, da cui originavano le direttive per i rappresentanti permanenti a Bruxelles. Solo con il Trattato di Maastricht il ministero degli Esteri ha potuto accrescere il proprio peso politico, istituendo un suo dipartimento europeo. L’ampiezza dei temi che sono stati racchiusi nel Trattato di Maastricht ha rafforzato il ministero degli Esteri nella sua funzione di coordinamento generale della politica europea; anche perché, a eccezione della politica estera e della politica di sicurezza europee, per sua impostazione l’Auswärtiges Amt non persegue interessi di settore.

Nel corso degli anni è cambiato relativamente poco in quest’organizzazione della politica europea. Solo con l’avvento al potere della coalizione di governo rosso-verde nel 1998 è stata finalmente riformata la divisione del lavoro in vigore da decenni fra ministero delle Finanze e ministero dell’Economia. Più precisamente, il ministero dell’Economia, per iniziativa del designato ministro delle Finanze Oskar Lafontaine (SPD), ha dovuto rinunciare alla sua funzione di coordinamento sulle questioni di politica finanziaria. Tuttavia, nel quadro delle trattative per la formazione della coalizione dopo le elezioni federali del 2005, su impulso del “superministro” designato Edmund Stoiber (CSU), le competenze per le questioni fondamentali della politica europea sono state nuovamente assunte dal ministero dell’Economia; una decisione questa che ha provocato un violento scontro politico fra le parti interessate. Con questa nuova regolamentazione veniva ripristinato lo status quo ante, ovvero il sistema che era stato in vigore per quattro decenni fino al 1998. Dal ministero delle Finanze sono state riportate al ministero dell’Economia e della tecnologia le seguenti competenze: il coordinamento della politica europea (a eccezione dell’ECOFIN), e, in particolare, il compito di dettare le disposizioni al Comitato dei rappresentanti permanenti, la gestione della politica strutturale, dei Fondi di coesione UE e delle Reti transeuropee, l’attuazione della Strategia di Lisbona, le questioni riguardanti la rappresentanza della Repubblica Federale Tedesca di fronte alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e la politica di controllo delle sovvenzioni. La rivalutazione del ministero dell’Economia in rapporto alla politica europea è stata mantenuta dal governo di Grande coalizione guidato da Angela Merkel (dal 2005) anche dopo il ritiro di Stoiber in Baviera.

Tutti i cancellieri che si sono succeduti dal 1949 in poi – e la cancelliera Merkel non costituisce un’eccezione – hanno sviluppato uno spiccato interesse per la politica europea, anche perché in quest’ambito si aprivano spazi di manovra politica non soggetti ai condizionamenti della politica interna. Questo ha portato a un accrescimento del ruolo dell’ufficio della cancelleria, soprattutto per quanto riguarda la preparazione degli incontri al vertice tra i capi di stato e di governo e la gestione dei dossier più rilevanti in seno al Consiglio Europeo.

Coordinamento fra i ministeri

Il coordinamento delle Competenze segue il principio del bottom up, per cui le posizioni rispetto alle singole iniziative europee vengono definite a un livello possibilmente basso della gerarchia ministeriale. Solo in caso di conflitto fra i ministeri intervengono i vertici dei vari settori. Tre organi svolgono un ruolo importante in questo coordinamento interministeriale. Il cosiddetto “comitato del martedì” è quello che si riunisce più spesso. Vi prendono parte i capi dei dipartimenti che si occupano di affari europei allo scopo di definire le politiche che vengono poi comunicate ai rappresentanti permanenti a Bruxelles. All’interno dei comitati dei rappresentanti permanenti vengono poi affrontati i vari dossier, lasciando al Consiglio dei ministri l’incombenza di risolvere solo le questioni più spinose sulle quali non è stato possibile raggiungere un accordo.

All’inizio degli anni Settanta, accanto al “comitato del martedì”, è stato istituito un altro organo che riunisce una o due volte al mese i direttori degli uffici europei che fanno capo ai vari ministeri. Inoltre, sin dal 1963 si riunisce sotto la presidenza del ministero degli Esteri, anche qui con cadenza mensile, il comitato dei segretari di Stato per gli affari europei, alle cui riunioni prende parte anche il rappresentante permanente a Bruxelles. Questi incontri servono a risolvere e a ricomporre le eventuali divergenze politiche emerse tra i vari ministeri. L’iniziale carattere esclusivo rendeva possibile trovare un accordo all’interno di una piccola cerchia, ma quest’opportunità si è persa con l’ampliarsi delle competenze della UE in seguito al Trattato di Maastricht agli inizi degli anni Novanta. Oggi questa cerchia è estesa a tutti i ministeri. Solo se all’interno di questa cerchia non si riesce a trovare un accordo, di norma viene coinvolto il gabinetto come ultimo organo arbitrale. Nei governi di coalizione un cancelliere o una cancelliera ricorrono solo in casi eccezionali al potere di indirizzo politico per risolvere i conflitti pendenti; nella prassi, tuttavia, è sufficiente minacciare questo ricorso perché i ministri contendenti decidano di ricomporre le divergenze. A partire dall’allargamento a Est, avvenuto fra il 2004 e il 2007, si nota in tutti i paesi grandi della UE che la politica europea è sempre più soggetta a un controllo diretto da parte dei principali centri decisionali. In tal senso, anche in Germania l’ufficio della cancelleria ha assunto un ruolo sempre più importante nella determinazione della politica europea.

I Länder e il Consiglio federale nella politica europea

Fin dall’inizio la collaborazione in Europa è stata considerata dai Länder tedeschi sia come un’opportunità che come una possibile minaccia per i loro interessi particolari, se non altro per l’articolo della Costituzione che riconosceva alla federazione (art. 24 c. 1) il diritto di trasferire sfere di competenza nazionali a livello europeo. Questa circostanza, già negli anni Cinquanta, aveva indotto l’allora presidente del Nordrhein-Westfalen, Karl Arnold, ad ammonire che i Länder tedeschi nel quadro dell’integrazione europea avrebbero potuto essere «ridotti a semplici unità amministrative». Questa preoccupazione ha segnato l’atteggiamento dei Länder tedeschi nei confronti del Bund e di Bruxelles fino a oggi e spiega la diffidenza sempre presente fra centro e periferia sulle questioni di politica europea. Nel corso delle riforme realizzate dai trattati, Bund e Länder sembrano essersi accordati sul fatto che le diverse forme di cooperazione devono, da un lato, ridurre al minimo i conflitti politici negli affari di ordinaria amministrazione e, dall’altro, impedire uno “svuotamento” del federalismo tedesco.

