Irlanda

Diventata repubblica nel 1949, benché non le fosse ancora possibile entrare all’ONU (incominciò ad avere relazioni internazionali stabili a partire dal 1955), l’Irlanda prese parte alla Commissione economica per l’Europa (ECE), che ebbe sede a Ginevra, come membro senza diritto di voto. Questo fu il primo passo per il paese verso l’unità europea, un concetto nuovo per l’Irlanda.

Il movimento verso l’unità europea cominciò già col Congresso dell’Aia del 1948, che vide la presenza anche di delegati irlandesi, e che diede luce a due istituzioni europee quali il Consiglio d’Europa e la Corte europea dei diritti dell’uomo.

I partiti politici irlandesi iniziarono a dare una loro impronta alla nuova politica estera. Cominciando con il governo del Fianna Fáil del 1947, passando per la coalizione di governo multipartitica che governò dal 1948 al 1951, il paese partecipò con entusiasmo allo European recovery program (ERP), più comunemente conosciuto come Piano Marshall, promosso dal governo statunitense. I partecipanti europei all’ERP s’incontrarono per la prima volta a Parigi il 12 luglio 1947, e crearono il Comitato di cooperazione economica europea. L’allora ministro irlandese per l’Industria e il commercio, rimarcò come l’Irlanda era ben contenta di partecipare ai lavori della conferenza, che venne vista come “essenziale” per le economie d’Europa.

I fondi ricevuti furono amministrati dall’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) di cui l’Irlanda fu un membro fondatore. L’Irlanda, in particolare con il suo ministro degli esteri, Seán MacBride, colse l’opportunità offerta dall’esser membro dell’OECE e del Consiglio d’Europa per stabilire legami fuori dal contesto del mondo anglofono. Più volte MacBride diede l’appoggio irlandese all’Europa occidentale, in nome della democrazia e dei “principi della cristianità”. L’Irlanda non poteva più rimanere isolata dal resto del mondo. MacBride divenne infine nel febbraio del 1950 vicepresidente dell’OECE; nonostante ciò non ci fu molto entusiasmo tra i politici irlandesi sui lavori del Consiglio, specialmente perché il tema della separazione irlandese non riceveva all’assemblea l’attenzione che secondo loro meritava. Molti interventi dei delegati irlandesi, come quelli di Eamon de Valera, del deputato del Fianca Fáil Seán MacEntee, o del leader del partito laburista William Norton, degenerarono in astiose denunce della separazione dell’isola a prescindere dagli ordini del giorno. L’innato entusiasmo irlandese per gli aspetti economici, sociali e politici dell’ERP non coinvolse allo stesso modo il tema militare. L’appoggio all’integrazione europea, mosso dalla necessità della ricostruzione economica postbellica e per evitare futuri conflitti, non appariva sufficiente per far cambiare questa posizione irlandese. L’Irlanda infatti non firmò il Trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948, in cui cinque potenze europee (Belgio, Francia, Regno Unito, Lussemburgo e Paesi Bassi) decisero di formare un sistema difensivo comune e di consultarsi su problemi economici e culturali, avviando l’Unione dell’Europa occidentale (UEO). Inoltre, quattro membri irlandesi dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa votarono contro il Piano Schuman dell’agosto 1950.

L’Irlanda non partecipò nemmeno al trattato del 4 aprile 1949 che istituì il Patto atlantico (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). L’Irlanda quindi non entrò nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la quale non suscitò molto interesse nel paese, anche perché né il carbone né l’acciaio rappresentavano una voce significativa nelle importazioni irlandesi. Si preferì restare alla finestra e studiare le conseguenze economiche e sociali di lungo termine. Nonostante quindi nel dopoguerra avesse compiuto passi in avanti per emergere dall’isolazionismo, l’Irlanda non partecipò ai più importanti processi d’integrazione. L’isola venne comunque coinvolta, seppur senza molto entusiasmo, nei colloqui iniziali dell’OECE con l’obiettivo di creare un mercato di libero scambio paneuropeo per la metà degli anni Cinquanta.

La proposta dell’OECE di formare una zona di libero scambio fu fortemente appoggiata dal governo britannico, che assunse un ruolo chiave nella sua nascita. Di fronte all’opposizione francese alla creazione di un’area di libero scambio che comprendesse tutti i paesi OECE e all’entrata in vigore nel 1958 della Comunità economica europea (CEE) a sei, i principali paesi OECE non membri CEE (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e Regno Unito) decisero di creare l’Associazione europea di libero scambio (EFTA), escludendo dai negoziati alcuni paesi, tra cui l’Irlanda. Fu così che nel 1959 l’Europa occidentale, che aveva tentato di avviare un’unica integrazione economica in ambito OECE, si separò in tre sfere economiche: quella dei sei fondatori della CEE, quella dei sette fondatori dell’EFTA, e i paesi “marginali”, che cioè non facevano parte di nessuna delle due nuove realtà. L’improvviso annuncio del maggio 1959 della decisione dei Sette di formare un’area di libero scambio causò un terremoto nell’economia e nella politica irlandese. Come si è detto, insieme agli altri paesi periferici dell’OECE, l’Irlanda non fu intenzionalmente invitata ai negoziati. La ragione principale di questo atteggiamento era abbastanza chiara. I Sette non volevano impantanarsi con i problemi dei paesi periferici, bensì volevano creare un’area di libero scambio rivale rispetto alla CEE. Si prospettò nuovamente un periodo d’isolamento economico, questa volta come risultato dell’esclusione irlandese dal processo di integrazione.

Un altro fatto da sottolineare è come questo annuncio inaspettato avesse spinto una volta per tutte il governo irlandese a confrontarsi seriamente con il tema dell’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). L’Irlanda entrò in un periodo di grandi cambiamenti, sia in politica interna che in politica estera. Per quanto riguarda la politica interna, l’estate 1959 viene vista come il periodo della svolta nello sviluppo politico del paese. La decisione di de Valera di dimettersi dalla vita politica attiva in giugno, e l’ascesa di Seán Lemass alla guida del governo costituirono una liberazione dall’impasse governativa che aveva bloccato la vita politica irlandese e soffocato quella economica e sociale. Il 26 luglio 1961 Harold Macmillan, primo ministro britannico, comunicò informalmente al primo ministro Lemass che il suo governo aveva deciso di entrare nella CEE. Questa mossa, inaspettata, consegnava al passato quello che era stato un periodo di incertezza circa il futuro ruolo irlandese nel processo d’integrazione europea. La prima richiesta dell’Irlanda di entrare nella CEE ebbe esito negativo, dopo un breve periodo dei negoziati che terminarono nel gennaio 1963, senza che il governo di Dublino venisse realmente coinvolto nei negoziati. Questa bocciatura avvenne a seguito dell’intransigenza del presidente francese nei confronti della richiesta di adesione della Gran Bretagna. La pratica irlandese era strettamente legata a quella britannica, a testimonianza del poco peso di Dublino. Una volta che la Francia si oppose alla candidatura del Regno Unito, anche quelle degli altri paesi (Danimarca, Irlanda e Norvegia) furono bloccate. Le considerazioni aggiornate della Commissione europea, presentate il 5 agosto 1969, misero fine alle voci che volevano una Comunità ristretta a sette paesi, con l’inclusione quindi solo del Regno Unito, e venne dato parere positivo all’apertura simultanea dei negoziati con tutti e quattro i paesi candidati; parere che venne confermato al vertice dell’Aia. I negoziati tra la CEE e l’Irlanda furono avviati nel settembre 1970 e durarono fino al gennaio 1972.

Per la prima volta, l’Irlanda poté avviare serie e costruttive discussioni con le Istituzioni comunitarie e con gli Stati membri sulla sua domanda di adesione.

Tra la fine del 1969 e l’estate 1970 Dublino adottò una strategia su tre fronti per cercare di ottenere l’ingresso, basata rispettivamente sulle relazioni anglo-irlandesi, l’opinione pubblica interna e una pressione sui Sei.

Per quanto riguarda i rapporti con Londra, l’Irlanda fu aiutata dall’esistenza dell’Area di libero scambio anglo-irlandese (Anglo-Irish free trade agreement, AIFTA) del 1965, che permise l’apertura di incontri bilaterali per esaminare le implicazioni dell’adesione sulle loro già esistenti relazioni economiche.

In secondo luogo, il governo irlandese pubblicò nell’aprile 1970 un Libro bianco intitolato Far parte delle Comunità Europee – implicazioni per l’Irlanda, che rappresentava un cambiamento rispetto a pubblicazioni passate di questo tipo, limitate a constatare la creazione delle Comunità e il loro sviluppo, in quanto analizzava l’impatto economico dell’ingresso, senza trascurare gli effetti costituzionali e politici.

Per quanto concerne la terza strategia, il nuovo ministro degli esteri irlandese Patrick Hillery si recò in visita nelle capitali degli Stati membri, per prima cosa per confermare la determinazione del suo paese a entrare nelle Comunità, ma anche per dichiarare categoricamente che l’Irlanda comprendeva e accettava senza riserve le implicazioni politiche ed economiche che ne derivavano. Fu comunque l’incontro che si svolse in Lussemburgo il 30 giugno 1970 che diede al governo irlandese la prima vera possibilità di esporre la propria posizione in maniera ufficiale nell’ambito dell’apertura dei negoziati per l’Allargamento. Benché questo primo incontro fosse sotto molti aspetti più che altro cerimoniale, offrì l’opportunità all’Irlanda di manifestare il suo punto di vista. Naturalmente Dublino era interessata a sottolineare alcuni aspetti presso il tavolo dei negoziatori, specialmente l’integrazione delle economie dei paesi candidati con il sistema comunitario e il necessario periodo di transizione per il suo raggiungimento. Non sorprese il fatto che, nel caso irlandese, l’aspetto più importante riguardasse i settori agricolo e industriale. In campo agricolo, il ministro degli esteri disse che il suo governo accettava gli obiettivi della Politica agricola comune (PAC) ispirati ai Trattati di Roma, sosteneva l’azione intrapresa dalla Comunità per implementarla e che l’Irlanda avrebbe giocato un ruolo costruttivo ed operativo nei suoi sviluppi successivi. Essendo un settore molto importante nell’economia del suo paese, asserì che condizioni razionali e ben regolate di commercio internazionale dei prodotti agricoli erano necessarie per il bene dell’economia dell’Irlanda e che la partecipazione del suo paese avrebbe offerto basi sicure per uno sviluppo equilibrato dell’agricoltura irlandese.

Pur non prevedendo particolari difficoltà in caso d’ingresso nella PAC, Dublino volle comunque discutere alcuni aspetti specifici dell’accordo agricolo comunitario.

Lo sviluppo di una politica comune sulla pesca era un tema sul quale il governo irlandese avrebbe prestato volentieri molto interesse durante i negoziati, ma per il momento non apparve necessario porre molta attenzione.

Per quanto riguarda il settore industriale, Hillery ne sottolineò la crescita durante gli anni Sessanta. La produzione industriale in quel periodo era cresciuta del 7% annuo; nel 1969, per la prima volta le esportazioni dei prodotti industriali superarono la metà della quantità totale dei beni esportati dal paese.

Sui problemi che l’Irlanda doveva affrontare, il ministro affermò che l’ingresso nella CEE avrebbe richiesto qualche aggiustamento e adattamento nei settori industriali e commerciali, ma che si aspettava che la maggior parte di questi passi avrebbero potuto godere delle condizioni transitorie previste dai Trattati di Roma. Aggiunse anche che erano presenti poche industrie per le quali queste condizioni speciali potevano non essere sufficienti e che di questo il governo ne avrebbe voluto discutere durante i negoziati.

Tornando alla crescita industriale del suo paese, Hillery affermò che alla base di questo successo vi era una politica per lo sviluppo industriale predisposta dal governo al fine di incoraggiare la rapida espansione del settore attraverso incentivi finanziari e fiscali. Dipendendo la continuazione della crescita economica dal mantenimento di tali incentivi, il governo sentiva la necessità di discutere anche di questo durante le trattative per l’adesione. A difesa degli incentivi, il ministro irlandese dichiarò che la piccola dimensione del mercato interno e delle unità industriali lasciava l’economia del suo paese particolarmente vulnerabile al dumping e che era necessario trovare una soluzione soddisfacente al problema. Il discorso di Hillery toccò anche le procedure negoziali. L’Irlanda era convinta che queste procedure dovessero essere stabilite prima che i negoziati entrassero nel vivo e che tutti e quattro i paesi avrebbero dovuto prender parte alle discussioni iniziali. Il primo incontro ministeriale segnò l’inizio sostanziale dei negoziati.

La delegazione irlandese a questo meeting che si tenne a Bruxelles il 21 settembre 1970 era ancora una volta guidata da Hillery, il quale presentò ventuno punti che andavano approfonditi – dalla necessità di un periodo di transizione per gli accordi commerciali dell’Irlanda con il Regno Unito, alla libera circolazione dei lavoratori, ai finanziamenti delle Comunità. I negoziati a livello ministeriale continuarono per tutto il 1971 e anche il 1972, ma vennero fatti rapidi progressi nella maggior parte dei ventuno punti della lista di Hillery. Furono soprattutto due i temi più controversi: quello relativo alla pesca e quello sulla libera circolazione degli operai. La conclusione dei negoziati avvenne il 18 gennaio 1972 con l’accordo in extremis sulla pesca, e vide il parere favorevole espresso dalla Commissione. Dopo pochi giorni, il presidente del Consiglio europeo in carica (v. anche Presidenza dell’Unione europea), Gaston Thorn, scrisse una lettera di congratulazioni al governo di Dublino.

Gli irlandesi, rappresentati da John Mary Lynch e Hillery, aggiunsero le loro firme al Trattato di adesione a Bruxelles il 22 gennaio 1972.

Dopo la firma a Bruxelles, le preparazioni del paese per il suo ingresso procedettero in maniera tranquilla. La procedura finale richiedeva l’approvazione non solo del governo, ma anche un referendum popolare. Una chiara indicazione della serietà con cui il governo affrontò il referendum è dimostrata dalla decisione di costituire un comitato interministeriale per fornire un appoggio decisivo nella campagna referendaria. Ciascun ministero contribuì alla stesura di documenti sul tema di propria competenza. Nella campagna referendaria, guidata dal primo ministro e dal ministro degli Esteri, l’attenzione venne focalizzata sui benefici dell’adesione e sugli svantaggi derivanti nel caso di un risultato negativo.

Per quanto riguarda i partiti tanto il Fianna Fáil che il Fine Gael appoggiarono l’adesione alla CEE; identica posizione presero le associazioni degli impiegati e degli agricoltori, mentre si dichiararono contrari il Labour party e i sindacati.

Alla fine, il referendum del 10 maggio 1972 ottenne una larga maggioranza favorevole; votò il 71% dell’elettorato e si espresse a favore dell’adesione dell’Irlanda alle Comunità l’83,1% dei votanti.

Grazie a questo risultato, i preparativi per l’ingresso del paese potevano procedere. L’altra sfida che attendeva il governo era il passaggio parlamentare, che avrebbe dovuto inserire un appropriato articolo nella costituzione. L’8 giugno 1972, venne approvata una modifica costituzionale a seguito della quale venne inserito il comma 3 nel paragrafo 4 dell’articolo 29 della costituzione irlandese, permettendo all’Irlanda di diventare membro delle Comunità Europee.

Il 1° gennaio 1973, quasi una dozzina di anni dopo il primo tentativo di adesione del 1961, l’Irlanda entrò nelle Comunità europee. Insieme alla Danimarca e al Regno Unito, si formò così un’Europa a Nove.

Intanto, il dibattito sul mantenimento o meno del cambio fisso con la sterlina inglese entrò nel vivo. La discussione venne alimentata dalla decisione britannica di non partecipare nel 1972 al “Serpente monetario” e di lasciar fluttuare la propria moneta liberamente sul mercato dei cambi.

La Banca centrale, a metà degli anni Settanta, affermò che il legame tra la sterlina irlandese e quella britannica diventava sempre meno vantaggioso. La moneta britannica si svalutava e il commercio con Londra era in forte diminuzione.

Parallelamente al dibattito in Irlanda sul legame tra le due valute, in Europa si discuteva della possibilità di un accordo per arrivare a tassi di cambi meno instabili. Nell’aprile 1978, il Consiglio europeo a Copenaghen pose le basi per la creazione di una “zona di stabilità monetaria” in Europa e le istituzioni comunitarie vennero invitate a individuare i meccanismi necessari per arrivare a questa soluzione. Al Consiglio di Brema del luglio 1978 furono discusse le principali caratteristiche del Sistema monetario europeo (SME). Tra queste, era prevista l’introduzione dell’ECU (European currency unit) e un meccanismo finanziario a supporto. Al Consiglio europeo di Bruxelles del dicembre 1978 venne firmato l’accordo per la creazione dello SME, un sistema di tassi “fissi ma modificabili”.

È in questo contesto di cooperazione monetaria in Europa e di disaffezione rispetto al legame con la sterlina britannica che l’Irlanda dovette decidere se fare parte o meno dello SME. Alla fine, contrariamente a Londra, l’Irlanda decise di partecipare. Durante i negoziati per lo SME, fu riconosciuto il fatto che l’adesione a un regime di cambi fissi con monete forti avrebbe potuto causare problemi per i paesi con alta inflazione, come l’Irlanda e l’Italia. A compensazione di ciò, furono approvati gli aiuti dalla Banca europea per gli investimenti (BEI). L’Irlanda scelse il margine di fluttuazione del 2,25% all’interno dello SME, temendo che margini più ampi potessero favorire la speculazione sulla valuta.

Sebbene venisse riconosciuto il fatto che la partecipazione allo SME avrebbe portato a una rottura del legame con la sterlina britannica, si cercò di mantenere la parità il più a lungo possibile. In realtà la rottura avvenne molto presto. Lo SME entrò in vigore il 13 marzo 1979. Verso la fine di marzo, la moneta britannica si apprezzò su tutti i paesi facenti parte dello SME in seguito agli aumenti del prezzo del petrolio. Il 30 marzo, la sterlina inglese toccò il limite più alto della fluttuazione consentita con il franco belga. Poiché l’Irlanda faceva parte dello SME, la sterlina irlandese non poté seguire la divisa britannica. Dopo cinquant’anni dalla sua formale attuazione, il legame di parità tra le due sterline venne interrotto. La valuta britannica fece il suo ingresso nello SME soltanto nel 1990 e, dopo due anni, il 16 settembre 1992, fu costretta a uscirvi a seguito di una nuova svalutazione. La creazione dello SME fu un primo passo concreto verso l’unione monetaria, ma fu solo in seguito all’Atto unico che il progetto trovò spinta nuovo impulso, in quanto la progressiva realizzazione dell’unione monetaria rappresentava la conseguenza logica del conseguimento di un mercato libero da barriere doganali.

Nel summit europeo di Hannover del giugno 1988, sotto la direzione della Commissione Delors, fu, infatti, deciso di procedere concretamente alla realizzazione dell’unione monetaria. Il Rapporto Delors sull’Unione economica e monetaria (UEM) venne firmato nel giugno 1989. Il documento si prefiggeva, quale obiettivo finale, il raggiungimento dell’unione monetaria attraverso tre fasi distinte, le quali avrebbero trovato una propria sistemazione giuridico-istituzionale nel successivo Trattato di Maastricht (1992). La prima fase consisteva nel completamento del Mercato unico, attraverso la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Questa fase ebbe inizio il 1° luglio 1990. La seconda fase prevedeva la convergenza fiscale e monetaria. A tal fine venne creato l’Istituto monetario europeo, con il compito di coordinare le Banche centrali nazionali nel corso di questo passaggio delicato. Con l’inizio di questa fase, avvenuto il 1° gennaio 1994, si stabilì quali paesi avrebbero potuto far parte della UEM, fin dall’inizio della sua entrata in vigore. La terza e ultima fase, cominciata il 1° gennaio 1999, prevedeva l’entrata in funzione della Banca centrale europea (BCE) cui venne affidata la gestione della politica monetaria, dopo aver fissato i tassi irrevocabili di conversione delle divise europee nei confronti dell’Euro, divenuto la moneta ufficiale dei paesi membri dell’UEM.

Nel periodo che vide i paesi comunitari interrogarsi sulla necessità di procedere all’unione monetaria, l’Irlanda cominciava a percepire i primi benefici derivanti dallo SME, di cui faceva parte. L’inflazione, infatti, era già scesa negli anni Ottanta al di sotto del 5%, così anche i tassi d’interesse a breve termine, che nel 1987, per la prima volta nella storia, erano divenuti inferiori a quelli britannici. In conseguenza di ciò, L’Irlanda, alla fine del decennio, aveva registrato una sostenuta crescita economica. È in questo clima che il governo irlandese firmò il Trattato di Maastricht, subito ratificato dal referendum popolare con quasi il 70% dei voti favorevoli. In questo modo l’Irlanda prendeva parte al processo costitutivo dell’UEM non senza un certo ottimismo. Il 2 giugno 1992, però, il voto contrario del referendum danese generò le prime preoccupazioni sulla possibilità di raggiungere l’unione monetaria nei tempi previsti dal Trattato. Nel settembre dello stesso anno, la sterlina inglese e la lira italiana furono costrette a uscire dallo SME, mettendo in crisi la stabilità valutaria degli altri paesi della Comunità, compresa l’Irlanda. Sebbene molti ritenessero che si fosse giunti a un’impasse che avrebbe rinviato nel tempo il completamento dello UEM, nel dicembre 1995 il Consiglio europeo di Madrid riaprì le speranze, confermando per la data del 1° gennaio 1999 l’inizio della terza fase, necessaria al conseguimento dell’unione economica e monetaria. In seguito al Consiglio di Madrid, il governo irlandese istituì particolari uffici con il compito di seguire e facilitare l’adeguamento della legislazione nazionale alle nuove normative comunitarie, in vista della realizzazione della terza fase dell’UEM. Nel 1996, la federazione dei banchieri irlandesi, insieme alla Banca centrale d’Irlanda, prese parte al comitato per la gestione del passaggio dell’Irlanda dal sistema monetario nazionale a quello comunitario della moneta unica. Nello stesso anno, si attivò anche il Dipartimento dell’industria, commercio e sviluppo affinché si facesse un’adeguata campagna di informazione sulla nuova moneta e si fornisse assistenza alle categorie economiche nel corso del passaggio dalla sterlina irlandese all’euro.

Nel maggio 1998, raggiunti da parte dell’Irlanda i requisiti necessari per accedere alla terza fase, venne costituito l’Euro changeover board of Ireland (ECBI). Questo istituto aveva due obiettivi: monitorare il changeover con l’euro e informare la popolazione. Il comitato era formato dai rappresentanti delle diverse categorie economiche, del settore sia pubblico che privato. Come era avvenuto per lo SME, anche in questo caso la posizione assunta dalla Gran Bretagna rispetto all’adozione della moneta unica influenzò la scelta del governo irlandese. Benché il commercio con il Regno Unito fosse diminuito in maniera significativa negli ultimi decenni, l’adozione dell’euro da parte di Londra avrebbe portato all’Irlanda importanti vantaggi economici. Secondo alcuni economisti, però, tali vantaggi non avrebbero compensato la perdita dovuta ai tassi di cambio. In ogni caso, l’eventualità o meno della confluenza della sterlina inglese nell’euro mise il governo irlandese in seria difficoltà, aprendo due possibili e differenti scenari. Così, su commissione del ministero delle Finanze, nel gennaio 1996, l’Economic and social research institute (ESRI) approntò uno studio tenendo conto di entrambe le eventualità. Nel documento frutto della ricerca si affrontava il problema dell’adozione dell’euro da parte dell’Irlanda con particolare attenzione alle scelte britanniche in campo monetario; inoltre lo studio si interrogava sulla capacità dell’economia irlandese di rispondere a questo cambiamento epocale. Sulla base di queste ricerche si faceva una previsione sulle conseguenze economiche dell’UEM riguardo al livello dei tassi d’interesse, agli effetti sulla competitività e sui costi delle transazioni commerciali con l’estero. L’obiettivo finale dello studio era di quantificare gli effetti che l’adozione della moneta unica avrebbe avuto su questi tre aspetti dell’economia irlandese.

Sul medio termine, si prevedeva che i principali benefici sarebbero derivati da tassi d’interesse più bassi. Ovviamente, lo scenario più favorevole prevedeva l’ingresso del Regno Unito nell’UEM. Cionondimeno anche se la sterlina inglese fosse rimasta fuori dal “sistema euro”, il bilancio economico finale, in previsione dell’ingresso dell’Irlanda nell’UEM, sarebbe stato comunque considerato positivo.

Nonostante l’approssimarsi della data di inizio della terza fase, prevista per il 1999, e l’ormai certa partecipazione dell’Irlanda all’UEM, persistevano ancora alcuni problemi tecnici da superare. Innanzitutto si doveva decidere il tasso di cambio irreversibile della sterlina irlandese. L’apprezzamento della moneta durante il 1997 e il 1998 avrebbe potuto portare ad una crescita dell’inflazione nei primi anni dell’UEM. Questo problema venne affrontato nel marzo 1998, con la conseguenza di un deprezzamento della moneta irlandese rispetto al marco tedesco. Secondariamente, si dovevano adeguare agli standard dell’UEM alcuni strumenti tecnici della politica monetaria irlandese. Infine, era necessario determinare alcuni cambiamenti alla legislazione nazionale. Le modifiche principali vennero apportate dal Central bank act e dall’Economic and monetary union act del 1998. Quest’ultimo stabilì che a partire dal 1° gennaio 1999 il paese avrebbe abbandonato la sterlina irlandese in favore dell’euro.

I tassi di conversione con l’euro da applicare alle divise nazionali degli undici Stati membri dell’UEM vennero irrevocabilmente fissati dal Consiglio ECOFIN del 31 dicembre 1998. Il 1° gennaio 1999 l’euro entrò in vigore, diventando la moneta ufficiale dell’Unione europea, sebbene ancora in maniera “virtuale”; cioè senza la circolazione della corrispettiva cartamoneta. Le monete e banconote della sterlina irlandese, infatti, continuarono a circolare fino al 2002. In realtà l’euro aveva solo sostituito le monete nazionali e i relativi tassi d’interesse nei mercati finanziari extracomunitari. Il changeover avvenne nel 2002, quando l’euro sostituì materialmente la sterlina irlandese insieme alle altre monete europee della “zona euro”. Nell’aprile 2000 l’ECBI pubblicò il Cash changeover plan: un documento composto da quattro sezioni in cui si fornivano ai cittadini alcuni consigli pratici per affrontare il changeover con meno problemi e rischi possibili. Nel documento venivano accuratamente illustrati disposizioni e preparativi al changeover e venivano presentati i piani di supporto per i settori più a rischio e maggiormente coinvolti dal cambiamento.

Prese così avvio una campagna di informazione rivolta a tutti i cittadini affinché si preparassero a eseguire in euro le transazioni e le altre operazioni economiche. Nei mesi di novembre e dicembre 2001 vennero distribuiti convertitori elettronici e illustrate le banconote e le monete, spiegandone tipologia e caratteristiche di sicurezza. Dopo una settimana dall’inizio del changeover, quasi il 90% delle operazioni monetarie avveniva in euro. Il 9 febbraio 2002 la sterlina irlandese perse il suo valore legale.

L’Irlanda è sempre stata caratterizzata da un forte euroentusiasmo, avendo goduto, fin dal proprio ingresso nell’UEM, di grandi vantaggi economici, in parte dovuti al trasferimento di denaro dai Fondi strutturali europei, in parte ricevuti dai sussidi della PAC, i quali diedero una spinta significativa allo sviluppo della sua economia. Una delle maggiori preoccupazioni dell’elettorato irlandese all’inizio del nuovo millennio derivava dalla questione inerente all’allargamento. L’Irlanda, infatti, con l’ingresso di nuovi paesi nella UE sarebbe divenuta un contributore netto del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea); inoltre la forte crescita economica degli ultimi anni le aveva precluso la possibilità di rientrare nell’elenco dei paesi che avrebbero goduto degli aiuti previsti dall’“Obiettivo 1” dei Fondi strutturali 2007-2013. Queste prospettive incrinarono il tradizionale euroentusiasmo degli irlandesi, nonostante i vantaggi concreti ottenuti in passato. Nel marzo 2001 il governo decise di indire un referendum per ratificare il Trattato di Nizza. Quello del 2001 fu il quinto referendum sull’Europa votato dagli irlandesi a partire dal 1972, anno in cui il paese era entrato a far parte della Comunità economica europea. La campagna di ratifica del Trattato di Nizza fu sostenuta dai partiti di governo, il Fianna Fáil e i Democratici, e dai principali partiti dell’opposizione, il Fine Gael e il partito laburista. Anche le gerarchie della Chiesa cattolica si dichiararono favorevoli alla ratifica, così come i sindacati e le altre organizzazioni dei lavoratori. Contro la ratifica del Trattato invece si schierarono il Sinn Fein, i Verdi e i politici indipendenti, l’estrema sinistra, i pacifisti, i gruppi nazionalisti, gli agricoltori e alcuni conservatori appartenenti alla Chiesa cattolica.

La Commissione bicamerale sugli affari europei si dichiarò favorevole al Trattato, con il solo voto contrario di un membro, il quale affermò che il referendum avrebbe dovuto tenersi solo dopo un più ampio dibattito pubblico. Il presidente della Commissione, Bernard Durkan del Fine Gael, presentò il rapporto il 29 maggio contenente l’auspicio che i cittadini irlandesi avrebbero votato a favore della ratifica del Trattato.

La campagna referendaria cominciò nel maggio 2001 in un clima di generale disinteresse riguardo ai motivi e alle necessità di una ulteriore Revisione dei Trattati precedenti. I primi sondaggi suggerirono un esito favorevole del referendum, ma con l’avvicinarsi del voto i pronostici cominciarono a mutare. Alcuni settori dell’economia nazionale non furono molto coinvolti dalla campagna, preferendo tenersi in disparte e evitare pronunciamenti; al contrario il mondo agricolo, preoccupato di perdere fondi comunitari a causa dell’allargamento della Comunità a grandi paesi agricoli come la Polonia, si dichiarò pubblicamente contrario al Trattato di Nizza.

La campagna per il “sì” venne lanciata dal governo il 9 maggio 2001. Il primo ministro, Bertie Ahern, invitò il popolo irlandese a contraccambiare la generosità mostrata dall’Unione europea, assicurando che il Trattato non avrebbe creato una disparità tra i paesi europei della Comunità, che al suo interno non vi erano le premesse per la realizzazione né di un esercito europeo né di un super Stato e infine che l’Irlanda avrebbe mantenuto la propria autonomia in settori importanti e vitali come la politica fiscale. Votando contro il Trattato di Nizza si sarebbe al contrario generata «un’umiliazione nazionale», dando prova di «meschinità» da parte del paese. Il governo si appellò, dunque, alla popolazione per appoggiare il Trattato e il processo di allargamento comunitario.

Il ministro degli esteri, Brian Cowen, durante la campagna referendaria cercò di rafforzare l’idea di un’Europa unita, sottolineando l’importanza di una rinuncia da parte degli Stati della Comunità di una fetta della propria sovranità nazionale al fine di ottenere maggiori benefici collettivi.

Con l’obiettivo di informare i cittadini irlandesi sul contenuto del Trattato, il governo decise di distribuire in tutte le case un opuscolo informativo. Dal momento che i sondaggi cominciarono a mostrare un aumento dei voti contrari alla ratifica, il governo, invece di continuare con argomenti tesi a promuovere gli aspetti positivi e vantaggiosi del Trattato, decise di ripiegare su posizioni difensive, adottando una strategia diretta ad accusare di scarsa responsabilità le forze politiche sostenitrici del “no”.

Noel Dorr, il capo della delegazione ai negoziati di Nizza, contestò le principali argomentazioni dei sostenitori del “no” in un articolo sull’“Irish Time”. In proposito egli argomentò che alcuni dei compromessi istituzionali di Nizza non erano sfavorevoli all’Irlanda, ma anzi si rivelavano vantaggiosi per i piccoli Stati. Dorr cercò inoltre anche di chiarire alcuni punti “discutibili” imputati da coloro che si opponevano alla ratifica del Trattato; tra i quali vi era la questione della militarizzazione dell’Unione con la creazione di una Forza di reazione rapida comunitaria (FRR). Al contrario la campagna anti UE promossa dal comitato del “no”, fece leva, emotivamente, sui presunti aspetti negativi derivanti da un maggiore coinvolgimento europeo dell’Irlanda, sottolineando come «l’invasione di Bruxelles» avrebbe fatalmente ridotto la sovranità nazionale, provocando la perdita della neutralità militare, la diminuzione della sua influenza nel processo decisionale comunitario e relegando il paese agli ultimi posti della Comunità. Il governo fu accusato di aver portato il paese al referendum senza aver promosso prima un dibattito pubblico aperto (il referendum venne convocato solo 21 giorni prima della data stabilita per il voto) sulle innovazioni che il Trattato avrebbe apportato alla legislazione e agli equilibri interni della UE. Il governo fu inoltre accusato di aver indebolito il ruolo dell’Irlanda all’interno delle istituzioni europee accettando la ridistribuzione dei voti nel Consiglio, dei seggi nel Parlamento europeo (PE) in seguito l’allargamento a quindici, e di aver inoltre rinunciato alla presenza assicurata nella Commissione europea di almeno un esponente per paese membro.

La campagna del “no” cercò di alimentare lo scontento popolare dichiarando che il Trattato avrebbe indebolito la sovranità del paese, minacciando la stessa Costituzione nazionale. Il referendum fu anche la prima occasione per testare l’opinione pubblica irlandese sull’UE dopo lo scontro avvenuto nel gennaio 2001 tra il governo dell’isola e la Commissione europea sul budget irlandese e sul rispetto dei parametri di Maastricht in vista dell’ingresso del paese nell’UEM. L’Irlanda, infatti, fu il primo paese della zona euro a essere ripreso da Bruxelles per le politiche economiche. La Commissione dichiarò di aver ripreso l’Irlanda sulle sue scelte economiche poiché non in linea con le raccomandazioni comunitarie. Questo clima di tensione, alimentato da incomprensioni tra il governo irlandese e le istituzioni europee, condusse per la seconda volta nella storia dell’Unione europea – dopo la prima bocciatura danese del Trattato di Maastricht – la popolazione di un piccolo paese della Comunità a esprimere un voto negativo nei confronti di un trattato comunitario, mettendo a serio rischio le importanti riforme istituzionali contenute nel Trattato di Nizza.

L’affluenza alle urne fu del 35% e solo il 46,1% degli irlandesi votò a favore della ratifica del Trattato. L’esito negativo del referendum avrebbe potuto bloccare il processo di allargamento e di riforma della UE, ma i leader europei che si riunirono il 15-16 giugno a Goteborg, in Svezia, decisero che il fallimento del referendum irlandese non avrebbe bloccato la riforma delle istituzioni europee e l’eventuale allargamento della UE.

L’8 giugno 2001, il primo ministro Ahern, insieme al primo ministro svedese, Goran Persson, presidente di turno dell’Unione, e Romano Prodi, presidente della Commissione, si dichiarano pronti a trovare una soluzione alla crisi dopo un periodo di riflessione e di analisi sul referendum. La reazione degli altri Stati membri e dei paesi candidati fu di delusione ma allo stesso tempo venne ribadito che il processo di allargamento sarebbe continuato. Il governo irlandese, il 12 giugno, decise di formare un Forum nazionale sull’Europa allo scopo di informare la popolazione sui vantaggi del Trattato e scongiurare un secondo fallimento. Sul voto negativo degli irlandesi aveva influito, oltre alla propaganda nazionalista, anche la paura di una perdita della sovranità nazionale e di una militarizzazione del paese. Il Forum europeo era stato creato sulla realtà precedente dei forum, già presente nel paese. Questa esperienza prendeva spunto dal successo che avevano riscontrato il Forum per la pace e la riconciliazione e il Forum economico e sociale nazionale, i quali erano serviti da luogo di incontro e di discussione su questioni di rilevante interesse nazionale. Il Forum europeo puntava a valorizzare il futuro dell’Europa e il ruolo europeo dell’Irlanda. Nei mesi precedenti al secondo referendum, organizzato in tutto il paese, il Forum tenne incontri pubblici in modo da favorire il dibattito e la consapevolezza sull’argomento. Si adottò, poi, una seconda misura atta a migliorare il monitoraggio del Parlamento europeo. A tale scopo, il governo introdusse nuove regole e linee guida che prevedevano la presenza dei ministri davanti ai più importanti comitati parlamentari prima e dopo i Consigli dei ministri europei, per illustrare la posizione del governo e ogni decisione presa in seno alle istituzioni comunitarie.

Una terza misura venne pensata per mitigare le preoccupazioni dell’opinione pubblica sul futuro della neutralità irlandese qualora il Trattato di Nizza fosse stato ratificato. Al Consiglio europeo di Siviglia del 21 e 22 giugno 2002, gli altri governi europei accettarono una dichiarazione irlandese su un eventuale coinvolgimento dell’Irlanda nelle questioni militari e in quelle inerenti alla difesa. Il documento si incentrava sulla cosiddetta “triplice serratura” (mandato ONU, approvazione del governo, approvazione del parlamento) con la quale si limitava la partecipazione irlandese nelle attività militari in ambito comunitario. Questa posizione non era una novità e la dichiarazione non aveva alcun valore legale. Il documento avrebbe avuto nell’intenzione del governo irlandese il solo scopo di rassicurare l’opinione pubblica dell’isola in vista del secondo referendum. Il Consiglio europeo riconobbe il diritto dell’Irlanda – come degli altri paesi membri – di decidere in accordo con le disposizioni costituzionali nazionali e le proprie leggi, in che modo e misura partecipare alle attività della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD).

Grazie a questi provvedimenti anche i maggiori sindacati, oltre naturalmente al governo e ai principali partiti dell’opposizione, si schierarono a favore della ratifica in seconda istanza del Trattato di Nizza. Nella campagna che precedette il voto si ribadì l’importanza dell’allargamento, sentito come un obbligo morale per solidarizzare con i paesi dell’Europa centrale e orientale appena usciti dalla dominazione sovietica. La spesa del comitato del “sì” arrivò a superare il milione e mezzo di euro, mentre quella del comitato del “no” raggiunse circa i centosettantamila euro.

Il referendum dell’ottobre 2002 capovolse il risultato del giugno 2001. Il 62,89% dei cittadini contro il 37,11% votò questa volta a favore della ratifica del Trattato. Anche l’affluenza subì un deciso cambiamento, passando dal 34,79% del 2001 al 49,47% dell’anno successivo. L’Irlanda divenne quindi il quindicesimo e ultimo paese UE a ratificare il Trattato di Nizza. L’allargamento poteva, dunque, procedere senza altri ostacoli.

Giovanni Pignataro 




Italia

L’inizio di una politica europeistica segna in Italia la ripresa del suo ruolo internazionale dopo la Seconda guerra mondiale. Ciò non poté avvenire che a seguito di due eventi necessari: in primo luogo la ratifica del trattato di pace da parte della sua Assemblea costituente, eletta per elaborare una nuova Carta costituzionale a fondamento del nuovo Stato repubblicano, dopo il referendum che aveva compiuto tale scelta e la concomitante sua elezione. In secondo luogo la prova elettorale per il nuovo Parlamento nazionale del 18 aprile 1948, che diede una schiacciante maggioranza alle forze anticomuniste, in particolare al nuovo partito cattolico, la Democrazia cristiana, che alla Camera dei deputati conquistava la maggioranza assoluta dei seggi. Queste elezioni ratificarono la scelta occidentale dell’Italia, dopo una campagna elettorale svoltasi all’insegna di una netta contrapposizione che trasferiva nella politica interna quella della Guerra fredda, e che vide i partiti di osservanza filosovietica attestarsi sul 31% dell’elettorato, con una lista, il Fronte popolare, che univa al PCI (Partito comunista italiano) anche il PSI (Partito socialista italiano) di Pietro Nenni.

