Repubblica Ceca

Le differenti fasi del processo di preadesione e le strategie di preadesione

Esaminando il rapporto tra l’Unione europea (UE) e la Repubblica Ceca, si devono stabilire innanzitutto gli inizi delle relazioni tra l’UE e i paesi candidati postcomunisti. Alcuni studiosi (v. Lippert et al., 2001) dividono l’intero processo negoziale, dai primi contatti all’adesione, in circa cinque stadi in cui si assiste a pressioni di varia natura e a diversi effetti del processo di adeguamento: «i primi contatti; gli accordi europei; la pre-adesione; i negoziati; la post-adesione». È essenzialmente una panoramica degli obiettivi che l’Unione europea ha posto in tempi differenti durante il processo di adesione. Analogamente, Grabbe e Hughes (v., 1998) operano una distinzione tra la strategia tecnica di preadesione (v. Strategia di preadesione), le trattative politiche e la decisione di Allargamento.

Il processo di allargamento si basa sugli Accordi europei, proposti inizialmente nel 1991 e poi firmati dalla Repubblica Ceca nel 1993. Tali accordi, che aprirono un dialogo strutturato in prospettiva dell’adesione all’UE, erano tuttavia strumenti di Associazione più che di adesione vera e propria, poiché recepivano solo parti dell’Acquis comunitario. Infatti, gli accordi europei di associazione iniziali vertevano su questioni quali il libero scambio, l’assistenza economica e tecnica, la cooperazione politica e culturale per lo sviluppo, le infrastrutture, la promozione di un generale consolidamento democratico e di un programma di riforme economiche. Sulla politica economica e su quella fiscale, la posizione dell’Unione europea era conforme ai principi del “consenso di Washington”, stabiliti dal Fondo monetario internazionale (FMI). L’Accordo europeo con la Cecoslovacchia erano anche un prolungamento di vari accordi commerciali e di cooperazione (rispettivamente l’Accordo sul commercio e l’Accordo sul commercio e la cooperazione), firmati da Comunità europea e Federazione cecoslovacca nel 1988 e nel 1990. Le linee ispiratrici di tali accordi erano sia la trasformazione di queste economie, sia l’integrazione del paese nelle strutture dell’UE. Tuttavia, tali approcci non erano specificamente finalizzati all’allargamento dell’UE. Il dialogo istituzionalizzato in forma di Consigli d’associazione, con il loro subordinato Comitato di associazione e il Comitato di associazione parlamentare, affiancarono gli Accordi europei. Il Consiglio di associazione riunì i ministri degli Affari esteri dell’UE, il Commissario per le relazioni esterne dell’UE e gli alti funzionari governativi dei paesi associati. Il Comitato e i vari sottocomitati, composti da alti funzionari pubblici, prepararono e coordinarono gli incontri dei Consigli di associazione. Questi ultimi, insieme ai Comitati, avevano programmi che riguardavano soprattutto i seguenti punti: la cooperazione politica, la descrizione degli sviluppi politici ed economici nell’Unione europea e dei paesi associati, il commercio e le questioni relative al commercio, il Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (PHARE), la cooperazione economica e i rapporti dei sottocomitati (v. Mayhew, 1998, p. 55; Grabbe, Hughes, 1998, pp. 31-32). Questi erano assemblee bilaterali in cui non solo veniva discussa l’attuazione degli Accordi europei e successivamente dei Partenariati d’adesione (PA), ma fornivano anche occasioni di dibattito più generale tra i paesi associati, le istituzioni dell’Unione e i governi nazionali dei paesi membri.

Lo spirito di queste assemblee animò la “Conferenza europea”. Quest’ultima forniva una struttura multilaterale che riuniva tutti i paesi desiderosi di aderire all’Unione europea e che ne condividevano valori e finalità (v. Cox, Chapman, 1999, cap. 6). La conferenza era costituita dai 15 paesi membri dell’Unione europea e dai 12 paesi candidati. Il gruppo tendeva a risolvere questioni rilevanti per tutti i paesi interessati e a rafforzare i principi sui quali era stata costituita la conferenza (cioè, i valori e le finalità dell’Unione europea). Queste conferenze includevano temi quali la Politica estera e di sicurezza comune, la Giustizia e affari interni, la cooperazione regionale e la cooperazione economica. Il primo incontro ebbe luogo il 12 marzo 1998 a Londra.