Per tutelare la loro statualità, i Länder hanno adottato una logica basata sul principio della compensazione: la federazione può trasferire competenze che appartengono ai Länder (per esempio nell’ambito dell’istruzione, della ricerca e della politica culturale) alla sfera europea, a condizione che questa perdita di potere venga compensata da un maggior coinvolgimento dei Länder nelle sedi in cui vengono prese le decisioni in materia di politica europea. In seguito alle riforme dei trattati europei e alla correlata estensione delle competenze della Comunità europea sono state sviluppate numerose procedure che consentono ai Länder di svolgere, attraverso il Bundesrat, un ruolo più incisvo sulla politica europea. Questo sistema che riconosce ai Länder maggiori diritti sul piano dell’informazione e di intervento nelle sedi decisionali è stato poi perfezionato con la ratifica del Trattato di Maastricht. Dato che il trattato dell’Unione doveva essere ratificato con una maggioranza dei due terzi non solo dalla Camera dei deputati, ma anche dai Länder, rappresentati al Senato federale, questi ultimi ebbero buon gioco nel far valere i propri interessi, minacciando di far naufragare la ratifica del trattato al Bundesrat. L’“articolo europeo” (articolo 23 della Costituzione), creato ex novo nel 1993, doveva servire a stabilire un modus vivendi duraturo nel rapporto tra federazione e Länder.

Il prolisso “articolo europeo” riconosce – analogamente a quanto avviene sul piano interno nella ripartizione delle competenze – diversi diritti di codecisione al Bundesrat. La cosiddetta “legge sulla cooperazione tra federazione e Länder negli affari dell’Unione europea (EUZBLG)”, del 12 marzo 1993, dà attuazione alla procedura definita in base all’articolo 23 della Costituzione. Questo articolo “europeo” è frutto di quella prassi molto diffusa in Germania volta a risolvere i conflitti politici per vie burocratiche. Che quest’obiettivo si possa conseguire solo in modo limitato è dimostrato dalle violente controversie politiche tra federazione e Länder che sono emerse in seguito al dibattito più recente sulla riforma del federalismo (fra il 2003 e il 2006). I Länder, rispetto ad altre regioni europee, hanno buone possibilità di far valere i propri interessi nei confronti del governo federale, ma anche dell’Unione europea. Il Bundesrat, come Camera dei Länder, svolge infatti un ruolo centrale nell’implementazione del Diritto comunitario, al punto che la sua esperienza amministrativa è determinante affinché l’applicazione del diritto comunitario si realizzi senza difficoltà ed esitazioni.

Il Parlamento federale tedesco nella politica europea

Come il Bundesrat, anche il Bundestag in seguito alla ratifica del Trattato di Maastricht del 1993 ha conosciuto una rivalutazione del suo ruolo nell’ambito della politica europea. Tuttavia, è apparso chiaro fin dall’inizio che, per ragioni strutturali, i poteri di controllo della Camera dei deputati sarebbero stati più limitati di quelli del Bundesrat. Salvo poche eccezioni, nei sistemi parlamentari i governi federali possono, infatti, generalmente fare affidamento sui “loro” deputati rappresentati nei rispettivi gruppi parlamentari. Con l’integrazione europea e il trasferimento di alcuni ambiti di competenza, tuttavia, il parlamento federale ha subito una importante trasformazione, nel senso di una progressiva “europeizzazione” del suo lavoro. Due cifre possono illustrare questo cambiamento: a fronte dei 224 provvedimenti europei esaminati dal Bundestag durante la legislatura 1961-1965, nel periodo tra il 1998 e il 2001 il numero è salito a 2131. Tuttavia, malgrado la crescente professionalizzazione dell’amministrazione e l’introduzione di comitati ad hoc, non sempre è possibile per il parlamento nazionale esercitare la sua classica funzione di controllo nei confronti dell’esecutivo sui temi di politica europea. I nuovi regolamenti stabiliti nel 2006, così come l’apertura di un ufficio del Bundestag a Bruxelles nel marzo 2007, possono sopperire solo in parte a questi limiti strutturali. Se il parlamento federale riuscirà a sfruttare le nuove possibilità per migliorare la propria capacità di controllo sulla politica europea del governo, la politica europea risulterà nel complesso più trasparente anche agli occhi dell’opinione pubblica. Con la sentenza del 30 giugno 2009, il Tribunale costituzionale federale ha al riguardo chiarito che Bundestag e Bundesrat sono costituzionalmente tenuti a legittimare la democraticità delle decisioni europee garantendo un effettivo controllo parlamentare.

La Corte costituzionale federale

A partire dagli anni Settanta anche la Corte costituzionale federale di Karlsruhe, attraverso una serie di sentenze, ha influenzato la politica europea. In particolare, con le sentenze Solange I (1974) e Solange II (1986) venne affrontata la questione della tutela dei diritti fondamentali. Con le sentenze formulate a ridosso della firma del Trattato di Maastricht (1993) e del Trattato di Lisbona (2009) la Corte costituzionale federale si è invece pronunciato su un problema di compatibilità tra le leggi che approvano i trattati e l’esercizio da parte del parlamento della sua funzione di legittimazione e di controllo dell’esecutivo. In entrambi i casi la suprema corte tedesca ha dichiarato la compatibilità dei Trattati della UE con la Costituzione tedesca, ma altresì imposto delle condizioni (per esempio con la sentenza riguardante il Mandato d’arresto europeo), invitando il legislatore tedesco a prendere le misure necessarie per garantire i principi di democrazia e di legittimità nel contesto della politica di integrazione europea. La Corte costituzionale federale ha espresso una posizione molto forte, soprattutto se valutata nel confronto internazionale, e lasciato intendere che tale posizione non potrà essere modificata nemmeno dalle tappe successive dell’integrazione. Nella prassi, dagli anni Novanta in poi tra la Corte costituzionale tedesca e la Corte europea di giustizia di Lussemburgo si è sviluppato uno stretto e proficuo rapporto di collaborazione informale.