Il trattato di pace può dirsi il lungo e difficile approdo sul quale necessariamente si concentrò la maggior parte dell’attenzione della classe dirigente, lungo un percorso che iniziò prima della Conferenza della pace, che si tenne a Parigi dal luglio al settembre 1946, con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, fino almeno al marzo 1947, quando il governo italiano vi appose la sua firma, e che passò attraverso fasi diverse, dall’armistizio alla cobelligeranza, e vide l’avvio della Guerra fredda e i primi cauti passi da parte di Alcide De Gasperi verso l’alleanza occidentale. Questo percorso segna in modo indelebile la preminenza del rapporto con gli Stati Uniti, che si conserverà a lungo nella politica estera italiana. L’Italia con la sconfitta bellica subiva necessariamente un drastico ridimensionamento nel suo ruolo di politica estera, dovendo in primo luogo sottostare alle condizioni poste dalle potenze vincitrici. Soprattutto gli inglesi, ma anche i francesi e i russi intesero questo ruolo attraverso il disegno di una pace “punitiva”, diversamente dagli americani che inclinavano per una “riabilitazione” della posizione italiana, sempre assegnando a essa un ruolo minore. Il sostegno americano fu indispensabile negli aiuti alimentari e di materie prime e nel sostegno finanziario. Diversamente nella definizione del trattato di pace, se gli Stati Uniti furono l’interlocutore privilegiato dall’iniziativa diplomatica del governo italiano, questo non produsse pressoché alcuno degli effetti sperati, prevalendo negli indirizzi della politica americana i problemi più generali di stabilizzazione dell’equilibrio politico internazionale, in primo luogo tra le potenze vincitrici.

Una volontà americana a favore dell’Italia si manifestò pressoché soltanto sulla pretesa francese di annettere la Valle d’Aosta e col divieto da parte del generale Dwight Eisenhower a che la Francia partecipasse all’occupazione italiana con truppe marocchine. Sulla frontiera orientale l’occupazione dell’Istria da parte dell’esercito di Tito non fu ostacolata. Il tardivo intervento del generale Alexander su Trieste garantì da questa occupazione solo la città e una zona a essa circostante. Nel trattato di pace Trieste non veniva ricongiunta all’Italia e si costituiva Territorio libero, costituito da due zone, una occupata dagli angloamericani, l’altra dagli iugoslavi, questione che doveva risolversi con l’annessione all’Italia della prima di queste solo nel 1954. Gravò sulla Conferenza di Parigi l’ipotesi di conferire l’Alto Adige all’Austria, sostenuta dagli inglesi, non esclusa dai francesi, che fu espunta dalle trattative per un dissenso nel frattempo maturatosi tra il governo sovietico e quello austriaco. Le rettifiche del confine occidentale con la Francia a Briga e Tenda e sul Moncenisio furono poi ulteriormente limitate da accordi successivi.

L’incipiente Guerra fredda aprì nuovi spazi per l’Italia soprattutto nel rapporto con gli Stati Uniti, che De Gasperi colse nella sua prima visita ufficiale negli Stati Uniti nel gennaio del 1947. L’Italia il 2 ottobre 1946 era stata ammessa nelle istituzioni di Bretton Woods e il 27 marzo 1947 divenne membro effettivo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Nel giugno 1947 aderiva al Piano Marshall e questa scelta di campo coincideva all’interno con la rottura della collaborazione di De Gasperi con i socialcomunisti e la costituzione di un governo a maggioranza e composizione filo occidentale.

La vittoria del 18 aprile da parte della Democrazia cristiana (DC) e dei partiti laici (socialdemocratici, repubblicani, liberali) filo occidentali comportava un consolidamento di quest’ultima sul piano internazionale e la scelta, maturata attraverso un percorso non privo di difficoltà per l’opposizione soprattutto d’una parte della Curia romana, fu necessariamente quella dell’adesione al Patto atlantico, privilegiando ancora il rapporto transatlantico, dopo che l’Italia era rimasta ai margini dell’iniziativa britannica per un patto difensivo europeo, il Patto di Bruxelles.

Risalgono tuttavia a questo periodo i primi passi verso una politica europea. L’Italia entrava come membro a pieno titolo nell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) nell’aprile del 1948. In ottobre a Torino firmava con la Francia il progetto di un’Unione doganale. L’iniziativa, che in un secondo tempo si volle allargare ai paesi del Benelux, non avrebbe avuto concreti sviluppi, ed era piuttosto segnata da un reciproco intento, italo-francese, di andare incontro alle pressioni americane per il consolidarsi di una cooperazione economica europea che il Piano Marshall pronosticava, ma di per sé non realizzava.

Nel 1948 l’Italia aveva partecipato alla Congresso dell’Aia, promosso da Winston Churchill e l’anno seguente ne avrebbe ospitato la nuova sessione a Roma. A luglio dello stesso anno il Parlamento approvava la sua adesione al Consiglio d’Europa. Proprio la trattativa per l’ingresso nel Patto atlantico aveva rafforzato le inclinazioni europeistiche del governo (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). Era un interesse succedaneo che tuttavia serviva a rendere meno aspra la polemica con l’opposizione socialcomunista sull’Alleanza atlantica, soprattutto a cauterizzare le diffidenze di una larga parte del mondo cattolico verso il modello americano. Si innestavano d’altra parte su queste preoccupazioni politiche riflessioni più di fondo che improntavano di sé la nuova classe dirigente. La riflessione storico-politica tra le due guerre degli ambienti antifascisti era già approdata al tema del necessario superamento della conflittualità europea in un disegno di integrazione dagli imprecisi contorni, ma che tuttavia aveva rilievo nelle considerazioni sul presente. La vecchia classe dirigente liberale aveva preso atto della frattura che la Prima guerra mondiale aveva costituito e si era configurata insieme al finis Europae una sua rinascita in termini di unità europea, come segnatamente nella Storia d’Europa di Benedetto Croce. Luigi Einaudi, partendo dalle stesse premesse e facendo tra l’altro tesoro delle riflessioni che venivano da alcuni esponenti del liberalismo inglese, come Lionel Robbins e Lord Lothian, si era avvicinato a un’ipotesi federalistica (v. Federalismo), di cui è nutrito il suo discorso all’Assemblea costituente per la ratifica del trattato di pace e altri suoi scritti. Altri dall’esilio, soprattutto inglese e americano, avevano tratto la convinzione che gli Stati Uniti avrebbero assunto un ruolo chiave nell’equilibrio mondiale, e vi sarebbe stato il tramonto della politica di potenza delle nazioni europee, segnatamente Luigi Sturzo e Carlo Sforza. Per quanto le riflessioni di Sturzo del secondo dopoguerra non avessero più nel movimento politico cattolico la centralità che avevano avuto nel primo, esse alimentavano quelle interne al mondo cattolico, in cui una naturale diffidenza per il mondo anglosassone faceva ripiegare verso l’idea di cementare la comune radice cristiana dell’Europa continentale «con un’iniziativa cattolica che si sostituisse a quella protestante», di cui i bastioni polacco, ungherese e croato divenivano la propaggine dei fratelli separati. In un uomo come De Gasperi poi, formatosi a un’idea di nazione disgiunta da quella dello Stato nazionale, l’Europa si presentava come l’approdo ideale di patrie diverse e insieme la ricomposizione delle lacerazioni che le due guerre mondiali avevano determinato nel tessuto etnico dell’Europa. La formula postuma che designa l’avvio delle istituzioni comunitarie come l’“Europa di Carlomagno”, e ha in De Gasperi, assieme a Robert Schuman e Konrad Adenauer le figure di riferimento, possiede la sua pregnanza non solo nel fatto che tutti e tre fossero leader di partiti cattolici e insieme uomini di frontiera dei rispettivi paesi, ma soprattutto in due idee intrinsecamente congiunte, quella della centralità del problema tedesco e della necessità che esso si risolvesse in un quadro istituzionale altrimenti fondato, rispetto a quella che era stata la vecchia politica di equilibrio europeo che lo scoppio della Prima guerra mondiale aveva per sempre spezzato. Carlo Sforza, che al fianco di De Gasperi, come ministro degli Esteri, sarà protagonista di questa prima stagione europeistica, traeva l’ispirazione, oltre che dall’esperienza dell’esilio, dalla tradizione democratico-repubblicana italiana, di cui era esponente, che affondava le sue radici nel pensiero mazziniano, in cui la pregiudiziale nazionale si poneva in armoniosa dialettica con le altre nazionalità europee. Questi motivi radicati nella tradizione italiana e che allora si contrapponevano all’internazionalismo della tradizione socialista e al sovietismo di quella comunista, avrebbero ceduto nel corso del decennio seguente a un’altra riflessione, che proveniva anch’essa dall’antifascismo militante, aveva avuto anzi il suo esordio nel campo di confinati dell’isola di Ventotene per opera di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi. Qui la riflessione era stata di natura storico-politica e aveva avuto per tema anch’essa l’esito disastroso del nazionalismo per le sorti dell’Europa, ma con un’inclinazione più radicale che ne faceva la vera matrice della lunga guerra civile europea, di cui la lotta di classe si presentava come un additivo, piuttosto che come una causa concomitante. Era una tesi che ribaltava le ideologie e gli esiti dei due totalitarismi del Novecento e con altrettanta radicalità contrapponeva loro la soluzione federalistica europea. Rappresentava anch’essa una rottura con il passato, sebbene non recidesse tutti i fili della tradizione, anzi faceva proprio l’assetto liberistico del mercato e le pregiudiziali di carattere costituzionale liberal-democratiche, ma le considerava di per sé, come a loro volta matrici ideali, già recise dagli eventi e le sostituiva con una proposizione di principio nuova, in un progetto di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Per la sua radicalità e per la robustezza delle sue riflessioni storico-teoriche, questo europeismo che alla fine degli anni Quaranta faceva in Italia i primi passi, con qualche successo, appoggiato anche da De Gasperi, in occasione della campagna che promosse nel 1949 per l’elezione di un Parlamento europeo, incominciò a prendere il posto dei motivi di pensiero più tradizionali a favore dell’integrazione europea, per divenire, a partire dalla metà degli anni Cinquanta il pensiero europeista dominante. Non altrettanto incisivo fu il suo contributo sulla politica del governo italiano che seguì, anche in questa fase un altro percorso, anche se il leader del nuovo Movimento federalista europeo, Altiero Spinelli, fu assai attivo anche sul versante politico e punti di contatto vi furono, ma piuttosto estrinseci rispetto all’effettivo volgersi degli eventi, anche quando la consonanza fu massima in occasione dell’iniziativa di De Gasperi per arrivare a un’Europa politica in occasione della discussione del trattato della CED (Comunità europea di difesa).

L’effettivo punto di svolta della politica europeistica anche per l’Italia fu il Piano Schuman. Sforza, nelle istruzioni che diede a Paolo Emilio Taviani, posto a capo della delegazione italiana per le trattative sulla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), scriveva: «Tutti i collaboratori dovranno sentire che nel piano Schuman noi ravvisiamo il primo serio tentativo di avere nell’Europa moderna un’autorità sopranazionale. Ciò, in una con la possibilità di eliminare una volta per sempre quel dissidio franco-tedesco che fu causa di tante guerre, costituisce una delle maggiori garanzie del momento attuale […]. Noi dobbiamo assumere un atteggiamento lealmente europeo: certo, se saranno gli altri a deformare il piano in senso nazionale il nostro atteggiamento dovrà cambiare; ma è essenziale che su questa via non siamo noi a prendere l’iniziativa». Queste istruzioni segnano bene quale fu l’approccio italiano alla nuova politica europea. L’Italia usciva appena allora da una condizione di minorità internazionale. Il veto sovietico l’avrebbe tenuta fuori dall’ONU fino al 1955. Sul piano bilaterale aveva preso più di un’iniziativa, specie con la Francia. L’incontro di Santa Margherita di De Gasperi e Sforza con René Pleven e Robert Schuman, nel febbraio 1951, aveva segnato una sintonia tra i due paesi, in concomitanza con il lancio del piano Pleven per l’esercito europeo. D’altra parte l’attenzione verso la Germania era stata una preoccupazione costante di De Gasperi: l’Italia era stato il primo paese ad aprire le relazioni diplomatiche con la Repubblica federale e, nel giugno 1951 Adenauer avrebbe compiuto a Roma la sua prima visita all’estero come cancelliere.

Fu la guerra di Corea ad aprire di riflesso nuovi spazi all’iniziativa europea, accelerando la necessità di risolvere il problema tedesco sul delicato problema del riarmo militare, che in sede di Patto atlantico gli Stati Uniti ponevano come condizione per configurare da parte dell’alleanza un’ipotesi di difesa dall’Elba a Trieste. L’Italia in sede NATO aveva preso sul riarmo impegni misurati sulle sue possibilità di bilancio. Ora il piano Pleven proponeva un impegno di cui andava precisata la natura. Jean Monnet avrebbe notato che De Gasperi «aveva capito che l’Italia non avrebbe giocato un ruolo equivalente a quello degli altri Stati più industrializzati, altrimenti che accelerando il processo politico che era rimasto sospeso negli altri trattati europei». E fu questa certamente una delle ragioni che indussero De Gasperi, in occasione del Piano Pleven, a prendere l’iniziativa di un’unità politica europea. Ma presa questa strada vi era anche la consapevolezza che l’obbiettivo trascendesse lo stesso interesse nazionale italiano, come quello degli altri paesi. Ne fa fede il discorso di De Gasperi al Consiglio d’Europa (11 giugno 1951), con cui introdusse in sede europea questo tema e che suscitò subito larga eco. Nella concomitante Conferenza dei ministri degli Esteri tenne fermo il principio, con il sostegno di Adenauer e la sostanziale accettazione di Schuman, che doveva dar forma all’art. 38 del Trattato della CED con cui si disponeva, entro un anno, la messa a punto di un progetto costituzionale (v. anche Comunità politica europea). Il significato che questo obbiettivo costituiva allora per la classe dirigente italiana è ben testimoniato da una lettera che in proposito il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi inviava a De Gasperi: «perché l’idea non si attenui, occorre che il lavoro sia facilitato da uomini decisi a vedere sul serio la federazione. Staranno bene i funzionari e i diplomatici, però solo per ricordare agli altri che esistono difficoltà. Per superarle, i funzionari e i diplomatici non servono; né servono gli uomini politici pasticcioni […]. Perciò una buona iniezione di federalisti mi pare necessaria: Altiero Spinelli, Enzo Giacchero, Ferruccio Parri, Nicolò Carandini, Lodovico Benvenuti, Ernesto Rossi sono nomi sicuri […]».

La caduta della CED e la concomitante morte di De Gasperi videro accentuarsi nella politica europea dell’Italia l’inclinazione verso un “europeismo pragmatico”, che si adeguava ai mutamenti di scenario nelle relazioni internazionali della metà degli anni Cinquanta. Si avviava infatti una prima fase di distensione di cui era testimonianza l’accordo quadripartito sull’Austria. L’iniziativa britannica aveva portato all’integrazione dell’esercito tedesco nella NATO, in cui alla garanzia americana si aggiungeva quella inglese ed europea attraverso l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), un organismo militare che riprendeva i postulati del Patto di Bruxelles e li integrava nell’Alleanza atlantica. Il 1956 da un lato con il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUSS) e la seguente crisi polacca e soprattutto ungherese, mostrò le prime vistose crepe nel sistema sovietico, da un altro, con la crisi di Suez, metteva a nudo il definitivo declino della potenza imperiale anglo-francese nel Mediterraneo e verso il Medio Oriente, dove l’Italia cercava di riacquisire un ruolo, spinta dal dinamismo di Enrico Mattei e della sua politica petrolifera attraverso l’ENI, che trovava nel leader emergente della DC, Amintore Fanfani, il suo sostenitore.

Di fronte a queste rilevanti trasformazioni del contesto internazionale, le questioni europee apparivano nel complesso secondarie. Tra la fine del 1954 e la metà del 1955 l’atteggiamento italiano oscillò tra diverse opportunità. La duplice iniziativa, da un lato di Monnet per una comunità nucleare e dei paesi del Benelux per una Comunità economica europea, nei suoi appuntamenti di vertice doveva svolgersi tutta in Italia, prima con la Conferenza di Messina, nel giugno 1955, sede di cui si fece promotore il ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino, poi quella di Venezia del maggio 1956, infine quella di Roma del marzo 1957, con la firma dei due trattati, l’uno che istituiva la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), l’altro il Mercato comune europeo (v. Comunità economica europea), che sarebbe entrato in vigore il 1° gennaio 1958.

L’esito positivo di questa trattativa passò principalmente attraverso la soluzione di un serrato confronto franco-tedesco. La delegazione italiana tenne un profilo mediano, ispirato a un cauto liberismo. Questo sostegno di principio all’iniziativa in corso si accompagnava a forti preoccupazioni legate alle condizioni di inferiorità del sistema economico italiano, seppure allora in fase di accelerato sviluppo, rispetto ai maggiori partner europei. Se la Francia aveva inteso allargare la trattativa al mercato agricolo e cercato supporto alla propria politica coloniale africana, patrocinando inoltre la tariffa estera comune (TEC), l’Italia contribuì alla formulazione del trattato sulla CEE, partendo da alcune proprie particolare esigenze, dalle quali maturò l’esigenza del Fondo sociale europeo e quella di uno strumento comunitario di politica regionale (v. anche Politica di coesione), con speciale riguardo allo sviluppo del Mezzogiorno, suggerendo inoltre l’idea di una Banca europea per gli investimenti (la futura BEI). In fine l’accento fu messo anche sulla circolazione della mano d’opera, un tema questo che avrebbe dovuto favorire le condizioni dell’emigrazione italiana in Europa, sulla quale l’Italia aveva sempre insistito con poco successo nei rapporti bilaterali.

Molti di questi temi, che pure trovavano posto nel trattato, per avere concreta attuazione avrebbero richiesto tempo e lunghe negoziazioni, e tuttavia segnavano indirizzi positivi del contributo italiano all’integrazione europea. L’avvio del MEC era stato benefico per l’industria italiana, contribuendo all’espansione dei flussi di esportazione: il valore delle esportazioni di merci e servizi era passato dai 2415 miliardi del 1957 ai 4753 del 1963. Anche l’emigrazione italiana, pur fra varie difficoltà, aveva trovato un maggior sfogo: la media quinquennale degli espatri verso la Repubblica Federale Tedesca, ad esempio, era passata dalle 31.061 unità del periodo 1955-1960 alle 95.752 del periodo 1961-1965. Nel settembre 1960 era stato inoltre approvato il Regolamento per la gestione del Fondo sociale e nel 1962 era entrato in vigore il Regolamento su alcuni prodotti agricoli, con la nascita della Politica agricola comune (PAC), e l’istituzione del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA), che aprivano un fronte importante di confronto comunitario per l’agricoltura italiana. Quando nel 1963, a seguito dell’impetuosa crescita dei salari, l’Italia dovette affrontare la prima grave crisi valutaria del dopoguerra, non trovò il sostegno dei partner europei, che non avevano previsto la sua rapida espansione commerciale, e il governatore della Banca d’Italia ricorse a un prestito americano.

Gli anni che vanno dal 1958 al 1963 videro in Italia il trapasso della maggioranza parlamentare dal centrismo al centrosinistra, auspici i due leader della DC, Aldo Moro e Amintore Fanfani. Quest’ultimo in particolare fu il protagonista della politica estera italiana del periodo. L’alleanza americana venne rinnovata con l’accordo con Washington che permise l’installazione in Italia e in Europa dei missili Jupiter, che aumentò il prestigio italiano nella NATO, coronato nel 1964 con la nomina di Manlio Brosio a suo segretario generale. Ciò rafforzava anche la credibilità internazionale dell’operazione di centrosinistra, che incontrava le diffidenze soprattutto americane per l’ingresso nella maggioranza del PSI, che era stato legato fino al 1956 al Partito comunista, e nel contempo conferiva margini credibili alla politica mediorientale che era nelle intenzioni della diplomazia fanfaniana.

Ma dalla carta europea l’Italia non poteva prescindere e Fanfani fu quanto mai attivo anche su questo versante. Le prospettive europee furono allora condizionate dalla politica internazionale francese perseguita dal generale Charles de Gaulle. L’inclinazione di quest’ultimo verso la politica di integrazione europea verteva attorno all’obbiettivo della costituzione dell’Europa come terzo polo a guida francese tra le due grandi potenze. L’Italia, come gli altri partner comunitari, non intendeva né indebolire il rapporto transatlantico né garantire un primato francese sulla politica europea. L’opinione pubblica e la classe dirigente italiana erano divise nella loro valutazione della politica interna ed estera di de Gaulle, e forti opposizioni a essa si manifestavano nella maggioranza, segnatamente da parte socialista e repubblicana. Fanfani intese invece perseguire fino in fondo le possibilità che la Francia apriva per un rafforzamento del sistema comunitario. Quando, tra il Vertice europeo di Parigi del febbraio 1961 e quello di Bonn del luglio dello stesso anno (v. Vertici), prese avvio in maniera concreta la trattativa sul cosiddetto “Piano Fouchet” (da Christian Fouchet, capo della delegazione francese nel Comitato istituito per il rafforzamento istituzionale della CEE), l’azione italiana si sviluppò con determinazione, anche attraverso una serie di incontri bilaterali con i rappresentanti dei paesi europei.

Venne a sovrapporsi alla discussione sul Piano Fouchet quella sull’adesione del Regno Unito (e con essa quella di altri paesi dell’Associazione europea di libero scambio, EFTA) alla Comunità europea, avanzata dal governo di Harold Macmillan nell’agosto del 1961. L’iniziativa inglese fu vista con favore dal governo italiano, non senza mostrare cautela, in previsione della difficoltà che poneva il negoziato per l’atteggiamento circospetto della Francia, per la durezza delle condizioni con cui l’Inghilterra poneva la sua candidatura, per la delicata fase di passaggio che attraversava la CEE, tra l’altro con l’avvio prossimo del mercato agricolo. In tale fase Fanfani svolse un’intensa fase di mediazione sia nella CEE, sia nella NATO. Della trattativa sull’adesione inglese era stato incaricato Emilio Colombo, ministro dell’industria nel III governo Fanfani, che, nel negoziato che si svolgeva a Bruxelles, tenne fermo questo atteggiamento di mediazione, non nascondendosi le difficoltà crescenti dell’iniziativa, assumendo poi nell’aprile del 1962 la presidenza della Conferenza, riuscendo a far conseguire al negoziato alcuni significativi, ma non decisivi, passi avanti.

Tra la fine del 1961 e il gennaio 1962 de Gaulle rivedeva la propria posizione sul progetto di unità politica europea con la presentazione di un Piano Fouchet II, che mirava a sottolineare il distacco di una futura unione europea dalla NATO, riduceva la CEE in un ambito meramente economico, eliminando l’ipotesi che una futura comunità potesse avere più ampi poteri sopranazionali, ribadendo nelle decisioni il ruolo esclusivo dei governi degli Stati membri. L’Italia, pur dichiarandosi contraria al progetto, non accentuò i toni della polemica e si schierò con la Germania e il Lussemburgo su di una posizione attenta a non rompere il negoziato. L’ambasciatore Attilio Cattani fu incaricato di formulare un piano di compromesso, che Fanfani discusse con de Gaulle in occasione dell’incontro bilaterale avvenuto a Torino nell’aprile 1962. Ma in occasione della Conferenza a “sei”, tenuta a Parigi sempre nell’aprile 1962, si registrava definitivamente il fallimento del progetto per “l’unione politica” e il “patto di consultazione”, inizialmente proposte dalla Francia.

Nel corso del 1962 la divaricazione delle parti doveva approfondirsi. Si rafforzavano i rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. John Kennedy e Macmillan siglavano l’accordo di Nassau, in base al quale venivano ceduti agli inglesi i vettori Polaris da montare su unità navali inglesi, nell’ambito del sistema difensivo della NATO. Era una risposta implicita alla politica gollista. I francesi, che avevano già testato la loro arma nucleare, non avevano a loro volta i vettori per renderla operativa e con essa la loro force de frappe sulla quale contavano per segnare la loro leadership sull’Europa continentale. De Gaulle promosse allora un accentuato riavvicinamento con la Germania occidentale. Adenauer condivideva alcuni assunti della politica gollista. La minaccia d’una guerra atomica che era nata dalla crisi di Cuba e la scarsa reattività americana alla costruzione del muro di Berlino lo avevano reso critico verso l’amministrazione Kennedy. Dopo una serie di incontri bilaterali, il 22 gennaio 1963 firmava il Trattato dell’Eliseo la cui pretesa era quella di fondare le couple franco-allemand. Il 14 gennaio veniva annunciato il veto francese all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea.

In Germania larghi settori della stessa maggioranza di governo non condividevano l’iniziativa del cancelliere, che avrebbe lasciato la carica nell’ottobre successivo. La reazione italiana al veto francese fu netta (il veto francese venne ribadito anche nel 1967 in occasione della riproposizione della candidatura britannica da parte del nuovo premier laburista Harold Wilson, che fu sostenuta dall’Italia, con il ministro degli Esteri Fanfani che convocò a Roma una Conferenza comunitaria ad hoc, 10-11 maggio 1967, durante la quale de Gaulle doveva tuttavia ribadire il suo veto) e anche occasione per riaffermare la fedeltà al progetto di costruzione europea su base sopranazionale. Le posizioni dovevano tuttavia ulteriormente divaricarsi nell’ambito dei rapporti transatlantici, rendendo, anche sulle questioni europee, più rigido l’atteggiamento francese. L’occasione fu data all’inizio degli anni Sessanta dall’iniziativa americana per la creazione di una forza multilaterale (MLF) all’interno della NATO che associava alcuni paesi, tra cui l’Italia, alla gestione delle armi atomiche e che voleva essere anche una risposta definitiva alla force de frappe. La Francia si chiamò fuori, preludio alla sua uscita nel 1966 dalla organizzazione militare della NATO.

Quando Fanfani nel 1965 tornò alla guida del ministero degli Esteri le posizioni erano ormai troppo distanti, mentre venivano al pettine i nodi dei mancati accordi degli anni precedenti. Erano necessari alcuni adattamenti nelle direttive comunitarie, specie in materia agricola, dove gli interessi italiani si trovavano coinvolti. Il contributo finanziario italiano era, rispetto agli altri Stati membri, superiore al suo livello di sviluppo economico e ai benefici che traeva dal mercato agricolo comune. L’Italia chiedeva un adeguamento. Questo era solo uno dei problemi della PAC, che si legavano tutti strettamente alla definizione di un ulteriore accrescimento del ruolo e dei poteri della Commissione europea. Su questo l’opposizione francese era netta. Il tedesco Walter Hallstein, allora Presidente della Commissione europea, venendo in parte incontro anche alle richieste italiane, propose di dotare la Comunità di risorse proprie e di aumentare il potere di controllo del Parlamento europeo sull’utilizzazione dei fondi. La Commissione votò a maggioranza una direttiva in tal senso a cui i due membri francesi votarono contro. Nel Consiglio dei ministri del 30 giugno 1965 Fanfani e Ferrari Aggradi (come ministro dell’Agricoltura) sostennero la proposta della Commissione e patrocinarono l’alleggerimento dell’onere finanziario italiano nel contesto del PAC. Salvo la Francia, che traeva vantaggio dal regime esistente, la posizione italiana era sostanzialmente condivisa dagli altri Stati membri. La diaspora francese all’inizio di luglio prendeva forma con il ritiro dei suoi rappresentanti dagli organismi comunitari, la cosiddetta crisi della “sedia vuota”. L’Italia, che il 1° luglio aveva assunto la presidenza semestrale della CEE, si condusse con cautela, perseguendo l’obbiettivo di non rendere irreversibile la rottura, compito affidato al ministro del Tesoro Emilio Colombo, dopo che Fanfani era stato designato a presiedere l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La mediazione italiana portò all’accordo nella Conferenza di Lussemburgo del 30 gennaio 1966, con la sostanziale accettazione delle pregiudiziali francesi, attutite da qualche aggiustamento (v. Compromesso di Lussemburgo).

Il ritiro di De Gaulle nell’aprile del 1969 e l’avvento di Georges Pompidou in Francia, quello di Willy Brandt in Germania e l’avvio della sua Ostpolitik modificarono profondamente il quadro europeo. Brandt aveva bisogno della copertura europea per la sua politica, Pompidou vedeva nella Comunità europea il luogo in cui riaffermare l’iniziativa francese. Queste inclinazioni dei due maggiori partner della Comunità presero forma nel Vertice dell’Aia del dicembre 1969. Cadeva così il veto francese all’ingresso della Gran Bretagna, che da tempo era nei voti della politica italiana.

Gli anni Settanta vedevano l’Italia in gravi difficoltà dal punto di vista economico e sociale, con un equilibrio instabile di governo. Il suo ruolo europeo ne risultava ulteriormente impedito. La prima metà del decennio è tuttavia segnata da alcune iniziative di successo. Nel 1971 il governo Colombo presentava un memorandum sulla politica della Comunità nelle aree depresse, che aprì una discussione che nel 1974 doveva concludersi con l’attuazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), destinato a costituire un’occasione di sviluppo per le regioni meridionali. Nell’aprile 1972 era stato anche firmato tra gli Stati membri l’accordo per la fondazione dell’Istituto universitario europeo a Firenze. La tradizionale posizione italiana, volta al rafforzamento dei poteri sopranazionali della Comunità, portò poi l’Italia, malgrado le difficoltà che comportava nella peculiare congiuntura economica italiana, ad accogliere l’istituzione dell’IVA come primaria fonte di imposizione indiretta, che veniva adottata congiuntamente dai paesi membri per fornire tra l’altro la base automatica di finanziamento diretto della Comunità, già avanzata negli anni Sessanta, quando aveva incontrato l’opposizione francese.

Nel 1970 all’Italia era stata attribuita la presidenza della Commissione, nella persona del democristiano Franco Maria Malfatti, e aveva coperto l’altro posto di commissario con il leader federalista Altiero Spinelli. Ne derivava un naturale impulso alle iniziative di rafforzamento delle Istituzioni comunitarie. Fu Malfatti il primo ad avvertire che la fine della convertibilità del dollaro, dichiarata da Nixon il 15 agosto 1971, richiedeva una risposta europea, concretatasi l’anno seguente con l’introduzione del “Serpente monetario” che prevedeva un’oscillazione delle monete europee tra loro del 2,25%.

La tenuta della lira nel Serpente fu di breve momento. Già nell’autunno di quell’anno ne usciva, avendo la Banca d’Italia lasciato correre il corso della moneta sul mercato dei cambi, ove conseguiva una forte svalutazione. La forte crescita salariale degli anni precedenti, non accompagnata da sufficienti misure deflative, rendeva impossibile una tenuta della moneta. Un governo centrista, presieduto da Giulio Andreotti e con il leader liberale Giovanni Malagodi al Tesoro, scelse la strada della svalutazione, scontando l’aumento dell’inflazione, e arrestando così la crescita dei salari reali. L’aumento dei prezzi petroliferi a seguito della guerra del Kippur fece il resto. Di lì a poco anche la Francia usciva dal Serpente. L’unica moneta a tenere era il marco tedesco. La crisi italiana si rifrangeva sull’equilibrio politico, con una forte crescita elettorale del partito comunista. Questo evitava la rottura del sistema con un’ampia proposta di collaborazione, definita “compromesso storico”, che negli anni seguenti l’avrebbe portato a sostenere il governo e a cauterizzare le spinte salariali del sindacato. In questa inclinazione nuova dei comunisti italiani la politica europea giocava un ruolo centrale. Essi si fecero sostenitori di una linea che fu definita “Eurocomunismo”, e che per un tratto coinvolse anche il partito comunista francese e quello spagnolo. L’obiettivo era quello di far acquisire ai partiti comunisti dell’Europa occidentale e comunitaria una cornice di autonomia e di consenso volta a sostenere una strategia di partecipazione governativa con le forze politiche tradizionalmente filo occidentali. La contraddizione stava nel fatto che Mosca era fermamente contraria e poiché l’eurocomunismo non voleva essere una rottura con i sovietici, si riduceva a una formula senza reale sostanza politica. La contraddizione finì così per minare il comunismo europeo e la parabola negativa fu più rapida in Francia e in Spagna che in Italia, dove, per la sua definitiva presa d’atto, si dovette aspettare il crollo dell’URSS.

La posizione del PCI sulla politica europea risultò d’altra parte anch’essa contraddittoria. Nel 1977 il PCI aveva votato, con le altre forze politiche della maggioranza parlamentare di unità nazionale, la ratifica dell’elezione diretta del Parlamento europeo. Ma l’anno seguente prese posizione contraria all’ingresso nel nuovo Sistema monetario europeo (SME), che aveva preso il via dopo l’accordo in questa direzione del presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e del cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Al voto positivo del Parlamento del 18 dicembre 1978, richiesto dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, si dichiarava contro, uscendo di fatto dalla maggioranza parlamentare per non più in seguito rientrarvi.

La vicenda dell’eurocomunismo segna sia il principio della massima convergenza delle forze politiche italiane sull’integrazione europea, sia anche quello di una nuova divisione. Il PCI sarebbe divenuto più cauto, così le altre estreme, come i Verdi e la Rete, e la destra di Alleanza nazionale-Movimento sociale italiano (AN-MSI). Queste nuove divisioni sulla partecipazione europea erano uno strascico delle difficoltà degli anni Settanta, quando la crisi economica era stata accompagnata da un grave squilibrio della bilancia dei pagamenti che aveva indotto il governo a prendere in considerazione di limitare le importazioni dalla CEE, decisione contraria ai trattati, poi rientrata, e il ricorso, da un punto di vista finanziario, a prestiti dal FMI e dagli USA, piuttosto che a quello comunitario. Quella fase era stata superata, grazie anche all’iniziativa di Altiero Spinelli che era membro della Commissione europea, e si era vista una ripresa dell’iniziativa europeistica italiana, che al Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975 proponeva con successo le Elezioni dirette del Parlamento europeo. Ma si dovevano aspettare gli anni ’80, con la stabilizzazione della nuova maggioranza di governo pentapartitica – DC, PSI, Partito socialdemocratico italiano (PSDI), Partito repubblicano italiano (PRI), Partito liberale italiano (PLI), per uscire dalla crisi sia del sistema politico, sia economica e delle relazioni industriali, permanendo tuttavia la tendenza di crescita del debito pubblico.

Nel novembre 1981 l’iniziativa italo-tedesca, avviata dai ministri degli Esteri, Hans-Dietrich Genscher ed Emilio Colombo, di un progetto di “Atto europeo”, muoveva dall’esigenza di completare lo SME con il miglioramento delle procedure della Cooperazione politica europea. La conclusione di questo progetto fu la “Dichiarazione solenne sull’Unione europea”, approvata a Stoccarda nel giugno 1983, un documento meramente declaratorio e non vincolante, che non conteneva nessuna disposizione veramente innovativa, ma fotografava una situazione di fatto e che diede risultati certamente inferiori alle attese, ma segnò comunque per la diplomazia italiana un successo importante (v. anche Piano Genscher-Colombo).

Nel contempo Altiero Spinelli, divenuto parlamentare europeo, elaborava un nuovo progetto di trattato con al centro i poteri del Parlamento, che raccolse adesioni e suscitò discussioni e speranze. Ma la vera ripresa di impegno europeistico da parte dell’Italia si ebbe soprattutto durante il semestre di presidenza del 1985 coronato, al Consiglio europeo di Milano, dalla convocazione, decisa a maggioranza per vincere l’opposizione di Margaret Thatcher, della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) nel corso della quale si sarebbe negoziato l’Atto unico europeo. Era Presidente del Consiglio Bettino Craxi che colse allora il momento nuovo che attraversava la costruzione europea, per l’iniziativa, fin dal 1983, di François Mitterrand, la nomina di Jacques Delors alla presidenza della Commissione europea e il rinsaldarsi dell’asse franco-tedesco sull’obbiettivo del Mercato unico europeo e dell’Allargamento della Comunità a Spagna e Portogallo, di cui l’Italia fu strenua sostenitrice. Ed è innegabile che la presidenza italiana giocò una parte non secondaria nello sbloccare una situazione di stallo dovuta all’opposizione dei britannici, sostenuti dalle delegazioni greca e danese, ma è altresì vero che alle spalle dell’iniziativa di Craxi e Andreotti si riproponeva la “coppia” franco-tedesca, la quale, se da un lato si mostrò favorevole alla posizione italiana nell’ambito del Vertice di Milano, dall’altro nutriva obbiettivi più prudenti sul piano delle riforme istituzionali. Contrasti di politica interna fecero tuttavia sì che l’Italia non firmasse subito il trattato sull’Atto unico, perdendo così le credenziali acquisite in precedenza. A rafforzare la posizione europeistica del governo fu indetto un referendum, abbinato alle elezioni politiche del 1987, sulla volontà di consolidare le istituzioni comunitarie che ebbe il suffragio dell’81,5% dei votanti. Rimanevano tuttavia incertezze più profonde, come fu il caso del tentativo di rivalutazione dell’UEO su iniziativa francese, nel 1984, che vide l’Italia assai tiepida, soprattutto in materia di difesa, nel quadro della sua tendenziale posizione filoamericana.

Ci fu comunque un impegno italiano a rafforzare il proprio ruolo nella Comunità europea. All’interno della Commissione l’Italia si fece allora rappresentare da figure di spicco della sua classe politica come Lorenzo Natali, Antonio Giolitti, Carlo Ripa di Meana e più tardi Filippo Maria Pandolfi. Nel 1988 la riforma dei Fondi strutturali fu basata sulla programmazione e la concentrazione degli interventi per razionalizzarne le finalità. Tale riforma rischiò peraltro di trasformarsi in un boomerang proprio per l’Italia che l’aveva incoraggiata. Il principio della “compartecipazione” tra la CEE e le autorità nazionali (centrali e regionali) su cui si basava, richiedeva infatti la preparazione di piani di intervento di base ai quali i fondi sarebbero stati attribuiti e avrebbero quindi messo ulteriormente alla prova la capacità di programmazione e l’attenzione italiana nei confronti delle opportunità offerte dagli interventi CEE. Un altro ritardo italiano stava nella ricezione nell’ordinamento italiano delle Direttive comunitarie che per inerzia e rinvii era assai carente. A ciò si provvedeva con la legge del 1989, nota sotto il nome di Antonio La Pergola, titolare del ministero del Coordinamento delle politiche comunitarie, che era stato istituito nel 1980.

Malgrado ciò, negli anni seguenti, l’aspirazione italiana a giocare un ruolo di primo piano nella costruzione europea tornava a scemare. Il crollo dell’URSS toglieva all’Italia quella centralità strategica di cui aveva goduto fin dal dopoguerra. I nodi sarebbero poi venuti al pettine nel negoziato che avrebbe portato al Trattato di Maastricht che entrò nella sua fase conclusiva nel 1990, nel cui secondo trimestre l’Italia ebbe la presidenza. Il Consiglio europeo di Roma convocò le due Conferenze intergovernative sull’unione politica ed economico-monetaria (v. Unione economica e monetaria), dopo una preparazione a cui l’Italia aveva dato un notevole contributo tecnico e politico con il ministro degli Esteri Gianni De Michelis per la prima e con il ministro del Tesoro Guido Carli per la seconda. Nell’anno seguente, quello che doveva portare alla firma del Trattato di Maastricht, specie durante il decisivo semestre olandese, pesò sull’Italia lo stato delle sue finanze, con deficit di bilancio non contenuti e un debito che aveva raggiunto oltre il 100% del PIL.