Per quanto questi accordi e queste riunioni rafforzassero il legame tra UE e Repubblica Ceca, essi non indicavano la via o i tempi di un’integrazione della Repubblica Ceca nell’UE. Di qui l’atteggiamento cauto dei vertici cechi nei confronti dell’adesione all’UE e l’adeguamento relativamente limitato ai requisiti dell’Unione attuato nella Repubblica Ceca prima del 1997.

A partire dal 1993, i consigli europei iniziarono a delineare le strategie di preadesione e i Criteri di adesione. Il Consiglio europeo del 1993 a Copenaghen produsse due risultati importanti. Il primo fu la creazione di una piattaforma per la valutazione di potenziali candidati e la verifica dei loro progressi verso l’adesione. Tale piattaforma costituì un primo passo per delineare i criteri di adesione, i cosiddetti “criteri di Copenaghen”, che fissavano i seguenti requisiti: una stabilità istituzionale che garantisse la democrazia, il principio di legalità, il rispetto dei Diritti dell’uomo, il rispetto e la protezione delle minoranze; l’esistenza di un’economia di mercato funzionante nonché la capacità di rispondere alle pressioni concorrenziali e alle forze del mercato all’interno dell’Unione; la capacità di assumersi gli obblighi di tale appartenenza, e, segnatamente, l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria (www.europa.eu.int).

Uno slancio verso l’obiettivo della preadesione, stabilito nel Consiglio europeo di Essen del 1994, fu il secondo risultato del summit di Copenaghen. La strategia si concentrò sull’adesione al mercato interno dei paesi associati, sulla promozione dell’integrazione economica, sullo sviluppo della cooperazione tra i paesi associati, sugli ulteriori sviluppi nell’assistenza e nell’aiuto da parte dell’Unione europea nell’incorporazione dei tre Pilastri dell’Unione europea del Trattato di Maastricht (v. Mayhew, 1998, p. 165). Gli accordi europei ratificati nel 1994 e 1995 crearono una struttura generale per la cooperazione economica. Sebbene questi sviluppi fossero importanti per l’intensificazione delle relazioni tra Unione europea e potenziali candidati e fornissero una base per l’europeizzazione, il vero cammino verso l’allargamento e l’adesione venne stabilito rispettivamente dal Libro bianco Preparazione dei paesi associati dell’Europa centrale e orientale all’integrazione del mercato interno dell’Unione (approvato dal Consiglio europeo di Madrid del dicembre 2005) (v. Libri bianchi) e dall’“Agenda 2000” – che la Commissione europea presentò al Parlamento europeo al termine della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) di Amsterdam, il 16 luglio 1997 –, nonché dai successivi processi d’adozione dell’acquis comunitario da parte dei candidati all’Unione europea. Questo periodo è stato descritto (v. Lippert et al., 2001) come l’inizio dei cambiamenti amministrativi di base nei paesi candidati per far fronte al processo di preadesione. Inoltre, il summit di Madrid del dicembre 1995 stabilì un sistema di relazioni nel quale la Commissione europea doveva sistematicamente valutare i paesi associati. Questo summit fu anche il punto di partenza per l’apertura dei negoziati con quei candidati che soddisfacevano i criteri di Copenaghen. Mentre i medesimi criteri e il Consiglio europeo di Essen avevano delineato il quadro di riferimento per l’allargamento e la strategia di preadesione, le trattative “capitolo per capitolo” e i programmi nazionali iniziarono ufficialmente a Bruxelles il 31 marzo 1998 (si trattava di risposte alle carenze riscontrate nei pareri della Commissione europea) con l’obiettivo di fare adottare e applicare l’acquis comunitario da parte dei paesi postcomunisti, essendo stati stabiliti i percorsi procedurali e sostanziali verso l’adesione all’Unione europea (nel gennaio del 1996 la Repubblica Ceca si era ufficialmente candidata per l’adesione). I negoziati vennero condotti durante conferenze bilaterali tra i paesi candidati e l’Unione europea su base tematica, “capitolo per capitolo”, e riconobbero il fatto che ogni paese procedeva a proprio ritmo. È importante notare che queste trattative erano conformi ai pareri periodici espressi dalla Commissione europea e alle conseguenti risposte politiche dei paesi candidati.