Media, opinione pubblica e partiti

I media tedeschi (giornali, riviste, televisioni, radio e Internet) esprimono prevalentemente orientamenti favorevoli all’Europa e all’integrazione europea. I grandi quotidiani a diffusione nazionale come la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e la “Süddeutsche Zeitung” riferiscono ogni giorno in modo esauriente e attendibile sulla politica nell’Unione europea. Il numero di corrispondenti a Bruxelles delle principali redazioni è addirittura aumentato negli ultimi anni. Gli speciali dedicati all’Europa, tuttavia, vengono solitamente mandati in onda fuori del prime time. Anche tra la popolazione si registra un consenso molto diffuso attorno all’Unione europea e alle sue politiche. Nel periodo compreso fra il 1985 e il 2005, tra il 40% e il 70% dei tedeschi ha dichiarato che l’appartenenza della Germania alla Comunità europea è “un fatto positivo”. Dagli anni Novanta, come d’altronde è accaduto anche in altri paesi europei, si è registrato, invece, un calo di consensi. Dopo la Seconda guerra mondiale l’integrazione europea ha rappresentato per i tedeschi occidentali una sorta di identità di riserva e così anche l’obiettivo degli “Stati Uniti d’Europa” è stato appoggiato dalla maggioranza dei tedeschi. Molto meno popolare è stata invece l’introduzione dell’euro. Su questo tema si è sviluppato un ampio dibattito pubblico a partire dal quale sono state mosse anche molte critiche al governo Kohl. A eccezione del “Bund freier Bürger-Offensive für Deutschland”, una formazione politica nata nel 1994 e votata a contrastare il Trattato di Maastricht e, in particolare, l’introduzione dell’euro, nessun altro partito si è schierato sul fronte antieuropeo. Lo stesso “Bund freier Bürger-Offensive für Deutschland” si sarebbe poi sciolto nel 2000. I grandi partiti popolari CDU e SPD si considerano come partiti europei ed europeisti; soprattutto la CDU, sulla scia della tradizione inaugurata da Adenauer e portata avanti da Kohl, si presenta come il partito europeista più rappresentativo. Anche la SPD, dopo la dura opposizione alla politica di integrazione e l’uscita di scena di Kurt Schumacher, ha finito gradualmente per sostenere la costruzione europea. Così anche il partito dei Verdi e i liberaldemocratici (Freie demokratische Partei, FDP) nei loro programmi perseguono obiettivi sul terreno della politica europea, che non si discostano in maniera sostanziale da quelli degli altri partiti. Solo il partito della Linke (Sinistra) e la CSU, il partito bavarese gemello della CDU, si sono mostrati spesso euroscettici, rispecchiando lo scetticismo presente nell’opinione pubblica nei confronti, per esempio, dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea o di un ulteriore sviluppo incontrollato dell’integrazione.

Collaborazione fra Germania e Italia nella politica europea

Fin dall’inizio, la collaborazione fra Italia e Germania è stata un elemento di propulsione della politica di integrazione europea. Pur non raggiungendo i livelli della cooperazione franco-tedesca, fin dai tempi di Konrad Adenauer e Alcide de Gasperi Germania e Italia, entrambi paesi a vocazione europeista, hanno espresso una particolare sintonia sul piano della politica europea, da cui sono originate anche importanti iniziative comuni. Il progetto italo-tedesco più importante è rappresentato dal Piano Genscher-Colombo, promosso nel 1981 su iniziativa dei ministri degli Esteri tedesco e italiano. Il suo obiettivo consisteva nel dare nuovo impulso al processo di integrazione europea che stava attraversando una fase di crisi: al centro del progetto vi erano il rafforzamento della collaborazione politica europea e dell’integrazione economica e le riforme istituzionali. L’iniziativa approdò poi a una Dichiarazione congiunta per la realizzazione dell’Unione europea. Nel periodo successivo non sono stati più realizzati progetti analoghi; sul piano operativo, però, la cooperazione tra i due governi non è mai venuta meno. Nell’ottobre 2004 il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il cancelliere Schröder hanno celebrato il 25° anniversario delle consultazioni governative italo-tedesche. Sotto il governo Berlusconi, la politica estera italiana si è orientata maggiormente in direzione degli USA e della Russia, il che ha fatto sì che le relazioni italo-tedesche perdessero di importanza.

Martin Große Hüttmann (2012)




Grecia

La Grecia, un paese devastato dalla Seconda guerra mondiale e da una dolorosa occupazione a opera delle potenze dell’Asse (1940-1944), mancò la ricostruzione del dopoguerra a causa della protratta e feroce guerra civile (1945-1949), che la collocò al centro della linea divisoria tra l’Ovest e l’Est. Alla fine si schierò con l’Occidente, partecipando all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) sin dal principio, beneficiando dei fondi del Piano Marshall per la sua economia e diventando membro dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE).

Alla fine degli anni Cinquanta, quando i Sei di allora intrapresero il cammino verso ciò che sarebbe diventata la Comunità europea, la Grecia si mostrò piuttosto incerta se aderirvi. Iniziative come l’Unione economica del Benelux e la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) furono seguite attentamente dalla stampa e accolte come “un passo positivo verso la futura cooperazione tra gli Stati europei”. Le condizioni in cui versava l’economia della Grecia, che era ancora basata principalmente sull’agricoltura e caratterizzata da squilibri nella bilancia dei pagamenti, e le delicate questioni di politica estera si frapposero nel percorso europeo; la questione di Cipro inquinò le relazioni con il Regno Unito mentre la Grecia esitò tra l’esperimento iniziale della Comunità economica europea (CEE) e la proposta dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA).

Nel 1957, quando la CEE iniziò a essere operativa e le prospettive del Mercato comune divennero chiare, all’interno dell’establishment politico greco si sollevarono richieste per tentare di aderirvi. L’industria, che proprio allora stava cercando nel contesto europeo di consolidare la propria base all’interno di uno scudo chiaramente protettivo, era riluttante mentre furono espressi timori sulla possibilità che l’agricoltura con un alto costo di produzione e nessun canale di distribuzione, potesse competere con la produzione di altri paesi europei. Al contempo, l’esistenza di un progetto di divisione dell’Europea in regioni permanentemente industriali e regioni permanentemente agricole preoccupò il sistema politico del paese.

Negoziati, conclusione e valutazione dell’Accordo di associazione tra Grecia e CEE

Alla nascita della CEE, il governatore della Banca centrale di Grecia Xenofon Zolotas nella sua relazione annuale osservò che «gli eventi del 1957 [sono] decisivi per le prospettive di progresso per l’economia greca […]. L’orientamento verso la creazione di un’ampia area di libero scambio in Europa si basa sulla ferma convinzione che l’aumento della produttività e il potenziamento della crescita economica dipendano dalla creazione di un mercato di massa più vasto e di imprese economiche più grandi». Nello stesso periodo, il governatore della Banca nazionale di Grecia, la principale banca commerciale, Vassilios Kyriakopoulos, nella sua relazione si espresse in modo più cauto: «l’abolizione delle tariffe e di altre restrizioni nel commercio transnazionale non offre una soluzione per la partecipazione dei paesi meno sviluppati alla divisione internazionale del lavoro. Infatti, se tale abolizione avvenisse indiscriminatamente, questi paesi incorrerebbero nel pericolo di rimanere emarginati […]. A qualunque condizione la Grecia partecipi all’integrazione dell’area europea, la sua produzione dovrà affrontare una concorrenza più forte; per sopravvivere, dovrà migliorare la sua organizzazione e ridurre i costi […]. La scelta degli investimenti da quel momento in poi dovrà seguire dei criteri più rigidi».

Questo era il clima generale in cui la Grecia prendeva la decisione di candidarsi all’Associazione e di iniziare i negoziati con la neoistituita CEE. La candidatura della Grecia venne discussa durante la prima metà del 1959 e presentata formalmente l’8 giugno 1959. I partiti politici di allora non sapevano in quale direzione muoversi, la Confederazione degli industriali e le banche esitavano; il primo ministro conservatore C. Karamanlis aveva allora una visione più chiara del “futuro europeo” della Grecia, all’interno della quale la dimensione politica aveva il sopravvento sulle preoccupazioni economiche. Questa predisposizione si ritroverà circa vent’anni dopo, quando negli anni Ottanta la Grecia cercò, riuscendoci, di aderire alla Comunità europea.