Le clausole del Trattato, che definivano il parametro del debito come punto di riferimento tendenziale e non rigido, consentirono poi all’Italia di entrare nella seconda fase dell’unificazione monetaria e in fine nell’Euro. Ma non di evitare la crisi valutaria del settembre-ottobre 1992 che fu più grave di quella di altre monete europee e costrinse a una forte svalutazione della lira e alla sua uscita dallo SME. Il risanamento della finanza italiana risale a questo periodo, con i provvedimenti del governo Giuliano Amato, che in seguito vennero ulteriormente perfezionati. Il Trattato di Maastricht divenne così il vincolo esterno che costrinse l’Italia a una politica di bilancio virtuosa. Si deve tuttavia alla sua applicazione normativa l’inizio della stagnazione italiana nel quindicennio seguente, perdendo l’Italia quello strumento che da più d’un ventennio aveva avuto come presupposto necessario della sua dinamica economica, una politica del cambio che ciclicamente induceva a svalutare la moneta, cauterizzando in parte la crescita del debito e il monte salari e dando nuovi margini alle imprese esportatrici. L’ingresso in un sistema, come quello di Maastricht, in cui la politica monetaria aveva come obbiettivo la stabilità dei prezzi, mutava così integralmente i rapporti delle imprese con il mercato del lavoro e le politiche pubbliche di bilancio, generando difficoltà che solo col tempo avrebbero potuto essere superate.

Guidato dalla prospettiva della moneta unica, il governo italiano, sapendo di essere un partner sotto severa osservazione, si impegnò ad arrivare alla verifica del maggio 1998 con tutte le carte in regola. Malgrado la scelta dei tempi lunghi per il rientro nello SME, l’opera di risanamento della finanza pubblica avviata dai governi Amato e Ciampi (v. Ciampi, Carlo Azeglio), basata sul presupposto della convergenza verso l’Europa, fece comunque risalire le quotazioni dell’Italia, benché si sarebbe avuta una battuta d’arresto, non tanto sulla linea del risanamento finanziario, quanto sulla scelta politico-economica dell’euro, con il ministro degli Esteri Antonio Martino, nel breve governo di Silvio Berlusconi dal giugno al novembre 1994, che i seguenti governi di Lamberto Dini e Romano Prodi non riproposero. Quest’ultimo governo faceva rientrare la lira nel serpente europeo nel novembre 1996 e con una nota aggiuntiva al Documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) anticipava al 1997 un rapporto tra fabbisogno pubblico e PIL pari al 3%, aprendo così la strada all’ingresso della lira nell’euro. Dopo una non facile trattativa sul tasso di cambio, col fissare il rapporto della lira rispetto al marco, che non favoriva il sistema economico italiano, nel novembre del 1998, la valuta italiana entrava nell’euro.

L’Italia aveva assunto la presidenza del consiglio dell’Unione nel primo semestre del 1996 (v. Presidenza dell’Unione europea). Fu una presidenza in tono minore rispetto a quelle del 1985 e del 1990, col paese ripiegato sui propri problemi interni. A partire dal 1992 i segnali erano stati del resto tutti nella direzione di una strisciante emarginazione italiana, segnati dal ritardo dell’applicazione degli Accordi di Schengen, e dall’esclusione dal Gruppo di contatto dei Cinque (Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia) sulla Bosnia. La presidenza del Consiglio nel 1996 fu l’occasione per assicurare unità e coerenza alle attività dell’Unione europea. Avviata a Torino il 29 marzo 1996 la Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato di Maastricht (v. anche Revisione dei trattati), la delegazione italiana presentò proposte di livello elevato, confermandosi pronta ad accettare il massimo di integrazione. Sia il Presidente del Consiglio che il ministro degli Esteri sottolinearono la volontà italiana di ottenere una cornice istituzionale più forte per la dimensione politica dell’integrazione. L’Italia affrontò quindi l’appuntamento di Amsterdam nel giugno 1997 con una visione di alto profilo del futuro dell’Unione europea, un atteggiamento più determinato e coerente con il passato (v. Trattato di Amsterdam). Per quanto riguarda la dimensione militare della sicurezza l’Italia abbandonò la posizione atlantista della Gran Bretagna e si allineò a Francia, Germania, Spagna, Belgio e Lussemburgo nel chiedere la piena integrazione dell’UEO nella UE, che avrebbe portato a un compromesso su di una integrazione graduale, che lasciava inalterata l’Alleanza atlantica come fulcro della difesa europea.

Nel 1996, in sede di Conferenza intergovernativa, l’Italia era stata cauta nei confronti dell’ipotesi delle “cooperazioni rafforzate” (v. Cooperazione rafforzata) tra paesi che intendessero procedere più avanti degli altri in alcuni settori dell’integrazione. L’idea di introdurre nei Trattati un approccio flessibile all’integrazione nel funzionamento dell’Unione era considerata come una pericolosa rimessa in discussione dell’Europa politica, accettando in fine le “cooperazioni rafforzate” sulla base di una “clausola di flessibilità” che le riconducesse a dimensioni il più possibile unitarie. La preoccupazione nasceva anche dalla difficoltà che l’Italia allora incontrava ad aderire agli Accordi di Schengen e all’unione monetaria. Una maggiore disponibilità italiana su questo tema si manifestò del resto nella successiva Conferenza intergovernativa che negoziò il Trattato di Nizza, disponibilità che si mostrava anche consapevole dei problemi che il previsto allargamento della Unione avrebbe probabilmente posto. Ma proprio in vista dell’allargamento il risultato emerso da queste trattative fu dal punto di vista delle istituzioni europee debole e in quanto tale può considerarsi una parziale sconfitta delle posizioni italiane. Con la collaborazione della Germania il risultato più positivo fu quello di colmare il Deficit democratico dell’assetto istituzionale dell’Unione con un allargamento dei poteri del Parlamento europeo.

Nel settembre del 1999 Romano Prodi, dopo le dimissioni del lussemburghese Jacques Santer, diveniva presidente della Commissione europea, avendo al suo fianco Mario Monti che da commissario al Mercato comune, passava all’incarico cruciale della Concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza). Prodi tornò a patrocinare la linea che aveva caratterizzato la presidenza Delors, naturalmente in tono minore, e da cui il suo predecessore aveva inteso discostarsi. Ebbe poca incidenza sui problemi istituzionali dell’Unione, che pure aveva messo nel suo programma, e relativi successi su quello della governance, varando una riforma della struttura della Commissione, predisposta dal commissario inglese Neil Kinnock. Si applicava invece con successo ad accelerare l’allargamento dell’Unione, che sarebbe giunta a compimento durante il suo secondo mandato nel 2004. Tenne fede comunque alla tradizione italiana di incrementare i processi di integrazione e di favorire l’allargamento dei criteri di libero scambio dell’Unione nel processo di globalizzazione. Manteneva inoltre una linea rigida nelle funzioni di controllo della Commissione sull’applicazione dei Trattati, in particolare sui parametri del Trattato di Maastricht.

Queste posizioni portarono più volte Prodi in situazioni di collisione con le linee espresse dal nuovo governo di centrodestra presieduto da Silvio Berlusconi, in particolare con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ad esempio sui problemi della gestione del deficit e dell’apertura commerciale alla Cina, nell’ambito dei negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization, WTO). La linea europeistica del governo Berlusconi tornò comunque a discostarsi da quella tradizionale italiana, anche se non con l’accentuazione “euroscettica” che nel 1994 aveva espresso il ministro degli Esteri, Antonio Martino (v. Euroscetticismo). Anzi, in un primo momento l’incarico degli Esteri era stato assunto da Renato Ruggiero, fortemente orientato verso posizioni europeiste. L’attentato alle torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001, spinse il governo Berlusconi su posizioni accentuatamente filoamericane. Il 26 settembre a Berlino, in un incontro dei paesi membri dell’Unione con il presidente russo Putin, Berlusconi assumeva una posizione radicale anti islamica, che suscitava sorpresa e preoccupazione presso i partner europei. Seguiva il ritiro della partecipazione italiana al progetto europeo dell’Airbus A400M, già firmato dal precedente ministro della Difesa Sergio Mattarella. Martino, che gli era succeduto in quell’incarico, prospettava inoltre la partecipazione al programma americano per la costruzione del Joint strike fighter. A ciò si aggiungeva la netta opposizione al Mandato d’arresto europeo, delineando una posizione complessiva dell’Itali sempre più distante dalle posizioni dei partner europei, che era sostenuta dai più importanti leader della coalizione di governo, da Umberto Bossi, a Giulio Tremonti e Rocco Buttiglione e che avrebbe portato alle dimissioni del ministro Ruggiero. Si aveva anche la reazione di Francia, Germania e Gran Bretagna che vennero escludendo l’Italia dalle loro consultazioni triangolari. L’Italia mostrava di privilegiare il rapporto con gli americani e stabilendone anche uno speciale con la Russia di Putin, che si manifestava nel maggio del 2002, a Pratica di Mare, al Consiglio generale della NATO, portando alla creazione di un “Consiglio dei Venti”, comprendente per la prima volta la Russia.

Questo insieme di distonie doveva approfondirsi con lo scoppiare della questione irachena. Al Consiglio europeo di Copenaghen, nel maggio 2002, si verificava una forte polemica di Berlusconi, che sosteneva l’inoppugnabilità delle prove, presentate dagli USA, sul possesso da parte irachena delle armi di distruzione di massa, con il presidente francese Jacques Chirac. Sebbene Berlusconi ritirasse questa sua posizione, dopo un incontro in ottobre con Putin, la posizione italiana sembrava compromessa sui due lati, europeo e americano. Con gli USA, a seguito della guerra irachena, il governo doveva recuperare una piena credibilità, firmando con la Spagna, la Polonia e altri cinque paesi aderenti all’Unione una dichiarazione a favore dell’intervento americano e schierando poi un contingente militare nel processo di occupazione dell’Iraq, tuttavia determinando così una frattura profonda con i più tradizionali partner europei, quali la Francia e la Germania.

Gli incidenti di percorso si sarebbero moltiplicati in quel periodo. Il governo italiano si lanciò in una campagna molto critica nei riguardi della presidenza Prodi, che suscitava perplessità negli altri partner. Prese di posizioni a favore del governo russo e del suo intervento in Cecenia, così come un allineamento assai netto sulle posizioni del governo israeliano di Sharon, in occasione della visita di quest’ultimo a Roma, accrescevano queste reazioni negative. Quando l’Italia assunse la presidenza dell’Unione, nella seconda metà del 2003, Berlusconi, nel presentare il programma italiano al Parlamento europeo aveva poi uno scontro polemico con il vicepresidente del gruppo socialista, l’europarlamentare tedesco Martin Schultz che aveva effetti immediati in Germania e su cui interveniva anche il cancelliere Gerhard Schröder.

Il semestre italiano era comunque l’occasione per recuperare un ruolo nell’Unione e il programma della presidenza era ambizioso e centrato su alcuni temi principali: la Conferenza intergovernativa per la Costituzione dell’Unione; l’Europa dell’economia, in cui capeggiava la proposta delle “Reti transeuropee”; il rilancio della cooperazione euromediterranea, la sicurezza dei cittadini. Il tema che ebbe sviluppi positivi, anche se non definitivi, fu quello della Costituzione europea, su cui lavorava la Conferenza intergovernativa, che tuttavia non approdò a una conclusione per i dissensi sulle procedure di voto del Consiglio europeo. Malgrado il governo avesse impostato la partecipazione ai lavori della Convenzione europea, coinvolgendo l’opposizione, che tra l’altro era rappresentata dall’ex premier Giuliano Amato, quando il progetto di Costituzione che quest’ultima presentò alla Conferenza intergovernativa si arenava nella riunione di Bruxelles del settembre 2003, la presidenza italiana, nel Consiglio europeo del dicembre seguente, non sarebbe riuscita a sbrogliare la matassa. Su tutti i dossier presentati dalla presidenza italiana il ministro degli Esteri Frattini aveva svolto un intenso lavoro diplomatico e, anche se i suoi tentativi di mediazione, per la risoluzione dei punti rimasti controversi della Carta costituzionale, non avevano avuto successo, strappava l’impegno di firmare il Trattato a Roma, quando e se i lavori si fossero conclusi positivamente, come poi avvenne. L’Italia acquisiva inoltre, a conclusione della sua presidenza, la localizzazione a Parma dell’Agenzia alimentare europea.

La strada per varare il testo costituzionale dell’Unione sarebbe stata ancora lunga e accidentata e solo nell’ottobre 2004 si giunse alla firma del Trattato, che i referendum francese e olandese avrebbero respinto, aprendo un nuovo contenzioso cui il Consiglio di Lisbona del 2007 avrebbe poi cercato di porre rimedio proponendo un nuovo iter. Ma quei mesi del 2004 furono densi di avvenimenti importanti per l’avvenire dell’Unione, incominciando dall’allargamento a dieci nuovi membri. L’Unione entrava in una fase di transizione che metteva in discussione la sua stessa natura. Questo problema non fu colto nella sua interezza dal governo italiano. Sul terreno istituzionale esso insisteva sulla tradizionale impostazione del rafforzamento dei poteri sopranazionali che echeggiava un approdo federalista, preoccupato dalla concertazione franco-tedesco-inglese sui problemi comunitari che lo escludeva e cercando di dare una diversa risposta alla domanda, difficilmente eludibile dopo l’ultimo allargamento, di chi dovesse guidare l’Unione. In un primo momento, dichiarandosi contrario a sanzioni nei riguardi della Francia e della Germania, che avevano presentato i loro bilanci per il 2004 in deficit, oltre i parametri di Maastricht, aveva cercato per questa via un avvicinamento, schierandosi invece, subito dopo, per la rigorosa applicazione del Trattato. Un’altra contraddizione stava nell’iniziativa assunta nel dicembre 2003 di persuadere gli altri Stati membri e i dieci nuovi entrati a firmare una dichiarazione sulle relazioni transatlantiche che ne riaffermava la centralità per la politica estera europea, lasciando alle spalle le divisioni causate dalla guerra in Iraq. Nel contempo sosteneva in sede di redazione del Trattato costituzionale, sui temi della politica estera e della sicurezza (v. anche Politica estera e di sicurezza comune), il voto a Maggioranza qualificata del Consiglio, là dove il deliberato della Conferenza intergovernativa, su iniziativa della Gran Bretagna, avrebbe adottato il principio del Voto all’unanimità, ch’era anche una logica conseguenza della precedente risoluzione politica sul rapporto transatlantico. Anche la proposta di menzionare nel preambolo costituzionale dell’Unione, le “radici cristiane” della sua storia, contraddiceva con la dichiarata propensione a risolvere positivamente l’adesione della Turchia. Queste contraddizioni non favorivano certo l’incisività della posizione italiana e, nella redazione finale del testo della Costituzione, l’Italia poteva vantare quasi come unico successo l’annullamento dei poteri di sanzione della Commissione verso i paesi che non avessero rispettato il parametro del deficit e la sua conversione in semplice raccomandazione, che rifletteva, come si è accennato, un altro controverso indirizzo di fondo della politica europea italiana.

Questa incertezza di indirizzi si sarebbe altrimenti riprodotta con il rinnovo della presidenza della Commissione. L’Italia caldeggiò fortemente la nomina di José Manuel Durão Barroso, ma volle poi sostituire il commissario Monti, disponibile al rinnovo, e sicuramente candidato a mantenere l’incarico della “concorrenza”, con il cattolico Rocco Buttiglione, a sua volta designato alla “giustizia” e che, all’atto della sua presentazione al Parlamento europeo, incorse nella censura di quest’ultimo mettendo in discussione l’intera Commissione presieduta da Barroso e fu costretto alle dimissioni, nonché a riaprire il processo di formazione della Commissione stessa, in cui l’Italia nominava allora il ministro degli Esteri Frattini.

Con Frattini membro della Commissione e Gianfranco Fini al ministero degli Esteri la politica europea dell’Italia avrebbe evitato strappi ulteriori. Maturava la convinzione che il paese non poteva discostarsi troppo da Bruxelles. Il successivo governo di centrosinistra, che ebbe vita solo due anni, operò con il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, per una rigorosa politica di bilancio, che garantisse all’Italia una posizione ineccepibile tra i paesi dell’euro. A sua volta il ministro dell’Economia del nuovo governo di centrodestra, Giulio Tremonti, avrebbe poi fatto propria questa linea. La crisi dell’economia mondiale nel 2008 doveva rafforzare questo indirizzo, proponendo una politica europea dell’Italia che in nulla di sostanziale si divaricasse da quella dei suoi maggiori partner nell’Unione europea.

Piero Craveri-Gerardo Mombelli (2009)




Lettonia

La transizione della Lettonia verso l’adesione all’Unione europea

Le relazioni tra la Lettonia e l’Unione europea furono intraprese il 27 agosto 1991, quando l’Unione europea riconobbe l’indipendenza della Lettonia dall’Unione Sovietica. Le prime elezioni postsovietiche furono indette nel giugno 1993 ed ebbero come risultato il governo di Valdis Birkavs, guidato dal partito di centrosinistra Via della Lettonia (LC). Dal principio il governo mostrò chiaramente il suo orientamento filo occidentale e si impegnò ad attuare un pacchetto di riforme che avrebbero facilitato la futura adesione della Lettonia all’Unione europea, sebbene a causa dell’instabilità della coalizione governativa seguire fedelmente il percorso intrapreso verso tali riforme non fosse un’impresa facile.

La Lettonia mostrò il suo impegno verso l’adesione all’UE ancor prima delle elezioni del 1993. Il governo provvisorio, infatti, firmò un Accordo sulla Cooperazione commerciale ed economica con l’Unione europea l’11 maggio 1992 (v. Accordi europei), dopo soli nove mesi dalla proclamazione dell’indipendenza della Lettonia. Fu al summit del Consiglio europeo di Copenaghen nel giugno 1993, che venne considerata per la prima volta la possibilità che la Lettonia aderisse all’Unione europea e che vennero definite le condizioni per l’adesione. L’Unione europea stabilì che l’adesione sarebbe avvenuta non appena la Lettonia avesse ottemperato ai cosiddetti “criteri di Copenaghen” (v. Criteri di adesione).

Nel 1994, la responsabilità generale della gestione e del coordinamento dell’integrazione della Lettonia nell’UE (v. Integrazione, metodo della) fu affidata a una nuova istituzione, l’Ufficio per l’Integrazione europea, un ente statale che faceva direttamente capo al primo ministro e che era affiancato da 23 gruppi di lavoro tecnici. Il 18 luglio 1994, la Lettonia e l’Unione europea firmarono un Accordo sul libero scambio e sulle questioni commerciali, che entrò in vigore il primo gennaio 1995, sostituendo l’accordo del 1992. Tale accordo sarebbe stato alla base delle relazioni tra le due parti sino alla ratifica e alla conseguente entrata in vigore il 1° febbraio 1998 dell’Accordo europeo, firmato dalla Lettonia il 12 giugno 1995. Da allora l’Accordo europeo fu il fondamento giuridico delle relazioni tra la Lettonia e l’Unione europea e cercò di fornire «un quadro di riferimento al dialogo politico, di promuovere l’ampliamento degli scambi e delle relazioni economiche fra le parti, di fornire una base per l’assistenza tecnica e finanziaria della Comunità (Comunità economica europea) nonché una cornice adeguata a sostenere la graduale integrazione della Lettonia nell’UE». La candidatura ufficiale della Lettonia all’Unione europea fu firmata dal Presidente e dal primo ministro il 13 ottobre 1995 e inoltrata alla Spagna, che esercitava la presidenza di turno dell’Unione europea, il 27 ottobre 1995 (v. Presidenza dell’Unione europea).

Il 10 ottobre 1995, pochi giorni prima che fosse presentata la candidatura, il Consiglio dei Ministri lettone istituì il Consiglio per l’Integrazione europea, un organo di Stato che si riunisce una volta al mese «per sviluppare e promuovere una politica congiunta sull’integrazione della Lettonia nell’Unione europea a tutti i livelli delle istituzioni governative». Il Consiglio è guidato dal Direttore dell’Ufficio per l’Integrazione europea.

Si ritenne che i criteri di Copenaghen, pur rappresentando una base solida per valutare le credenziali politiche dei paesi candidati, non considerassero sufficientemente le specifiche circostanze dei singoli Stati. Nel dicembre 1995, quindi, il Consiglio europeo a Madrid richiese alla Commissione europea di redigere pareri (avis) su ognuno dei nuovi paesi candidati che fossero pubblicati col nome di “Agenda 2000”. Il Consiglio decise inoltre di organizzare una conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) in vista dell’Allargamento dell’UE.

Nel valutare singolarmente le candidature dei paesi (v. Paesi candidati all’adesione), l’Unione europea riconobbe che alcuni Stati stavano realizzando maggiori progressi di altri e, il 13 aprile 1997, la Commissione dell’UE annunciò che la prima ondata di adesioni all’UE avrebbe incluso Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia e Cipro, mentre Lettonia, insieme a Lituania, Bulgaria, Romania e Slovacchia, avrebbero fatto parte della seconda ondata. Tale decisione fu fortemente criticata in Lettonia, poiché si riteneva che tutti e tre gli Stati baltici avrebbero dovuto aderire contemporaneamente. Il ministro degli Esteri Valdis Birkavs insisté per l’ammissione simultanea di tutti e tre gli Stati alle trattative d’adesione con l’Unione europea: «Il nostro obiettivo di aderire all’Unione europea sarà raggiunto solo nel momento in cui tutti e tre gli Stati baltici saranno diventati membri di tale organizzazione. […] Non si può immaginare un’Europa unita senza i tre Stati baltici».

Il 15 luglio 1997 la Commissione pubblicò il proprio Parere sulla candidatura della Lettonia all’Unione europea (“Agenda 2000”). La Commissione espresse apprezzamento alla Lettonia per la stabilità delle sue istituzioni politiche e per il clima di libertà e correttezza in cui si erano svolte le elezioni del 1993 e 1995. La principale critica in ambito politico faceva riferimento alla necessità «di accelerare la procedura di naturalizzazione delle minoranze russe in modo da meglio integrarle nella società lettone». La Commissione espresse soddisfazione per i progressi compiuti dalla Lettonia nella creazione di un’economia di mercato ma riconobbe che la Lettonia avrebbe avuto «notevoli difficoltà a far fronte, a medio termine, alle pressioni competitive e alle forze di mercato all’interno dell’Unione». Il summit del Consiglio europeo di Lussemburgo nel dicembre 1997 diede all’Estonia e agli altri paesi della prima ondata il via libera a iniziare i negoziati di adesione nell’aprile dell’anno successivo, e stabilì che le trattative con la Lettonia avrebbero dovuto attendere finché il paese non avesse compiuto «progressi sufficienti per soddisfare le condizioni per l’adesione stabilite dal Consiglio europeo di Copenhagen». Tuttavia, la Commissione si impegnò a sviluppare una strategia rafforzata di preadesione (v. anche Strategia di preadesione) per consentire alla Lettonia di adempiere «agli obblighi dell’adesione adoperandosi ad affrontare i punti deboli individuati dal parere».

Il 31 marzo 1998 l’Unione europea aprì le trattative di adesione con la prima ondata di paesi candidati, subito dopo l’entrata in vigore dell’Accordo europeo il 1° febbraio 1998. L’Accordo fornì a tutti i paesi candidati un partenariato per l’adesione e stabilì obiettivi specifici per ottenere l’adesione. Il partenariato intendeva rappresentare «lo strumento chiave della strategia potenziata di pre-adesione, mobilitando in un quadro unico tutte le forme di assistenza ai paesi candidati».

Nel settembre 1998, la Commissione pubblicò la prima delle sue Relazioni periodiche sui progressi compiuti dalla Lettonia verso l’adesione. Pur riconoscendo i passi avanti realizzati nell’ambito dell’integrazione dei non cittadini, il rapporto concludeva che occorreva impegnarsi maggiormente «nella promozione dell’insegnamento della lingua lettone ai non-cittadini, nella riforma della pubblica amministrazione, nel rafforzamento del sistema giudiziario e nella lotta contro la corruzione». Sul fronte economico e amministrativo la situazione era di gran lunga migliore. Tuttavia, l’anno terminò con una delusione, quando, a dicembre, il Consiglio europeo di Vienna votò contro l’avvio dei negoziati di adesione con la seconda ondata di paesi candidati.

Imperterrita, la Lettonia proseguì nella sua strategia di preadesione all’UE. Durante la sessione del Consiglio di Associazione tra la Lettonia e l’Unione europea svoltasi a Riga il 22 febbraio 1999 (v. anche Associazione), si prese atto che «il completamento della fase multilaterale dell’esame analitico dell’acquis (screening) e l’imminente passaggio alla fase bilaterale di tale esame» avrebbe dato «un nuovo dinamismo al processo, accelerando quindi i preparativi per i negoziati». Infatti, nella Relazione periodica del 1999, la Commissione si espresse in favore dell’avvio dei negoziati con la Lettonia. Tale decisione fu confermata al Consiglio europeo di Helsinki nel dicembre 1999.

Con l’inizio del nuovo millennio le relazioni della Lettonia con l’Unione europea divennero sempre più strette. Nel corso dell’anno si svolsero ulteriori sessioni del Consiglio di Associazione, del Comitato di Associazione e del Comitato Parlamentare misto (che comprendeva membri del Parlamento lettone e del Parlamento europeo). In campo economico, nel 2000 le esportazioni della Lettonia verso l’Unione europea erano aumentate raggiungendo il picco storico del 68% delle vendite all’estero complessive. Alla periodica riunione ministeriale della Conferenza Intergovernativa sull’adesione della Repubblica di Lettonia all’Unione europea, svoltasi a Bruxelles il 21 novembre, fu deciso che i capitoli dei negoziati relativi all’Unione economica e monetaria, alla Politica industriale, alla Tutela dei consumatori (v. Politica dei consumatori) e alla Salute (v. Politica della salute pubblica) e alle Relazioni esterne (v. Politica estera e di sicurezza comune) sarebbero stati chiusi provvisoriamente. Sul fronte politico, le Relazioni periodiche UE del 2000 e 2001 riconobbero che la Lettonia continuava a soddisfare i criteri di Copenaghen ed espressero apprezzamento per l’iniziativa del governo di stanziare 200.000 lati per la gestione del Fondo per l’integrazione sociale. Venne anche confermata l’efficacia del processo di naturalizzazione: 14.900 persone, infatti, furono naturalizzate nel 2000, il numero annuo più alto da quando, nel 1995, era iniziato il processo di naturalizzazione. A partire dal 1996, più di 36.000 persone avevano partecipato al Programma Nazionale per l’Insegnamento della Lingua Lettone e il 2001 fu il primo anno in cui fondi pubblici ($US 710.000) furono destinati direttamente al programma. Tuttavia, nel 2002 la Lettonia rimaneva l’unico paese candidato a non aver ancora ratificato la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali.

La sesta e ultima Relazione periodica della Commissione sull’adesione della Lettonia all’Unione europea fu pubblicata il 9 ottobre 2002 e raccomandava di concludere le trattative con la Lettonia per l’adesione entro la fine dell’anno. Considerato il caso della Lettonia, che era riuscita a concludere provvisoriamente i negoziati di tutti e 31 i capitoli, i capi di Stato e di governo dei paesi membri presenti al Consiglio europeo di Copenaghen del 13 dicembre 2002 decisero che i paesi candidati avrebbero firmato il Trattato di Adesione il 16 aprile 2003 ad Atene (v. anche Trattati).

L’ultimo ostacolo sulla strada dell’adesione della Lettonia all’UE fu il referendum popolare. Alla fine, la campagna a favore del Sì ottenne una vittoria schiacciante, raggiungendo il 67% dei voti su un’affluenza alle urne del 72,53%. Il primo ministro Einars Repse accolse la decisione come uno dei tre più importanti eventi della storia lettone, insieme all’indipendenza dall’Impero russo nel 1918 e alla nuova indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991. La campagna per il No si appellò invano al popolo lettone affinché non cedesse a Bruxelles la sovranità che solo recentemente aveva riconquistato dall’Unione Sovietica, senza ottenere risultati di sorta. Così si espresse la Presidente Vaira Vike-Freiberga: «Per la Lettonia [l’adesione all’UE] chiude definitivamente le vicende della Seconda Guerra Mondiale e cancella per sempre le divisioni sulla mappa dell’Europa che l’odioso patto Molotov-Ribbentrop del 1939 aveva posto in essere». La Lettonia aderì all’UE il 1° maggio 2004.

Box 1→ Banca della Lettonia

Box 2 → Agenzia lettone per l’investimento e lo sviluppo

Box 3 → Istituto privato di economia dell’Accademia delle scienze di Lettonia

Box 4 → Ufficio per l’integrazione europea

Conseguenze dell’adesione all’Unione europea per la Lettonia

Il processo di Armonizzazione intrapreso dalla Lettonia per conformare le sue strutture politiche, economiche e sociali a quelle dell’Unione europea, entrò in conflitto con molte delle misure adottate allo stesso tempo in merito a state-building e nation-building, in particolare riguardo alla cittadinanza, alla lingua e alla tutela delle minoranze (v. Lingue minoritarie nell’Unione europea). Infatti, negli anni ’90, la Lettonia e l’UE avevano una visione del mondo piuttosto differente. In Europa occidentale la fine della Guerra fredda e il crollo dell’Unione Sovietica modificarono le priorità della sicurezza degli Stati dalla sopravvivenza alla “gestione e prevenzione delle crisi”. Come conseguenza della sua storia di occupazione e annessione, la Lettonia continuò a considerare la Russia (e per estensione i russi) come una minaccia per la propria integrità territoriale. Queste Weltanschauung così contrastanti hanno portato all’adozione, da entrambe le parti, di posizioni fondamentalmente divergenti in merito alla legislazione sulla cittadinanza, sulla lingua e sui diritti delle minoranze.

Il primo periodo dell’indipendenza è forse il più importante nella storia lettone. La repubblica tra le due guerre mondiali aveva fornito lo spazio politico all’interno del quale si era diffusa per la prima volta l’identità nazionale del popolo lettone che era stata recepita dall’intera popolazione. Inoltre la Lettonia si riteneva uno Stato rinnovato, non nuovo, e riteneva che la propria sovranità fosse stata interrotta, non annullata durante il periodo di occupazione sovietica. Dopo aver riconquistato l’indipendenza dall’Unione Sovietica, quindi, il nuovo governo nazionale cercò semplicemente di ricominciare da dove era stata interrotto e ricreare la repubblica esistente tra le due guerre mondiali. Ciò significò cancellare dal proprio territorio tutte le tracce dell’ordinamento sovietico, reclamando gli elementi di Stato e nazione sovrana che si erano persi, e tenendosi il più lontano possibile dall’influenza russa.

La decisione del governo lettone di impegnarsi in favore dell’adesione all’Unione europea dipese, quindi, ben più da una percezione dell’identità nazionale e del sé geografico e storico come cultura occidentale, che non da una valutazione razionale dei vantaggi economici e politici. Questo spiega il motivo per cui il governo lettone fu molto critico quando l’Unione europea rifiutò di far partecipare la Lettonia alla prima ondata dell’allargamento dell’Unione insieme all’Estonia. Se fosse stata solo una valutazione in termini di crescita economica, difficilmente la Lettonia avrebbe potuto sostenere di aver raggiunto gli stessi risultati del vicino nordico. Tuttavia, poiché l’adesione all’UE testimoniava l’identità e i valori occidentali dello Stato – come affermò il governo lettone – i tre paesi baltici sarebbero dovuti essere ammessi congiuntamente.

Il timore della Lettonia nei confronti della Russia era rafforzato dalla visione russa del mondo e di se stessa: un mondo governato da grandi potenze, tra cui potersi annoverare. Per essere una grande potenza uno Stato necessita di una sfera di influenza e questo spiega perché Mosca voglia mantenere il controllo sui tre Stati baltici. Ovviamente, ciò ha avuto pesanti ripercussioni sulla comunità di lingua russa in Lettonia e ha fatto sì che l’attenzione dell’UE si concentrasse in particolare sul capitolo dell’acquis comunitario relativo al “rispetto e la protezione delle minoranze”.

I dibattiti all’interno della società lettone sulle implicazioni dell’adesione all’Unione europea furono molto animati. Mentre alcuni ritenevano che l’integrazione europea fosse l’unico modo per garantire la propria sicurezza (v. anche Integrazione, teorie della), proteggere il proprio Stato dall’ingerenza russa e difendere la propria cultura e identità nazionali dall’assimilazione della cultura ortodossa, altri erano critici sull’influenza che Bruxelles esercitava sulla legislazione in materia di cittadinanza e diritti delle minoranze nel proprio ordinamento e considerava l’appartenenza all’UE come una minaccia all’identità che stavano cercando in primis di proteggere.

Alcuni gruppi in Lettonia erano particolarmente avversi alle richieste dell’UE di accelerare l’integrazione delle minoranze di lingua russa nella società lettone. Quando il 20 marzo 1996 il presidente Ulmanis informò Gunther Weiss, ambasciatore dell’UE a Riga, che la Lettonia era pronta a iniziare i negoziati per l’adesione, il diplomatico ribadì che sarebbe stato impossibile discutere dell’integrazione della Lettonia nell’Unione europea senza prendere in considerazione lo status dei non cittadini nella Repubblica. Allo stesso modo, nell’agosto 1998 le raccomandazioni provenienti dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) affinché si ammorbidisse la legge lettone sulla cittadinanza, furono criticate dai partiti di destra, che reputavano gli emendamenti approvati dal parlamento troppo liberali e insistevano affinché la materia fosse sottoposta a referendum. Il presidente Ulmanis affermò che l’ampio sostegno a favore del referendum tra la popolazione lettone fosse un segno di «protesta contro l’esagerata presa di posizione dei politici europei». Tuttavia, molti politici lettoni e capi di stato occidentali avvertirono che un rifiuto al referendum del 1998 sulla cittadinanza sarebbe andato contro lo spirito dei valori europei e avrebbe diminuito l’europeità dello stato. Il referendum fu approvato, un avvenimento che secondo il primo ministro italiano Romano Prodi «affermava chiaramente l’identità europea della Lettonia».

Analogamente, il Comitato per l’Istruzione, la cultura e la ricerca della Saeima si rifiutò di apportare le modifiche raccomandate dall’OSCE e dall’UE al disegno di legge sulla lingua nazionale. Gli esperti dell’OSCE e il Commissario per gli Affari esterni dell’Unione europea, Hans van den Broek, si erano opposti alla regolamentazione dell’uso della lingua nazionale nel settore privato. Il Comitato sostenne che non era possibile applicare tutte le norme europee concernenti la legislazione sulla lingua poiché i lettoni erano diventati una minoranza in molte aree del paese. Nel luglio 1999, tuttavia, la legge sulla lingua che era stata approvata dalla Saeima, fu respinta dal nuovo presidente Vaira Vike-Freiberga, grazie alle pressioni dell’OSCE e dell’UE. L’UE sosteneva che tale legge avrebbe impedito alla Lettonia di ottemperare ai criteri di Copenaghen e quindi di aderire all’Unione stessa.

Mentre la Lettonia, grazie alla pressione esercitata dall’Unione europea, ha liberalizzato in modo significativo la propria legislazione in materia di cittadinanza, lingua e diritti delle minoranze, una larga parte della minoranza di lingua russa non è riuscita a ottenere la cittadinanza lettone. Tra tutti gli Stati membri dell’UE, la Lettonia ha una delle più alte percentuali di non cittadini tra la propria popolazione. Ciò costituisce un argomento significativo nelle relazioni politiche tra la Lettonia e l’Unione europea.

Richard Charles Mole (2006)




Lituania

Il cammino della Lituania verso l’Unione europea

La Lituania fu annessa con la forza all’Unione Sovietica nel 1940 e successivamente fu occupata dalla Germania dal 1941 al 1944. Nel 1944 l’Unione Sovietica riaffermò il proprio dominio, sebbene non riconosciuto dalla maggior parte degli Stati occidentali. Durante il periodo sovietico in Lituania, data la presenza di infrastrutture comparativamente buone e di manodopera qualificata, furono costituiti grandi complessi industriali. Malgrado la mancanza di risorse naturali, fu sviluppato il settore dell’energia, particolarmente in campo nucleare. Altri settori di rilievo erano l’agricoltura e l’industria alimentare.

Nel 1989 la pressione da parte della popolazione costrinse il partito comunista a indire libere elezioni che furono vinte dal movimento nazionalista Sajūdis. Il Consiglio supremo proclamò l’indipendenza l’11 marzo. Dopo violenti scontri con le truppe sovietiche durante il 1990, più del 90% della popolazione votò per l’indipendenza in un referendum tenuto nel febbraio 1991. L’Unione Sovietica riconobbe l’indipendenza lituana nel settembre 1991 e le ultime truppe russe lasciarono il paese nel 1992.

Dalla proclamazione dell’indipendenza nel 1990 la Lituania ha perseguito attivamente una strategia di rafforzamento dei suoi legami politici, economici e sociali con l’Unione europea e di consolidamento della sua sicurezza e stabilità nelle strutture transatlantiche.

Le relazioni diplomatiche tra la Lituania e la Comunità europea (v. anche Comunità economica europea) furono avviate il 27 agosto 1991, allorché i paesi dell’UE riconobbero ufficialmente l’indipendenza lituana. L’11 maggio 1992 la Lituania e la CE firmarono il Trattato di cooperazione economica e commerciale che entrò in vigore il 1° febbraio 1993. Fu altresì firmata la dichiarazione sul Dialogo politico lituano-CE che formalizzò le relazioni politiche tra i vari paesi.

Uno degli episodi cruciali nelle relazioni tra Lituania e la CEE fu la firma dell’Accordo per il libero scambio, rispetto al quale, il 7 febbraio 1994 il Consiglio dei ministri della CEE confermò l’incarico ufficiale alla Commissione europea di procedere nei negoziati sugli accordi per il libero scambio con i paesi baltici. Tale mandato significava l’assenso alla conclusione degli Accordi europei di Associazione con la Lituania e altri paesi baltici, che a loro volta avrebbero rappresentato una fase intermedia verso l’Adesione all’Unione europea. Uno dei significati storici di tale fase consisteva nel riconoscimento di uno status differente per i paesi baltici rispetto a quello di altre ex repubbliche sovietiche, creando in questo modo le premesse per una loro più rapida integrazione nelle strutture e nei mercati occidentali.

L’accordo sul libero scambio e sulle questioni commerciali tra la Lituania e le Comunità europee fu firmato il 18 luglio 1994, e alla fine dello stesso anno furono avviate le trattative per la firma di un accordo sull’adesione associata.

Dopo circa sei mesi di negoziati, il 25 giugno 1995, la Lituania e la CEE firmarono l’Accordo europeo di associazione, confermato il 1° febbraio 1998. Questo completava ed estendeva l’obiettivo dell’Accordo di libero scambio.

Dopo essere divenuta membro dell’UE, la Lituania, unitamente ad altri stati baltici, centrali e orientali dell’Europa, si indirizzò verso una nuova fase di relazioni con l’UE. L’Accordo europeo riconosceva l’aspirazione della Lituania a divenire membro dell’UE e creava le condizioni per la partecipazione del paese alla Strategia di preadesione dei paesi candidati.

L’8 dicembre 1995 la Lituania presentò la sua candidatura all’Unione europea e il 19 gennaio 1996 il Consiglio dei ministri decise di applicare la procedura di cui all’articolo O del Trattato, secondo la quale la Commissione deve essere consultata. Nell’ambito della comunicazione dell’“Agenda 2000” (1997, p. 5) l’adesione della Lituania «era da considerarsi come parte di un processo storico, in cui i paesi dell’Europa centro-orientale avrebbero superato la divisione del continente durata per più di 40 anni, e si sarebbero uniti all’area di pace, stabilità e prosperità creata dall’Unione».

Tuttavia, il Summit di Lussemburgo del dicembre 1997 adottò la decisione di avviare i negoziati riguardanti la partecipazione con soli sei paesi (Repubblica Ceca, Estonia, Cipro, Polonia, Slovenia e Ungheria) dividendo così il processo di Allargamento dell’UE e i paesi candidati in due “ondate”. La Lituania, secondo le conclusioni e le raccomandazioni della Commissione (v. anche Raccomandazioni), insieme a Lettonia, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Malta, fu inserita nel secondo gruppo di paesi candidati che non erano pronti per l’avvio dei negoziati. Comunque i responsabili lituani si dichiararono in disaccordo con tale decisione, definendola come “politica” e basata su informazioni superate e imprecise. Essi affermarono che la Lituania aveva conseguito i criteri di stabilità politica e raggiunto il successo nel definire il programma di riforme economiche e nell’armonizzare la legislazione con quella dell’UE (vedi Henderson, 1999, p. 265). La reazione della Commissione fu quella di assicurare ai paesi esclusi che essi avrebbero potuto prendere parte ai negoziati non appena avessero raggiunto un sufficiente progresso economico-politico, e di fornire loro assistenza finanziaria e tecnica per soddisfare i criteri della Commissione.

Progressi nel processo di adesione

Come risultato delle elezioni presidenziali tenutesi nel dicembre 1997 e nel gennaio 1998, un nuovo Presidente, Valdas Adamkus, fu insediato il 26 febbraio 1998. Il trasferimento del potere ebbe luogo senza scossoni e in accordo con la legge. Un minore rimpasto governativo si ebbe nel marzo 1998. L’ingresso della Lituania nell’UE continuò a essere considerato dal governo come una priorità politica.

Nel marzo 1998 la Lituania presentò una prima versione del proprio Programma nazionale per l’adozione dell’Acquis comunitario (NPAA) che descriveva più nel dettaglio le azioni necessarie per raggiungere gli obiettivi previsti dal Partenariato per l’adesione. All’inizio del 1999, fu completata la prima fase multilaterale e l’esame analitico dell’acquis. Durante la fase multilaterale, la Commissione europea informò la Lituania circa i requisiti della normativa secondaria UE (v. anche Diritto comunitario). Durante la fase bilaterale o il periodo di identificazione dei problemi (marzo 1999 – febbraio 2000) la commissione esaminò quante normative UE erano già state trasposte nella legislazione nazionale lituana e quali problemi la Lituania aveva incontrato durante la trasposizione o l’implementazione di tali leggi. Nel giugno 1999, il governo lituano approvò la Strategia economica di medio termine nell’ambito dell’integrazione nell’UE (v. Integrazione, metodo della). Nella metà del 1999, venne essenzialmente completata la creazione di un quadro legislativo e della principale infrastruttura istituzionale mirati a definire e rafforzare l’acquis nell’Area del Mercato unico europeo. Fu sostanzialmente incrementato l’aiuto per la preadesione. Parallelamente al programma PHARE, dall’anno 2000, tale aiuto incluse quello all’agricoltura e un fondo strutturale che diede priorità a misure simili a quelle del Fondo di coesione nel settore ambientale e dei trasporti.

Nel 1999 la Lituania venne finalmente invitata ai negoziati per l’adesione, insieme agli altri paesi appartenenti al cosiddetto 2° gruppo (Lettonia, Slovacchia, Romania e Bulgaria). Il 15 febbraio 2000, la Lituania iniziò le trattative per l’ingresso nell’UE. Questi negoziati includevano 31 capitoli che spaziavano dall’agricoltura alle telecomunicazioni.

Il 28 marzo 2000 il Capo negoziatore Vygaudas Ušackas, viceministro per gli Affari esteri della Lituania, presentò all’UE la prima serie di otto documenti riguardanti la posizione della Lituania, iniziando così, di fatto, i negoziati. Alla fine del 2000, il governo lituano approvò le posizioni del paese su tutti i capitoli.

Nel novembre 2000, la Commissione concludeva che «la Lituania ha compiuto progressi soddisfacenti nell’ottemperare alle priorità di breve termine per l’Adesione all’Unione, specialmente rispetto alle riforme economiche. Tuttavia, in alcune aree quali l’agricoltura, la politica fiscale, la capacità amministrativa (inclusi la gestione e il controllo dei fondi CEE), si richiedono ulteriori progressi. La Lituania ha già iniziato a dedicarsi a un certo numero di priorità per l’adesione all’Unione». (Vedi Relazione periodica, 2000, p. 99).

Dopo un anno, la Commissione dichiarò che la Lituania aveva compiuto soddisfacenti progressi nel far fronte alle priorità di breve termine e, in misura minore, a quelle di medio termine per l’adesione all’Unione. In particolare, la Lituania «aveva ampiamente fatto fronte a diverse priorità di breve termine, concernenti criteri economici, mercato interno, energia e ambiente». La Commissione precisò che restavano da affrontare alcune priorità a breve termine, specialmente in materia di agricoltura, e che la Lituania, pur avendo parzialmente adempiuto alla maggior parte delle priorità di medio termine, avrebbe dovuto compiere ulteriori sforzi per quanto concerneva la gestione e il controllo dei fondi CEE (vedi Relazione periodica, 2001, p. 111).

I negoziati con la Lituania per la partecipazione si conclusero ufficialmente al summit di Copenaghen nel dicembre 2002. La Commissione europea, nella sua Relazione periodica (2001, p. 140) concludeva che 28 capitoli si erano per il momento conclusi e che la Lituania aveva in generale fatto fronte agli impegni presi durante i negoziati. Secondo la Commissione, si erano verificati alcuni ritardi in materia di pesca (il completamento del registro delle navi da pesca), nei rilevamenti statistici (per il censimento agricolo) e l’ambiente (la legislazione sugli imballaggi e sui biocidi). Tali questioni dovevano ancora essere affrontate.

Malgrado quei ritardi, la Commissione concluse che: «tenendo conto dei progressi fatti sin dall’emissione del Parere, il livello d’allineamento e di capacità amministrativa raggiunti dalla Lituania fino a questo punto, e il track record della Lituania nel far fronte agli impegni assunti durante i negoziati, la Commissione giudica che la Lituania sarà in grado di assumersi gli obblighi inerenti alla partecipazione in accordo con i tempi previsti. Durante il periodo che la condurrà all’adesione, la Lituania dovrà procedere nei preparativi, in linea con gli impegni assunti nel corso dei negoziati per l’adesione stessa» (ibid.).

Nel 2002 la Lituania si classificò sesta tra i paesi in attesa di adesione e prima fra i tre stati baltici. L’UE contribuì per quasi il 50% del commercio estero della Lituania, distinguendosi come il primo partner commerciale del paese. Il commercio bilaterale era principalmente costituito da prodotti tessili, materiali di trasporto, prodotti chimici, energia e macchinari. Nel 2002, le importazioni UE arrivarono a 2,7 miliardi di euro e le esportazioni a 4 miliardi di euro, con un conseguente residuo attivo di 1,3 miliardi di euro (Commissione europea, 2004).

Il Trattato di adesione fu firmato dal primo ministro Algirdas Brazauskas e dal ministro degli Esteri, Antanas Valionis ad Atene, il 16 aprile 2003. Nel referendum dell’11 maggio 2003, i cittadini della Lituania votarono per il 90,07% a favore dell’adesione all’UE. Infine, il 1° maggio 2004, la Lituania diventò membro a pieno titolo dell’Unione europea insieme ad altri nove paesi (Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia).

Le tappe future

Pur essendo membro a pieno titolo dell’UE, l’integrazione non si è ancora completata in ogni settore: sono numerosi i periodi di transizione come, ad esempio, quello relativo alla Libera circolazione delle persone e alle restrizioni sull’acquisto di terreni da parte di stranieri, o in merito al diritto a mantenere accise più basse sulle sigarette (una lista completa di tutti i periodi di transizione può essere trovata su: www.euro.lt). Inoltre, diventando un membro dell’UE, la Lituania non è diventata automaticamente membro dell’Eurozona o dello spazio Schengen. Per divenire parte di queste due aree, la Lituania doveva qualificarsi in modi separati, soddisfacendo un certo numero di condizioni (giungere al criterio di convergenza per l’Euro e dimostrare di essere in grado di proteggere i comuni confini esterni per Schengen). L’introduzione dell’euro è uno degli obiettivi della politica economica della Lituania dopo la cui attuazione al paese sarà permesso di trarre tutti i benefici offerti dalla politica economica e monetaria europea.
Passi importanti verso l’introduzione dell’euro furono già fatti con l’ancoraggio del litas all’euro e con l’adesione della Lituania all’ERM II. Tramite la partecipazione all’ERM II, la Lituania si è impegnata unilateralmente a mantenere un regime di cambio fisso e un tasso di cambio stabile del litas nei confronti dell’euro. Anche se una data esatta per l’introduzione dell’euro in Lituania non è ancora fissata, i preparativi connessi con l’adeguamento del diritto nazionale, la sensibilizzazione del pubblico, la preparazione per la sostituzione del contante, l’Armonizzazione delle operazioni di politica monetaria e le altre aree vengono effettuate gradualmente.

La Lituania, dopo aver regolato con successo il proprio sistema nazionale di informazione e completate le operazioni di preparazione, è diventato membro dello spazio Schengen il 21 dicembre 2007. Come risultato il controllo delle frontiere marittime e terrestri è stato abolito. Il controllo delle frontiere aeree è stato rimosso del marzo 2008 in considerazione dell’introduzione dei nuovi piani di volo.

Box 1→ Banca della Lituania

Box 2→ Il Comitato Europeo sotto il Governo della Repubblica di Lituania

Box 3→ Radio e Televisione nazionale lituana (Lietuvos nacionalinis Raijas ir Televizija, LRT)

Il consenso politico riguardo l’adesione

I partiti lituani mostrarono un alto livello di consenso politico rispetto alla questione dell’integrazione europea. Tale consenso fu raggiunto dopo che varie politiche alternative fallirono nel soddisfare i requisiti della sicurezza nazionale, inclusi la capacità di proteggere i vitali interessi del paese, di mantenere l’integrità territoriale e di risolvere problemi potenzialmente destabilizzanti come il declino economico, l’inquinamento ambientale, ecc. (v. Lane, 2001).

Tuttavia, vi era un movimento euroscettico (v. Euroscetticismo) che si opponeva all’ingresso nell’UE poiché pregiudicava, secondo i suoi sostenitori, l’indipendenza e la cultura nazionali. Questo punto di vista in qualche misura si rispecchiava nei risultati di una ricerca condotta con regolarità fin dal 1997 dal Centro di Ricerca sull’opinione pubblica “Vilmorus”. Nel sondaggio veniva rivolta tale domanda: «Se oggi venisse indetto un referendum sull’adesione della Lituania all’Unione europea, come voteresti: “pro” o “contro”?». Benché all’inizio del 1997 il sondaggio rivelasse il numero più basso di euroscettici (soltanto l’11% delle risposte rispetto al 49% che si dichiaravano a favore dell’adesione), alla fine del 1999 il numero di euroscettici (35%) superò quello di coloro che avrebbero votato a favore (29%). Questo poteva spiegarsi con la sfavorevole percezione in Lituania delle raccomandazioni dell’UE circa la separazione in due “ondate” dei paesi candidati all’adesione.

Nel 2000 tuttavia, la percentuale di eurofavorevoli superò nuovamente quella degli euroscettici, malgrado quest’ultima avesse raggiunto in alcuni mesi il 54%.

Ciò trovava una spiegazione nell’intensa campagna d’informazione indirizzata alla popolazione, e con la crescita di nuove forze politiche che spingevano per l’adesione della Lituania nell’UE. La diminuzione di eurottimismo che si verificò alla fine del 2001 si può interpretare come conseguente alle difficoltà del periodo di trattative, allorché vennero avviate discussioni sul futuro dell’agricoltura (il problema dei pagamenti diretti), sul permesso agli stranieri di acquistare terreni a scopo agricolo, e sulla chiusura dell’impianto di energia nucleare di Ignalina. Successivamente la situazione si stabilizzò e, dalla primavera del 2002, la percentuale dei favorevoli all’adesione è stata costantemente superiore al 50% (v. Gaidys, 2002, p. 1-3).

Dopo i primi 5 anni di adesione all’UE, i lituani continuano a dimostrare progressivamente il loro supporto all’Unione europea e senso di appartenenza della Lituania all’Unione (71% nel dicembre 2010). L’impatto dell’adesione si considera molto positivo, soprattutto per quanto riguarda l’economia del paese e il controllo sull’inflazione (www.euro.lt).

Jolanta Stankeviciute (2008)




Lussemburgo

La superficie ridotta del Granducato del Lussemburgo (2586 Km²) e la modesta cifra della sua popolazione giustificano, agli occhi di alcuni, l’opinione che si tratti di una “non nazione” (“Le Monde”, 9 luglio 1991), di un “non country”. Ma dalla sua indipendenza (1839) questo piccolo Paese ha affermato la sua posizione in Europa, non senza andare incontro a numerose vicissitudini.

Alla fine della Seconda guerra mondiale la situazione può essere caratterizzata come segue: il Lussemburgo, Paese la cui neutralità è garantita dal 1867, è stato legato alla Germania attraverso lo Zollverein e un’unione ferroviaria fino al 1918. In seguito alla sconfitta tedesca forma l’Unione economica belga-lussemburghese (UEBL) con il Belgio (1921), e ottiene, come la Svizzera, il riconoscimento di uno status particolare, legato alla sua neutralità, in seno alla Società delle Nazioni (1920).

Sul piano economico, il settore primario occupa un posto importante, ma i problemi che deve affrontare a partire dagli anni Venti sono considerevoli. Avendo beneficiato a lungo del protezionismo dello Zollverein, non ha avviato alcuna ristrutturazione nel momento in cui l’UEBL lo pone nell’incapacità di fronteggiare la concorrenza belga. Sostenuto grazie ai sussidi accompagnati da misure protezionistiche, porrà seri problemi – come del resto la viticoltura che ha però intrapreso la riconversione – al momento di negoziare i Trattati di Roma che istituiscono la Comunità economica europea (CEE).

Il settore secondario è dominato dalla siderurgia, che è gestita da due grandi società: la Société anonyme des aciéries réunies de Burbach-Eich-Dudelande (Arbed) e la Société anonyme des hauts fourneaux et aciéries de Differdange, Saint-Ingbert et Rumelange (Hadir). Il peso di questo settore nell’economia è tale da poter parlare di un monolitismo dell’economia lussemburghese. La trasformazione di «un paese rurale povero in un paese altamente industrializzato» (v. Trausch, 1992, p. 89), lo espone al tempo stesso ai rischi della congiuntura internazionale.

La siderurgia lussemburghese, che oggi è passata sotto il controllo di Mittal Steel, non solo dipendeva dalla situazione internazionale, ma doveva anche venire a patti con le siderurgie dei suoi vicini grandi e piccoli: da una parte il Belgio, dall’altra la Francia e la Germania. In questo contesto è necessario sottolineare il ruolo svolto da Emile Mayrisch, proprietario dell’Arbed, nella prospettiva di un riavvicinamento franco-tedesco nel quadro del cartello internazionale dell’acciaio (EIA, 1926), che riuniva, oltre la Saar, cinque dei sei futuri membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), in quanto solo l’Italia non ne faceva parte.

Situato tra Francia, Germania e Belgio, il Lussemburgo mostra in settori diversi da quello economico la sua capacità di realizzare la sintesi delle influenze esercitate dai suoi vicini, conferendo al tempo stesso un carattere peculiare alla commistione che ne deriva. Sul piano linguistico il francese, lingua dell’amministrazione e della cultura, convive con un dialetto tedesco, il mosellano-francone o lussemburghese, che è parlato dalla popolazione. Nella legislazione il Lussemburgo si è ispirato ai modelli belgi e francesi dell’Ottocento, sul piano del diritto e della politica, facendo riferimento anche alla Germania per la vita economica e la legislazione sociale. In questo senso, pur sviluppando nel corso del tempo una forte identità nazionale, il Paese è diventato in certo qual modo una sintesi dell’Europa nordoccidentale.

Sul piano internazionale ed europeo questo piccolo Paese, il cui motto (“Mir wëlle blaive wat mir sin” / “Vogliamo restare quello che siamo”) caratterizza bene la sua forte identità, è anche un ottimo esempio del modo in cui i piccoli Stati sono stati indotti a tener conto dell’interdipendenza, di cui prende consapevolezza in seguito alla Seconda guerra mondiale.

Il 10 maggio 1939, in seguito alla violazione della sua neutralità, il Lussemburgo è germanizzato e integrato nel III Reich. Ottiene di essere considerato un Paese alleato durante l’esilio della sovrana e di una parte del governo in Canada e dell’altra parte a Londra. In altri termini, ottiene la garanzia del ristabilimento della sua indipendenza dopo la guerra. Ma nel periodo bellico Londra e Washington manifestano il desiderio di vedere raggruppati questi piccoli paesi, che Winston Churchill riteneva fossero stati dei «fomentatori di guerra» dopo i trattati seguiti alla Prima guerra mondiale. In questo contesto le autorità lussemburghesi in esilio si avvicinano agli altri governi rifugiati a Londra. Fra questi, quelli belga e olandese occupano una posizione di primo piano fra i partner suscettibili di elaborare modi di cooperazione destinati a dimostrare agli americani e ai britannici la loro capacità di organizzarsi su base volontaria.

Animato dalla costante «preoccupazione di armonizzare la sua azione con quella delle nazioni che riconoscono il principio della sua sovranità e i diritti che ne derivano», il governo lussemburghese in esilio deve evitare due scogli pericolosi. Nel 1941 Joseph Bech, ministro degli Esteri del Granducato dal 1926 al 1959, mette in guardia contro un pericolo in agguato: «Da una parte cadere nell’oblio a causa della nostra modestia, dall’altra sembrare importuni, mettendoci eccessivamente in mostra» (Heisbourg, p. 339-340). Su questa base Bech, sempre nel 1941 aggiunge a proposito dell’Europa del futuro: «Una cosa certa è che i Paesi neutrali nel senso in cui lo eravamo noi, non avranno più spazio. Il nostro Paese dovrà assumersi dei doveri in cambio dei vantaggi di cui beneficerà. La neutralità è morta definitivamente. È interessante seguire le discussioni […] sul nuovo ordine politico e sociale del dopoguerra […]. Questo ordine non sarà né quello […] che ci lasciamo alle spalle, né quello che Hitler vorrebbe imporre al mondo». E conclude: «Comunque vada, vedo per il nostro Paese la possibilità di compiere una missione utile» (v. Heisbourg, p. 340). A partire dal 1942, Bech precisa le grandi linee del suo pensiero europeo, che possono essere sintetizzate in questi termini: «1. Essendo dei buoni lussemburghesi, vogliamo essere dei buoni europei. 2 Siamo pronti a rinunciare alla nostra sovranità nazionale nella misura in cui la nuova struttura internazionale lo esigerà dalle nazioni europee nell’interesse di tutti. 3 L’organizzazione dell’Europa non potrà mai essere realizzata senza che grandi e piccoli rinuncino a certi diritti sovrani nell’interesse comune. 4 Gli utopisti di oggi […] sono i realisti di domani perché permettono all’esperienza e ai valori morali e spirituali di assumere il loro autentico significato» (v. Heisbourg, p. 342).

Sul piano pratico le convinzioni di Bech si traducono in un riavvicinamento significativo al Belgio e ai Paesi Bassi nel quadro degli accordi che gettano le basi del Benelux. I tre governi non partono dal nulla: nel solco della conferenza economica internazionale del 1927 avevano concluso il Patto di Oslo (1930) con i quattro paesi dell’Europa settentrionale – Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia – che un giorno avrebbero formato il Consiglio del Nord. Dopo aver lavorato alla ricerca di soluzioni multilaterali e bilterali destinate a combattere gli effetti disastrosi della crisi sul piano del commercio internazionale, i sette membri del gruppo di Oslo si preoccupano anche della cooperazione politica. Olandesi e belgi inaugurano così una stretta collaborazione nel quadro delle commissioni miste che si dedicano all’esame di problemi in genere spiccatamente tecnici.

L’esperienza dei tempi di crisi fu di grande aiuto nel periodo della guerra. Belgi, olandesi e lusemburghesi negoziano e firmano a Londra il 21 ottobre 1943 un accordo monetario considerato un’innovazione sul piano tecnico e politico. Esprimendo la convinzione dei partner che «l’organizzazione dell’Europa occidentale non è possibile se non mediante un allargamento graduale» (Bech, 26 marzo 1943), l’accordo monetario è concepito come una tappa. Nella primavera del 1943, in effetti, i tre partner negoziano l’istituzione di una convenzione doganale, che viene firmata il 5 settembre 1944. Essa crea una comunità tariffaria fra i tre paesi, prevede la futura creazione di un’unione economica, istituisce tre organi comuni: un consiglio amministrativo delle dogane, un consiglio per gli accordi commerciali e, secondo la terminologia adottata nel 1946, un consiglio dell’unione economica incaricato dell’amministrazione e dell’esecuzione della regolamentazione comune del commercio estero.

A partire dal 1944 e più ancora dal 1946, data della prima riunione del Consiglio dei ministri del Benelux, i tre membri danno prova di una grande capacità di cooperazione nella prospettiva di sviluppare un’interazione tra la costruzione di un mercato interno e i rapporti di forza internazionali. Senza cadere in un eccesso di semplicismo, dato che talvolta per una serie di motivi si manifestano anche forti resistenze, il Benelux costituisce un’esperienza decisiva. L’Unione economica e monetaria riveste una dimensione politica importante per il semplice fatto della necessità di mettersi d’accordo sui numerosi progetti di cooperazione, addirittura di integrazione dell’Europa occidentale che si moltiplicano nell’immediato dopoguerra. Questa concertazione comporta contatti costanti, la definizione di posizioni comuni, in breve l’emergere di una cultura specifica che non si inscrive solo nella tradizione diplomatica. Dalla CECA ai Trattati di Roma i tre paesi, non senza manifestare tavolta delle divergenze, dimostrano una grande capacità di azione comune. Sotto questo aspetto è esemplare il memorandum Benelux presentato alla Conferenza di Messina nel 1955 per contribuire al rilancio del negoziato paralizzato dopo il rifiuto del progetto di trattato istitutivo di una Comunità europea di difesa (CED), che implicava in prospettiva anche una Comunità politica europea (CPE). Abile e audace, il documento propone l’Unione doganale e il mercato comune, da una parte, e l’elaborazione di una politica comune in materia di uso pacifico dell’energia nucleare, dall’altra. Lasciando la scelta fra i due progetti, che non pregiudicano l’organizzazione istituzionale da creare, il memorandum invita implicitamente ad impegnarsi sulla strada dell’integrazione sopranazionale, senza far mostra di voler imporre qualcosa ai paesi più grandi. Il principio esposto da Bech nel 1941 trova in questo documento la sua perfetta illustrazione.

I tre paesi del Benelux, inseriti in un movimento che si può definire di dialettica fra preoccupazioni “interne” ed europee, hanno elaborato al momento della firma dei Trattati di Roma una cooperazione che, senza poter essere qualificata come una politica estera comune, ha nondimeno innovato profondamente in rapporto alle prassi abituali. La Commissione di coordinamento delle questioni politiche (COCOPO), creata nel 1950 fra Bruxelles, L’Aia e Lussemburgo, va oltre la lettera degli accordi Benelux limitati alle materie economiche, commerciali e monetarie internazionali, poiché approda, per esempio, a rappresentanze combinate degli interessi degli uni e degli altri, concepiti così come interessi comuni, o ancora a ricoprire a rotazione i seggi nelle organizzazioni internazionali. Una prassi che sarà all’origine della posizione molto più recente dei tre paesi in merito alla possibilità di essere rappresentati da un unico commissario all’interno dell’esecutivo comunitario (v. Commissione europea).

Quanto si è detto finora, non deve comunque nascondere il fatto che le convinzioni espresse durante la guerra dal governo lussemburghese l’hanno condotto ad agire con ingenuità dopo il 1945. Tradotta in diritto in occasione della revisione della Costituzione (1948), la rinuncia alla neutralità fa entrare il Lussemburgo in un’era nuova. Deve confrontarsi con la difficoltà, per un paese tanto piccolo, di fronteggiare l’obbligo di disporre di un numero sufficiente di agenti diplomatici, di funzionari e di esperti capaci di assumere la rappresentanza del paese nelle istanze internazionali ed europee, ma non manca di difendere sia i suoi interessi che quelli dell’Europa. Sostenuto, secondo le parole di un diplomatico francese, dal «prudente, intelligente e abile» Bech «osservatore imparziale delle cose europee» (v. Brouwer, p. 509), il Lussemburgo dimostra la sua capacità di ottenere sia delle misure di favore – cioè delle deroghe alle regole generali – sia di cavarsela abilmente proponendo soluzioni a situazioni che appaiono inestricabili.

Nel primo caso il Lussemburgo beneficia di eccezioni che riguardano sia il settore agricolo (clausola di salvaguardia abolita nel 1970), sia la libera circolazione delle persone sia la fiscalità. In questo caso l’espansione dell’attività bancaria della piazza di Lussemburgo a beneficio di numerose imprese e cittadini, soprattutto comunitari, spiega ampiamente gli strappi alla regola. Nel secondo caso, l’esempio più celebre è quello della designazione del Lussemburgo come “sede provvisoria” dell’Alta autorità della CECA nel 1952. I cinque partner del Belgio nella CECA erano favorevoli alla scelta di Bruxelles. Tuttavia il ministro belga degli Esteri, essendo tenuto per obbligo a difendere la candidatura di Liegi, si oppone. Di fronte a questa situazione di stallo, l’abile Bech propone la sua soluzione “provvisoria”, con l’installazione dell’Alta autorità nella sede dell’Arbed a Lussemburgo. È una soluzione che senz’altro riaprirà il dibattito sulla sede, ma intanto offre alla città di Lussemburgo visibilità, uno spazio economico e uno sviluppo culturale che nemmeno i più ottimisti avrebbero potuto sognarsi in altre circostanze.

Ma se il Lussemburgo riesce a cavarsela brillantemente grazie alle eccezioni concesse dai suoi partner e ai vantaggi ottenuti per l’abilità dei suoi rappresentanti, resta il fatto che la questione essenziale è la sua rappresentanza nelle istituzioni. A questo proposito, sia nella Commissione europea che nel Consiglio dei ministri e nell’Assemblea comune, poi Parlamento europeo, il Lussemburgo beneficia di una superrappresentanza in rapporto al suo peso demografico. Nel corso del tempo e degli allargamenti questa superrappresentanza, che gli ha permesso di esercitare un’influenza discreta ma reale, è fortemente diminuita. Il timido “sì” dei lussemburghesi al progetto di trattato costituzionale nel 2005 è stato, insieme ad altri fattori, il segno del loro timore di non “pesare” più niente nell’Europa che all’epoca era quella dei Venticinque.

Questo timore si era già espresso in occasione di precedenti allargamenti (v. Trausch, p. 208). Certo, la costruzione europea ha rafforzato l’apertura del paese all’Europa e al tempo stesso ha anche fortemente rinvigorito la nazione lussemburghese. Il paradosso è solo apparente. Come diceva il negoziatore lussemburghese alla conferenza di Val Duchesse in cui si elaboravano i Trattati di Roma: «Non accetteremo mai che la costituzione del Mercato comune comporti la scomparsa del nostro Stato» (v. Trauch, p. 212). Ma da qui a pretendere che il Lussemburgo non abbia mai smesso di considerare la costruzione europea dal solo punto di vista dei suoi interessi nazionali, compreso quello delle banche che vi si sono stabilite, sarebbe eccessivo. Le presidenze lussemburghesi della Comunità e poi dell’Unione europea (UE) dimostrano il contrario. L’Atto unico europeo è stato preparato e firmato sotto la presidenza lussemburghese (dicembre 1985). Il rapporto che è servito di base al Trattato di Maastricht è stato elaborato in occasione di un’altra presidenza (giugno 1991) (v. anche Presidenza dell’Unione europea). E da Bech a Jean-Claude Juncker passando per Pierre Werner, Gaston Thorn e Jean Jacques Santer, per non citarne che alcuni, le personalità politiche lussemburghesi che hanno dimostrato di essere dei “buoni lussemburghesi e dei buoni europei” sono in proporzione numerose. Ma questa doppia fedeltà alla nazione e all’Europa non sarà il segno che «il Lussemburgo sta diventando una società multiculturale su un fondo comune di civiltà europea?”» (v. Trausch, p. 236).

Michel Dumoulin (2004)




Malta

Storia delle relazioni tra Malta e Comunità/Unione europea

Malta ottenne l’indipendenza il 21 settembre 1964 dopo 150 anni di dominio britannico, proprio l’anno in cui entrò in vigore l’attuale Costituzione. Malta allora aderì al Consiglio d’Europa e alle Nazioni Unite. L’isola rimase membro del Commonwealth e la regina inglese continuò a essere il capo di Stato simbolico. Il futuro di uno Stato indipendente maltese dipendeva dall’economia. Era necessaria una completa ristrutturazione economica per renderla meno dipendente dalle spese inglesi per la difesa e al contempo una diversificazione per allentare la dipendenza dagli scambi con l’ex colonizzatore. I due partiti principali che tuttora dominano la scena politica erano il Partito laburista maltese (o Partit laburista, PL) e il Partito nazionalista (o Partit nazzjonalista, PN). Avendo scalzato il PL alle elezioni del 1962, il PN iniziò a sviluppare un’economia basata sul turismo. Dopo le elezioni del 1971, quando venne eletto Dom Mintoff del PL come primo ministro, le relazioni strette con il colonnello libico Gheddafi assicurarono a Malta ingenti aiuti economici.

Considerata la disastrosa situazione economica, la sua posizione periferica, la mancanza di materie prime e un mercato interno di meno di 400.000 persone, Malta cominciò a muovere i suoi primi passi verso lo sviluppo di relazioni con il blocco europeo di allora, la Comunità economica europea (CEE), costituita nel 1957. Sebbene il PN avesse firmato nel 1970 un accordo di Associazione con la CEE come primo passo verso l’adesione a pieno titolo all’organizzazione (v. De Battista, 2006), Dom Mintoff era interessato ad allargare la portata dell’accordo. L’amministrazione del PL riteneva l’accordo uno strumento economico piuttosto che una dichiarazione politica.

Nel 1974, la Costituzione venne riformata e Malta diventò una Repubblica con il suo primo presidente (Sir Anthony Mamo). Sebbene Mintoff fosse stato un tempo sostenitore dell’integrazione con il Regno Unito, egli perseguì una politica estera di non allineamento e rinominò la sterlina maltese “lira”. Tuttavia, l’arcipelago maltese dipendeva ancora da una presenza straniera a Malta; forniva all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) una base militare e la Gran Bretagna era ancora presente militarmente. L’accordo militare con la Gran Bretagna terminò nel 1979 e Mintoff, per liberarsi per sempre da occupazioni straniere, stabilì una clausola di neutralità nella costituzione. Allo scopo di garantire una protezione militare per la Neutralità di Malta, negoziò un accordo con l’Italia che avrebbe offerto assistenza finanziaria e intervento militare nel caso in cui Malta fosse stata minacciata (un accordo ancora valido). Nel 1981, il primo ministro Mintoff propose un’«unione più stretta» e chiese alla CEE un nuovo accordo che avrebbe portato a una «particolare relazione tra Malta e la CEE» e a un impegno maggiore da parte della CEE in materia finanziaria, economica e politica. Tuttavia, la CEE non approvava ciò che considerava l’erosione della democrazia a Malta come conseguenza del governo autocratico di Mintoff né vedeva di buon occhio i forti legami di Mintoff con la Libia. Forse erano poco apprezzate le intenzioni di Mintoff di ottenere il meglio da entrambi i mondi nello scenario della Guerra fredda. Mintoff entrò anche in contrasto con la Chiesa cattolica.

Nel 1984, il PN salì al potere e tentò di stabilire nuovi e più stretti legami con gli Stati Uniti e con l’Europa occidentale. Nel 1987, Malta venne dichiarata uno Stato neutrale e non allineato, senza alcuna base militare o interferenza straniera. Il governo di Eddie Fenech Adami attuò ampie riforme economiche che stimolarono la crescita. Nel luglio 1990, il PN propose la candidatura di Malta alla CEE. Questo fu un importante cambiamento politico per l’arcipelago maltese, che fino a quel momento non aveva perseguito l’obiettivo dell’adesione a pieno titolo alla CEE. Nel 1993, la Commissione europea pubblicò una Relazione contenente un parere favorevole (aggiornata nel febbraio 1999). Il summit UE di Corfù nel giugno 1994 stabilì che la fase successiva dell’Allargamento dell’UE avrebbe coinvolto Cipro e Malta. In quel periodo si ottenne la piena occupazione, il turismo registrò il livello più alto mai raggiunto e Malta andò incontro a un boom economico che portò alla nascita di una nuova classe media, istruita e socialmente liberale. Il partito dei Verdi, Alternattiva Demokratika, (AD, Alternativa democratica) si presentò alle elezioni del 1992 con una piattaforma contenente preoccupazioni ambientali e diritti civili, ottenendo quasi il 2% dei voti, una percentuale che mantenne alle elezioni successive.

Adesione di Malta all’UE

Nel 1992, il PN ottenne una larga maggioranza e si impegnò in riforme economiche e fiscali. Tuttavia, quando a metà degli anni Novanta l’economia subì un rallentamento e fu introdotta l’impopolare IVA (imposta sul valore aggiunto), il PN perse il sostegno. Seguendo l’esempio del primo ministro britannico Tony Blair, Alfred Sant, leader del principale partito d’opposizione ed economista di Harvard, rinnovò l’immagine del PL secondo i principi del new labour e ottenne la vittoria alle elezioni del 1996. L’amministrazione laburista “congelò” la domanda di adesione di Malta alla CE adottando un’agenda di politica estera “graduale” e Sant portò avanti l’idea di una “Svizzera del Mediterraneo”. Il suo partito promosse un modello di associazione alla CE sull’esempio dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA). Il motivo principale per questa linea di politica estera era che un piccolo paese come Malta aderendo all’UE avrebbe presto perso la tanto faticosamente conquistata (nel 1979 per i laburisti) indipendenza “dallo straniero” per via delle direttive emesse da Bruxelles.

Il congelamento della candidatura maltese all’UE e l’imposizione di un bilancio rigoroso portò ai primi segni di divisioni all’interno del Nuovo partito laburista maltese. Le misure economiche di Sant colpirono duramente la classe operaia. Ciò portò il vecchio ed ex leader laburista Mintoff a un’azione di boicottaggio in parlamento votando contro vari disegni di legge. Con l’aumentare del malcontento all’interno del Nuovo PL, Sant non poté far altro che richiedere elezioni immediate nel settembre del 1998 che fecero ritornare il PN al governo. La domanda di adesione all’UE di Malta venne riattivata e i negoziati formali ebbero inizio nel 2000. Su 31 capitoli in totale di negoziato dell’Acquis comunitario, Malta ne aveva chiusi 20 alla fine del 2001, ma i restanti 11 comprendevano alcune delle questioni più spinose, in particolare i capitoli su tassazione, ambiente e concorrenza. Le parti più controverse dei negoziati sull’ambiente riguardavano la caccia degli uccelli e l’uso di trappole per la loro cattura, non perché questo fosse il problema ambientale principale del paese, ma perché la diffusione di queste attività come passatempo principale di migliaia di persone era tale da poter influenzare il risultato delle serrate competizioni elettorali a cui Malta era abituata. Forse il maggiore successo si ottenne sul capitolo sulla concorrenza, dove fu concesso di continuare a sovvenzionare l’industria cantieristica e di riparazioni navali statale ai tassi di allora per i primi quattro anni di adesione. Fu un’eccezione e la Commissione chiarì che non doveva essere considerato un precedente, poiché era stata compiuta alla luce della particolare importanza storica e politica che questa industria rivestiva per Malta. Nel complesso, il trattato di adesione sottoscritto, che prevedeva un finanziamento netto di 194 milioni di euro per i primi tre anni di adesione, era più che soddisfacente confrontato con quello di altri paesi candidati (v. anche Criteri di adesione).

L’adesione all’Unione europea (UE) fu il tema dominante della politica del paese fino al referendum svoltosi nel marzo 2003, che divise il paese ancora una volta in due fazioni che ricalcavano le divisioni di partito. Dopo i successi ottenuti al referendum sull’UE nel marzo 2003 e alle elezioni generali il mese successivo, il governo di centrodestra (PN) di Fenech Adami portò avanti ulteriori politiche di libero mercato. Malta entrò nell’UE il 1° maggio 2004.

Nel febbraio 2007 Malta seguì Cipro nel presentare la propria candidatura di adesione all’Euro entro il 2008. Il primo ministro Lawrence Gonzi presentò tale richiesta alla riunione dei ministri delle finanze svoltasi il 27 febbraio 2007 a Bruxelles. Nel 2007 il disavanzo pubblico di Malta era previsto essere pari al 2,4% del PIL, quindi al di sotto della percentuale del 3% stabilita dall’UE, e l’inflazione all’1,6%, più bassa della soglia fissata al 2,6%. Il tasso di inflazione aveva suscitato in precedenza alcune preoccupazioni, e alcuni temevano che la proposta di Malta sarebbe finita come la richiesta della Lituania nel 2006, che mancò l’obiettivo per 0,1 punti percentuali (la proposta della Lituania di adottare l’euro nel 2007 stata venne rifiutata). I tentativi compiuti dal governo maltese per ridurre il deficit pubblico, soddisfacendo il criterio principale dell’area dell’euro di non superare il 3% del PIL, andarono a scapito del debito pubblico che alla fine del 2006 si aggirava intorno al 70% del PIL, superando la soglia dell’UE del 60%. La percentuale era insolita rispetto a quella di altri nuovi Stati membri, tra cui solo l’Ungheria registrava livelli simili di debito, mentre la media di altri paesi dell’Europa centrale e orientale era di circa il 25%. Secondo alcuni analisti la regola del debito pubblico non era stata applicata rigidamente in precedenza nel caso dell’Italia, del Belgio e della Grecia. La decisone finale sia per quanto riguardava Malta che per Cipro fu presa al summit dei leader europei nel giugno 2007 e i due paesi entrarono nell’eurozona il 1° dicembre 2008.

Ruolo svolto dai partiti politici nel dibattito sull’UE

La rivalità storica tra il PN e il PL richiama le divisioni tra élites e lavoratori e tra la popolazione urbana e rurale, che in una certa misura sono ancora esistenti a Malta. La polarizzazione della politica maltese è profonda e comprende anche divisioni linguistiche. I due partiti sopraccitati sono gli unici partiti rappresentati in parlamento. Essi hanno le proprie reti televisive, le loro stazioni radio e i loro quotidiani nonché una rete di sezioni di partito e di comitati sparsi in tutta l’isola. Il Partito nazionalista possiede un canale televisivo, NET television, una radio, Raio 101, e recentemente ha creato un quotidiano online, “Maltarightnow”. Il Partito laburista possiede One TV (ex Super one television), Super one radio nonché il settimanale in uscita la domenica, il “KullHadd” e un quotidiano online al sito www.maltastar.com.