L’Accordo di associazione fu firmato due anni dopo, il 9 luglio 1961 ed entrò in vigore il 1° novembre 1962. L’accordo fissò lunghi periodi di transizione per i prodotti industriali (in genere 12 anni, ma estesi a 22 per i prodotti che rappresentavano circa il 30% delle importazioni greche in quel momento) nonché una procedura speciale di Armonizzazione per la politica agricola, in cui veniva affermato «il trattamento paritario dei prodotti delle due parti» ma solo una volta completata l’armonizzazione; non fu accettata alcuna partecipazione della Grecia ai meccanismi istituzionali che avrebbero dato vita alla PAC (Politica agricola comune). Aspetto molto importante, l’Accordo di associazione prevedeva la piena adesione alla scadenza del periodo transitorio, sebbene con procedure istituzionali poco chiare.

La decisione della Grecia di scegliere l’opzione dell’associazione, negoziata durante il 1959, in un momento in cui veniva corteggiata dall’EFTA generò tensioni rilevanti all’interno della vita pubblica. La rivistaThe Industrial Review”, considerata abbastanza vicina alla Confederazione degli industriali, si chiese «perché, visto che eravamo incerti se partecipare ai lunghi negoziati per accedere alla Comunità economica europea, abbiamo poi improvvisamente abbandonato i nostri dubbi e ci siamo affrettati […] non da pari a pari ma quasi fossimo in qualche modo degli intrusi nella ristretta Unione dei Sei, nonostante i contrasti che potranno insorgere nella cooperazione con i Sette».

Tuttavia, quando l’associazione divenne una realtà, il clima mutò gradualmente: The Industrial Review” commentava: «la nostra associazione al Mercato unico è una scommessa e le scommesse non sono mai sicure […]. Sorgerebbe un grosso problema se i periodi di transizione e le condizioni negoziate si dimostrassero insufficienti per consentire un graduale adattamento della nostra economia». Alle celebrazioni dell’Accordo di associazione, il ministro per il Coordinamento Panagis Papaligouras (che avrebbe negoziato vent’anni dopo la maggior parte dell’adesione della Grecia) richiese a tutte le forze politiche ed economiche «di partecipare all’impresa più importante dell’economia greca», ma spiegò anche che «privilegi e diritti esclusivi di ogni sorta sono inconciliabili con il previsto aumento della produttività e con l’incentivazione della produzione». Considerata la condizione dell’economia greca agli inizi degli anni Sessanta, racchiusa in meccanismi iperprotettivi e con aspetti statalisti (sebbene di destra), tali posizioni furono profetiche. Il Presidente della Commissione europea CEE Walter Hallstein affermò: «la Comunità constata il suo carattere aperto, il fatto che non si tratti di uno sforzo egoistico utile soltanto al singolo membro, ma è utile per la pace e l’influenza dell’Europa, oltre i confini della Comunità […]. La Grecia dal canto suo rafforza la sicurezza, associandosi in modo più stretto a paesi con cui ha per tradizione legami amichevoli e apre importanti prospettive per la sua economia. L’Associazione permetterà all’economia greca di raggiungere gradualmente lo stesso livello degli Stati membri della Comunità. Pertanto, alla fine sarà in grado di passare dall’associazione all’adesione a pieno titolo».

Colpisce ancora di più l’analisi sull’associazione riportata due anni dopo da Andreas Papandreu, l’allora direttore del neo istituito Centro greco di ricerche economiche, figlio del futuro primo ministro (progressista) George Papandreu e in seguito presidente del partito socialista notoriamente euroscettico e primo ministro negli anni Ottanta (v. anche Euroscetticismo). Nel suo libro Una strategia per lo sviluppo economico della Grecia osservava: «Se non verranno subito intraprese iniziative serie, la Grecia dopo la sua associazione alla CEE potrebbe rimanere o diventare un’economia esclusivamente agricola e un luogo di residenza per turisti, incapace di tenere il passo con il ritmo di crescita economica dei suoi partner della CEE […]. Ma tutti coloro che conoscono bene la situazione del paese non possono che essere ottimisti. Con il giusto obiettivo, l’impegno e la comprensione delle questioni, forse anche a costo di qualche sacrificio iniziale, il popolo greco raggiungerà gli obiettivi prefissati. E la Grecia assumerà un ruolo attivo nella Comunità europea dei popoli».

Invece George Drakos, presidente della Confederazione degli industriali greci, circa cinque anni dopo l’avvio dell’accordo di associazione, forniva la seguente valutazione: «Per la nostra industria, il Mercato comune non dovrebbe essere considerato come una sorta di gara olimpica, dove è più importante partecipare che vincere; siamo in un campo di battaglia dove ciò che conta è vincere […]. Fissare passivamente un orizzonte oscuro non è di alcuna utilità, e ancora più inutile è osservare le cose in un’ottica di eccessivo ottimismo».

Nel luglio del 1964, il Consiglio di associazione (dove la Grecia sedeva accanto ai Sei) diede istruzioni affinché tutti gli aspetti della politica agricola (regime commerciale, aspetti finanziari, approcci istituzionali) venissero esaminati in modo costruttivo. L’armonizzazione agricola venne ripetutamente discussa senza però ottenere alcun risultato. Jean Rey, che partecipò ai negoziati in qualità di rappresentante della Commissione europea sottolineò: «la Commissione sostiene pienamente il parere che l’armonizzazione […] dovrebbe consentire alla Grecia di trarre benefici dalla graduale elaborazione della PAC e per certi versi anche dai meccanismi finanziari stabiliti dalla CEE». In realtà questa posizione non ebbe un seguito effettivo.

Nel frattempo, il Protocollo finanziario allegato all’Accordo di associazione (che consisteva in una dotazione finanziaria di 125 milioni di dollari di cui 50 erano sovvenzioni) iniziò a essere operativo con il trasferimento di fondi da parte della Banca europea per gli investimenti (BEI). La BEI finanziò, inter alia, progetti di costruzione di strade, centrali idroelettriche, industrie cementizie e fabbriche di alluminio su larga scala.

Gli scambi tra la Grecia e i Sei aumentarono in modo significativo, ma il disavanzo della bilancia dei pagamenti crebbe rapidamente per tutti i primi cinque anni di associazione. Sia sul fronte dell’armonizzazione agricola che su quello del sostegno finanziario si registrarono nello stesso periodo progressi lenti. In particolare, quando fu regolato il mercato dell’olio di oliva, sorsero problemi con il regime per l’olio greco, come anche il commercio del tabacco greco sollevò controversie e le esportazioni di frutta fresca crearono problemi; la partecipazione finanziaria della Comunità alle misure per l’armonizzazione rimase un problema costante.

Il “congelamento” dell’associazione

Il 21 aprile 1967 avvenne il colpo di Stato militare in Grecia e una dittatura (di destra e fortemente anticomunista) prese il potere. Il 2 maggio, a meno di due settimane dal golpe, la Commissione parlamentare mista Grecia-CEE si riunì per discutere la questione ed espresse la più profonda preoccupazione per lo stravolgimento causato dagli eventi che minavano le fondamenta stesse dell’associazione della Grecia alla CEE. L’8 maggio, nel corso della discussione su un’interrogazione orale, sia il presidente della Commissione parlamentare mista P. Schuijt sia il presidente della Commissione affari politici Edoardo Martino fecero appello ai membri del Parlamento europeo «affinché non rimanessero indifferenti di fronte alla dimensione violenta degli eventi avvenuti in Grecia»; Martino richiese che il colpo militare fosse condannato; Schuijt si chiese apertamente se la Comunità europea potesse riconoscere il governo militare (soprattutto prima che i governi dei Sei non si fossero espressi in merito). Il rappresentante della Commissione Lionello Levi Sandri sottolineò che le competenze della Commissione erano limitate su tali questioni e che l’accordo di associazione si era concluso tra gli Stati membri e la Grecia. Inoltre, egli espresse la seria preoccupazione della Commissione sul modo in cui «gli eventi in Grecia avrebbero potuto influire sui progressi dell’Associazione».

Poco dopo, nel luglio 1967, la Commissione informò il Consiglio che intendeva “congelare” le relazioni con la Grecia. Era giunta a tal intento a seguito del voto in Parlamento (il 10 maggio) di una Risoluzione secondo cui «l’associazione, che prevede la futura adesione della Grecia alla Comunità, verrà applicata […] solo se in Grecia verranno ristabilite le istituzioni democratiche e le libertà politiche e sindacali». Il Consiglio, senza prendere formalmente una decisione, avallò la posizione della Commissione.

Da quel momento in poi e principalmente dalla fine del Protocollo finanziario (che scadeva a settembre dello stesso anno), la Comunità mantenne congelata l’associazione. In pratica, ciò comportò che non venisse più fornita alcuna assistenza finanziaria alla Grecia, né tanto meno furono compiuti progressi nell’armonizzazione. Nel frattempo, quelle parti dell’associazione che prevedevano un’applicazione più o meno automatica (riduzione delle tariffe, apertura delle quote) continuarono a funzionare. Questa struttura poco equilibrata del “congelamento” dell’Associazione creò del risentimento in Grecia, soprattutto negli ambienti economici: in particolare un editoriale dell’accreditato settimanale finanziario “Economicos Tachydromos” si scagliò con veemenza contro l’ipocrita posizione della CEE, la cui richiesta che venisse ristabilita la democrazia era solo un bluff da smascherare. Ma tale risentimento fu superato dal sentimento popolare che fu sempre contrario alla dittatura e pensava di avere trovato un alleato nella posizione negativa presa dalla Comunità.

Durante i sette anni di dittatura in Grecia, la Comunità dovette riconsiderare i tempi e l’esatto significato del “congelamento” dell’Associazione.

Nel febbraio 1970, l’eurodeputato francese Vans presentò al Parlamento una bozza di risoluzione a nome del gruppo socialista richiedendo la sospensione formale se non l’annullamento dell’Accordo di associazione (la mozione venne ritirata nel 1971, senza ulteriori spiegazioni). Al contrario, l’eurodeputato cristiano-democratico tedesco Hans-Edgar Jahn si impegnò a cercare di “normalizzare” le relazioni tra Grecia e CEE. Nell’agosto 1972, infatti, egli chiese il parere della Commissione giuridica del PE che affermò che il cambio di regime in Grecia non aveva intaccato le reali fondamenta dell’accordo di associazione e che, quindi, esso poteva ancora essere valido. Inoltre, Jahn sostenne che dal punto di vista economico la Grecia non avrebbe dovuto e essere lasciata fuori, «poiché la storia ha dimostrato che le sanzioni economiche raramente producono qualche risultato».

Il Parlamento europeo mantenne la sua posizione originale di prosecuzione del congelamento dell’associazione e le relazioni, quindi, si limitarono agli “affari correnti” mentre la Commissione e il Consiglio dei ministri, in risposta alle interrogazioni scritte presentate da due eurodeputati, sostennero questa posizione non sul piano della validità giuridica dell’Accordo di associazione, ma come logica conseguenza degli avvenimenti del 21 aprile.

Due avvenimenti sembrarono produrre un disgelo nelle relazioni tra la Grecia e la CEE. Nel 1972, la Grecia richiese che i vantaggi del Sistema di preferenze generalizzate (negoziati all’interno dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio, GATT) venissero estesi anche all’economia greca. Nel 1973, la CEE si allargò accogliendo Regno Unito, Danimarca e Irlanda. Ciò richiese che venisse negoziato, e alla fine firmato, un protocollo aggiuntivo con la Grecia, in conformità all’art. 54 dell’accordo di associazione. Atene ritenne che almeno questo secondo fronte avrebbe portato a una “normalizzazione”. Così non fu e sia il vicepresidente della Commissione Sir Cristopher Soames (marzo 1973) che lo stesso Presidente François-Xavier Ortoli (maggio 1973) confermarono la decisione della Commissione di mantenere l’associazione congelata. Quando alcuni oppositori politici della dittatura vennero ancora una volta incarcerati, il Presidente del Consiglio Van Eslande dichiarò pubblicamente di condividere il desiderio del Parlamento che il Consiglio rendesse più dura la posizione della CEE verso la Grecia.

Nell’aprile 1974, alcuni mesi prima della caduta della dittatura dei colonnelli greci, il socialista tedesco Ludwig Fellermaier presentò al PE a nome del Gruppo socialista un’interrogazione orale chiedendo quali fossero le opzioni della Commissione che portavano “all’annullamento dell’accordo di associazione. Nel dibattito che seguì, Claude Cheysson parlando a nome della Commissione, sottolineò le prospettive che si sarebbero aperte per la Grecia nel caso in cui fossero state ristabilite istituzioni parlamentari normali sia sul fronte economico (sostegno finanziario maggiore) che su quello politico (possibilità per una Grecia democratica di candidarsi all’adesione alla Comunità).

Dalla ripresa dell’accordo di associazione ai negoziati di adesione

Alla caduta del regime militare nel luglio 1974 il governo greco guidato da Konstantinos Karamanlis prestò giuramento dichiarando che in cima alla lista delle priorità vi era quella di ripristinare l’associazione e come passo successivo raggiungere l’obiettivo ultimo dell’adesione a pieno titolo. Il presidente della Commissione, François-Xavier Ortoli, inviò a Karamanlis un telegramma di congratulazioni, ribadendo la sua convinzione che il progresso della democrazia in Grecia non poteva che avere un impatto positivo sugli sviluppi dell’associazione.