A dispetto della sua storica avversione all’adesione all’UE, il PL accettò il risultato del referendum del 2003, riconoscendo l’attrazione che questa sembrava esercitare soprattutto sui giovani, e modificò il suo orientamento passando dall’isolamento all’interdipendenza. Abbandonando il modello di Alfred Sant di una “Svizzera del Mediterraneo”, il partito adottò inizialmente un modello di “partenariato”, che indicava un rapporto di collaborazione più stretta con l’UE senza gli impegni e il carattere permanente dell’adesione. Ciò nonostante, il concetto di partenariato rimase astratto e difficile da comunicare, anche perché i portavoce della Commissione non nascosero il loro disinteresse verso un modello a cui bisognava ancora dare una forma specifica. In seguito, il PL dichiarò che se fosse salito al potere non avrebbe cercato in alcun modo di tener fuori Malta dall’UE, anche se ciò determinò uno scontro all’interno del partito e la minaccia di spaccature. Ciò, fortunatamente per il PL, non avvenne e fu emesso un documento di compromesso (approvato dal Congresso generale del partito) in cui si sosteneva che il partito, pur accettando la volontà del popolo, si impegnava a lottare contro le difficoltà derivanti dall’adesione. Il PL partecipato partecipò con successo alle elezioni per il Parlamento europeo, ottenendo il 60% dei seggi disponibili per Malta. Attualmente il partito è membro del Partito socialista europeo (PSE).

L’atteggiamento dell’opinione pubblica verso l’UE

In un sondaggio condotto nell’ottobre del 2004, sei mesi dopo l’adesione di Malta all’UE, una grande maggioranza di maltesi riteneva di poter mantenere o migliorare la propria situazione finanziaria e la qualità della propria vita. I risultati quindi indicavano che i maltesi pensavano di poter sostenere le sfide poste dalla ristrutturazione economica del paese. Ciò poteva anche riflettere la crescente importanza attribuita ai settori della vita non finanziaria, quali la qualità dell’ambiente, e al ruolo dell’UE nell’introdurre livelli qualitativi più alti in tali settori. L’età dei partecipanti al sondaggio influiva sulle percezioni relative alle prospettive della qualità della vita. Erano soprattutto gli appartenenti alle fasce d’età tra i 15 e i 24 anni che prevedevano un miglioramento della loro vita nel giro di un anno. Nel medio termine (5 anni), circa metà dei partecipanti riteneva che la propria situazione personale sarebbe migliorata. Tuttavia, dietro queste previsioni ottimistiche e in termini di aspettative a medio termine, traspariva un alto livello di pessimismo sulle prospettive future dell’economia del paese. I partecipanti compresi nella fascia d’età tra i 40 e i 54 anni erano i meno ottimisti riguardo alle loro prospettive di vita. E questo risultato rispecchiava le difficoltà che i campioni di età più matura prevedevano di dover affrontare a causa del cambiamento dell’ambiente di lavoro. La percentuale di maltesi che sosteneva di non sapere quale posizione avrebbe raggiunto nel giro di cinque anni era la più alta tra quella registrata negli allora 25 paesi membri dell’UE. In realtà, confrontando i sondaggi condotti nei 25 paesi membri, i partecipanti maltesi davano maggior rilievo alla situazione economica, ma esprimevano minore preoccupazione riguardo ad altre questioni quali per esempio la criminalità.

Dal sondaggio risultò che i maltesi ritenevano di avere un “modesto” livello di conoscenza dell’Unione europea. Tale percezione era collegata alle opinioni dei partecipanti riguardo all’adesione di Malta all’UE e i livelli più scarsi di conoscenza dell’UE erano percepiti dai contrari all’adesione. Tuttavia, alle domande sulle nozioni di base riguardanti l’UE, i partecipanti maltesi ottennero ottimi risultati rispetto a quelli raggiunti dai partecipanti degli altri 25 Stati membri. Le campagne di informazione condotte prima del fondamentale referendum sull’adesione all’UE del 2003 e le elezioni dei rappresentanti al Parlamento europeo del giugno 2004 suscitarono l’interesse della popolazione. Il basso livello di conoscenza “percepita” e il livello relativamente alto di “reale” conoscenza delle questioni fondamentali erano in netto contrasto. Ciò poteva in parte riflettere l’aspirazione dei maltesi a capire il funzionamento dell’UE nei dettagli. La televisione era di gran lunga la fonte più popolare di informazioni sull’UE, seguita dalla radio e dai quotidiani. Una classifica compilata in base all’età mostrava che la televisione era lo strumento più popolare per tutte le fasce, ma la meno popolare nella fascia compresa tra i 15 e i 24, che preferiva internet per ricercare informazioni sull’UE. Una suddivisione dei partecipanti in base alla loro professione indicava che tra gli studenti, internet era ancora più popolare della televisione. Il livello di informazione sulle istituzioni dell’UE risultava molto alto tra i partecipanti maltesi.

Dal sondaggio dell’ottobre 2004 emerse che la percentuale di partecipanti convinti che l’adesione di Malta all’UE avrebbe portato a uno sviluppo positivo del loro paese era diminuita dopo il picco massimo registrato nell’autunno del 2003. Tuttavia, questo calo non determinò un aumento della percentuale di coloro che ritenevano l’adesione all’UE dannosa per il paese. Al contrario, si verificò uno spostamento verso l’opinione che l’adesione avrebbe prodotto un effetto nel complesso neutro. Tale cambiamento rifletteva probabilmente una consapevolezza maggiore che le sfide del paese, in particolare quelle relative alle finanze pubbliche e alla concorrenza internazionale, non potessero risolversi soltanto con l’adesione all’UE. In quel momento, invece, sembrò che ci fosse una crescente accettazione del fatto che tali sfide richiedevano soluzioni all’interno del paese. Alla domanda su cosa pensassero dei progetti e delle politiche chiave dell’UE, i maltesi risposero che approvavano soprattutto l’insegnamento del funzionamento dell’UE ai bambini nelle scuole, una Commissione europea composta da Commissari di ogni Stato membro e un ulteriore allargamento dell’UE. Al pari di altri Stati membri, i maltesi espressero uno scarso sostegno all’idea che ci fosse un gruppo di paesi che procedeva con un ritmo più veloce rispetto ad altri alla costruzione dell’Europa. I maltesi furono anche i più incerti sulla possibilità di sostenere o meno l’unione monetaria, e ciò era dovuto a una mancanza di informazioni a questo riguardo in quel momento.

Per molti maltesi, l’UE significava soprattutto libertà di viaggiare, studiare e lavorare nonché avere più voce in capitolo nel mondo. Ciò rifletteva il desiderio di superare attraverso l’adesione all’UE alcuni degli svantaggi di vivere in un piccolo Stato isola, in particolare l’insularità. Inoltre essi associavano l’UE alla pace e alla democrazia. La percentuale di maltesi che erano convinti che l’UE fosse associata alla prosperità economica fu molto alta in confronto alla media degli allora 25 Stati membri. La maggior parte dei maltesi era anche convinta che la voce di Malta avrebbe contato nell’UE e che in futuro il paese avrebbe acquisito maggiore influenza nell’UE. Sul fronte internazionale, i maltesi ritenevano che l’UE avesse raggiunto ottimi risultati nella Lotta contro il terrorismo e in generale nelle relazioni esterne. Nel complesso, i maltesi espressero un livello di paura minore riguardo alla costruzione dell’Europa rispetto ai partecipanti degli altri 25 Stati membri. Come negli altri Stati membri, manifestarono un alto livello di preoccupazione riguardo al trasferimento di posti di lavoro verso i paesi con costi di produzione più bassi. Altra fonte di preoccupazione era l’aumento del traffico di droga e della criminalità organizzata internazionale, facilitato probabilmente dall’eliminazione dei controlli transfrontalieri e dalla Libera circolazione delle persone. Su un altro versante, i maltesi non ritenevano che l’adesione all’UE avrebbe causato il declino dell’uso della lingua maltese o la perdita della loro identità nazionale: in effetti, essi espressero un forte senso di identità europea. La percentuale di maltesi che si identificavano esclusivamente con la propria nazionalità era più bassa di quella registrata in generale nei 25 Stati membri. La maggior parte dei maltesi riferì di sentirsi ugualmente maltesi ed europei, sebbene le donne tendessero a esprimere un minor senso di identità europea rispetto agli uomini (v. anche Cittadinanza europea). Da questo sondaggio dell’ottobre 2004 risultò anche che il sostegno alla Costituzione europea era sceso al 56% dal 70% della primavera del 2003. In generale, il livello di sostegno di Malta fu anche più basso rispetto a quello dei 25 Stati membri. Circa un quarto dei partecipanti sostenne di essere incerto sul proprio sostegno alla Costituzione. Tra i 25 Stati membri UE di allora e i paesi candidati, i partecipanti maltesi espressero il livello più basso di sostegno all’uso di una forza di reazione rapida di fronte a situazioni di crisi internazionali.

Dopo 18 mesi di adesione all’UE, i partecipanti maltesi erano un po’ più positivi riguardo ai vantaggi derivanti dall’adesione. Più della metà riteneva che Malta avesse tratto dei benefici dall’adesione. Erano soprattutto gli uomini e gli appartenenti alla fascia d’età tra i 40 e i 54 anni a percepire maggiori vantaggi rispetto alle loro controparti. Le donne e gli appartenenti alla fascia d’età tra i 25 e i 39 anni non erano così convinti di tali vantaggi. Un altro dato importante fu che circa un quarto dei giovani partecipanti non aveva alcuna opinione in merito. Le percentuali di “europragmatici” e “antieuropeisti” erano leggermente aumentate. Gran parte dei maltesi ricadeva nella prima categoria, e ciò indicava che la stragrande maggioranza della popolazione era in grado di riflettere sugli aspetti positivi e negativi dell’UE. A sostenere il futuro e ulteriore allargamento dell’Unione europea era la maggioranza dei maltesi, i quali avevano una posizione più positiva rispetto a quella diffusa in tutta l’UE. Il paese meno sostenuto dai partecipanti maltesi risultava la Turchia. Tuttavia, rispetto alla media europea i maltesi erano meno contrari all’adesione turca.

Conclusioni

Secondo uno studio condotto in tutta Europa nel 2007, circa 8 maltesi su 10 avrebbero voluto un referendum sulla possibilità o meno di concedere più poteri all’UE attraverso un nuovo trattato costituzionale e il 44% avrebbe votato contro. In merito all’euro, altra questione su cui verteva il sondaggio, i maltesi sembravano essere più favorevoli. La maggioranza degli intervistati maltesi si espresse a favore dell’introduzione dell’euro, con un tasso di approvazione del 46%, il secondo più alto tra i 14 Stati membri UE che non fanno ancora parte dell’area dell’euro. I risultati, tuttavia, indicavano che il 41% avrebbe preferito mantenere la lira maltese.

Piccoli Stati come Malta hanno alcune cose in comune. In particolare, nell’ambito dell’adesione all’UE, devono affrontare la sfida di dover negoziare con Stati più grandi e spesso più potenti. A causa dei disuguali poteri contrattuali, i piccoli Stati devono spesso scendere a compromessi, rinunciando a volte a importanti obiettivi nazionali e cedendo alle richieste degli Stati più grandi. Al contempo, gli Stati piccoli non rappresentano una minaccia per nessuno. Ciò diventa un vantaggio poiché consente agli Stati come Malta di fungere da interlocutori nel processo di integrazione (v. Integrazione, metodo della). È importante che i piccoli Stati si impegnino a far sentire la propria voce e per farlo devono sedersi al tavolo dell’UE. I piccoli Stati così come i grandi hanno ciascuno le proprie specificità. Quindi, ognuno contribuisce in modo diverso al processo di integrazione dell’UE. Il contributo di Malta è condizionato dal suo background storico e dalla sua posizione geografica. In merito alle relazioni esterne dell’UE, Malta ha agevolato, e continuerà a farlo, il dialogo con i partner vicini tra i quali l’importante Medio Oriente e la regione nordafricana. Su scala più ampia, Malta è stata coinvolta in diverse iniziative internazionali. Nel 1982, partecipò all’iniziativa sul diritto marittimo che ha portò all’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare come patrimonio comune dell’umanità. Nel 1988 avanzò una proposta sulla tutela del clima globale che riteneva i cambi climatici un interesse comune dell’umanità e che portò ad adottare la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a cui fu allegato il Protocollo di Kyoto. Il processo continuo di integrazione europea darà più voce in capitolo a paesi come Malta nei diversi settori, incluso il decision-making nell’ambito delle regioni d’Europa.

Michelle Pace (2008)




Paesi Bassi

Il rifiuto in massa del progetto di Trattato costituzionale europeo da parte degli olandesi (v. Costituzione europea), nel giugno 2005, ha messo in luce che i Paesi Bassi, i cui governi succedutisi a partire da quella data hanno chiesto un nuovo trattato meno ambizioso, costituiscono un caso piuttosto particolare nella storia della costruzione europea. Pur avendo adottato fin dalle origini il principio di una partecipazione attiva alle Istituzioni comunitarie, i Paesi Bassi hanno manifestato regolarmente grandi reticenze in una serie di settori. Pur privilegiando costantemente opzioni atlantiche, inoltre, si sono dimostrati al tempo stesso molto esigenti in termini di sviluppo della cooperazione europea in vari ambiti.

Se ogni paese membro ha contribuito e contribuisce con la propria storia e identità al processo di costruzione europea, i Paesi Bassi richiedono senz’altro un’attenzione particolare in questo senso.

Fattori storici determinanti

Segnate dal protestantesimo, che nel XVI secolo fu il motore della lotta che mirava a separarle dalle province del Sud con le quali allora costituivano i Paesi Bassi spagnoli, le province olandesi, diventando le Province Unite, acquistarono un carattere istituzionale specifico e conobbero uno sviluppo caratterizzato da quattro fattori determinanti: la lingua, la conquista della terra sottratta al mare, l’espansione commerciale e coloniale, un sentimento marcato della sovranità nazionale.

Essendosi dotati molto precocemente di un sistema istituzionale che riconosceva alle province una grande autonomia, nel quadro di uno Stato che presentava tratti federali in un’Europa prevalentemente monarchica e centralizzatrice, nel XVI e nel XVII secolo i Paesi Bassi a causa della pressione demografica dovettero ingaggiare una lotta titanica contro il mare per guadagnare terra. Questa stessa pressione incoraggiò l’emigrazione verso l’Africa australe. Di pari passo con l’espansione commerciale che li rese uno dei principali interlocutori del Giappone, la colonizzazione dell’Indonesia introdusse un paese di modeste dimensioni nel novero delle potenze coloniali. Grande potenza, favorita dalla posizione e dal ruolo di Amsterdam nell’Europa nord occidentale sia sul piano finanziario che commerciale, i Paesi Bassi dimostrarono anche una grande capacità di difendere la loro integrità rafforzando al tempo stesso la loro identità. Le iniziative del re di Spagna nel XVI secolo e quelle di Luigi XIV nel secolo successivo, suscitarono una diffidenza duratura nei confronti dell’altro e favorirono la tendenza a gravitare verso il mare anziché verso il continente. In questo senso, si può stabilire senz’altro un certo parallelismo tra i Paesi Bassi e l’Inghilterra (v. Regno Unito).

Sotto la tutela della Francia imperiale al principio del XIX secolo, i Paesi Bassi formarono, con il loro vicino del Sud, un regno in cui belgi e olandesi convivevano con difficoltà. La rivoluzione belga del 1830 aprì un lungo periodo di risentimento fra i due paesi. Lo sviluppo industriale del Belgio e il ritorno del porto di Anversa in posizione preminente nel traffico marittimo mondiale costituiscono, in particolare, per i Paesi Bassi, una notevole concorrenza.

Vedendo rispettata la loro Neutralità nel 1914, contrariamente a quanto accaduto al Belgio, i Paesi Bassi trassero dall’esperienza e dall’impero coloniale considerevoli benefici materiali e al tempo stesso il rafforzamento di un certo isolazionismo. Tuttavia, la situazione economica mondiale spingeva verso una politica di avvicinamento ad altri piccoli Stati nel quadro del patto di Oslo, e di un dialogo ancora timido, in particolare, con il Belgio. Per quanto riguarda i rapporti con questo paese, l’idea di un’intesa sul piano economico era stata formulata a varie riprese dal 1914, ma non c’era stato alcun seguito concreto e l’auspicio era rimasto sulla carta. In compenso, la grande depressione e la minaccia sempre più evidente rappresentata dal vicino tedesco incoraggiarono Bruxelles e l’Aia, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, con il ministro Colijn in primo piano e i sovrani dei due Stati, non solo a tentare iniziative congiunte per salvare la pace, ma anche a moltiplicare i contatti “tecnocratici” su tutta una serie di questioni collegate al commercio e al settore fluviale, in considerazione dell’importanza della Mosa che attraversa il Belgio e conclude il suo corso nei Paesi Bassi.

La consapevolezza dell’interdipendenza

Ma fu a Londra, dove si trovava il governo olandese in esilio durante la Seconda guerra mondiale, che l’orientamento della politica estera cambiò decisamente rotta. Una volta scoppiate le ostilità in Estremo Oriente, i Paesi Bassi, che nel 1940 avevano esitato a lanciare nella battaglia il loro impero, si schierarono più risolutamente a fianco degli alleati anglosassoni. Al tempo stesso l’occupazione del paese e il destino aleatorio delle colonie posero i Paesi Bassi di fronte alla necessità imperiosa di riesaminare la loro posizione internazionale ed europea nella prospettiva del dopoguerra. In questo contesto, e in un certo senso perché costretti dalle prospettive a lungo termine suscitate dalle circostanze contingenti, i Paesi Bassi aggiornarono, rafforzandole, le aperture avviate negli anni Trenta dal loro governo.

Scoprendo meglio, come il Belgio, che cosa significhi l’interdipendenza, i Paesi Bassi si impegnarono con i vicini del Belgio e del Granducato (v. Lussemburgo) in un percorso di cooperazione triangolare che darà origine al Benelux.

Atlantismo e preferenza inglese.

Nel 1945-1946 il governo olandese, che non desiderava il ritorno a una politica di indipendenza e di rigida neutralità come nell’anteguerra, auspicò la conclusione, sotto l’egida inglese, di un’intesa occidentale che ottenesse il consenso e, se possibile, la partecipazione degli Stati Uniti. Tuttavia, finché questa speranza restò irrealizzata, i Paesi Bassi ritenevano che la sicurezza collettiva dovesse essere assicurata nel quadro dell’ONU. Sebbene non nutrissero illusioni sulla politica dell’URSS, i ministri olandesi degli Esteri, Van Kleffens e poi Van Roijen, temendo il rimpatrio delle truppe americane nel loro paese, assunsero un atteggiamento particolarmente prudente ispirato, fino alla fine del 1947, dalla posizione di Washington, secondo la quale un cambiamento di rotta non doveva intervenire prima che un avvicinamento con Mosca non fosse fallito definitivamente.

Essendo meno preoccupati del Belgio di organizzare la loro sicurezza secondo un’architettura a tre livelli, i Paesi Bassi ritenevano anche che la collaborazione effettiva tra Londra e Parigi fosse un’illusione. E che l’idea cara a Paul-Henri Spaak di un avvicinamento privilegiato fra Inghilterra e Belgio fosse irrealistica.

I Paesi Bassi erano convinti che la loro sicurezza fosse dovuta agli Stati Uniti, mentre la Gran Bretagna era considerata il perno della cooperazione economica in Europa, essendo un partner commerciale importante; non senza ragione era vista come la porta del mondo atlantico e rappresentava il contrappeso alla Francia. Ma la delusione era alle porte. Come i suoi partner del Benelux, i Paesi Bassi dovettero arrendersi all’evidenza. I britannici, valutando l’importanza delle loro relazioni economiche con il Commonwealth e gli Stati Uniti, non desideravano affatto giocare la carta della cooperazione regionale europea.

L’atteggiamento di Londra ebbe tre conseguenze per i Paesi Bassi. La prima fu il consolidamento dei legami con il Belgio. La seconda fu il rafforzamento dell’opposizione alle ambizioni francesi di giocare un ruolo di primo piano a livello regionale. La terza fu l’adozione di un atteggiamento che si può definire attendista (v. Brouwer, 1997), oscillando fra cooperazione regionale e cooperazione su scala mondiale nel quadro delle Nazioni Unite, in cui gli Stati Uniti dovevano avere un ruolo preminente. In questo senso la posizione olandese era più atlantista che europea, ma le due opzioni non si escludevano reciprocamente.

Verso la cooperazione regionale europea

L’avvicinamento fra Londra e Parigi, sancito dal Trattato di Dunkerque (4 marzo 1947), rilanciò l’ipotesi di un’alleanza occidentale. Prudenti, i Paesi Bassi erano anche molto sensibili all’atteggiamento negativo di Washington nei confronti delle intese regionali. Al contrario di Spaak, che dal fronte belga preconizzava una serie di patti di assistenza bilaterali, il governo olandese mantenne la sua preferenza per una politica di sicurezza collettiva nel quadro dell’ONU, non senza considerare, al punto da mettere in dubbio il principio stesso del Benelux, che il Belgio aveva tradito lo spirito di cooperazione fra i due paesi e rischiava di trascinarli nell’orbita della Francia.

Diffidenti nei confronti della politica belga, i Paesi Bassi erano comunque indotti a rivedere le loro posizioni complessive una volta consumato il fallimento della conferenza anglo-franco-russa sul Piano Marshall. Questa revisione li portò a svolgere un ruolo attivo nel processo che condusse al Trattato di Bruxelles del 1948.

L’aggravarsi delle tensioni causate dalla Guerra fredda, avendo incoraggiato la crescita dell’impegno americano nell’Europa occidentale, ridimensionò il ruolo della Gran Bretagna e della Francia. In questo contesto l’Aia e i suoi partner del Benelux potevano far sentire meglio la loro voce. Ne conseguì una concezione quasi identica all’Aia e a Bruxelles in merito a un blocco occidentale sotto la direzione degli Stati Uniti, con la prospettiva di una ripresa della Germania occidentale e la partecipazione britannica ai negoziati sul Piano Marshall.

Badando sempre, con determinazione, a mantenere le distanze con Parigi, e quindi cercando di sostituire l’Inghilterra con un altro protagonista capace di assicurare un indispensabile contrappeso all’influenza francese nel quadro di una cooperazione regionale europea, i Paesi Bassi, malgrado la costituzione dell’unione occidentale con la Gran Bretagna (marzo 1948) (v. anche Unione dell’Europa occidentale), ritenevano che la partecipazione tedesca fosse diventata una condizione essenziale dell’accordo economico.

Malgrado queste convergenze, le posizioni dell’Aia e di Bruxelles potevano divergere, come dimostrano le prese di posizione differenti in merito al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman. In altre parole, se le due capitali, senza dimenticare il Lussemburgo, riuscirono fra il 1948 e il 1950 a creare un “mito Benelux” che fu loro utile per molto tempo, esistevano anche ì problemi, spesso considerevoli, che segnarono il breve, medio e lungo termine.

Se l’Aia sul piano politico non poteva permettersi, in fin dei conti, di non aderire al Piano Schuman (v. Griffiths, 1990), è significativo osservare che nel giugno 1950 il ministro Stikker, molto influenzato da Washington, presentava davanti al consiglio dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) un «piano d’azione per l’integrazione economica dell’Europa». Il suo obiettivo era quello della liberalizzazione degli scambi per settori economici come tappa indispensabile prima della creazione di un mercato comune, confermando così il carattere vitale della liberalizzazione del commercio per i Paesi Bassi e, al tempo stesso, la diminuzione della cooperazione politica fra i paesi del Benelux poiché i Paesi Bassi avevano agito senza concertazione con i partner. La stessa osservazione vale per i negoziati del trattato che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

Comunque, in generale, l’adesione olandese alla CECA indicava che nel complesso i paesi del Benelux accettavano la cooperazione in una “piccola Europa” che si dimostrò il solo comune denominatore possibile (v. Griffiths, Lynch, 1989), ma l’accettarono unicamente perché la Germania ormai poteva svolgere quel ruolo di contrappeso che avevano sognato di assegnare all’Inghilterra.

Quale cooperazione?

Il modo in cui i Paesi Bassi accolsero il progetto di Comunità europea di difesa (CED) indicava che, ai loro occhi, la costruzione o integrazione europea doveva essere limitata alle questioni economiche e commerciali (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Il settore politico e a fortiori quello della difesa dovevano restare prerogative nazionali. Di conseguenza l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), la cui cooperazione era in larga misura intergovernativa e non richiedeva quindi grandi sacrifici in materia di sovranità, fu privilegiata rispetto ai progetti di difesa europea integrata (v. Harryvan, van der Harst, 2000). Opponendosi energicamente alla Francia durante i negoziati e guadagnando alla causa anche i partner del Benelux, i Paesi Bassi furono tuttavia i primi a ratificare il trattato (La Tweede Kamer o Camera bassa nel marzo 1953; la Eerste Kamer o Chambre alta nel gennaio 1954).

I motivi di questo ribaltamento della situazione mentre la disputa sulla CED divideva la Francia, consente di mettere in luce alcuni elementi interessanti. Sul piano congiunturale, occorre presi in considerazione gli incoraggiamenti profusi dalla nuova amministrazione americana ai Sei e la sostituzione al ministero degli Esteri dell’atlantista Stikker con Johan Willem Beyen, fervente difensore della causa europea (settembre 1952). Lo stesso dicasi per la manovra politica, oggi giudicata machiavellica, consistente nel proporsi senza fatica come modello della classe europea nella convinzione che in ogni caso la CED era condannata in Francia, la sua promotrice. Sul piano strutturale, il voto nelle due Camere olandesi indicava che una parte significativa dei parlamentari difendeva le posizioni federaliste e stigmatizzava regolarmente il governo per il suo attendismo o la sua diffidenza nei confronti della costruzione europea (v. Federalismo).

Il fallimento della CED offrì al governo olandese, e in particolare a Beyen, ma anche a personalità come Sicco Mansholt (Agricultura) e Jelle Zijlstra (Economia), l’occasione di dimostrare le loro capacità in materia economica e, ancora di più commerciale. A questo proposito il ruolo dei Paesi Bassi, e del Benelux, nel rilancio del processo di Messina è noto. (v. Serra, 1989, pp. 172-174) (v. Conferenza di Messina).

I lavori del comitato Spaak, poi i negoziati di Val Duchesse, dovevano tuttavia provocare tra gli olandesi non poche disillusioni. Pochissimo interessati al trattato che istituiva la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), lo erano invece fortemente a quello che istituiva la Comunità economica europea (CEE). Ma il governo olandese lo firmò di malavoglia, rassegnandosi, come sottolinea Joseph Luns nel gennaio 1957, a dover scegliere fra un cattivo trattato e l’assenza di un trattato. Per i Paesi Bassi il trattato CEE non andava bene perché non raggiungeva tutti i loro obiettivi in materia agricola (v. Politica agricola comune), di tariffa esterna (superiore alle loro attese), di Politica comune dei trasporti e di Associazione dei Paesi d’Oltremare (v. Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea), in merito ai quali ritenevano che non dovessero far parte delle priorità. Inoltre, l’armonizzazione sociale era giudicata controproducente per il rialzo dei prezzi che avrebbe provocato; inoltre il trasferimento di competenze, in origine affidate alla Commissione europea, verso il Consiglio dei ministri avrebbe comportato, a causa della procedura di voto, un indebolimento della difesa degli interessi olandesi (v. Griffiths, Asbeek Brusse, 1989, pp. 492-493).

I Paesi Bassi, entrando nella CEE, aderirono a una «associazione protezionista relativamente piccola», come dichiarò il primo ministro Drees in una riunione del gabinetto olandese nell’aprile 1957. Di fatto, la tentazione dell’Oceano restava potente.

Negli anni Sessanta, la politica dei Paesi Bassi fu segnata sia dall’ansia di vedere l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità sia dalla diffidenza verso la Francia. La politica di sviluppo portata avanti dalla Commissione sotto l’influenza di Parigi ebbe l’effetto di esasperare l’Aia, che non solo la considerava costosa, ma anche rivolta esclusivamente all’Africa francofona. A questo proposito i Paesi Bassi ritenevano che, come in altri ambiti, l’adesione britannica fosse una vittoria perché allargava gli orizzonti contrastando al tempo stesso gli obiettivi francesi.

In ogni caso gli anni Sessanta furono il periodo in cui il coinvolgimento della società olandese nelle questioni internazionali aumentò notevolmente, soprattutto in seguito all’intervento americano in Vietnam. Allo stesso tempo il governo olandese, ben lungi dall’appoggiare Washington senza condizioni, prese per certi versi le distanze dagli Stati Uniti e il ministro degli Esteri Joseph Luns lanciò un’iniziativa di pace nel 1968 e poi nel 1970 (v. van der Maar, 2007).

Fu in questo contesto, caratterizzato dalle relazioni con Londra, Parigi e Washington, che, dal 1958 al 1973, cioè nel periodo dall’effettiva messa in opera della CEE fino al primo allargamento, i Paesi Bassi favorirono l’elaborazione di una Politica agricola comune (PAC) il cui principale artefice, a Bruxelles, fu il commissario europeo Sicco Mansholt. Per i Paesi Bassi, che avevano l’agricoltura più competitiva della CEE e contendevano alla Francia il secondo posto fra i paesi esportatori di prodotti agricoli, dopo gli Stati Uniti, la posta in gioco era fondamentale.

Negli anni Cinquanta la politica dei Paesi Bassi mirava a colmare le disparità di sviluppo tra regioni costiere ricche e regioni interne più povere, per utilizzare pienamente le risorse agricole caratterizzate da strutture a gestione familiare di dimensioni generalmente modeste. Avendo scelto, alla fine del XIX secolo, di mantenere verso e contro tutti il libero scambio, lo Stato svolse un ruolo trainante sia in materia di ricerca e di insegnamento sia nel settore del credito, anche nella prospettiva di facilitare l’accesso al prestito fondiario. Fra il 1950 e la metà degli anni Ottanta la politica agricola olandese, particolarmente originale nell’Europa del nordovest, usò strumenti differenti e «si caratterizzò per la grande coerenza, con una ripartizione armoniosa dei finanziamenti tra la ricerca, l’insegnamento e la divulgazione agricola, la modernizzazione delle coltivazioni, la ristrutturazione dello spazio rurale e il sostegno all’agro-industria» (v. Devienne, 1989).

Questa originalità della politica si accompagnò alla creazione di strutture istituzionali (rappresentanza paritaria delle organizzazioni dei coltivatori diretti e dei salariati agricoli; organizzazione della rappresentanza paritaria dei diversi operatori secondo la filiera dei prodotti; “fondazioni” incaricate dell’applicazione delle misure relative alla politica agricola). Molto sindacalizzato (l’80% dei coltivatori), il mondo agricolo olandese era un settore che pesava non solo economicamente ma anche politicamente nella società olandese e nelle sue scelte, in particolare europee. Dato che sul piano interno il governo olandese adottò una politica decisionista e innovativa, si attendeva dai partner europei un atteggiamento altrettanto risoluto.

I Paesi Bassi speravano di veder adottare dai Sei misure dirette alla riduzione degli squilibri regionali di sviluppo agricolo analoghe a quelle adottate sul piano nazionale: politica dei prezzi differenziati a livello regionale, limitazione della produzione avicola, sostegno alle imprese più piccole per permettere loro di compensare l’handicap di dimensione, ristrutturazione integrale dello spazio rurale (v. Molegraaf, 1999). A queste misure degli anni Cinquanta e Sessanta si aggiunsero poi gli aiuti all’investimento differenziato a livello regionale, come pure l’intervento dei pubblici poteri sul mercato fondiario, in attesa dello sviluppo, a partire dal 1970, di un vero apparato di ricerca-sviluppo.

Per vedere affermarsi la loro concezione della politica agricola comune, e più in generale del Mercato comune, i Paesi Bassi si presentarono in quest’ambito come i campioni della sovranazionalità, giudicata indispensabile per proteggere i piccoli contro i grandi paesi. Fautori del rafforzamento del ruolo della Commissione e del voto a Maggioranza qualificata nel Consiglio, si opposero ai progetti intergovernativi e accettarono con riluttanza la riunione del Consiglio europeo a partire dal 1974. Ma fedeli al principio secondo cui le questioni politiche e di difesa dipendono essenzialmente dagli Stati, mostrarono uno scarso entusiasmo per la cooperazione politica lanciata negli anni Settanta.

Soluzione di continuità intorno al 1990

La continuità che si osserva nelle posizioni olandesi subì un cambiamento alla fine degli anni Ottanta e più ancora all’inizio del decennio successivo. Sembra che a partire da questo periodo i Paesi Bassi si siano allontanati dall’Europa storica di cui avevano fatto parte fin dalle origini.

Ritenendo che la NATO restasse la pietra angolare della politica di sicurezza, i Paesi Bassi si mostrarono particolarmente riluttanti nel seguire le iniziative dirette all’elaborazione di un’identità europea in materia di difesa (v. anche Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa). In effetti, si insistette su iniziative e su principi più ampi. Così, i Paesi Bassi ritennero indispensabile il rafforzamento del ruolo dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, creata nel 1995, in particolare nell’ambito della prevenzione dei conflitti, del mantenimento della pace e dei Diritti dell’uomo. Di qui l’accento posto sulle relazioni non solo con gli Stati Uniti, ma anche con i paesi dell’Europa centrale e orientale, la cui transizione verso l’economia di mercato, soprattutto nel settore agricolo, destò molta attenzione.

L’allargamento considerevole del raggio della politica estera dei Paesi Bassi testimonia una grande sensibilità verso la globalizzazione, della quale possiedono una cultura dovuta alla loro storia. Al tempo stesso la globalizzazione ha portato a una crisi d’identità della società olandese, che ha dato l’impressione di ripiegarsi su se stessa. Di qui il paradosso: volendo essere campioni della democrazia e dei diritti dell’uomo, desiderando promuovere l’ordine giuridico mondiale e operare per lo sviluppo del diritto internazionale pubblico, i Paesi Bassi, la cui capitale ospita la sede della Corte internazionale di giustizia, della Corte permanente di arbitrato, del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche e della Corte penale internazionale, sono stati anche protagonisti di un rifiuto dell’altro che in diverse circostanze ha assunto proporzioni allarmanti.

Tuttavia, malgrado le reticenze in materia di sovranazionalità non economica, i Paesi Bassi, durante la loro presidenza nel secondo semestre del 1991 (v. anche Presidenza dell’Unione europea), proposero (30 settembre) un’unione politica che includesse una politica estera e di sicurezza comune integrate, invece di inserirle in pilastri intergovernativi separati (v. Pilastri dell’Unione europea). Sostenuto solo dal Belgio e dalla Commissione, il progetto olandese fu una Waterloo diplomatica non priva di conseguenze. Riesumando lo schema lussemburghese dei tre pilastri, adottato alla fine a Maastricht (v. Trattata di Maastricht), l’Aia andava allontanandosi più che mai dall’Europa politica, e ciò tanto più che a livello del Mercato comune l’Unione economica e monetaria costituiva il punto d’approdo di un programma formulato agli inizi degli anni Cinquanta. Se da un lato si schierarono a fianco della Germania per esigere il rispetto della disciplina finanziaria dopo il passaggio alla moneta unica e difendendo il principio dell’indipendenza della Banca centrale europea, i Paesi consideravano invece una “chimera” il progetto di federazione europea del ministro tedesco degli Esteri Joschka Fischer (maggio 2000).

Il divario fra obiettivi politici generalmente respinti e obiettivi economici considerati raggiunti non è tuttavia l’unico fattore che spiega il disincanto e poi la disaffezione dei Paesi Bassi nei confronti della costruzione europea. A varie riprese, fra il 1996 e il 2004, i Paesi Bassi si sono sentiti esasperati dalla politica e dall’atteggiamento della Francia. Dalle pretese francesi in materia di lotta contro la droga comportanti la richiesta di revisione della legislazione olandese, giudicata troppo permissiva (1996), al ritardo registrato fra la designazione e la nomina effettiva di Wim Duisenberg a capo della Banca centrale europea (1996-1998), la tensione fra Parigi e l’Aia è stata costante, come dimostra anche l’irritazione dell’Aia di fronte alla violazione del patto di stabilità da parte della Francia e anche della Germania (2003-2004). Agli occhi dell’Aia, esistono due pesi e due misure, a seconda che si tratti di un piccolo o di un grande paese.

Il relativo nervosismo della diplomazia olandese nel settore degli affari europei si accompagnò alla scomparsa del consenso che esisteva da lustri all’interno del Parlamento dell’Aia e a un’evoluzione in seno all’opinione pubblica. Quest’ultima era disorientata dall’ampiezza dell’allargamento, che suscitava un sentimento di diffidenza e poi di rifiuto nei confronti di un processo che era percepito, secondo l’espressione del ministro Frans Timmermans, come un «allargamento big bang», perché andava troppo in fretta e troppo lontano. Il timore di perdere la propria identità in un’Europa “senza frontiere”, fino alla prospettiva di includere la Turchia, l’impressione ricavata da un passato recente che i grandi paesi dettino le loro leggi ai piccoli, gli effetti reali o presunti dell’introduzione dell’euro sul costo della vita, sono altrettanti fattori che spiegano l’esito referendum costituzionale del 1° giugno 2005, che può interpretato come una sanzione diretta più alle élites politiche del paese che all’idea europea in quanto tale (v. Dekker, 2005).

Tre giorni dopo il “no” francese, quello del 61,5% degli elettori olandesi (1° giugno 2005) partecipanti al voto (63% del corpo elettorale) segnò la fine del progetto di trattato costituzionale.

In seguito a questo terremoto, che rivelava il profondo smarrimento della società e della classe politica olandesi, bisogna aspettare la formazione del quarto governo Balkenhende, nel febbraio 2007, per assistere a un aggiornamento della posizione dei Paesi Bassi sul dossier europeo.

Il governo di grande coalizione uscito dalle elezioni del novembre 2006 affermava nel suo programma la volontà di «partecipazione attiva» dei Paesi Bassi alle istituzioni europee. Il Principio di sussidiarietà era considerato una priorità per l’Unione europea, e si auspicava uno sviluppo della cooperazione europea in settori quali l’energia, la politica dell’immigrazione, la Lotta contro il terrorismo e la criminalità, la politica estera.

Lasciando al Consiglio di Stato la decisione su un eventuale nuovo referendum sul progetto di trattato, il governo olandese riteneva che le modifiche da introdurre nel testo originario dovessero prevedere cambiamenti nel contenuto, nell’ampiezza e nella denominazione.

La ratifica del Trattato di Lisbona da parte del Parlamento olandese avvenne nel 2008, dopo che il Consiglio di Stato stabilì che il progetto, non avendo portata costituzionale, non doveva essere sottoposto agli elettori.

Elementi della tradizione e dati nuovi si mescolano attualmente come se i Paesi Bassi fossero in cerca di una politica nuova diretta all’articolazione fra spazio europeo e multilateralismo.

Quello che potrebbe costituire un ritorno dei Paesi Bassi in Europa sembra legato al placarsi dei dibattiti sull’immigrazione, l’identità e l’islamofobia, ma anche a un ritorno di equilibrio.