Meno di un mese dopo, il 22 agosto 1974, il governo greco richiese la “riattivazione” dell’associazione; dopo una settimana, la Commissione invitò il Consiglio a migliorare le relazioni tra la Comunità e la Grecia. Il 12 settembre, alla fine di tre giorni di riunioni tra il presidente Ortoli e il commissario Finn Olav Gundelach da una parte e il ministro degli Esteri greco Georgios Mavros e il ministro delle finanze John Pesmazoglou dall’altra, la Commissione garantì che avrebbe fatto tutto il possibile per completare i preparativi necessari alla riattivazione dell’associazione, secondo le modalità che la Comunità e la Grecia avrebbero successivamente stabilito. Poco dopo (17 settembre), il Consiglio confermò la sua decisione di riprendere il processo di sviluppo dell’associazione, per rendere possibile la successiva adesione della Grecia alla CEE. Il Parlamento europeo si associò a questa dichiarazione positiva di intenti.

Il 16 novembre, la Grecia sottopose alla Comunità un memorandum dove veniva espressa l’intenzione di candidarsi all’adesione; tuttavia, non venne inoltrata nessuna candidatura formale. Occorre ricordare che il 1° novembre 1974 si concludeva il periodo di transizione di 12 anni previsto dall’accordo di associazione. Tuttavia, il periodo di transizione di 22 anni che comprendeva una vasta gamma di prodotti sarebbe terminato solo nel 1984; per questa ragione, quando alla fine la Grecia si candidò formalmente all’adesione, la base giuridica cui si ricorse fu l’art. 237 del Trattato CEE (generico) e non l’art. 74 (specificamente previsto) dell’accordo di associazione).

Il memorandum greco richiedeva che venisse intrapresa una serie completa di iniziative specifiche in modo da recuperare il tempo perduto nella fase di “congelamento” dell’associazione: riattivazione delle procedure per l’armonizzazione agricola, erogazione dei restanti fondi del (primo) protocollo finanziario, negoziazione di un secondo protocollo finanziario, avanzamento nel coordinamento delle misure di politica commerciale e delle politiche relative al mercato del lavoro. Venne anche proposto che l’esistente associazione fosse estesa ai tre nuovi Stati membri della CEE: Regno Unito, Danimarca e Irlanda.

Il Consiglio rispose in modo positivo, decidendo di avviare negoziati con un ritmo accelerato affinché un protocollo aggiuntivo all’accordo di associazione potesse includere l’ultimo punto e perché venisse discussa favorevolmente l’assistenza finanziaria. La posizione sull’armonizzazione agricola, soprattutto per quanto riguarda il sostegno dei prezzi, fu nettamente più fredda. Tuttavia, furono avviati i negoziati in settori importanti come quello del vino e della frutta fresca.

Dopo una visita di Stato di Karamanlis a Parigi nell’aprile 1974, durante la quale la Francia dichiarò esplicitamente il suo sostegno, la Grecia presentò la sua candidatura all’adesione il 12 giugno 1975. Il 2 luglio la Commissione istituì una task force per esaminare la candidatura greca.

In Grecia, il sostegno all’adesione fu ampio. Karamanlis credeva fermamente nell’unione della Grecia all’Europa come lui stesso spiegò rivolgendosi agli ambasciatori dei Nove riunitisi ad Atene: «Vorrei sottolineare che la Grecia non richiede l’adesione per motivi esclusivamente economici. La nostra candidatura poggia principalmente su motivi politici ed è legata al ripristino della democrazia e al futuro della nostra nazione». Oltre al partito di destra Nea dimokratia di Karamanlis, anche il partito di centrodestra Enosis kentrou di Gorge Mavros era a favore dell’adesione, pertanto più di 4-5 dei membri del Parlamento di allora erano favorevoli. Questa volta l’industria fu meno reticente rispetto a quando si era discussa l’associazione. Il partito comunista (Kommunistikό komma Elladas, KKE, da poco legalizzato) si oppose; e lo stesso dicasi del Panellinio sosialistiko kinimail (PASOK, neo partito socialista) di Andreas Papandreu, che negli anni Ottanta sarebbe diventato primo ministro.

In un’intervista rilasciata alla Rivista ufficiale della Commissione europea “Comunità europea”, del novembre-dicembre 1974, Papandreu dichiarò: «Non è mia abitudine essere pessimista [ma] unire un’economia sottosviluppata come quella della Grecia alle economie floride della maggior parte dei paesi europei occidentali comporta seri rischi». E proseguiva esprimendo il timore che i benefici stimati (flussi finanziari, condizioni migliori per l’esportazione di prodotti agricoli) non avrebbero potuto compensare gli effetti negativi (piena liberalizzazione delle importazioni, peggioramento della bilancia dei pagamenti, emigrazione, penetrazione più facile di capitali esteri). Nel novembre 1976, il PASOK ribadì questa posizione in una pubblicazione ufficiale dove argomentava ampiamente la sua contrarietà con un aspro tono anti CEE. E curiosamente a presentarlo fu Kostas Simitis, che sarebbe diventato primo ministro a metà degli anni Novanta e che in seguito si sarebbe distinto per le sue fervide opinioni europeiste. «L’ottimismo che nutrono i sostenitori dell’adesione è infondato», scriveva Simitis; «Nella nostra relazione rifiutiamo l’adesione; e rifiutiamo parimenti ogni adesione vincolata a condizioni. Non esiste via di uscita dalla dipendenza dall’assistenza di paesi industrialmente sviluppati […]. Rifiutare l’adesione per il nostro paese non significherebbe rimanere isolato, bensì sviluppare delle relazioni sfaccettate».

Nel frattempo, in Europa aveva iniziato a consolidarsi un certo grado di resistenza alla prospettiva dell’Allargamento della CEE dei Nove alla Grecia. Nel gennaio 1976, avvertendo che questa tendenza aumentava, Karamanlis scrisse a Ortoli per ribadire l’importanza fondamentale che rivestiva l’adesione per la Grecia. Subito dopo, il 29 gennaio, la Commissione pubblicò il suo parere formale, dove si dichiarò a favore di una risposta chiaramente favorevole alla candidatura della Grecia, proponendo inoltre che venissero aperti negoziati in tal senso. Inoltre, la Commissione si soffermava a lungo sui potenziali problemi derivanti dall’adesione greca, problemi di natura economica (il grado di assistenza finanziaria) e politica (soprattutto le relazioni tese tra Grecia e Turchia). Infatti sembrava che la Commissione stesse proponendo una sorta di fase di preadesione alla Grecia. Settori della stampa europea furono ancora più evasivi.

Il governo greco reagì malamente: Karamanlis chiamò gli ambasciatori dei Nove per esprimere il suo profondo disappunto; un memorandum dai toni aspri fu inviato alle capitali; il Commissario Altiero Spinelli dichiarò pubblicamente che era «una decisione sbagliata» proporre alla Grecia una fase di preadesione; il governo francese diede rassicurazioni sul fatto che il parere della Commissione non era vincolante.

Alla fine, il 9 febbraio 1976, il Consiglio accettò la candidatura greca e decise di avviare subito i negoziati. Il (nuovo) presidente della Commissione, Gaston Thorn, spiegò che la posizione della Commissione era stata fin dall’inizio favorevole; ma quando gli fu chiesto in che misura l’allargamento potesse procedere con l’“Approfondimento” della Comunità, sottolineò cautamente la speranza che quest’ultimo progredisse prima che l’adesione greca si realizzasse. I negoziati furono finalmente aperti il 17 luglio a Bruxelles e il Presidente del Consiglio Max van der Stoel affermò: «L’allargamento della CE, che tutti desideriamo abbia un buon esito, aprirà nuove prospettive per la nostra avventura politica; dovremmo costruire un’Europa vicina all’opinione pubblica dei nostri paesi, non solo considerando il piano economico, ma anche quello sociale e umano». Il ministro greco per il coordinamento P. Papaligouras affermò che la stragrande maggioranza dei greci condivideva gli ideali espressi da van der Stoel, assicurando che la Grecia si sarebbe impegnata, una volta membro, per la coesione tra i dieci paesi.

Alla seduta di apertura dei negoziati, la Grecia dichiarò formalmente di accettare l’Acquis comunitario, richiedendo solo alcuni meccanismi di transizione, formulando la previsione che i negoziati relativi alla legislazione secondaria della CEE si sarebbero potuti concludersi prima del luglio 1977 grazie all’acquis dell’associazione. La Comunità era riluttante a dare indicazioni sulla durata e affermava chiaramente che l’adesione era cosa ben diversa dall’associazione.

I negoziati, in realtà, si sarebbero prolungati e sarebbero stati complessi, con particolari problemi sorti nel settore agricolo (come previsto), nonché in quello riguardante la libertà di circolazione dei lavoratori, che richiesero speciali meccanismi di transizione. Una speciale clausola di claw-back venne anche prevista nell’atto di adesione per placare i timori della Grecia (condivisi anche dagli esperti della Commissione) che il paese potesse diventare un “contribuente netto” al bilancio della Comunità. Dopo vari e difficili passaggi dei negoziati, nel maggio 1979 venne firmato ad Atene l’Atto di adesione, la quale entrò in vigore dal 1° gennaio 1981.

Dopo l’adesione: dagli incerti inizi a una posizione sempre più positiva

L’adesione della Grecia alla Comunità europea coincise con un cambiamento radicale del profilo politico del paese. Nell’ottobre 1981, il partito di centrodestra Nea demokratia perse il potere e il partito socialista PASOK del bellicoso Andreas Papandreu salì trionfalmente alla ribalta della scena politica. Quando era all’opposizione, il PASOK aveva assunto una posizione anti-europeista piuttosto attiva; secondo il partito, l’adesione avrebbe contribuito a consolidare il ruolo marginale del paese come Stato satellite del sistema capitalistico rendendo impossibile la pianificazione nazionale, minando gravemente l’industria greca e portando all’estinzione degli agricoltori greci. Il PASOK, poco prima della vittoria elettorale aveva (quasi) promesso di organizzare un referendum sulla possibilità o meno che la Grecia restasse nella CEE; si parlò di “rinegoziare” l’adesione e le sue condizioni; si fece anche riferimento a un “mercato comune mediterraneo” o a un mercato mediterraneo balcanico-orientale. Tali posizioni non si discostavano molto da quelle euroincerte che prevalevano tra l’opinione pubblica (sostenute anche dai media): nell’autunno 1981, da un sondaggio dell’Eurobarometro risultò che solo il 38% dei greci riteneva l’adesione “qualcosa di positivo”.

Tuttavia, una volta salito al potere, il PASOK adottò una posizione meno aggressiva verso la CEE. Per poter cambiare opinione senza perdere la faccia, il governo Papandreu decise di inoltrare alla Commissione europea un “Memorandum sulle relazioni tra la Grecia e la CEE”, giustificandolo all’opinione pubblica greca come una piattaforma di richieste minime per far rimanere il paese nella CEE e a Bruxelles come un elenco di punti da chiarire e/o da negoziare senza stravolgere il quadro istituzionale dell’adesione greca. In realtà, il memorandum sollevò principalmente la questione di un maggiore trasferimento dei fondi comunitari, in modo da migliorare le strutture inadeguate del paese e sostenere l’agricoltura greca; fu presentato, inoltre, un elenco di deroghe/esenzioni riguardo all’applicazione delle norme comunitarie dell’acquis in settori delicati, per ovviare alle conseguenze negative dall’apertura dei mercati dopo l’adesione.

La Commissione europea dei primi anni Ottanta, alla ricerca di successi e quindi disposta ad aumentare gli aiuti dei Fondi regionali e sociali allo scopo di introdurre misure di coesione (v. Fondo di coesione) (i Nove che erano Dieci con l’adesione greca e che sarebbero presto diventati Dodici, aggiungendo così un sensibile tratto meridionale/meno sviluppato alla Comunità) decise di avviare un negoziato su basi pragmatiche con la Grecia. Lo strumento modello dei Programmi integrati mediterranei, negoziato nei primi anni Ottanta, offrì alla Grecia (insieme a Italia e Francia meridionale) finanziamenti privilegiati a partire dal 1985 e permise di instaurare una stretta cooperazione tra le amministrazioni greche e i Fondi strutturali. Furono così trovate soluzioni pragmatiche a molte questioni rimaste irrisolte circa l’implementazione dell’acquis, quali gli aiuti statali, il sostegno alle imprese in crisi, le regole della PAC.

La Grecia tuttavia reagì in modo negativo, o per lo meno con molta incertezza, in merito alla cooperazione politica (ad esempio riguardo alle posizioni della Comunità europea nei confronti delle relazioni Est-Ovest in Europa, o dell’incidente del jumbo della Korean Airlines). Ma il pragmatismo trionfò poco a poco anche in tali questioni. Anche se non fu mai esplicitamente riconosciuto, il fatto che i successivi Programmi di stabilizzazione della sempre più fragile economia greca avessero beneficiato durante gli anni Ottanta di un tacito se non esplicito sostegno di Bruxelles­, ebbe la sua parte nel costruire un nuovo consenso riguardo all’Europa in Grecia. Contribuì a tutto ciò anche l’aumento dei trasferimenti netti dal bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) alla Grecia che da 600 milioni di Unità di conto europea (ECU) nel 1982 giunsero a 1,5 miliardi nel 1988 fino a 2,5 miliardi nel 1992 (mentre il secondo “pacchetto Delors” prevedeva 19,2 miliardi fino al 1999). Il fatto che negli anni 1986-1987 il responsabile dell’economia greca fosse il ministro dell’Economia interna Kostas Simitis, che aveva sperimentato nel ruolo di ministro dell’Agricoltura la tattica negoziale di Bruxelles e che da iniziale socialista dogmatico aveva assunto posizioni più europeiste, facilitò l’atteggiamento pragmatico; anche la stretta cooperazione con il lungimirante presidente della Commissione Jacques Delors svolse un ruolo importante.