Michel Dumoulin (2009)




Polonia

La Polonia è stato lo Stato satellite dell’Europa centrale ad aprire la strada alla democrazia e all’integrazione nelle istituzioni occidentali. Nel 1988, quando il clima di maggiore libertà prodotto dalla perestrojka portò a rilegalizzare il sindacato Solidarność, la riunificazione dell’Europa divenne per più di 50 anni una possibilità concreta. A dispetto della sua indebolita capacità di mobilitazione, Solidarność fu allora in grado di organizzare un’ondata di scioperi che portò i comunisti al tavolo dei negoziati. I negoziati della Tavola rotonda tra i comunisti e i leader di Solidarność mirarono a una liberalizzazione progressiva del regime e segnarono l’inizio della transizione verso la democrazia. La ratifica dei documenti della Tavola rotonda determinò la legalizzazione di Solidarność ed elezioni alla Camera bassa del Parlamento, dove un terzo dei seggi potesse contendersi liberamente. Quando i Comitati cittadini di Solidarność vinsero tutti i seggi a cui si poteva concorrere, il partito comunista si rese conto che il regime era diventato insostenibile. Fu formato un governo di compromesso guidato da Tadeusz Mazowiecki che promise elezioni pienamente libere.

La sete di democrazia e di libertà nazionale alla base del progetto di creazione dello Stato, del processo di formazione della nazione e dello sviluppo economico che nel 1918 aveva mosso gli attori politici nel periodo della restaurazione dell’indipendenza, animò allo stesso modo l’élite politica di Solidarność nel 1989. La politica postcomunista avrebbe dovuto affrontare queste sfide presentando la triplice transizione come un “ritorno in Europa”. Il programma elettorale di Solidarność del 1989 affermava: «Queste elezioni dovranno essere un ritorno. È giunto il momento che la Polonia diventi un paese dove tutti si sentano a casa. È ora che la Polonia ritorni in Europa». Il “ritorno in Europa” costituì la prima espressione di liberalismo politico in Polonia. La libertà per la Polonia e gli Stati postsovietici si tradusse nell’immediato riconoscimento dell’indipendenza della Lituania e della Bielorussia nel 1991, nonostante la presenza delle truppe dell’Armata rossa. Contrariamente alla tradizione di politica internazionale stabilita durante la Seconda repubblica polacca, fu garantito il rispetto dei confini del 1945. La Polonia rinunciò ai territori persi nella Conferenza di Yalta, quali Vilnius e Lwów. Le frontiere stabilite durante tale Conferenza nel febbraio 1945, sotto la pressione delle richieste sovietiche di considerare la linea Curzon come il nuovo confine polacco-sovietico, furono riconosciute dal primo governo Mazowiecki. Col senno di poi, il riconoscimento da parte degli inglesi e degli americani del governo di Lublino che era stato stabilito dall’Unione Sovietica quando le sue truppe invasero la Polonia e il crollo del governo di Londra segnarono il destino della Polonia multietnica e la nascita di uno Stato etnicamente omogeneo (v. Prazmowska, 1995).

Il “ritorno in Europa” esprimeva anche il carattere dell’identità polacca. Lo Stato polacco, creato alla metà del X secolo come Stato slavo ai confini del Sacro romano impero delle nazioni tedesche, fu istituito con la benedizione del Papa e rese la Polonia il regno della Cristianità latina. Da allora l’idea dello Stato polacco come il “baluardo più orientale della Cristianità” si radicò nell’identità polacca.

Le elezioni del 1989 segnarono la prima fase delle relazioni polacche con l’Unione europea (UE) e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). I leader occidentali, colti di sorpresa dal crollo del comunismo negli Stati satellite sovietici, reagirono con un misto di alta retorica e di notevole cautela riguardo al futuro assetto dell’Europa. Per quattro anni la Polonia e gli altri Stati dell’Europa centrale fecero di tutto per ottenere garanzie di sicurezza da parte dell’Occidente, ma le istituzioni europee e gli Stati membri non erano pronti a promettere l’adesione futura alle istituzioni occidentali.

Il 19 settembre 1989, la Polonia firmò l’accordo di cooperazione commerciale con l’allora Comunità economica europea (CEE). L’accordo non gettava solo le basi per le relazioni future ma costituiva anche un punto di partenza per i futuri negoziati in materia di Associazione. Tale intenzione fu espressa dal Primo ministro polacco Tadeusz Mazowiecki nel suo discorso al Parlamento europeo nel febbraio 1990. Il 19 maggio 1990, la Polonia presentò ufficialmente domanda per iniziare i negoziati per un accordo di associazione.

Box 1 → Banca Nazionale Polacca

Lo scioglimento di Solidarność, causato dalla “guerra ai vertici” intrapresa da Lech Wałesa e dai suoi compagni, determinò non solo un parlamento ultra frammentato, ma anche un sistema partitico ideologicamente polarizzato. In buona parte, la destra era composta da partiti che portavano avanti le stesse battaglie ideologiche condotte durante la Seconda repubblica polacca istituita nel 1921 (v. Okey, 1992; Rothschild, 1974). Diversi partiti post Solidarność fecero propria l’ideologia dei due artefici dell’indipendenza polacca del 1918, Josef Pilsudski e Roman Dmowski, e queste eredità hanno sin da allora strutturato in larga misura la scena politica polacca di destra e le posizioni dei partiti sull’integrazione europea (v. anche Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

Box 2 → Ufficio del comitato per l’integrazione europea

L’instabilità ai vertici che durò fino al 1993 non intaccò la politica estera polacca europeista. La permanenza di Krzysztof Skubiszewski come ministro degli Affari esteri per tutti i tre governi in carica tra il 1991 e il 1993 e la sua nomina a plenipotenziario per l’Integrazione europea e l’assistenza estera durante il governo di Jan Krzysztof Bielecki, carica che rivestì fino al 1996, garantirono la determinazione della Polonia a diventare membro della Comunità europea. Per sostenere la sua attività di plenipotenziario, il governo istituì anche l’ufficio per gli Affari europei come cellula dell’ufficio del Consiglio dei ministri.

Sia Jacek Saryusz-Wolski che Skubiszewski svolsero un ruolo chiave nel garantire la politica polacca verso l’Unione europea e nel negoziare gli Accordi europei che istituivano un’associazione tra la Polonia e l’Unione europea. Tali accordi furono firmati nel dicembre 1991, e le parti commerciali furono ratificate nel marzo 1992. Nonostante le disposizioni politiche (c’è anche un titolo riguardante il dialogo politico nonché la cooperazione culturale, economica e finanziaria) contenute in tali accordi, il loro obiettivo principale era la graduale istituzione di una zona di libero scambio. Prevedevano, inoltre, misure antidumping, disposizioni sugli Aiuti di Stato e stabilivano la creazione di Consigli di associazione per controllare l’implementazione della legislazione europea negli Stati candidati (v. anche Paesi candidati all’adesione). Con sgomento da parte dell’élite politica polacca, gli accordi limitarono sostanzialmente il libero scambio di prodotti industriali e imposero forti restrizioni allo scambio nel settore dei servizi e in quello agricolo. Furono soprattutto le restrizioni agli scambi nel settore agricolo a non essere ben accolte dall’élite polacca. Diversamente da altri Stati dell’Europa centrale, nei primi anni ’90 il settore agricolo in Polonia impiegava ancora circa il 40% della popolazione. La mancata attuazione della riforma agricola si spiega con l’inversione della collettivizzazione comunista dell’agricoltura nel 1956 dopo aver incontrato la straordinaria resistenza del popolo polacco (v. Rothschild, 1974) e l’inizio da parte della Polonia del cosiddetto “approccio polacco al comunismo” (v. Okey, 1992). Allorché il settore agricolo fu colpito dalla crisi economica a seguito della terapia shock, la speranza delle élites polacche di ricevere aiuto dall’Occidente per far fronte al crollo dei prezzi furono deluse dalla chiusura dei mercati UE (v. Sharman, 2003). L’élite polacca accusò l’Unione di protezionismo e di agire in funzione esclusivamente dei propri interessi. Gli accordi europei furono deludenti anche perché, nonostante il preambolo dell’accordo che stabiliva l’associazione della Polonia all’Unione europea non come fine ultimo, ma come strumento per ottenere un’adesione a pieno titolo all’Unione, tale dichiarazione non venne accettata immediatamente poiché ritenuta vincolante per le Istituzioni comunitarie.

L’impegno ancora esitante da parte delle istituzioni europee a integrare la Polonia si rifletté in una forma di assistenza finanziaria piuttosto vaga fornita dal Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (PHARE). Tale programma fu elaborato in linea di massima per aiutare i due paesi nella transizione verso l’economia di mercato. A seguito della crisi economica, le elezioni parlamentari del 1993 mutarono profondamente lo scenario politico. L’ex partito comunista SLD, paria tra gli altri componenti dell’élite politica polacca, vinse le elezioni e formando una coalizione con il partito contadino salì al potere. Lo stesso anno il Consiglio europeo di Copenaghen accettò l’adesione come fine ultimo del processo di integrazione. Ciò segnò l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra la Polonia e l’UE. Il Consiglio di Copenaghen stabilì i criteri fondamentali per aderire all’UE, i cosiddetti Criteri di adesione o di Copenaghen (v. Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Copenaghen, 1993).

Nel 1994, quando la Polonia divenne un candidato ufficiale all’adesione europea, le sue relazioni con l’UE mutarono significativamente. L’UE divenne al contempo arbitro e attore nel processo di adesione e durante questa fase la Commissione fu l’interlocutore istituzionale centrale per la Polonia e per gli altri Stati candidati. L’UE definì i criteri mentre la Commissione diede corpo e forma determinandone più precisamente i contenuti (v. Grabbe, 2002). Al Consiglio europeo di Cannes del 1995 fu adottato il “Libro bianco sull’integrazione dei PECO nel mercato interno” (v. Libri bianchi) e nel 1997 la Commissione di Jacques Santer presentò l’“Agenda 2000”. Questi documenti stabilirono priorità per gli innumerevoli compiti che l’adozione dell’Acquis comunitario da parte dei candidati all’Unione europea comportava.

In qualità di arbitro sui criteri di Copenaghen, la Commissione acquisì anche maggiori poteri nelle relazioni con gli Stati candidati. Ciò significò per l’élite politica polacca trovarsi in un rapporto subordinato a un organo tecnico e burocratico che aveva il potere di determinare gli esiti politici (v. Grabbe, 2002). Durante questa fase, il sostegno pubblico all’integrazione europea rimase sostanzialmente alto, con il 77% della popolazione a favore dell’adesione nel giugno 1994, anno in cui la Polonia si candidò formalmente all’adesione all’UE, raggiungendo il picco massimo dell’80% nel maggio 1995.

Nel 1996, in risposta alla crescente complessità delle richieste dell’Unione europea e all’interno di un rimpasto governativo, il governo di coalizione tra SLD e PSL sostituì l’ufficio per gli Affari europei con il Comitato per l’Integrazione europea (KIE) e il suo segretariato permanente, l’UKIE. Il KIE divenne la massima autorità di coordinamento delle politiche europee della Polonia. A metà tra un comitato di gabinetto e un ente collettivo supremo, l’UKIE fu istituito allo scopo di istituzionalizzare e coordinare maggiormente le attività governative verso l’integrazione europea.

La terza fase delle relazioni della Polonia con l’UE iniziò con il Consiglio europeo di Lussemburgo nel dicembre 1997, allorché l’UE accettò il parere della Commissione di invitare la Polonia e altri Stati dell’Europa centrale ad avviare i negoziati per la loro adesione europea (v. Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Lussemburgo, 1997). La prima fase negoziale, che durò fino al 1999, consistette nel cosiddetto screening, volto a verificare la compatibilità della legislazione polacca con la normativa europea. I negoziati capitolo per capitolo iniziarono ufficialmente il 31 marzo 1998. La Polonia allora firmò un partenariato per l’adesione con l’UE, un accordo che implicava che tutti gli Stati candidati elaborassero su base annuale un Programma nazionale per l’adozione dell’acquis, in cui si richiedeva ai paesi di colmare le lacune individuate nei pareri della Commissione. Il Primo ministro Jerzy Buzek nominò una squadra di negoziatori diretta da Jan Kulakowski e la pose sotto il suo diretto controllo e i negoziati furono condotti attraverso conferenze per l’adesione bilaterali tra i paesi candidati e l’Unione europea. Kulakowski divenne segretario di Stato alla cancelleria del primo ministro e quindi plenipotenziario del governo per i negoziati di adesione della Polonia all’Unione europea. In qualità di negoziatore principale, Jan Kulakowski gestì anche i rapporti tra la Polonia e l’UE da un lato e tra i partner della coalizione governativa tra AWS e UW dall’altro.

Nel 1998, il processo di integrazione polacca nella NATO giunse al termine, ottenendo cioè la promessa di integrare Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca nell’Alleanza l’anno successivo. Durante il vertice NATO di Madrid del novembre 1998, tali promesse espresse dai leader occidentali in merito all’allargamento della NATO ai tre paesi sopramenzionati divennero più concrete e furono discussi i dettagli finali dell’adesione della Polonia alla NATO. Il 26 febbraio 1999, durante il vertice di Praga, il presidente Kwasniewski, un sostenitore impegnato e determinato dell’integrazione polacca nella NATO firmò i documenti per ratificare l’adesione della Polonia all’Alleanza.

L’avvio dei negoziati coincise casualmente con le elezioni parlamentari dell’autunno del 1997 e con il conseguente cambio di governo. L’Azione elettorale Solidarność (AWS), che riuniva più di 30 raggruppamenti politici di destra, salì al potere alleandosi con l’Unione per la Libertà (UW). L’AWS cercò di crearsi un’identità di partito democratico cristiano attingendo all’ideologia economica e politica democristiana dei sindacati. Il fatto che la coalizione dell’AWS comprendesse diversi partiti nazionalisti, molti dei quali ostili all’integrazione europea, rese i negoziati tra la Polonia e l’UE ancora più complessi.

L’influenza dei partiti nazionalisti all’interno della coalizione, come l’Alleanza Cristiano-Nazionale (ZChN), sul processo d’integrazione aumentò quando il leader di ZChN, Rychard Czarnecki, divenne sottosegretario di Stato dell’UKIE, incarico assegnatogli nel tentativo di convertire il partito all’eurofilia. A causa dei suoi contrasti con il sottosegretario di Stato dell’UW, Piotr Nomina-Konopka, si dimise nel 1998. Tuttavia, anche dopo le sue dimissioni, il conflitto tra le componenti liberali e nazionaliste della coalizione proseguì determinando conseguenze di vasta portata sui progressi nei preparativi all’adesione. Dopo le dimissioni di Czarnecki nel giugno 1998, la posizione del KIE venne indebolita da un lungo periodo di instabilità istituzionale e la situazione di stallo della coalizione impedì al primo ministro di nominare un segretario permanente del KIE. Il nodo della questione era l’insistenza da parte dell’Unione per la Libertà nel proporre un suo candidato come segretario del KIE e l’opposizione della ZChN. A causa dell’incapacità del governo di guidare il processo di integrazione, la Polonia iniziò a rimanere indietro rispetto ad altri candidati non essendo riuscita a trasporre l’acquis comunitario.

Quando al Consiglio europeo di Helsinki fu introdotto il principio di differenziazione tra gli Stati candidati, le conseguenze derivanti dalla loro non conformità divennero più pesanti (v. Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Helsinki, 1999). I candidati che non rispettavano la tabella di marcia proposta per la trasposizione legislativa rimanevano indietro nel processo di adesione. L’apertura dei negoziati determinò anche il riorientamento del programma PHARE che si concentrò sulle priorità di preadesione, avendo come obiettivo principale quello di preparare le amministrazioni degli Stati candidati ad assorbire i fondi strutturali dopo l’adesione e ad adattare e applicare l’acquis (v. Bailey, de Propis, 2004). In questo contesto, il programma fu completato da altri due strumenti: lo Strumento per le politiche strutturali di preadesione (ISPA) e il Programma speciale di adesione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale (SAPARD).

La politica di differenziazione tra i candidati in base ai risultati raggiunti nella trasposizione della legislazione europea ebbe un impatto notevole sulle relazioni tra Polonia e l’UE. A seguito della relazione sfavorevole della Commissione europea pubblicata nell’autunno del 1999, dove si dichiarava che l’adesione della Polonia avrebbe potuto ritardare rispetto al primo gruppo di Stati aderenti all’Unione europea, la responsabilità della mancata trasposizione della legislazione nei tempi prestabiliti ricadde principalmente sul governo dell’AWS. Quando la possibilità che la Polonia rimanesse indietro rispetto alla prima ondata di Stati candidati divenne una realtà, solo allora l’élite polacca iniziò a mobilitarsi per rendere più efficiente il processo di trasposizione legislativa rafforzando le capacità di coordinamento del governo centrale (v. Zubek, 2001).

Il governo di Buzek incontrò allo stesso modo difficoltà nel trovare un terreno comune all’interno dell’AWS e tra AWS e UW in merito alle posizioni negoziali. Da una parte i liberali all’interno della coalizione dell’AWS erano preoccupati per il ritardo nel consentire ai polacchi di trovare lavoro all’interno dell’UE e quindi erano favorevoli a una posizione ferma sul periodo di transizione in materia di libertà di circolazione dei lavoratori, e dall’altra l’UW era disposta a trovare un compromesso su tale questione favorendo un lungo periodo di transizione per la disposizione che consentiva agli stranieri di acquistare terreni polacchi. Il risultato fu un compromesso che accordava un periodo di transizione di cinque anni per i terreni per investimento e uno di diciotto anni per l’acquisto sia di terreni agricoli che di lotti edificabili. Questi conflitti colpirono anche altri aree di interesse dei negoziati, causando spesso posizioni negoziali inflessibili. Dopo la relazione sostanzialmente negativa della Commissione europea pubblicata nell’autunno del 1999, e malgrado il difficile contesto interno, il governo di Buzek si convinse della necessità di modificare le proprie posizioni su svariati e difficili capitoli, quali occupazione e politica sociale, tassazione, trasporti, energia e ambiente (v. Kulakowski, 2001).

Le elezioni svoltesi nell’autunno del 2001 videro vincitore l’SLD, l’ex partito comunista che alleandosi con il Partito contadino (PSL) salì ancora una volta al potere. Come nel precedente governo, le posizioni divergenti sui negoziati di adesione dei due alleati della nuova coalizione di governo intralciarono l’avanzamento dei negoziati. Tuttavia, diversamente dalla coalizione tra AWS e UW, il partito europeista, l’SLD, fu il protagonista compatto e dominante nel governo, e ciò permise a quest’ultimo di modificare le sue posizioni negoziali nonostante l’opposizione del Partito contadino (PSL). Poco dopo il suo insediamento, il nuovo governo guidato da SLD-UP annunciò una strategia negoziale rinnovata che prevedeva diverse concessioni al fine di velocizzare i negoziati di adesione. Nonostante l’opposizione dell’alleato di governo, il PSL, il nuovo ministro degli Esteri dell’SLD, Wlodzimierz Cimoszewicz, annunciò ulteriori concessioni al momento di presentare la nuova strategia negoziale della Polonia a Bruxelles. L’SLD propose di ridurre il periodo di transizione per la vendita di terreni polacchi agli stranieri da diciotto a dodici anni senza alcuna restrizione sull’acquisto di terreni per investimento, quello sulla vendita di terreni a destinazione ricreativa a sette anni, un periodo di transizione di tre anni per la vendita di terreni coltivabili a locatari stranieri e nessun periodo di transizione per la vendita di abitazioni residenziali. Il governo annunciò inoltre che avrebbe in linea di massima accettato che i periodi di transizione proposti per l’accesso ai mercati del lavoro occidentali non fossero negoziabili.

Il conflitto fu scatenato dal PSL e dalla sua reazione di fronte alle condizioni dell’integrazione polacca in merito alla Politica agricola comune (PAC), soprattutto riguardo al livello di sussidi agli agricoltori offerti alla Polonia e al lungo periodo di transizione per la vendita dei terreni agli stranieri. Il partito di sinistra, l’SLD, pur consapevole dei limiti alle posizioni negoziali imposti dall’opinione pubblica e della loro percezione degli interessi polacchi in settori quali l’agricoltura o la libera circolazione dei lavoratori, era anche determinato a risolvere l’impasse causata dall’inflessibilità del precedente governo dell’AWS nel suo ruolo di negoziatore. Al centro di questa situazione di stallo vi erano le condizioni relative all’integrazione dell’agricoltura polacca nella PAC, la cui negoziazione, dato il livello di difficoltà, fu lasciata per ultima. Il dramma si acuì nel gennaio 2002, quando la Commissione annunciò che gli agricoltori degli Stati candidati non avrebbero ricevuto per intero i sussidi durante i primi nove anni di adesione ma solo un quarto di quanto gli agricoltori degli Stati membri ricevevano in pagamenti diretti nel primo anno, con un aumento progressivo negli anni successivi.

L’SLD dovette anche affrontare un parlamento ostile all’integrazione europea. Dopo le elezioni del 2001, i partiti euroscettici erano in entrambi gli schieramenti di destra e sinistra. A sinistra il sindacato radicale degli agricoltori Samoobrona ottenne circa il 9% dei voti, mentre la Lega delle famiglie polacche, di recente formazione, si accaparrò i cattolici nazionalisti. Il frammentato centrodestra mantenne una posizione piuttosto vaga rispetto all’integrazione europea, quando né il partito nazional-conservatore Legge e giustizia né il liberal-conservatore Piattaforma civica appoggiarono incondizionatamente gli sforzi del governo per garantire un referendum a favore dell’integrazione coniando lo slogan “Nizza o morte” per opporsi a un atteggiamento di compromesso riguardo alla revisione della formula di voto stabilita a Nizza durante la Convenzione europea.

Il governo di coalizione tra PSL e SLD nominò Jan Truszynski, l’ex ambasciatore polacco UE, negoziatore principale della Polonia affidando, tuttavia, al leader dei contadini nonché ministro dell’Agricoltura Jaroslaw Kalinowski l’incarico di negoziare il capitolo dell’agricoltura. In questo ruolo, Kalinowski dovette gestire le tensioni provocate dalle posizioni divergenti tra i due partiti di governo in merito ai negoziati sull’agricoltura. La chiusura di tale capitolo di negoziato si realizzò soltanto al Consiglio di Copenaghen nel dicembre 2002. L’accordo sui sussidi agricoli stabilì un sistema di sostegno misto in cui le sovvenzioni basate su una maggiore produzione sarebbero state concesse solo agli agricoltori i cui prodotti godessero di sussidi all’interno dell’UE. Oltre a ottenere il periodo di transizione più lungo tra tutti i paesi candidati relativamente all’acquisto di terreni coltivabili da parte di stranieri, la Polonia si assicurò periodi di transizione in altri 42 settori.

Il governo dell’SLD nominò Danuta Hübner viceministro degli Esteri, segretario del KIE e direttore dell’UKIE. La sua triplice nomina fu concepita al fine di risolvere le difficoltà di coordinamento che avevano impedito il precedente governo di compiere progressi nella trasposizione legislativa e nei negoziati. La Hübner adottò misure efficaci per coordinare i preparativi dell’UKIE e del ministero degli Esteri in materia di affari europei, rendendo quindi il governo più incisivo e in grado di giungere a una conclusione positiva dei negoziati. Il 20 febbraio 2004, Leszek Miller la candidò a primo Commissario polacco e alla fine dello stesso anno quando si insediò la nuova Commissione presieduta da José Manuel Durão Barroso, la Hübner divenne responsabile della Direzione della politica regionale.

Durante i negoziati, alcuni sondaggi d’opinione rilevarono che il sostegno dei polacchi all’integrazione era diminuito attestandosi al 55% nel marzo 2002. L’opinione antieuropeista crebbe e la percentuale dei contrari passò da solo il 6% nel 1994 al 29% nel 2002. L’opinione pubblica polacca sembrò aver interpretato la condizionalità inerente ai negoziati come indice di una relazione impari tra la Polonia e l’UE. Da diverse indagini, ad esempio, risultò che il 60% dei polacchi (compresi il 50% dei sostenitori dell’adesione polacca all’UE) riteneva che una volta aderito all’UE il paese sarebbe stato un membro di seconda classe e solo il 30% era convinto che il paese avrebbe aderito acquisendo i diritti derivanti da un’adesione a pieno titolo (vedi CBOS, 1997, 2002). Inoltre, alla fine degli anni ’90, quando il governo esercitò forti pressioni sull’UE riguardo alla data di adesione, il sostegno pubblico a un’adesione “il prima possibile” diminuì (v. CBOS, 2001).

Una nuova fase delle relazioni tra la Polonia e l’UE fu segnata dalla conclusione dei negoziati di adesione al summit di Copenaghen nel dicembre 2002. Il 16 aprile 2003 ad Atene fu firmato il Trattato di adesione da Danuta Hübner, dal primo ministro Miller e dal ministro degli Affari esteri Wlodzimierz Cimoszewicz. Nel maggio 2004, quindici anni dopo essersi liberata del regime comunista, la Polonia divenne un membro a pieno titolo dell’UE. L’adesione all’UE, i dibattiti sulla Costituzione europea, il referendum sull’adesione e le elezioni per il Parlamento europeo non incisero sul sostegno pubblico all’adesione. Sondaggi d’opinione mostrarono che tale sostegno rimase stabile a circa il 55-60% mentre il livello di opposizione si attestò a circa il 25% (vedi CBOS, 2004). L’aperto sostegno all’adesione polacca all’UE mostrato dal papa Giovanni Paolo II in diverse occasioni fu determinante per l’elevato supporto all’integrazione europea della Polonia. Il 19 maggio 2004, egli ribadì tale sostegno nel modo più inequivocabile. Coniando lo slogan “Dall’Unione di Lublino [che sancì nel XVI secolo la fusione della Polonia e del granducato di Lituania] all’Unione europea” egli rafforzò quindi il messaggio dell’adesione polacca all’UE come una scelta civilizzatrice di proporzioni storiche da considerare nell’ottica di una Polonia intesa come la pedina fondamentale di un impero multinazionale. L’intervento del Papa fu l’evento più significativo durante la campagna referendaria anche perché rese estremamente difficile per i partiti con una posizione antieuropeista basata su un programma cattolico-nazionalista convincere gli elettori che le loro posizioni contrarie all’adesione europea si basassero su principi cattolici. Sebbene i vescovi polacchi non sostennero apertamente il voto a favore, dichiararono che la partecipazione al referendum era un obbligo morale e chiesero ai fedeli di farsi guidare dagli insegnamenti del papa a questo riguardo.

L’adattamento all’Allargamento a est mutò notevolmente l’UE, al punto che quando la Polonia divenne membro, l’Unione era un’organizzazione diversa rispetto a quando il paese aveva presentato la sua candidatura. La Polonia e gli altri paesi in transizione furono in seguito coinvolti nella ricerca delle risposte alle sfide poste da un’Unione con 25 membri. La Polonia cominciò a sperimentare il processo di decision-making dell’Unione quando le fu chiesto di prendere parte alla Convenzione europea per elaborare il Trattato costituzionale nel 2002 e nel 2003 e anche di accettare il cambiamento del sistema di voto deciso a Nizza che aveva fornito alla Polonia accordi di voto favorevoli nel Consiglio. Tale sistema rappresentava per la Polonia la garanzia che avrebbe mantenuto una notevole influenza sulle decisioni prese in seno al Consiglio. In accordo con il governo conservatore spagnolo, il governo polacco bloccò un accordo sul trattato costituzionale europeo al summit di Bruxelles del dicembre 2002. L’élite politica polacca elogiò il primo ministro per non essersi piegato alle pressioni dei “pesi massimi” dell’UE durante il summit di Bruxelles. Sei mesi dopo, in seguito alle dimissioni del primo ministro Leszek Miller e nonostante il dissenso pubblico e la resistenza dei partiti dell’opposizione, il governo dell’SLD in fase di cambiamento accettò la revisione dei diritti di voto precedentemente acquisiti alla Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) di Nizza nel 2000 a favore di un sistema di voto basato su una Duplice maggioranza che sembrava concedere alla Polonia un controllo minore sui risultati legislativi in seno al Consiglio dei Ministri.

Le norme europee, formali e informali, e le condizioni per l’adesione espresse dai Criteri di Copenaghen costituirono un pacchetto che delimitò il percorso di trasformazione perseguito durante la triplice transizione polacca. La forma delle istituzioni statali, le scelte economiche e la gestione della competizione politica sono stati pertanto fortemente determinati dal processo di integrazione europea. Per lo stesso motivo, anche l’Unione europea sta subendo un processo di profonda trasformazione per accogliere i dieci nuovi membri, di cui la Polonia con i suoi quasi 40 milioni di abitanti è lo Stato più vasto e uno dei più risoluti.

Madalena Pontes Meyer Resende (2008)




Portogallo

La politica europea del regime autoritario (1945-1974)

In Portogallo il processo verso l’integrazione europea iniziò dopo la Seconda guerra mondiale. Il Portogallo aveva seguito attentamente i vari processi di integrazione a partire dagli anni Quaranta. Fino al 1974 era stato un regime dittatoriale; non era quindi possibile un’integrazione europea a pieno titolo giacché la Comunità europea riconosceva soltanto i governi democratici. Quella condizione era stata esplicitata nel rapporto Birkelbach del 1962 dall’Assemblea parlamentare, con il quale si sanciva che soltanto i paesi democratici potevano diventare membri della Comunità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Il Portogallo rimase ai margini della Comunità europea fino al 1974. Durante la dittatura, il Portogallo cercò di trovare un progetto d’integrazione alternativo promuovendo forti legami con le colonie. Malgrado tali tentativi, già nel 1948 Salazar dovette entrare nell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) creata e promossa dagli Stati Uniti. Per il dittatore Antonio Salazar una eccessiva integrazione nelle strutture europee avrebbe compromesso l’autonomia del paese. Ciò nonostante, la difficile situazione economica dopo il 1948 spinse il Portogallo non soltanto ad aderire all’OECE, ma anche a richiedere aiuti finanziari facendo ricorso al Piano Marshall. Il Portogallo, per ciò che concerneva la sua politica estera, manteneva forti legami con il Regno Unito. Tuttavia, Salazar dovette riconoscere il fatto che gli Stati Uniti erano la nuova potenza egemone mondiale e che di conseguenza il Portogallo doveva rivedere le sue posizioni sulla base della politica americana. Il Portogallo divenne membro fondatore dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e uno tra i paesi più atlantisti. Negli anni Cinquanta, fu escluso dai progetti di integrazione europea realizzati dai Sei, come la Comunità europea per il carbone e per l’acciaio (CECA, 1951), la Comunità economica europea (1957) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom, 1957). Il regime autoritario era riluttante ad aderire a organizzazioni finalizzate a un’Europa federale (v. Federalismo). Malgrado tale situazione, la maggioranza dei diplomatici portoghesi riconosceva l’importanza di avere legami di qualche sorta con le Istituzioni comunitarie emergenti. In realtà, la politica estera portoghese era assai influenzata dalla posizione britannica. In un promemoria inviato a tutti gli uffici diplomatici, Salazar considerava ogni processo che potesse compromettere l’indipendenza del paese come nemico dell’identità del popolo portoghese, e come tale da rigettare. Tale strategia portò il Portogallo ad aderire all’Associazione europea di libero scambio (EFTA), di natura intergovernativa, guidata dalla Gran Bretagna e costituita nel 1960. L’adesione all’EFTA fu principalmente dovuta alle buone relazioni del Portogallo con il Regno Unito. Tale adesione permise al regime dittatoriale di conservare il proprio vasto impero coloniale. In effetti, il Portogallo stabilì un mercato unico portoghese che fu escluso dall’EFTA per quindici anni. Nel 1963, il governo britannico si candidò come membro della CEE, ma il presidente francese Charles de Gaulle pose il veto. A quel punto, tutti i membri dell’EFTA, incluso il Portogallo, seguirono la medesima linea. Il Portogallo intendeva raggiungere un accordo di Associazione. Tuttavia, il veto francese rafforzò la posizione portoghese nell’EFTA: il paese poté richiedere stanziamenti finanziari agli altri membri dell’EFTA, particolarmente per i settori agricolo e industriale. Tra il 1960 ed il 1973 il PIL pro capite portoghese salì del 14% circa.

Nonostante il successo nell’ambito dell’EFTA, le sfide che si posero al regime dittatoriale aumentarono considerevolmente negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta. Nelle colonie, che erano considerate vere e proprie province del Portogallo fin dall’Atto coloniale del 1951, i movimenti di liberazione organizzarono guerriglie armate contro il regime dittatoriale.

L’evento scatenante del problema coloniale fu l’occupazione delle enclaves portoghesi di Goa, Damão e Diu da parte delle truppe indiane nel 1961. L’incapacità delle truppe portoghesi di riconquistare le enclaves portò alla totale annessione di queste all’India. Nello stesso anno scoppiò la guerra coloniale in Angola, seguita presto da analoghe guerriglie in Mozambico, in Guinea Bissau e a Timor Est. Il Portogallo a questo punto dovette impiegare la maggior parte delle proprie risorse per conservare il vasto impero coloniale. L’età avanzata del dittatore Salazar portò a una situazione di paralisi in termini di policy-making. L’intransigenza mostrata nelle guerre coloniali e nella difesa a tutti i costi del vasto impero caratterizzarono l’ultima fase del regime autoritario di Salazar. La posizione portoghese poté continuare a essere sostenuta a causa dell’opposizione di Charles de Gaulle per tutti gli anni Sessanta. Soltanto dopo la morte di Salazar nel 1969 e le dimissioni del presidente francese, le relazioni tra i membri EFTA e la CEE mutarono. Nel 1973, dopo i negoziati, il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca aderirono alla CEE. Sebbene anche la Norvegia intendesse diventare membro della CEE, un referendum dall’esito negativo impedì al paese di proseguire in tale direzione. Il caso portoghese si presentava complesso, considerata la natura del regime. Anche se Marcello Caetano era succeduto ad Antonio Salazar ed era stata promessa la liberalizzazione del sistema politico, promuovendo “un cambiamento nella continuità”, divenne presto evidente che i sostenitori della linea dura all’interno del governo non volevano alcun cambiamento. L’adesione era considerata da Franco Nogueira, ex ministro degli Esteri sotto Salazar e uomo piuttosto influente del regime, come una sorta di colonizzazione da parte dell’Europa. Si temeva principalmente che l’adesione avrebbe portato alla perdita del vasto impero portoghese. Le guerre coloniali danneggiarono gravemente la legittimità del regime all’estero.

I movimenti di liberazione in Angola, Mozambico e Guinea Bissau poterono ricevere sostegno dalle società civili europee. L’apice dell’impopolarità del regime, che contribuì alla sua caduta, fu la notizia del massacro della popolazione di un intero villaggio a Wiriyamu. Fu riferita da un sacerdote che operava nella regione. La notizia si diffuse nel 1973 durante la visita di Marcello Caetano nel Regno Unito per la commemorazione dei 300 anni di alleanza portoghese con l’Inghilterra, il cosiddetto Trattato di Windsor. I laburisti colsero l’occasione per spostare l’attenzione su una delle ultime dittature dell’Europa occidentale. Il regime politico era una delle cause principali che impedivano al Portogallo di divenire membro della CEE. Il citato Rapporto Birkelbach del 1962 aveva definito la dottrina CEE in merito ai requisiti di ammissione: solo i paesi democratici potevano divenire membri della Comunità. Malgrado ciò, la diplomazia portoghese fu abile nel trattare un Accordo sul libero scambio, tra il 1970 e il 1972. Ciò segnò anche il limite di quanto si potesse ottenere in quella fase. Nell’ultimo periodo del regime autoritario, le guerre coloniali assorbivano la maggior parte del bilancio. L’atteggiamento delle forze armate stava rapidamente cambiando giacché si riconosceva il fatto che una soluzione militare stesse divenendo meno possibile e che il regime avrebbe dovuto trovare una soluzione politica. Tra i militari, un gruppo chiamato Movimento delle forze armate (Movimento das forças armadas, MFA) cominciò a preparare un colpo di Stato contro il regime autoritario. Il 25 aprile 1974, la dittatura venne rovesciata dall’MFA. La maggioranza dei militari apparteneva ai ranghi medi, che pensavano di aver sostenuto il peso maggiore nel corso della guerra.

Il processo rivoluzionario e la CEE (1974-1975)

Il colpo di Stato prese una piega rivoluzionaria quando la popolazione manifestò e si unì agli sforzi dei militari. La cosiddetta “Rivoluzione dei garofani” fu un turbine di movimenti e di emozioni per un anno e mezzo. Durante quel periodo, i militari dominarono il processo politico, mentre le élites politiche e civili assunsero posizioni marginali. Il crollo del regime dittatoriale era visto dalle élites politiche come un’opportunità per entrare nella CEE in una prospettiva di medio termine. Invero, le istituzioni europee seguivano attentamente gli sviluppi del paese. Durante il 1974 e 1975, il processo rivoluzionario si radicalizzò. La ragione di fondo era che, dopo il luglio 1974, i governi provvisori erano guidati da militari, in particolare dal colonnello Vasco Gonçalves che fu primo ministro tra il luglio 1974 e la fine dell’agosto 1975 in quattro differenti governi provvisori. La radicalizzazione fu altresì dovuta alla rivalità tra le fazioni dell’MFA. Vi erano almeno tre correnti: i socialdemocratici, i fautori della democrazia popolare in stretto contatto con il partito comunista e i sostenitori della democrazia del potere popolare, appoggiati dai partiti di estrema sinistra. Durante il periodo rivoluzionario, la lotta fra queste tre fazioni condizionò lo sviluppo politico ed economico del paese. Inoltre, i movimenti sociali influenzati dai partiti della sinistra radicale, destabilizzarono ulteriormente la situazione politica. L’intero processo rivoluzionario terminò il 25 novembre 1975, quando il colonnello António Ramalo Eanes impedì un colpo di Stato organizzato da gruppi militari dell’estrema sinistra.

Le istituzioni europee accolsero positivamente il crollo del regime dittatoriale e l’aspirazione del Portogallo a procedere verso la democrazia. Nel primo governo provvisorio, il ministro degli Esteri Mario Soares fu risoluto nell’assicurare che il Portogallo si sarebbe avviato verso la democrazia e avrebbe aderito alla CEE. I comitati congiunti Portogallo-CEE e Portogallo-CECA rappresentarono riunioni importanti in cui rassicurare le istituzioni europee. La situazione divenne più problematica allorché il primo ministro Vasco Gonçalves salì al potere nel luglio 1974. Gonçalves era in stretto rapporto con il Partito comunista cui s’ispirava la sua pratica politica. La radicalizzazione del processo politico fu seguita con crescente preoccupazione da Bruxelles. Vi era il timore generale che il Portogallo si sarebbe avviato verso una dittatura comunista. I membri civili del governo provvisorio tendevano a rassicurare le istituzioni della CEE, in particolare la Commissione europea, sul fatto che il Portogallo fosse impegnato nella costruzione di una libera democrazia. Tuttavia, l’esistenza di differenti centri di potere durante il processo rivoluzionario non ispirava fiducia alle istituzioni europee. Il Parlamento europeo indirizzò numerose interrogazioni a Christopher Soames, commissario europeo per le Relazioni esterne, sul fatto che i governi di sinistra del Portogallo stavano ostacolando i partiti di centrodestra nel condurre una libera attività politica. Vi era anche una forte pressione sulle gerarchie militari perché si votasse il 25 aprile 1975 per eleggere la Costituente, come programmato. Le elezioni videro la vittoria dei partiti moderati, i socialisti (Partido socialista, PS) e il Partito democratico popolare (Partido popular democratico, PPD). I comunisti (Partido comunista portugues, PCP) ottennero soltanto il 12% dei voti. Da quel momento i negoziati tra Portogallo e CEE continuarono nell’ambito delle decisioni del Comitato misto. L’aiuto era correlato alla realizzazione in Portogallo di una democrazia pluralista di stampo liberale. Un miglioramento significativo delle relazioni ebbe luogo allorché il sesto governo provvisorio, con i membri più moderati del MFA salì al potere dopo il settembre 1975.

Nell’ottobre vennero iniziate le trattative per determinare l’ammontare degli aiuti necessari ad affrontare i principali problemi a breve termine.

Il processo verso l’adesione alla CE (1976-1986)

La nuova Costituzione portoghese venne approvata il 2 aprile 1976. In seguito, il 25 aprile 1976, ebbero luogo nuove elezioni, in cui il Partito socialista riuscì a raggiungere una maggioranza relativa e il PPD risultò secondo. Il Partito socialista formò un governo di minoranza guidato dal primo ministro Mario Soares. Una delle prime decisioni del governo fu quella di proporre la candidatura alla CEE, che avvenne il 28 marzo 1977. Già prima dell’invio della richiesta, fu firmato un protocollo finanziario che prevedeva un pacchetto d’aiuti di 200 milioni di Unità di conto europee (v. Unità di conto europea, ECU) per un periodo di 5 anni. Il Consiglio europeo risultava diviso sul tema dell’adesione del Portogallo. Alcuni paesi, come i Paesi Bassi e il Belgio, volevano prima consolidare il precedente Allargamento. La richiesta portoghese era sostenuta dai membri dell’EFTA, i quali consideravano l’adesione come un modo per rafforzare le fragili istituzioni democratiche del Portogallo. Il Parere della Commissione europea fu positivo e venne presentato al Consiglio dei ministri il 19 maggio 1978. Tale parere mise in luce i problemi economici che il Portogallo doveva fronteggiare in vista di una futura adesione e i modi in cui la CEE poteva aiutarlo nella soluzione di tali problemi. Le trattative tra il Portogallo e la CEE vennero ufficialmente aperte a Lussemburgo il 17 ottobre 1978, ma iniziarono concretamente soltanto dopo il 1980. Malgrado questo ritardo, furono firmati, nel dicembre 1979, dei protocolli in aggiunta agli accordi per il libero scambio, in cui venivano concordati ulteriori periodi di transizione per l’industria portoghese. Inoltre, il 3 dicembre 1980, fu firmato un accordo sull’aiuto di preadesione, nel quale si stabilì che il Portogallo avrebbe ricevuto 275 milioni di ECU per la modernizzazione delle infrastrutture economiche del paese. La situazione economica portoghese rimase piuttosto disastrosa fino al 1985. Il Portogallo trattò una linea di credito standby del Fondo monetario internazionale (FMI) nel 1978-1979 e un altro nel 1983-84, che ebbe conseguenze socio-economiche alquanto negative per la popolazione in generale.

Tra il 1983 e il 1985, il Portogallo ricevette ulteriori aiuti per prepararsi all’adesione. Questi fondi erano volti alla modernizzazione dell’agricoltura e di altri settori economici. Al Portogallo era inoltre stato richiesto di elaborare un primo piano di sviluppo regionale triennale, che avrebbe permesso il sostegno CEE tramite il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR) e il Fondo sociale europeo (FSE). Dopo otto anni di trattative, prolungatesi soprattutto a causa dell’opposizione francese all’adesione spagnola, dovuta all’impatto che avrebbe avuto sul settore agricolo, il Portogallo firmò il Trattato di adesione il 12 giugno 1985. Il Portogallo, insieme alla Spagna, entrò nella CEE il 1° gennaio 1986.

Il Portogallo quale membro della Comunità europea/Unione europea

La politica europea portoghese (1986-2000). Il Portogallo entrò nell’Unione europea in un periodo di accelerazione ed espansione politica. Fu grazie allo slancio dinamico della Commissione di Jacques Delors che il processo d’integrazione europea fece passi avanti.

Dopo una decade d’instabilità politica, il Portogallo sperimentò governi più stabili grazie alla maggioranza assoluta. Dopo il 1985, il primo ministro Anibal Cavaco Silva si impegnò a migliorare lo sviluppo macroeconomico del paese. Per oltre un decennio vennero gestite politiche di lungo termine che a grandi linee proseguirono con il successivo governo socialista tra il 1995 e il 2001. La politica europea portoghese divenne, in tale contesto, più sicura di sé. L’organizzazione della presidenza semestrale (v. Presidenza dell’Unione europea), nella prima metà del 1992 e del 2000, può essere ricordata come un’importante pietra angolare per quanto concerne l’integrazione della diplomazia portoghese nelle strutture della CEE/UE. Era previsto che il Portogallo organizzasse la prima presidenza nel 1987, ma il governo portoghese decise di rinunciare a causa del fatto che sia la diplomazia nazionale, sia la pubblica amministrazione non erano pronte a sostenere un impegno di coordinamento tanto importante.

La prima presidenza portoghese si ebbe nella prima metà del 1992. Il periodo intercorrente tra il 1986 e il 1992 venne impiegato per conoscere le istituzioni europee, per investire nello staff-development e nell’aggiornamento dei meccanismi di coordinamento.

La presidenza portoghese del 1992 può essere considerata come un successo, malgrado le crisi che emersero in quel periodo. In realtà, il primo ministro Anibal Cavaco Silva fu aiutato dal ministro degli Esteri, João de Deus Pinheiro, e dal segretario di Stato per gli Affari europei, Vitor Martins. La presidenza portoghese dovette gestire il “no” al Trattato di Maastricht nel referendum danese. Vi erano richieste per un referendum in Portogallo, che il governo rifiutava, perché il Trattato era troppo complesso per essere messo ai voti. La presidenza portoghese operò come mediatrice anche nel conflitto in Bosnia-Erzegovina, sperando di ottenere un accordo tra i differenti gruppi etnici. Inoltre, il Portogallo rappresentò la CEE nel summit sull’Ambiente delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro, nel giugno 1992. In ultimo, ma non meno importante, il ministro dell’Agricoltura, Arlindo Cunha, completò le trattative relative alla riforma McSharry della Politica agricola comune (PAC) nell’ambito dell’Uruguay Round, malgrado gli effetti negativi sugli agricoltori portoghesi.

Nella seconda presidenza del 2000, la diplomazia portoghese cercò di essere più ambiziosa. Come era accaduto per la prima, essa era considerata soltanto una presidenza di transizione verso la più importante presidenza francese, che si concluse con il Trattato di Nizza nel dicembre 2000. Durante la presidenza europea, il primo ministro era il socialista António Guterres, aiutato dal ministro degli Esteri Jaime Gama e dal segretario di Stato per gli Affari europei, Francisco Seixas da Costa. La presidenza ebbe il suo acme nella presentazione della Strategia di Lisbona in materia di crescita e occupazione. Fu concordato nel corso del Consiglio straordinario di Lisbona del 23-24 marzo 2000, nel quale Maria João Rodrigues, illustre docente di relazioni industriali, riuscì a raggiungere un compromesso tra i quindici Stati membri. Contemporaneamente, fu messo a punto un metodo di convergenza delle politiche nazionali volto all’aumento dell’occupazione e alla competitività nell’ambito dell’Unione europea, conosciuto come metodo aperto di coordinamento. Il Portogallo era anche incaricato della prima parte della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) che avrebbe portato all’assai controverso Trattato di Nizza. Altre aree in cui la presidenza portoghese giocò un ruolo importante furono la conclusione di 78 dossier parziali e l’apertura di 52 nuovi dossier dei paesi candidati dell’Europa centrale e orientale e delle isole mediterranee, la gestione di decisioni legate alla Politica estera e di sicurezza comune prese durante la presidenza della Finlandia nella seconda metà del 1999, e il summit euro-africano al Cairo del 3 e 4 aprile 2000.

In riferimento alle conferenze intergovernative del 1991, 1996 e 2000, si può notare un importante cambiamento nel comportamento della diplomazia portoghese. Durante i negoziati sul Trattato dell’Unione europea, il Portogallo ebbe un ruolo secondario e più o meno favorevole al trattato. Inizialmente Anibal Cavaco Silva nutriva qualche dubbio, ma il collegamento del Trattato con il pacchetto Delors II, ebbe come esito un più rilevante sostegno all’Unione economica e monetaria. In realtà, il Portogallo apparteneva a un’alleanza dell’Europa meridionale insieme a Spagna, Grecia e “Irlanda” che mostrava grande entusiasmo circa l’introduzione dell’unione economico e monetaria e non voleva essere lasciata indietro. Alla conferenza intergovernativa del 1996 il Portogallo si dimostrò assai più preparato. Preparò un documento politico denominato “il Portogallo e la Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato dell’Unione europea” in cui vennero stabilite una serie di red lines, come la perdita di un Commissario o la perdita del diritto di voto nel Consiglio dei ministri. Alla conferenza intergovernativa di Nizza del 2000, il ministro degli Esteri, Jaime Gama, divenne una delle figure eminenti del summit, sostenendo, insieme a Belgio e Olanda, che i paesi maggiori stavano indebolendo il diritto di voto di quelli minori. Infatti, il Portogallo fu uno dei paesi più attivi nell’organizzare il G16 dei paesi medio-piccoli che tendevano a riunirsi regolarmente nella nuova rappresentanza permanente del Portogallo, in via Corthenberg a Bruxelles (v. Rappresentanze permanenti presso l’Unione europea). Il Portogallo acquisì maggiore fiducia nel perseguimento dei propri interessi e nell’abilità di creare reti per sostenere le proprie politiche.

La gestione dei fondi strutturali a partire dal 1988. L’importanza crescente dei fondi strutturali (v. anche Fondi di coesione), fin dall’approvazione del pacchetto Delors I del 1988, contribuì al miglioramento della situazione socio-economica del Portogallo. Nel 1989 molti cronisti parlavano già di un crescente boom economico per il Portogallo. L’impatto dei fondi strutturali in tale contesto non si può sottovalutare. Essi rappresentarono un importante strumento strategico per lo sviluppo del paese. I quadri comunitari di sostegno (QCS), basati su Programmi comunitari di sviluppo regionali, costituirono un importante strumento per introdurre il programma di modernizzazione della CEE/UE. Nel frattempo il Portogallo dovette gestire tre QCS nei periodi 1989-1993, 1994-1999 e poi nel 2000-2006. Il Portogallo avrebbe avuto diritto a ricevere fondi almeno fino al 2013 (v. anche Politica di coesione). Fino al 2004, l’intero Portogallo aveva i requisiti necessari per i finanziamenti relativi all’obiettivo I, che riguardava le regioni in ritardo di sviluppo, ma l’allargamento all’Europa centrale e orientale mutò la situazione. Ciò è da attribuirsi principalmente al fatto che molte regioni portoghesi sono più ricche di quelle dell’Europa centrale e orientale e quindi hanno un PIL pro capite più alto del 75% della media UE. Come formula intermedia, la Commissione europea sviluppò la nozione di effetto statistico, che permette ad alcune regioni, come quella autonoma di Madeira, di ottenere ancora i finanziamenti, pur superando la soglia del 75% del PIL medio dell’UE.

L’amministrazione pubblica portoghese decise di investire soprattutto in progetti infrastrutturali come la costruzione di strade, l’ammodernamento della rete ferroviaria e delle infrastrutture di base. La realizzazione dei QCS permise, fin dal 1989, un miglioramento delle infrastrutture del paese, ma fu caratterizzata dalla mancanza di investimenti nella ricerca e sviluppo e nelle risorse umane. Infatti, il sistema d’istruzione portoghese è tuttora uno dei più deboli dell’Unione europea. Il tasso di abbandono nella scuola secondaria è il più alto nell’UE. Inoltre, il Portogallo non è riuscito a utilizzare il Fondo sociale europeo per creare programmi di formazione professionale. Ciò ha avuto ovviamente implicazioni negative rispetto alla forza lavoro portoghese che continua ad avere un livello di scarsa specializzazione. Il QCS 3 (2000-2006) comprendeva 42,1 miliardi di euro, di cui il 48,6% era costituito da fondi UE, il 29,1% da fondi nazionali e il 22,3% da fondi di imprese private. Questo finanziamento tripartito mostra la predominanza del finanziamento pubblico nell’ambito dei QCS. Uno dei motivi è che il settore imprenditoriale privato è molto debole e sovente non in grado di coprire la sua quota di finanziamento. In molti casi, la pubblica amministrazione nazionale deve concedere prestiti non rimborsabili per aiutare le imprese private a partecipare ai programmi. Il QCS 3 consiste in quattro assi prioritari finalizzati alla valorizzazione delle risorse umane (asse uno), la promozione del profilo produttivo orientato alle attività del futuro (asse due), la valorizzazione del territorio nazionale e della posizione geoeconomica del paese (asse tre) e la promozione dello sviluppo sostenibile delle regioni e della coesione nazionale (asse quattro).

L’utilizzazione dei finanziamenti strutturali doveva affrontare molti ostacoli relativi al fatto che l’impostazione del progetto introdotto dalla CEE/UE doveva essere adeguatamente condivisa. La maggior parte delle imprese portoghesi sono piccole e medie. Hanno pochi capitali e un livello di ricerca e di sviluppo scarsi. Ciò rende molto difficile motivare queste imprese a investire in una prospettiva a lungo termine. Inoltre, nel QCS 1 (1989-1993) molte imprese mancavano di informazioni sui programmi. La situazione migliorò negli anni Novanta con la creazione di Centri per gli Affari europei presso banche e pubbliche istituzioni. Un altro impedimento era dato dal fatto che i regolamenti dei fondi strutturali erano piuttosto complessi e difficili da comprendere. La semplificazione delle procedure e dei regolamenti fu solo parzialmente realizzata. Talvolta i programmi UE erano troppo rigidi e mancavano i margini di flessibilità. Vennero intrapresi cambiamenti nel QCS 2 e nel QCS 3 per migliorare l’utilizzazione dei finanziamenti e il loro tasso di implementazione. Un ulteriore ostacolo era dovuto al fatto che le autorità responsabili per i vari programmi non avevano un database integrato che fornisse informazioni sullo sviluppo degli stessi dall’inizio alla fine. Ciò portò alla sovrapposizione dei progetti e in taluni casi persino alla loro duplicazione. Tale database è stato predisposto solo a partire dal 2001.

Box 1 → Instituto nacional de administração (INA)

L’economia portoghese e l’Unione economica e monetaria. Malgrado l’economia portoghese sia considerevolmente migliorata in seguito all’adesione all’Unione europea, il Portogallo è andato recentemente incontro a vari problemi in merito all’adempimento dei criteri dell’Unione economica e monetaria. I due maggiori partiti, quello socialista e quello socialdemocratico, concordano sul fatto che sia nell’interesse nazionale mantenere la disciplina macroeconomica imposta dalle logiche dell’unione economico-monetaria. Il Portogallo ha compiuto grandi sforzi per divenire membro dell’UEM. L’economia portoghese godeva relativamente di buona salute fino alla prima metà del 2001, ma successivamente entrò in crisi. Il governo socialista non raggiunse le entrate fiscali previste e la spesa continuò ad aumentare, creando gravi problemi per il deficit di bilancio. La crisi economica fu ulteriormente aggravata dall’attacco dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle di New York che condussero alla recessione mondiale. Alla fine dell’anno, il Portogallo aveva oltrepassato il limite del deficit di bilancio del 3% del PIL fissato dalla UEM. Il dato finale del PIL fu del 4,2%, molto al di sopra dell’obiettivo prefissato. Il primo ministro Antonio Guterres si dimise nel dicembre 2001, dopo la sconfitta alle elezioni locali. Nelle elezioni del marzo 2002 vinse il PSD, ma senza una maggioranza. Esso formò una coalizione con l’euroscettico e conservatore Centro democratico sociale-Partito popolare (Centro Democratico e Social-Partido Popular, CDS-PP) che gestì un programma di misure di austerità per prevenire il verificarsi di ulteriori deficit di bilancio. Le misure di austerità ebbero un impatto piuttosto negativo sul paese. Innanzitutto, una delle priorità del nuovo governo fu la riforma della pubblica amministrazione e i tagli di personale nel settore pubblico, che era stimato in 700.000 unità. In secondo luogo, il governo cercava di risparmiare in tutti i settori per ridurre il deficit. Infine, vennero riviste le indennità sociali, anche in questo caso per ridurre il deficit di bilancio. La conseguenza fu un aumento della disoccupazione e anche della povertà. Molte imprese ebbero difficoltà a stare a galla nel periodo di recessione. Insomma, alla fine del 2003 l’economia portoghese, per la prima volta dall’inizio del processo rivoluzionario, ebbe una crescita negativa. La situazione economica migliorò nella seconda metà del 2004; ciò nonostante, il presidente sciolse il governo alla fine dell’anno. Vennero indette nuove elezioni per il febbraio 2005 che portarono alla vittoria del partito socialista, con una maggioranza assoluta. Secondo un rapporto indipendente preparato dalla Banca del Portogallo, nell’anno 2004 il deficit di bilancio toccò il 6,2% del PIL, dato questo che eccedeva i parametri fissati dall’UEM. Secondo i progetti del governo, un deficit maggiore rispetto ai criteri UEM sarebbe rimasto fino al termine del 2007. Soltanto nel 2008 il deficit di bilancio scese al di sotto del 3% del PIL. Il debito pubblico superò il 60% prescritto. Il governo portoghese stimò che fino al 2008 vi sarebbe stato un aumento del debito pubblico, poi esso avrebbe iniziato a decrescere. Questa situazione è abbastanza preoccupante, poiché la competitività del Portogallo è molto debole. Il Portogallo importa più di quanto esporta e ciò naturalmente danneggia una crescita sostenibile. Il quadro esposto, unitamente alle deboli strutture dei settori industriale, agricolo e dei servizi del Portogallo, dimostra che la debole economia del paese è particolarmente vulnerabile agli shock asimmetrici dell’Eurozona. Tuttavia, si deve riconoscere che, a confronto con il periodo precedente il 1986, la gestione della politica macroeconomica portoghese è qualitativamente migliorata. Il ruolo dell’Unione europea, nel favorire tale comportamento, non può essere sottovalutato.

Box 2 → Banca del Portogallo

Atteggiamenti verso l’integrazione europea. Per quanto concerne gli atteggiamenti verso l’Unione europea, il Portogallo rientra nel modello di comportamento dell’Europa meridionale. Stando ai risultati dell’indagine dell’Eurobarometro del febbraio-marzo 2004, il 55% dei portoghesi, insieme a greci, spagnoli e italiani, sostiene l’adesione all’UE, quindi una percentuale più alta della media UE del 40%, mentre il 66% afferma di aver beneficiato di essa (a paragone del 47% della media UE). Il Portogallo è altresì uno dei paesi che vogliono una integrazione europea più veloce. Prima dei referendum in Francia e in Olanda, la maggioranza dei portoghesi sosteneva il Trattato costituzionale (v. Costituzione europea). Si progettò un referendum, ma, a causa dei voti contrari in Francia e Olanda, fu sospeso. Il popolo portoghese è divenuto più critico verso la democrazia nell’Unione europea. In passato, l’Unione europea era vista come un modello di democrazia cui ispirarsi, ma negli anni Novanta emerse una forma di Euroscetticismo, in particolare tra quelli che non avevano tratto vantaggi dall’integrazione europea. Il partito conservatore CDS-PP utilizzò tale euroscetticismo e la retorica anti Maastricht per rafforzare il proprio sostegno tra coloro che nelle aree rurali non avevano beneficiato dell’integrazione europea e tra i pescatori. Il partito comunista era contrario all’Europa dei monopoli e favorevole all’Europa sociale. Malgrado tale euroscetticismo, la grande maggioranza della popolazione vota per i due maggiori partiti che sono incondizionatamente filoeuropei.

Il Portogallo e la politica estera europea. Da ultimo, ma non meno importante, la politica estera portoghese è stata valorizzata grazie all’integrazione nell’Unione europea. Il Portogallo partecipa attivamente alla PESC (Politica estera di sicurezza comune) ed è uno dei membri fondatori della NATO. Inoltre, il Portogallo considera la propria politica estera come complementare rispetto all’emergente politica estera europea. Un esempio particolare in cui la politica estera portoghese ha avuto il sostegno delle istituzioni europee è stato Timor Est. Per decenni, la diplomazia portoghese ha utilizzato i canali dell’Unione europea per ottenere l’indipendenza di Timor Est. Ciò è stato compiuto nel nuovo millennio ed è probabilmente considerato dalla diplomazia portoghese come uno dei propri maggiori successi.

In conclusione, l’integrazione europea del Portogallo è il frutto di una ferma convinzione. Dopo quasi 50 anni di autoritarismo, è un privilegio per il Portogallo fare parte di una comunità di nazioni democratiche e condividerne i valori. Le conseguenze negative delle guerre coloniali hanno trasformato il Portogallo in una nazione amante della pace, interessata a promuovere la solidarietà e la dignità umana. A tale riguardo, l’Unione europea è vista come l’arena ideale per portare avanti tali idee.

Box 3 → Ministero degli Affari esteri

Box 4 → Parlamento portoghese

Box 5 → Istituto di studi strategici e internazionali (IIEI)

Box 6 → Istituto di difesa nazionale (IDN)

Box 7→ Centro di Informazione Europea Jacques Delors

 José M. Magone (2006) 




Regno Unito

Introduzione

Negli ultimi sessant’anni, la relazione del Regno Unito con i vicini europei è stata fonte di grande controversia politica. In molti hanno contribuito significativamente al vortice di idee e all’evoluzione della politica relativa sia alla direzione futura dell’integrazione europea che al ruolo specifico della Gran Bretagna. Prima dello scoppio della guerra nel 1939, il Federalismo, e in particolare il federalismo europeo, poteva considerarsi una causa popolare. Tra i suoi sostenitori vi furono membri dell’élite politica che nel dopoguerra avrebbero ricoperto cariche importanti. Un esempio calzante è Clement Attlee, primo ministro dal 1945 al 1951. Fu lui nel dicembre del 1939 a scrivere «o l’Europa si unisce in una confederazione o muore». Tuttavia, qui soffermeremo l’attenzione soprattutto sulle posizioni ufficiali, ossia governative, riguardo all’Europa, alla Comunità europea/Unione europea e al concetto di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

L’integrazione europea in quanto processo politico continuo è essenzialmente un fenomeno politico del dopoguerra. La posizione britannica a tal riguardo nonché la sua partecipazione all’integrazione, ha subito varie e distinte fasi. Negli anni compresi tra il 1945 e il 1957 il paese fu impegnato in idee, discussioni e progetti riguardanti il futuro del continente, ma rispetto a quanto accadde nei suoi vicini europei più prossimi, la questione rivestì minore importanza. La decisione di non aderire alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) indicò all’epoca un chiaro dissenso. A partire dal 1957, con la nascita della Comunità economica europea e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), apparve evidente che tale dissenso equivaleva a qualcosa di molto più significativo, vale a dire una vera e propria separazione di percorso.

La seconda fase fu in effetti dominata dai tentativi di evitare o per lo meno di colmare quella separazione, che portò infine all’inizio del 1973 all’adesione alle Comunità. In realtà, tale fase non si concluse veramente fino al 1975, ovvero dopo ciò che eufemisticamente venne definita la “rinegoziazione delle condizioni di adesione” e il Regno Unito indisse il primo referendum con il quale venne bocciata la possibilità di un ritiro e confermata quindi l’adesione. La lunga terza fase dal 1975 al 1997 vide il Regno Unito affermarsi come “europeo riluttante”, membro a pieno titolo della Comunità/Unione ma che fin troppo spesso si mostrò contrario, nella teoria come nella pratica, o almeno tale si dichiarò, a un’ulteriore integrazione. L’attuale quarta fase si inaugurò con il crollo del blocco sovietico alla fine degli anni Ottanta e fu segnata sia dall’evoluzione della Comunità europea in Unione europea che da un considerevole aumento del numero di membri. Si può affermare in definitiva che il Regno Unito, con l’elezione di un governo dichiaratamente europeista nella veste di “nuovo” laburismo, abbia normalizzato le sue relazioni con un’Unione europea fortemente allargata.

Sotto ogni profilo, il Regno Unito sarà sempre un importante attore economico e politico negli sviluppi istituzionali europei. Il percorso delle relazioni britanniche con altri Stati membri della Comunità/Unione non è mai stato facile o orientato verso un’unica direzione. Anche durante la lunga terza fase di “riluttanza” sono giunti contributi significativi all’integrazione da vari governi britannici e da singole persone. La configurazione attuale dell’Unione sarebbe stata molto diversa senza il Regno Unito.

Il secondo dopoguerra

Il Regno Unito riemerse dai traumi delle dittature europee e della guerra in modo molto diverso dai suoi vicini. Al suo interno le istituzioni democratiche non erano state seriamente minacciate. Diversamente dalla maggior parte degli altri paesi europei, poteva ritenere che il suo Stato nazione fosse stato difeso molto bene. Non aveva subito sconfitte e/o occupazioni da parte di forze esterne, destino invece di quasi tutti gli altri paesi europei nel periodo tra il 1939 e il 1945. Non era sorta la necessità di movimenti “di resistenza” che avevano caratterizzato molti paesi continentali e all’interno dei quali si erano sviluppate molte idee su come ricostruire l’Europa (v. Resistenza). In quei paesi l’esperienza bellica convertì una generazione di leader politici alla necessità dell’unificazione europea. Proprio perché l’esperienza britannica della guerra fu differente, anche il suo impatto produsse risultati differenti. Il movimento federalista, una forza significativa presente sulla scena politica britannica prima del 1939, si era in gran parte disgregato, ovviamente a livello popolare, con lo scoppio della guerra. Quando Clement Attlee, un federalista del periodo prebellico, divenne primo ministro, la futura organizzazione dell’Europa non era in cima alla lista delle sue priorità. E fu così per molti altri che avevano precedentemente sostenuto il movimento Federal union.

In apparenza, l’economia britannica aveva sofferto molto meno di quella di altri importanti paesi continentali. Sul fronte politico, il Regno Unito era il principale partner d’oltremare degli Stati Uniti. Sebbene fossero già chiari gli squilibri in tale relazione, il ruolo di “glorioso” numero due nell’alleanza transatlantica sembrò per molti più allettante di una stretta integrazione con un continente distrutto economicamente, in cui incombevano molti interrogativi anche sulla stabilità politica di alcuni dei principali paesi. La trasformazione dell’ex Impero britannico nel Commonwealth collegò il Regno Unito a vasti mercati d’oltremare e sembrò anche offrire una strada per conservare un’influenza politica internazionale.

Nel 1945, l’elezione a schiacciante maggioranza di un governo laburista non fu di per sé un fattore che necessariamente deponesse a sfavore di più strette relazioni con il continente. Il Partito laburista si sentiva parte di un movimento internazionale; molti dei suoi leader avevano dato un forte sostegno pubblico alle idee federaliste nel periodo precedente al 1939. Conoscevano altresì le loro controparti degli altri paesi europei, con cui mantenevano buoni rapporti. Tuttavia, vi erano altre e più immediate, se non necessariamente più importanti, priorità pratiche. Uniti per risanare l’economia britannica, compito che sarebbe spettato a qualsiasi governo, i laburisti intrapresero un imponente e ambizioso programma di riforme sociali volto a promuovere l’uguaglianza economica. Rientrava in questo programma anche una importante estensione della proprietà pubblica che si sperava avrebbe anche stimolato la rigenerazione economica. All’esterno, le principali preoccupazioni furono la trasformazione dell’Impero nel Commonwealth e la reazione alle minacce e agli allarmi posti dall’espansionismo sovietico. Il Regno Unito aveva ancora tutti gli orpelli tipici di una grande potenza mondiale con coinvolgimento militare nell’Estremo Oriente e nel Medio Oriente nonché responsabilità coloniali in Africa e in Asia. L’assegnazione di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’ONU sembrò scontata all’epoca. Sarebbe poco corretto affermare che il Regno Unito fosse indifferente alle questioni europee in generale. Il Trattato di Bruxelles che associava il Regno Unito alla Francia e al Benelux fu una chiara e storica rottura con la tradizionale politica britannica; indicò infatti un impegno storico e positivo a favore della difesa e della sicurezza europea e lo stesso dicasi dell’adesione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). La Gran Bretagna fu anche il membro fondatore dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), istituita per promuovere la ripresa economica dell’Europa. Dall’altra parte, il ruolo fondamentale che il paese ebbe nel contribuire alla creazione del Consiglio d’Europa richiama l’aforisma di Winston Churchill, secondo cui il Regno Unito stava “con l’Europa”, ma la natura delle istituzioni del Consiglio e il disinteresse britannico verso qualsiasi piano più ambizioso indicava che ciò non equivaleva a far parte “dell’Europa”.

La debolezza fondamentale del Consiglio d’Europa risiedeva nel fatto che malgrado le sue competenze in teoria vastissime, non aveva un potere reale. Come talking shop riuniva allo stesso tavolo gli europei. I federalisti britannici potevano incontrarsi con i loro colleghi degli altri paesi dell’Europa occidentale: la libera circolazione e lo scambio di idee furono di per sé preziosi. Tuttavia, altri paesi vollero spingersi oltre e più rapidamente del Regno Unito. Durante un dibattito teorico, se non in definitiva sterile, sulle “competenze limitate e sui poteri reali” per il Consiglio d’Europa o per un organo sostitutivo, il contributo britannico fu quasi del tutto negativo. Quando Robert Schuman promosse il suo piano, ideato da Jean Monnet, di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), non esisteva alcuna reale possibilità che il Regno Unito vi prendesse parte. Il governo laburista di allora rifiutò di impegnarsi in «un’impresa per riunire risorse carbonifere e siderurgiche e per istituire un’autorità, prima della possibilità di valutare pienamente il modo in cui tali vasti e importanti principi avrebbero funzionato in pratica». È interessante riportare i commenti espressi durante il dibattito parlamentare da Harold Macmillan, futuro primo ministro conservatore e promotore della prima candidatura britannica alla Comunità europea, che affermò: «non trasferiremo a nessuna autorità sovranazionale il diritto di chiudere le nostre miniere […] nessun governo potrebbe accettare di farlo».

Due fattori sottolinearono tale rifiuto. In termini di prassi e consuetudini istituzionali, l’attaccamento britannico al pragmatismo implicava un accordo dettagliato quale condizione per l’accettazione di qualsiasi principio o scopo più ampio. Ciò era in netto contrasto con il metodo emergente della Comunità di concordare i principi e gli scopi come strumento per risolvere qualsiasi problema pratico. Più specificamente, il governo laburista aveva nazionalizzato l’industria carbonifera e stava facendo lo stesso anche con l’industria siderurgica. Era semplicemente inaccettabile che tali industrie venissero ora cedute a un’autorità sovranazionale su cui il governo britannico non avrebbe avuto alcun controllo. Per alcuni versi ciò preannunciò alcune delle future controversie riguardo all’impatto dell’integrazione sulla sovranità nazionale britannica. Tuttavia, all’epoca venne invocato raramente il concetto di sovranità nazionale. Forse è importante osservare che il governo britannico non considerava necessariamente il rifiuto di aderire alla CECA come un “chiudere la porta” alla cooperazione o al partenariato. Tre anni dopo la firma del Trattato di Parigi, il Regno Unito aderì al vago accordo di associazione con la CECA.

Occorre sottolineare che Jean Monnet, uno dei padri della Comunità e dell’integrazione europea, fu sempre convinto che la Gran Bretagna potesse e dovesse aderire alla Comunità e che alla fine lo avrebbe fatto anche se non necessariamente da subito. Egli diagnosticò con precisione che i britannici erano più bravi a capire i fatti pratici piuttosto che le idee. I Sei dovevano costruire l’Europa, poi la Gran Bretagna avrebbe capito e vi avrebbe aderito. E i fatti alla fine gli avrebbero dato ragione.

Il groviglio della difesa

Il percorso dell’integrazione europea è sempre stato influenzato, se non plasmato, dagli eventi mondiali. Lo scoppio della guerra di Corea e la richiesta americana di un maggiore contributo europeo alla sua stessa difesa fece puntare i riflettori sulla questione del riarmo tedesco. La risposta fu la proposta di una Comunità europea di difesa (CED) con gli stessi membri di quelli della CECA e con un contributo tedesco alla difesa europea senza un esercito tedesco indipendente. Anche in questa occasione non venne preso in considerazione il coinvolgimento britannico in una struttura sovranazionale. Tuttavia, fu il governo britannico a prendere l’iniziativa diplomatica dopo che l’Assemblea nazionale francese respinse il progetto di trattato. Il Regno Unito si assunse diversi impegni per rassicurare i francesi, garantendo soprattutto che il suo esercito sarebbe rimasto nel continente. L’Unione dell’Europa occidentale assicurò che il riarmo tedesco sarebbe avvenuto a livello puramente nazionale; la fiducia britannica nei vantaggi della cooperazione europea rispetto all’integrazione sembrò ripagata. La realtà fu diversa: le basi per un riavvicinamento franco-tedesco erano state assicurate e i Sei avevano ricevuto chiari indizi che l’integrazione poteva, doveva e sarebbe proseguita senza, per il momento, alcun coinvolgimento del Regno Unito.

La crisi di Suez del 1956 e i tentativi falliti da parte del Regno Unito e della Francia di riaffermare il dominio sul Medio Oriente costituirono un altro fattore chiave nello sviluppo della Comunità europea. Un fattore determinante del fallimento fu l’atteggiamento degli Stati Uniti. La Francia imparò a non fidarsi dell’impegno americano nella difesa degli interessi europei. La risposta fu un chiaro coinvolgimento nell’integrazione e per molti anche una visione federale dell’Europa. Il Regno Unito fece una valutazione piuttosto diversa della crisi di Suez e del suo epilogo. Non avrebbe mai più intrapreso un’azione militare su base unilaterale senza previa approvazione degli Stati Uniti – il fondamento della politica estera britannica sarebbe stato il legame atlantico e non l’integrazione europea.

Il Regno Unito presenziò ai lavori iniziali della Commissione Spaak (v. Spaak, Paul Henri-Charles) che portarono alla Comunità economica (Mercato comune), sebbene la rappresentanza fosse più a livello di funzionari che ministeriale. Rimane ancora poco chiaro se il governo britannico considerasse tale rappresentanza come da partecipante o da osservatore. Il funzionario in questione, Michael Bretherton, era un vecchio sostenitore dell’idea europea e diede un contributo positivo prima di essere richiamato dal governo di Londra. Gli elementi sovranazionali, molto più deboli di quelli presenti nella CECA, erano ancora inaccettabili. L’ostacolo principale fu la proposta di una Tariffa esterna comune, poiché, anche se si sarebbero potute negoziare esenzioni per molti prodotti del Commonwealth, si ritenne che ciò avrebbe influito negativamente sui flussi commerciali. Il principale errore di valutazione da parte britannica fu ancora una volta di fare la stessa supposizione che era stata alla base della politica al momento della creazione della CECA: volenti o nolenti, i Sei non sarebbero mai stati capaci di concordare le basi per un Mercato comune. Il loro successo non solo determinò la separazione delle strade percorse dai Sei e dal Regno Unito, ma indebolì anche le basi della politica britannica riguardo al continente.

La prima reazione britannica fu proporre un’area di libero scambio nell’ambito dell’OECE in cui la CEE fosse in realtà un unico membro. Il libero scambio si sarebbe limitato ai prodotti industriali, non ci sarebbero state nessuna politica agricola e nessuna tariffa esterna comune all’interno dell’intera zona. Fu il governo francese di Charles de Gaulle a dire formalmente “no”, ma è improbabile che tale proposta avrebbe avuto un seguito. Sembrava offrire alla Gran Bretagna e ad altri non membri molti dei vantaggi economici della CEE senza alcun impegno politico. La reazione immediata della Gran Bretagna a questo fallimento fu unirsi alla Svezia nel promuovere un gruppo alternativo composto da sette paesi: la cosiddetta Associazione europea di libero scambio (EFTA) organizzata su linee simili a quelle proposte per l’area di libero scambio. In teoria, ciò avrebbe potuto esercitare pressioni sulla CEE per un accordo su scala OECE simile a quello dell’area di libero scambio. Tuttavia, come manovra tattica non poteva funzionare. Quasi per definizione l’EFTA non aveva una tariffa esterna comune. Oltre alla Gran Bretagna, il mercato più importante tra i sette era la Svezia, un paese dalle tariffe basse. I Sei risposero inevitabilmente rifiutando il negoziato multilaterale proposto.

Questi anni segnarono il punto più basso della politica europea britannica. La CEE era stata istituita contro ogni aspettativa britannica e a breve si sarebbe avviato il Mercato comune. I suoi membri interpretarono entrambe le iniziative britanniche come due variazioni sullo stesso tema: destinate a ottenere vantaggi economici senza assumere impegni politici a favore dell’integrazione e dell’Europa. Il governo britannico si trovava ora di fronte a un vero e proprio dilemma. Non desiderava ancora far parte di una Comunità sovranazionale che mirasse a una qualche forma di unione politica e forse in ultimo a un’Europa federale, ma si rendeva anche conto che un’esclusione da tale unione, qualora si fosse realizzata, avrebbe indebolito sia le sue prospettive economiche che il suo ruolo di protagonista politico in Europa. Difficilmente non si sarebbe incrinata la fondamentale relazione transatlantica avente il Regno Unito come principale alleato degli Stati Uniti se e quando la CEE senza la Gran Bretagna fosse diventata la potenza economica dominante in Europa. L’unica alternativa era perseguire l’adesione alle migliori condizioni possibili.

Adesione alla Comunità

La prima candidatura del Regno Unito alla Comunità venne presentata nel luglio del 1961; il “veto” di de Gaulle mise fine ai lunghi negoziati nel gennaio 1963. Da una parte il Regno Unito non sembrò aver capito le questioni di principio inerenti all’adesione alla Comunità e alla partecipazione al processo di integrazione. L’attenzione invece si concentrò su un insieme di problemi commerciali, in particolare quelli che riguardavano il Commonwealth. In realtà ciò fece sì che quello che avrebbe dovuto essere un negoziato sulla struttura futura dell’Europa si trasformasse in una discussione su un’enorme quantità di questioni commerciali. Ci furono discussioni sugli accordi specifici per il burro neozelandese, per il tè indiano e per una serie di prodotti quali il piombo e lo zinco. Il capo negoziatore britannico, Edward Heath, si dimostrò un maestro del dettaglio, ma il quadro generale in qualche modo latitava: in nessun momento i negoziati si concentrarono sull’importante domanda riguardo al futuro dell’Europa, anche se Heath stesso era fortemente europeista e dieci anni dopo da primo ministro sarebbe stato il responsabile dell’adesione britannica alla Comunità. All’epoca dei primi negoziati il primo ministro era Macmillan. Dieci anni prima si era opposto all’adesione britannica alla Comunità sovranazionale del carbone e dell’acciaio pur capendo allo stesso tempo che l’iniziativa di Schuman era ispirata da considerazioni politiche, «non una concezione dalla sostanza puramente economica o industriale» bensì «un grande progetto per una nuova Europa».