L’opinione pubblica lentamente si adeguò; nella primavera 1984, l’eurobarometro mostrava ancora un sostegno piuttosto incerto, ma nell’autunno 1987 la percentuale di greci che ritenevano che l’adesione alla CEE fosse positiva salì al 58%; quattro anni dopo, quando stava per completarsi il Trattato di Maastricht, toccò il 73% per poi lentamente scendere al 68% due anni dopo. Solo l’8% dei greci rimase dell’opinione che l’adesione alla CEE fosse negativa. Considerando la questione da una diversa prospettiva, il 44% dei partecipanti all’eurobarometro nel 1984 rispose che la Grecia aveva beneficiato dell’adesione, il 67% nel 1988, il 72% a metà del 1993. In quel periodo, il sostegno al Trattato di Maastricht e alla creazione di una moneta unica europea era alto, il 71% (il 77% era a favore di una Banca centrale europea), nonostante il fatto che l’economia greca fosse ancora molto lontana da quelli che sarebbero diventati i cosiddetti “criteri di Maastricht”, in termini fiscali (disavanzo e debito) e di inflazione: il disavanzo era più del 10% del PIL, il debito era più del 100% del PIL (secondo solo a quello del Belgio e vicino a quello dell’Italia) e l’inflazione si manteneva costantemente a due cifre.

Ugualmente alto era il sostegno a una politica estera e di sicurezza comune (73%) e persino a una responsabilità della CEE per la difesa (78%). Per un paese che fino a pochi anni prima era favorevole a mantenere il veto nazionale, un tale cambiamento venne osservato con interesse. Lo stesso dicasi per l’essenziale cambiamento nelle posizioni assunte dai partiti politici greci riguardo all’Europa: mentre Nea Demokratia, che ritornò al potere per tre anni dal 1990 al 1993, rimase fermamente a favore per tutto il periodo, l’antieuropeista PASOK aveva cambiato in modo impressionante il suo orientamento (rasentando a volte l’euroentusiasmo) e uno dei due rami del Partito comunista degli anni Settanta, gli eurocomunisti, cioè l’attuale Synaspismos (SYN), adottò posizioni europeiste. Si può affermare che nei primi anni Novanta, quando la scissione dell’Europa in due, Est e Ovest, ebbe fine, la Grecia pensava in modo completamente diverso all’Europa, alla Comunità europea che sarebbe presto diventata l’Unione europea.

La Grecia in Europa

Fino a tutti gli anni Novanta, la Grecia godette del ruolo di una “buona europea”; tranne un insignificante dissenso politico, il paese partecipò attivamente alla negoziazione del Trattato di Maastricht, del Trattato di Amsterdam e del Trattato di Nizza; in seguito sostenne e partecipò ai negoziati, reggendo la presidenza del Consiglio nel 2003 (v. Presidenza dell’Unione europea), e ratificò (in Parlamento) il progetto di trattato costituzionale (v. Costituzione europea).

Durante tutto il percorso istituzionale seguito dalla CEE/UE, la Grecia si schierò sempre dalla parte degli integrazionisti/federalisti (v. anche Federalismo); sostenne fermamente l’aumento dei poteri del Parlamento europeo, un ruolo più attivo della Commissione e il passaggio al voto a Maggioranza qualificata nel Consiglio, oltre all’estensione delle Competenze dell’Unione nei settori della politica estera, della sicurezza e della difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa). Nelle ultime fasi dei negoziati del Trattato costituzionale, quando l’impasse dell’Europa in politica estera riguardo all’Iraq era evidente, la Grecia si schierò con Germania, Francia e Belgio nelle discussioni circa una core Europe, un Nocciolo duro, nel settore della difesa.

La Grecia sostenne anche le proposte di allargamento sia ai paesi dell’Europa centrale e orientale nel 2004 (compresi Malta e Cipro, e quest’ultima rivestiva una certa importanza per la Grecia) e quello ai Balcani orientali nel 2007.

Tali posizioni istituzionali sono collegate a tre evoluzioni parallele: in primo luogo, vi fu la determinazione della Grecia nell’avviare gli adattamenti economici necessari per entrare nell’area dell’Euro. Dopo un intenso sforzo sia sul fronte fiscale che su quello relativo all’inflazione, avendo adottato una “politica della dracma pesante” per deflazionare, e avendo scelto un tasso centrale della valuta nazionale sfavorevole (per la sua economia reale) rispetto all’euro, riuscì a entrare nell’euro proprio nella fase finale dell’introduzione della moneta unica, nel 2001. Sebbene i dati fiscali utilizzati fossero successivamente rivisti (il 3% del PIL per il disavanzo fiscale al momento dell’adesione fu poi ricalcolato al 6.1%), la Grecia in realtà attuò una notevole manovra correttiva della sua economia. Nonostante il duro impatto che tale decisione ebbe sul tenore di vita di importanti segmenti della popolazione, il consenso all’adesione all’Unione europea da parte dell’opinione pubblica rimase alto. Il sistema politico utilizzò l’ancoraggio all’euro, poi la partecipazione alla moneta unica, per “importare” quella disciplina fiscale che in realtà l’economia greca aveva evitato per trent’anni.

In secondo luogo, la Grecia si rendeva conto che il fragile e a volte pericoloso contesto internazionale dei Balcani-Europa sudorientale e del Mediterraneo orientale richiedeva, se addirittura non imponeva, un nuovo tipo di alleanze. Pertanto, sebbene l’opinione pubblica greca si opponesse fortemente alla NATO e all’intervento/presenza dell’UE in Bosnia, poi in Serbia e nel Kosovo, la posizione ufficiale adottata dalla Grecia fu simile a quella dell’UE: incerta a volte, ma nel lungo termine coerente. E cosa ancora più significativa, si ritenne che la disputa sempre accesa con la Turchia, soprattutto riguardo all’Egeo nonché all’isola di Cipro divisa e parzialmente occupata, potesse essere risolta grazie a una soluzione europea con la Turchia. Lo sviluppo di una doppia relazione triangolare tra Grecia-UE-Turchia e Turchia-UE-Cipro portò in realtà l’Unione a cercare di realizzare un equilibrio in questa situazione esplosiva, o quanto meno di promuoverlo. L’adesione di Cipro nel 2004 e l’incerto status di candidato all’adesione della Turchia furono un esperimento importante per l’Europa.

Un terzo fattore era costituito dalla richiesta ricorrente di modernizzazione, sia sociale che economica del paese. Fin dall’inizio, quando Karamanlis condusse la Grecia verso l’adesione (e prima ancora, quando fu decisa l’associazione) e soprattutto quando Simitis optò per la partecipazione e coltivò l’idea di un nocciolo duro europeo, una core Europe (fatta propria poi da Karamanlis jr. dopo il 2004), l’Europa si dimostrò un catalizzatore per i cambiamenti che dovevano avvenire, o almeno per accelerarne il ritmo. La liberalizzazione dei mercati, la riforma della previdenza sociale e persino la regionalizzazione sono stati vantaggi derivati dall’adesione all’UE.

A.D. Papayannides (2005)