Esistono tuttora spiegazioni contrastanti riguardo alle precise motivazioni che spinsero de Gaulle e il governo francese a mettere fine in modo unilaterale ai negoziati. Per alcuni a Parigi il dado non fu tratto realmente finché il Regno Unito non istituì un accordo con gli Stati Uniti riguardo al cosiddetto deterrente nucleare indipendente. Per altri, la posizione politica di de Gaulle in Francia era troppo debole fino all’estate del 1962 per poter semplicemente dire di “no”. In entrambi i casi, la tattica britannica era fallita ancora una volta. Dall’estate del 1962 si sarebbe potuto chiudere un accordo, ma ciò fu impossibile per le eccessive minuzie dei negoziati e degli accordi predisposti per facilitare l’adesione britannica. A partire dal gennaio del 1963, la posizione politica di de Gaulle si era notevolmente rafforzata. Quali che siano i dettagli di questa analisi la verità è che il presidente francese aveva ambizioni molto simili a quelle di molti membri del governo britannico: essere alla guida della comunità. Ma non c’era abbastanza posto per due aspiranti leader.

Considerato che esattamente dieci anni dopo la Gran Bretagna divenne membro a pieno titolo della Comunità, è alquanto facile liquidare il veto di de Gaulle come una mera battuta d’arresto momentanea, che ritardava l’inevitabile. Tuttavia, ciò determinò altri dieci anni di dubbi, esitazioni e di atteggiamenti politici nel Regno Unito. In quegli stessi anni si assistette a grandi cambiamenti nella CE. Il processo di adattamento britannico sarebbe stato molto più difficile; e ciò avrebbe ulteriormente alimentato discussioni antieuropeiste e a lungo termine avrebbe tramandato un’eredità funesta alla successiva generazione di leader politici.

Nel breve termine, Harold Wilson divenne primo ministro quando i laburisti vinsero le elezioni del 1964. Era stato un vago sostenitore dell’Unione federale prima della guerra ma aveva espresso una posizione antieuropeista durante le controversie interne che avevano tormentato il partito laburista negli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta. L’esperienza pratica portò a un’altra conversione. Wilson come i precedenti leader sperò di basare la politica estera britannica e l’influenza internazionale sull’alleanza transatlantica e sulla forza del Commonwealth. La prima venne indebolita dal crescente coinvolgimento americano in Vietnam e dall’evidente calo d’interesse verso il mondo atlantico. Inoltre gli Stati Uniti spinsero per una fine delle divisioni in Europa occidentale e sostennero ampiamente gli ulteriori tentativi del Regno Unito di aderire alla CE. Nel frattempo le riunioni dei leader del Commonwealth furono per lo più dominate dalle critiche sul fallimento della Gran Bretagna nella risoluzione del problema della Rhodesia.

Wilson non aveva una posizione rigida riguardo ai problemi economici che potevano sorgere con l’adesione. Tuttavia, la motivazione principale della seconda candidatura alla CE fu politica: l’influenza britannica in Europa e l’influenza europea nel mondo. È interessante notare come più di trenta anni dopo e in circostanze internazionali molto diverse, un altro primo ministro laburista, Tony Blair, avrebbe espresso le stesse identiche considerazioni per consolidare la politica britannica all’interno di ciò che era diventata l’Unione europea. Negli anni Sessanta, sebbene alcuni membri del governo Wilson sostenessero idee federali, l’evoluzione futura della CE venne scarsamente dibattuta. Da parte loro, le critiche, ben presenti nel governo, si concentrarono sugli svantaggi economici; ancora non si parlava molto di questioni legate alla sovranità nazionale. Grazie all’ampio sostegno del Partito conservatore e di quello liberale all’iniziativa di Wilson, un raro momento di armonia sulle questioni europee, il voto in Parlamento fu nettamente a favore. Il problema principale fu che non esistevano prove che de Gaulle avesse cambiato idea sull’adesione britannica; si assistette infatti al secondo veto posto con la stessa durezza del primo.

Discussioni sul modo possibile per eludere l’opposizione francese, compresa un’iniziativa britannica, diretta da George Brown che era stato segretario agli Affari esteri, per una Comunità politica europea (v. Cooperazione politica europea), fu interrotta improvvisamente dalle dimissioni di de Gaulle nel 1969. L’ampio accordo tra i principali partiti politici britannici, o a ogni modo tra i loro leader, fu di particolare importanza in quella fase. I funzionari prepararono delle direttive per l’apertura di un nuovo round di negoziati con la CE: nel 1970 il passaggio da un governo laburista a uno conservatore non fece alcuna differenza. Toccò a Edward Heath, fervido europeista ma disinteressato al federalismo, “portare la Gran Bretagna in Europa”.

La sostanza dei negoziati per l’adesione britannica differì per due aspetti principali da quelli condotti nel decennio precedente. Questi furono ampiamente incentrati su un esiguo numero di prodotti, in particolare sullo zucchero, sul burro, sul pesce e sui regolamenti finanziari CE. Per molti versi l’ultima questione rappresentò lo sviluppo interno più importante per la Comunità negli anni precedenti all’adesione britannica. Non sorprende affatto che nell’elaborazione delle regole di bilancio, i Sei non avessero affatto considerato il loro probabile impatto sul Regno Unito, che all’epoca non era ancora membro. In effetti, il negoziato di adesione non risolse le possibili difficoltà britanniche né tanto meno gli altri problemi specifici. La seconda importante differenza tra i due round di negoziati è che Heath adottò il “metodo comunitario” di concordare l’obiettivo, ovvero una CE allargata, e relegare la soluzione dei problemi a “cose fatte”. È interessante fare un confronto tra questi negoziati e quelli di dieci anni prima. Allora accadde che furono i negoziatori britannici a essere colti di sorpresa dall’intervento di de Gaulle e dal suo veto. Nel 1972 la delegazione francese tergiversò e apparve ugualmente sorpresa da ciò che in effetti fu una direttiva del presidente Georges Pompidou di raggiungere l’accordo. Si giunse a questo grazie all’intesa tra Heath e Pompidou, che assicurò l’ingresso britannico, ma non contribuì a risolvere nessuno dei problemi concreti.

E i problemi emersero ben presto, sebbene la soluzione iniziale fosse abbastanza strana. Il Regno Unito aderì alla CE il 1° gennaio 1973 e poco più di un anno dopo ci fu un ulteriore cambio di governo con i laburisti di nuovo al potere. Durante gli anni intercorsi all’opposizione, all’interno del Partito laburista erano riemerse profonde divisioni sulla questione europea. Un considerevole gruppo di parlamentari laburisti votò con il governo conservatore per assicurare l’approvazione in parlamento del progetto di legge che consentiva l’ingresso britannico. Tuttavia, il baricentro all’interno del partito si era spostato verso gli antieuropeisti. Da sempre sommo stratega, Wilson, adottò due tattiche, nessuna delle quali di sua ideazione. La prima fu concentrarsi sulle condizioni piuttosto che sul principio dell’adesione. Il nuovo governo laburista perseguì una rinegoziazione di tali condizioni; il risultato sarebbe stato sottoposto a referendum. Come procedura puramente politica, funzionò. In pratica la “rinegoziazione” non cambiò nulla e le “condizioni di adesione” rimasero sostanzialmente le stesse, e così pure i problemi potenziali. Indire un referendum dopo l’adesione, invece che prima, significò che coloro che vi si opponevano avrebbero cercato di cambiare lo status quo e quindi di sfidare l’innato conservatorismo degli elettori. Inoltre, tutti i principali leader politici erano dalla stessa parte. Non sorprende che il referendum fosse vinto con facilità e la partecipazione britannica alla Comunità venne confermata a livello popolare, sebbene in qualche misura con una sorta di gioco di destrezza.

L’europeo riluttante

Con il senno di poi, il modo in cui il Regno Unito aderì alla Comunità e la tempistica avrebbero creato problemi per il futuro. Diversamente dai sei membri originari, nel Regno Unito non ci fu mai una grande adesione popolare all’unificazione europea come un obiettivo auspicabile in sé, un modo per assicurare la stabilità e la prosperità dell’intero continente, per garantire una maggiore influenza dell’Europa negli affari internazionali e per contribuire con l’esempio a creare un assetto mondiale migliore. Sebbene alcuni leader politici britannici apprezzassero tali considerazioni e fossero disposti ad abbracciare idee federali, si trattava di una minoranza. Non venne fatto alcuno sforzo consapevole per “vendere” l’Europa su tale base. L’adesione venne presentata come una necessità e non anche qualcosa di assolutamente auspicabile. Avrebbe creato più problemi rimanere fuori dalla Comunità, quindi “meglio dentro che fuori”. A partire dal momento in cui il Regno Unito aderì all’inizio del 1973 fino alla vittoria del “nuovo” laburismo nel 1997, l’unico primo ministro che mostrò un trasporto verso la causa europea fu Edward Heath, che rimase in carica soltanto per un anno. Harold Wilson attraversò una conversione intellettuale e confermò l’operato di Heath garantendo il proseguimento dell’adesione attraverso il referendum. Tuttavia, a un anno dal referendum, si ritirò dalla carica di primo ministro. Il successore, James Callaghan non fu mai un sostenitore della “causa europea”, ma rese comunque un importante, seppur indiretto e forse involontario, contributo.

Le divisioni nel Partito laburista in merito alla questione europea c’erano sempre state; dopo il 1976, l’equilibrio di potere si era spostato gradualmente verso gli antieuropeisti. È probabile che il motivo principale che spinse Callaghan a inviare a Bruxelles l’eminente europeista Roy Jenkins come uno dei due commissari britannici, fosse di rafforzare l’unità del partito in patria. Presidente della Commissione europea dal 1977 al 1981, Jenkins aveva il vantaggio di essere il politico nazionale di maggior peso ad aver mai rivestito quella carica e in quanto tale poteva ambire a trattare quasi alla pari con il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, e con il cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Il suo principale successo fu introdurre il concetto di Unione economica e monetaria e nello specifico istituire il Sistema monetario europeo. Lo SME, concepito soprattutto come strumento per proteggere le economie europee dalle fluttuazioni dei tassi di cambio, rappresentò chiaramente un rafforzamento dell’integrazione senza essere necessariamente definito come tale. Venne richiesta l’adesione di tutti gli Stati membri, sebbene la partecipazione al meccanismo di cambio a esso associata fosse facoltativa.

Due mesi dopo l’entrata in vigore dello SME, Margaret Thatcher divenne primo ministro, carica che avrebbe rivestito fino quasi alla fine del 1990. C’erano stati momenti negli anni Sessanta in cui il clima antagonistico della politica britannica si era disteso al punto da consentire a entrambi i maggiori partiti, o in ogni caso alle loro leadership, di sostenere un ruolo positivo del paese in Europa. Per gran parte degli anni Ottanta si assistette a un netto contrasto tra i due partiti maggiori, quello conservatore in carica e quello laburista all’opposizione, che apparvero in competizione riguardo all’avventura europea. Fu durante il mandato della Thatcher che si diffuse il termine “euroscettico” per definire in modo piuttosto fuorviante coloro che volevano far regredire la corrente dell’integrazione europea cercando di rinazionalizzare i poteri conferiti alle istituzioni comuni (v. Euroscetticismo). Alcuni dei cosiddetti “euroscettici” immaginavano che la Gran Bretagna ritirasse la sua adesione e negoziasse qualcosa di simile all’area di libero scambio proposta in precedenza alla fine degli anni Cinquanta e rifiutata dalla Comunità.

Il concetto di sovranità nazionale iniziò a essere invocato in molti dibattiti sull’Europa. Va ricordato in questo contesto che la Gran Bretagna è forse l’unico paese nel mondo democratico a non avere una costituzione scritta promulgata. La costituzione non scritta è un insieme di norme e consuetudini, ovvero statuti, interpretazioni e prassi consolidate. La sovranità risiede nel Parlamento, non appartiene al “popolo”. Nessun parlamento può vincolare i successori. Le implicazioni derivanti dall’associare tale sistema costituzionale e politico all’adesione alla CE non scatenarono grandi dibattiti negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, quando il Regno Unito stava contemplando l’idea di aderire. Un decennio dopo, gli anti integrazionisti riportarono alla ribalta la questione utilizzandola come argomento contro gli ulteriori nuovi sviluppi europei.

Il thatcherismo affronta l’Europa

Nei primi anni di premierato della Thatcher, la percezione di iniquità del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) rappresentò la questione principale. La portata del problema era stata riconosciuta sia nel corso dei negoziati di adesione che nella cosiddetta rinegoziazione. Tuttavia, non si fece nulla al riguardo di definitivo. Nei primi cinque anni di premierato, la questione rimase una ferita aperta. La Thatcher sollevò la questione nei successivi vertici senza apparentemente ottenere alcun risultato se non quello di compiere passi avanti in merito ad altre questioni praticamente impossibili. Alla fine, il problema fu risolto al Consiglio di Fontainebleau nel giugno del 1984 in puro stile comunitario (v. Accordi di Fontainebleau). Le risorse finanziarie a disposizione della Comunità non erano più adeguate ed era necessaria l’unanimità per aumentarle. Il Regno Unito in realtà “barattò” l’aumento delle risorse e, quindi, l’estensione dell’integrazione con accordi semipermanenti per uno sconto secondo una formula stabilita dalla Commissione europea.

È fin troppo facile dimenticare che l’Accordo di Fontainebleau in realtà inaugurò un clima di relativa calma nelle relazioni britanniche con la CE nei suoi anni di “europea riluttante”. Nei tre anni successivi, il Regno Unito svolse un ruolo importante nello sviluppo del processo e del progresso dell’integrazione. Era stato affrontato il problema del bilancio e la Thatcher, grata per il sostegno europeo ai tempi della crisi delle Falkland, era relativamente a favore di un’estensione della Cooperazione politica europea. Jacques Delors presentò al primo ministro l’equivalente di una “lista della spesa” contenente nuovi sviluppi potenziali, tra cui la necessità di completare il mercato interno comunitario. Dalla prospettiva della Thatcher ciò equivaleva a una liberalizzazione del commercio. Spettò a Lord Cockfield, il nuovo commissario britannico, il compito di preparare un piano per un Mercato unico europeo. Fu in questo contesto che al Consiglio di Milano nel giugno del 1985 la Thatcher venne in realtà fuorviata. Le questioni erano tra loro collegate; la maggioranza votò per l’istituzione di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) che avrebbe portato all’Atto unico europeo. La Thatcher si oppose alla procedura ma acconsentì. L’Atto unico europeo le concedeva quanto da lei richiesto in merito al mercato unico, ma prevedeva considerevoli implicazioni per una serie di altre questioni europee.

Dal suo punto di vista, il ruolo costruttivo della Gran Bretagna in questi sviluppi fu quasi casuale. Il suo istintivo antieuropeismo rimaneva e la portò a scontrarsi con membri di spicco del suo gabinetto, in particolare con il ministro degli Esteri Geoffrey Howe e il cancelliere dello Scacchiere Nigel Lawson. Ci fu una crescente dissonanza tra le opinioni personali della Thatcher espresse spesso con grande veemenza e i comportamenti di fatto della Gran Bretagna. Alla fine del 1988, la Thatcher pronunciò un discorso al Collegio d’Europa di Bruges che incluse la famosa frase: «Non abbiamo smantellato lo statalismo in Gran Bretagna solo per vedercelo imporre nuovamente […] da un super-Stato europeo che esercita un nuovo dominio». Tuttavia, nel giro di un anno rispose alle pressioni interne del governo con l’impegno che il Regno Unito avrebbe aderito a tempo debito al meccanismo di cambio. Questa sorta di “solfa” diventò sempre più stridente con la Thatcher e Delors in rotta di collisione. Allo stesso tempo la Thatcher in qualche modo non si rese conto del significato pieno del rovesciamento del sistema sovietico nell’Europa dell’Est, come dimostrò il suo atteggiamento riluttante verso la Riunificazione tedesca. Tutto ciò fu il preludio alla destituzione di un primo ministro che aveva vinto tre elezioni. Tale rimozione fu in gran parte architettata dagli europeisti che, in parte come conseguenza della loro azione, sarebbero diventati a breve una specie in via d’estinzione nel loro stesso partito.

Il lascito europeo della Thatcher è stranamente paradossale. Fu una firmataria del trattato di maggiore portata nella storia della CE: l’Atto unico europeo che aprì la strada a Maastricht e alla sua evoluzione in Unione europea. Sotto il profilo intellettuale, esso conteneva l’ispirazione per tutti gli sviluppi del successivo decennio. Non si può dubitare che la Thatcher avesse letto il documento e avesse capito che cosa stava firmando. Si possono fare diverse supposizioni sul fatto che qualora fosse rimasta in carica, avrebbe cercato di dare un indirizzo diverso all’Unione europea. In realtà, nel suo intimo, la Thatcher era sempre più convinta che un maggiore coinvolgimento in Europa, fosse la direzione sbagliata per la Gran Bretagna e anche dopo le sue dimissioni forzate non smise di ribadirlo. In questo contesto, l’altra parte del suo lascito europeo riguardò specificamente il Partito conservatore, che si orientò sempre più verso un’accanita posizione antieuropeista.

Il nuovo primo ministro, John Major, venne immediatamente trascinato da questa corrente contraria. L’Atto unico europeo portò inesorabilmente al Trattato di Maastricht. Il Regno Unito svolse un ruolo costruttivo nell’elaborazione del nuovo trattato, pur restando fuori dal Capitolo sociale e dalla fase finale dell’Unione economica e monetaria (v. anche Politica sociale). Questi opt-out e l’inclusione di una nuova clausola sulla sussidiarietà (v. Principio di sussidiarietà) permisero a Major di sostenere, in modo alquanto incoerente, che il nuovo trattato stesse in qualche modo invertendo il processo di integrazione in corso. Tale affermazione inverosimile contribuì a inasprire il crescente sentimento antieuropeista all’interno del Partito conservatore, che venne ulteriormente rafforzato dal fiasco dell’adesione britannica al Meccanismo di cambio. Le condizioni e la tempistica dell’ingresso britannico furono quasi certamente mal calcolate, soprattutto perché la sterlina venne valutata a un livello troppo alto. Il Regno Unito fu costretto a ritirarsi dopo il famoso “mercoledì nero” nei mercati finanziari mondiali. Da qui, gli antieuropeisti del Partito conservatore presero sempre più il sopravvento. L’effetto complessivo del “mercoledì nero” e le spaccature e le divisioni sulla questione europea, oltre a questioni politiche prettamente interne, avrebbero contribuito nel 1997 ad assicurare la schiacciante vittoria elettorale del “nuovo” laburismo.

L’impatto del new labour

L’Europa ha avuto un notevole impatto sull’evoluzione della politica britannica. Esistono valide prove che indicano che sebbene la Comunità/Unione europea non abbia mai goduto di grande consenso popolare nel paese, l’elettorato ha spesso mostrato un realismo maggiore di quello di alcuni dei suoi leader politici. Negli anni Ottanta, l’opposizione quasi unanime del Partito laburista a praticamente tutti gli aspetti del coinvolgimento nella CE fu uno dei fattori che contribuì a renderlo praticamente ineleggibile al governo nazionale così come le speculari buffonate dell’ala antieuropeista del Partito conservatore contribuirono alla loro sconfitta alle elezioni del 1997. La crescente opposizione ideologica all’intero concetto dell’Unione e dell’integrazione produsse successivamente un effetto simile sul sostegno ai conservatori nelle elezioni del 2001 e del 2005, come successe anche alle chances elettorali dei laburisti negli anni Ottanta.

All’interno di ogni partito esiste una tensione naturale tra coloro che affermano un principio o esprimono delle opinioni a prescindere dal risultato e coloro la cui preoccupazione principale è guadagnare potere. La dicotomia è particolarmente marcata nel Regno Unito, dove il sistema elettorale promuove ciò che può definirsi una politica majoritaire a livello nazionale: due grossi partiti che competono sul modello “chi vince prende tutto”. La politica di coalizione che consente ai partiti di promuovere la loro purezza ideologica senza perdere di vista la possibilità di partecipare al governo, ha pochi precedenti a livello nazionale. Durante gli anni Ottanta il Partito laburista si emarginò a livello nazionale grazie a una politica dogmatica di sinistra. Ci fu un momento in cui in termini di sostegno popolare venne superato dal Partito liberal-democratico di centro. Fu un processo graduale quello attraverso cui il laburismo riscoprì la politica pragmatica e la sete di vittoria elettorale. A quel tempo, le posizioni in merito all’Europa dei due maggiori partiti stavano andando in direzioni opposte. È interessante notare che, nonostante la natura fortemente centralizzata del tradizionale Stato britannico, il governo locale svolse un ruolo significativo nello sviluppo del pensiero laburista. Estromessi da Westminster e da Whitehall, i laburisti poterono ripiegare sulle proprie forze in tutte le forme di governo locale. Le autorità locali e in particolare i loro leader laburisti “riscoprirono” la Comunità. In un momento in cui il governo centrale stava ponendo un limite a tutte le spese locali, le autorità locali trovarono una fonte alternativa nei fondi comunitari regionali e sociali (v. anche Fondo di coesione). Seguì quindi una sorta di allineamento naturale tra il governo locale, controllato per la maggior parte dai laburisti, e la Commissione.

A incarnare il pragmatismo sulle questioni europee fu forse Tony Blair, che divenne primo ministro nel 1997. Né il suo voto a favore nel referendum del 1975 sulla permanenza nella CE né la sua adesione al successivo umore antieuropeista del Partito laburista significarono molto in termini di principi. La sua elezione a primo ministro segnò un cambio generazionale rispetto ai precedenti governi: per Blair, l’Europa era una realtà di fatto e non un argomento astratto di discussione di principio. I governi ereditano un lascito politico, che in precedenza per gran parte era stato l’Impero/Commonwealth. Per Blair l’Europa era una parte fondamentale della sua eredità politica.

Il manifesto laburista del 1997 fu il più “europeista” nella storia del partito impegnandosi a svolgere un ruolo attivo in Europa e specificamente a firmare il Capitolo sociale e a introdurre per le elezioni al Parlamento europeo una rappresentanza proporzionale. In questo quadro generale positivo, anche la promessa di appellarsi alla sussidiarietà laddove opportuno, e la proposta di un referendum sull’adesione all’Euro potevano essere intese come passi positivi. Si presentò subito l’occasione per il governo entrante per dimostrare le proprie credenziali europee con un ruolo attivo e positivo da assumere nei negoziati in corso per il Trattato di Amsterdam, unito all’adempimento della promessa di firmare il Capitolo sociale. Per gli altri Stati membri, si trattò di una svolta. I concetti di new labour e di middle way suscitarono notevole interesse. Per la prima volta, il Regno Unito sembrò un membro a pieno titolo e paritario nello sforzo europeo e non più “l’europeo riluttante”.

Il bilancio di un decennio

La definizione di “membro a pieno titolo e alla pari” del Regno Unito, nel decennio dal 1997 al 2007, è corretta ma parziale. La politica è pur sempre l’arte del possibile e i politici affrontano pressioni contrastanti. Si può affermare che né Blair né l’intero governo avessero ciò che talvolta viene definita una “tattica” in merito all’Europa da utilizzare come spiegazione per qualche delusione futura. Dal lato positivo, l’Unione è stata consolidata con il Trattato di Amsterdam e con il Trattato di Nizza; sono stati portati avanti con successo negoziati per allargare l’UE ai paesi dell’Europa centrale e orientale (v. Allargamento), che era un obiettivo specifico della politica estera britannica; il Regno Unito ormai partecipa attivamente alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e ha assunto un ruolo leader nel tentativo di attuare l’agenda di Lisbona (v. Strategia di Lisbona). Tutto ciò rappresenta un notevole cambiamento rispetto alla posizione pre 1997. Dall’altro lato di questo bilancio, dopo dieci anni il Regno Unito sembra più lontano che mai dall’aderire all’euro e all’Unione monetaria europea; si sono verificati molti contrasti tra gli Stati membri in materia di affari esteri e più specificamente sulla guerra in Iraq; e il ruolo britannico nei tentativi compiuti finora per concordare e attuare una costituzione per l’UE non viene generalmente considerato positivo (v. Costituzione europea).

Molti commentatori dello scenario politico britannico hanno richiamato l’attenzione sulle differenze tra Tony Blair e Gordon Brown in merito alla questione dell’integrazione monetaria e dell’adesione all’euro. Un tentativo di questo genere di personalizzare un’importante questione politica può risultare fuorviante. La maggior parte dei consulenti più importanti di Blair sono sempre stati in linea di massima fortemente europeisti. Il dibattito al Tesoro tende a essere presentato in modo piuttosto diverso, e specificamente a essere associato al ciclo economico. Negli anni del nuovo laburismo, ci sono state marcate differenze tra il ciclo economico britannico e quello dei paesi appartenenti alla zona dell’euro. Sin dal ritiro della Gran Bretagna dal meccanismo di cambio, il paese ha sempre goduto di tassi di crescita economica più alti e tassi di disoccupazione inferiori a quelli dei suoi vicini europei. Gli anni al governo dei laburisti sono stati contrassegnati da una prosperità in apparenza costante accompagnata da dichiarazioni che sostenevano come il ciclo economico fosse stato sufficientemente domato ponendo fine alla precedente oscillazione tra “espansione e contrazione”. In tale contesto, gli argomenti sulla sovranità nazionale e sulla necessità implicita di mantenere la sterlina sono stati potentissimi.

Alla fine del 1997, Gordon Brown mise a punto cinque criteri o condizioni per misurare i vantaggi e gli svantaggi dell’adesione britannica all’euro. I primi quattro furono espressi con termini altamente complessi e al tempo stesso con una certa vaghezza di linguaggio; non è affatto certo che gli economisti avrebbero potuto o voluto essere d’accordo su un qualsiasi sistema di misurazione. Nello specifico questi criteri avrebbero valutato: la compatibilità del ciclo economico e delle strutture economiche (in modo da assicurare che non ci sarebbero stati problemi nell’accettare i tassi di interesse dell’euro; la flessibilità nelle procedure per affrontare qualsiasi problema; l’impatto sul decision-making da parte di imprese che stavano prendendo in considerazione investimenti a lungo termine nel Regno Unito, e infine l’impatto sulla posizione competitiva dell’industria dei servizi finanziari.

La valutazione di questi quattro criteri mirava a fornire una risposta al quinto, ultimo e fondamentale criterio, ossia se l’adesione avrebbe favorito una maggiore crescita, stabilità e un aumento costante dell’occupazione.

Nel giugno del 2003, il Tesoro produsse un Libro bianco (v. Libri bianchi) dove esponeva in dettaglio la sua valutazione dei risultati di tali test. Sebbene l’economia britannica convergesse per molti aspetti con quella dei paesi dell’area dell’euro, fu tratta la conclusione che le argomentazioni a favore dell’adesione all’euro non avevano superato i test. In effetti, ciò pose fine all’argomento per l’immediato futuro. La decisione può essere interpretata come prettamente politica, ovvero non mettere a rischio la stabilità economica per la solidarietà europea.

Questioni esterne: dal Kosovo all’Iraq

Sin dall’inizio, il governo laburista ha mostrato una chiara propensione verso la necessità di elaborare una vera politica estera e di sicurezza europea. Il comportamento dell’UE durante il lungo processo di dissoluzione di ciò che un tempo era stata la Iugoslavia era stato alquanto deludente. Il Kosovo offrì l’ultima occasione per dimostrare che l’UE e i suoi Stati membri potevano intraprendere un’azione congiunta ed efficace su una questione così fondamentalmente europea, sebbene in collaborazione con gli Stati Uniti. In questo scenario, la Dichiarazione anglo-francese di Saint-Malo, a cui si giunse nel dicembre del 1998, sembrò segnare un’importante svolta e può forse essere considerata il risultato più brillante della presidenza britannica nella seconda metà del 1998. La Dichiarazione affermava la necessità che l’UE svolgesse appieno un ruolo autonomo sulla scena internazionale. La capacità di condurre azioni esterne avrebbe dovuto «poter contare su forze militari credibili, sui mezzi per decidere di usarle e sulla disponibilità a farlo, al fine di rispondere alle crisi internazionali (e) agendo in accordo con la NATO». Ciò sollevò diversi problemi concernenti l’esatta natura delle future relazioni tra l’UE e la NATO e in particolare le implicazioni per i paesi europei non membri di quest’ultima. Tuttavia, rappresentò una nuova e importante iniziativa che implicava un legame tra la Gran Bretagna e la Francia in un settore storicamente così sensibile. Sembrò altresì presagire uno storico riequilibrio della doppia posizione britannica verso l’Europa e verso gli Stati Uniti come confermato indirettamente dalla reazione americana piuttosto sbigottita.

Tuttavia, tale proposta di una forza di reazione rapida conteneva una debolezza concettuale, nel senso che tacitamente presupponeva che si sarebbe potuto ottenere e che si sarebbe facilmente ottenuto il consenso europeo di fronte alle crisi esterne. A partire dal 1998 è forse ciò che accadde esattamente con i problemi riguardanti l’ex Iugoslavia; ma non fu così altrove. Parte dell’eredità di Blair e del nuovo laburismo fu un senso di normalità riguardo all’UE e all’adesione britannica ma comprese anche un valore centrale tradizionale della politica estera britannica: l’allineamento con gli Stati Uniti. Il suo impatto sull’operato complessivo dei laburisti e inter alia sulle sue politiche europee, è un esempio lampante di come le politiche siano in balia degli eventi.

Quando George Bush successe a Bill Clinton, si ebbe la sensazione o addirittura la paura che gli Stati Uniti avrebbero potuto essere coinvolti in minor misura negli affari internazionali. Non esiste realmente un modo per poter valutare la fondatezza o meno di questa aspettativa: gli eventi dell’11 settembre hanno modificato tutto. L’UE espresse sostegno agli Stati Uniti, ma non necessariamente all’azione militare in Afghanistan. L’attività diplomatica di Tony Blair rispecchiò la sua visione di un Regno Unito che poteva e doveva fungere da ponte naturale tra l’Europa e gli Stati Uniti, ma ciò non venne sempre recepito nell’UE, men che meno dal presidente Jacques Chirac, suo partner a Saint-Malo. Come dimostrarono i fatti, le differenze nel rilievo dato all’intervento in Afghanistan furono solo il preludio di divisioni molto più nette quando gli Stati Uniti con il supporto di Gran Bretagna, Italia e Spagna intrapresero un’azione militare in Iraq. Tale decisione influirà in modo profondo e duraturo sulle relazioni del Regno Unito con l’UE. Sarebbe azzardato suggerire che il governo britannico abbia in qualche modo distrutto la politica estera comune europea. Quindici anni dopo la firma dell’Atto unico europeo e malgrado i progressi ottenuti nella costruzione della forza di reazione rapida, all’UE mancano ancora alcuni meccanismi e modalità per questo tipo di politica. L’Alto rappresentante responsabile della Politica estera e di sicurezza comune ha sicuramente una certa influenza in materia di difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa), ma il sostegno da parte dei governi nazionali è ancora incerto. Occorre una politica estera concordata, e non solo i mezzi per conseguirne una, per raggiungere il doppio obiettivo ambizioso del governo laburista di rendere il paese più influente in Europa e l’Europa più influente nel mondo. La risposta britannica alla politica americana sull’Iraq ha dimostrato che tali obiettivi erano meno importanti della solidarietà nord atlantica. Qualunque sia il ruolo futuro della forza di reazione rapida, la strategia britannica di sostegno e di partecipazione all’invasione guidata dagli americani dell’Iraq ha in pratica e in larga misura annullato il successo politico di Saint-Malo.

La Costituzione

In quegli stessi anni, la principale questione interna per l’UE fu la proposta di una Costituzione, che emerse dalla Convenzione e dalla successiva Conferenza intergovernativa. Il ruolo britannico in tale processo non si discosta da quello di cui abbiamo discusso in precedenza in relazione alla politica estera. Ha avuto un ruolo attivo in tutti i processi che hanno portato alla formulazione della Costituzione, ma non l’ha ratificata. Prima delle elezioni del 2005, il governo, messo sotto pressione dall’opposizione dei conservatori nonché dalla stampa, annunciò che avrebbe indetto un referendum prima di procedere a qualsiasi ratifica. Successivamente è stato suggerito che ciò non lasciò a Chirac altra scelta se non quella di indire anche in Francia un referendum. In questo contesto occorre ricordare che in Francia si svolse un referendum per sostenere il Trattato di Maastricht sull’Unione europea e che prevalsero i “sì” solo con una maggioranza molto ristretta. È difficile credere che una decisione politica britannica di indire un referendum sulla Costituzione sia stata decisiva per la Francia. Gli Stati membri hanno adottato diverse procedure di ratifica, ma è strano che si possa sostenere inappropriato sottoporre all’approvazione popolare un documento che si definisce come una Costituzione. Appare poco probabile che la Costituzione in sé fosse mai stata in cima alle priorità del governo britannico. L’incapacità dell’UE di ratificare la propria Costituzione a breve termine e/o di stabilire nuovi accordi adeguati per l’allargamento dell’adesione è un fallimento europeo e non può essere semplicemente imputato al governo britannico. Nel frattempo, gli esiti negativi dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi hanno momentaneamente sospeso il progetto di Costituzione rendendo l’adozione nella sua forma originale improbabile.

Una valutazione generale

Fino alla firma dei Trattati di Roma, l’idea che il Regno Unito dovesse essere “con l’Europa ma non parte dell’Europa” si radicò profondamente nel pensiero del governo ufficiale. All’interno di tutti i partiti politici, vi furono voci europeiste, persino federaliste, ma nessuna divisione reale negli atteggiamenti fondamentali dei partiti. Il Regno Unito non era interessato ad aderire a nessuna Comunità potenzialmente a carattere sovranazionale, e non partecipò al processo di integrazione che avrebbe portato a una Europa unita o federale. Il Regno Unito, partendo dal presupposto che nessuna Comunità sarebbe stata istituita senza la sua partecipazione, poté guardare di tanto in tanto ai vari negoziati con benevolo interesse e altre volte con generale disinteresse. A livello operativo, avrebbe cercato di mantenere buone relazioni di collaborazione con i suoi vicini europei attraverso le varie organizzazioni intergovernative e questo sarebbe stato sufficiente. La firma del Trattato di Parigi che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio non generò un vero riesame politico. Fu la firma dei Trattati di Roma e soprattutto la creazione della Comunità economica incentrata sul Mercato comune che dimostrò che le supposizioni di fondo del governo riguardo alle intenzioni e alle capacità europee erano fondamentalmente errate e che la politica operativa era stata in realtà fallimentare. L’eredità negativa di questi anni fu che la Comunità venne istituita senza la partecipazione britannica. Le regole che furono allora stabilite tennero conto delle necessità dei sei membri fondatori e per ovvi motivi non considerarono in alcun modo gli interessi britannici.

Negli anni che seguirono, i successivi governi britannici si impegnarono per cercare di attenuare i risultati del precedente fallimento. Sebbene in quel periodo non vi fosse alcuna differenza pratica tra i partiti al potere, divenne sempre più normale per i partiti all’opposizione di qualsiasi colore attaccare il governo del momento appellandosi a tradizioni storiche reali o inventate, che avrebbero potuto impedire il coinvolgimento britannico nella Comunità. Questa fase delle relazioni con la CE e con l’integrazione europea ebbe un risultato positivo: la Gran Bretagna ne divenne membro e l’adesione venne ratificata con un referendum. Inevitabilmente ciò che all’epoca venne definito come le “condizioni di adesione” significò in effetti accettare l’Acquis comunitario elaborato nell’arco di venti anni, compresi i regolamenti finanziari di recente elaborazione. Un altro esito negativo avrebbe generato col tempo ciò che potrebbe definirsi un “lascito avvelenato”: i partiti dell’opposizione sembrarono non riuscire a rinunciare al vantaggio temporaneo di invocare il latente sentimento antieuropeista.

La figura autoritaria di Margaret Thatcher dominò la terza fase. È ragionevole definire il Regno Unito come l’europeo riluttante, ma ciò non esaurisce il quadro. La rinegoziazione del modo in cui i regolamenti finanziari e il bilancio avrebbero inciso sul Regno Unito eliminò parte di ciò che ho prima definito il “lascito avvelenato”. Gli antieuropeisti presenti in entrambi i maggiori partiti, sostenuti e spalleggiati da gran parte della stampa popolare, aumentarono la misura in cui la CE/UE poté diventare un match politico tra governo e opposizione. Alla fine del lungo periodo di governo conservatore, i partiti politici avevano più o meno modificato le loro posizioni rispetto all’Europa e all’integrazione. Tuttavia, nel frattempo, il Regno Unito aveva reso un fondamentale contributo all’importante avanzamento rappresentato dall’Atto unico europeo a cui seguì un valido contributo ai lavori che portarono al Trattato sull’Unione europea. Potrebbe darsi che alla fine del suo lungo periodo in carica, la Thatcher stessa fosse un po’ spaventata dal modo in cui il paese era stato risucchiato nel processo di integrazione. John Major “raccolse tempesta, in mezzo a venti contrapposti e pressoché inconciliabili. In un certo senso c’era stata una normalizzazione delle relazioni britanniche con la CE/UE. Tuttavia, una corrente sempre più numerosa all’interno del Partito Conservatore addossò la colpa all’Europa per la destituzione della Thatcher dal suo incarico.

Nell’attuale fase finale, il processo di normalizzazione è stato in effetti completato. Vi è oggi un’identificazione più positiva del Regno Unito con l’UE, di cui è membro. L’automatica supposizione che i britannici avrebbero potuto sempre intralciare qualsiasi nuova proposta è scomparsa. Il ruolo britannico nella negoziazione dei Trattati di Nizza e di Amsterdam e nel processo di allargamento è stato molto positivo. Una serie di opt-out precedentemente negoziati, quali il capitolo sociale, la cooperazione giudiziaria e gli affari interni, sono in parte o del tutto decaduti (v. Giustizia e affari interni). Talvolta il Regno Unito è stato apparentemente in primo piano tra quegli Stati membri che volevano promuovere una politica estera europea. I dinieghi hanno influenzato il livello del progresso di integrazione senza però intaccare il funzionamento effettivo delle istituzioni. È piuttosto facile incolpare il governo britannico dei fallimenti, soprattutto per quanto concerne le nuove politiche. Tuttavia occorre ammettere che in un certo senso l’Unione europea è un’arena dentro cui i governi nazionali cercano di massimizzare gli interessi individuali. Più potente è il paese e maggiore sarà l’impatto. Il Regno Unito è, e continuerà a esserlo, uno degli Stati membri più grandi e più potenti insieme a Francia e Germania. Un importante obiettivo dei fondatori della CE/UE era trovare un modo migliore per gestire le relazioni tra questi grandi Stati europei. Il processo è iniziato con il Trattato di Parigi ma ci sono voluti venticinque anni perché il Regno Unito aderisse e confermasse la sua adesione e un tempo equivalente perché diventasse norma politica considerarlo un membro generalmente positivo.

In conclusione potrebbe essere sensato ritornare all’inizio di questa vicenda. Dopo il 1945, i governi in quei paesi destinati a diventare i membri fondatori della Comunità presero la decisione consapevole di lanciare il processo di integrazione. Quasi tutti i partiti politici democratici in quei sei paesi furono favorevoli e ci fu un ampio sostegno politico popolare. L’integrazione europea fu equiparata all’interesse nazionale. Quasi mezzo secolo più tardi sarebbe accaduta pressoché la stessa cosa ai paesi dell’Europa centrale e orientale in fuga dalle catene dell’ex Impero sovietico. Non c’è mai stato un simile processo nel Regno Unito. L’adesione si è basata su fattori più prettamente economici e politici. È un importante risultato degli ultimi anni che l’adesione dell’Unione europea sia data per scontata anche se un sostegno pubblico ampio e positivo rimane qualcosa di irraggiungibile.

Stanley Henig (2007)