Questo percorso procedurale e sostanziale era anche sottolineato negli Accordi di adesione firmati tra l’Unione europea e, rispettivamente, la Polonia nel 1998 e la Repubblica Ceca nel 1999. I Partenariati di adesione (PA) stabilivano una serie di priorità a breve e medio termine, che fornivano una struttura unica ai paesi candidati in modo da soddisfare i requisiti dell’acquis comunitario (v. Cox, Chapman, 1999, cap. 6). Inoltre, gli accordi obbligavano i candidati a preparare i Programmi nazionali per l’adozione dell’acquis (PNAA). In questi programmi si richiedeva ai paesi di far fronte alle carenze descritte nei pareri (v. Parere) della Commissione, di indicare i fondi finanziari richiesti e disponibili per i cambiamenti e la condizionalità associata all’aiuto di preassistenza. L’“Agenda 2000” fu il primo documento a spianare la strada a un sistematico allargamento dell’Unione europea, riconoscendone la desiderabilità e indicando il percorso da seguire per conseguirlo. Il processo d’ampliamento in sé iniziò seriamente soltanto nel marzo del 1998, con l’apertura dei negoziati. La Repubblica Ceca, nel dicembre 1997, fu uno dei primi sei paesi a iniziare le trattative. In questo contesto, rientrano i metodi di gestione del PHARE per le riforme del 1997 e del 1998, l’introduzione dell’Instrument for structural policies for pre-accession (ISPA) e dello Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD). Il processo d’adesione mirava a rafforzare la strategia di preadesione, adottando uno stile manageriale consolidato al fine di permettere ai paesi candidati di adottare l’acquis comunitario ottemperando gli ampi criteri di Copenaghen per l’allargamento.

Gli approcci attraverso i quali l’Unione europea interagisce con i paesi candidati possono essere ricompresi in cinque categorie. La prima categoria comprende l’acquis comunitario, ossia l’insieme di norme, modelli e requisiti che sono alla base dell’adesione a pieno titolo all’Unione europea. La seconda categoria include gli accordi di legge e i documenti politici da implementare. Esempi di accordi giuridici sono gli Accordi europei e i Multi-financing agreements. Esempi di documenti politici sono i Libri bianchi e i Partenariati di adesione. Gli approcci giuridici sono istituzionalizzati e resi esecutivi da organismi preposti alla loro applicazione, come i Consigli di associazione. I documenti politici non sono giuridicamente vincolanti, ma il progresso verso l’adesione è talvolta direttamente condizionato dall’attuazione delle proposte. La terza categoria comprende i negoziati, condotti secondo il metodo “capitolo per capitolo”. I risultati e l’esatto andamento delle trattative vengono mantenuti segreti come se fossero atti del Consiglio dei ministri. La quarta categoria comprende gli strumenti di preadesione (PHARE, ISPA e SAPARD) che offrono supporto all’adozione dell’acquis comunitario. Questi strumenti sono stati usati unicamente nell’ambito dell’allargamento all’Europa dell’Est. La quinta categoria comprende infine il dialogo, formale o informale, di natura sostanzialmente indicativa. Un esempio di dialogo informale è costituito dai contatti tra i funzionari nazionali e quelli della Commissione o del Parlamento europeo. Un esempio di dialogo formale sono le Relazioni periodiche (“Regular reports on the accession process in the candidate countries”) pubblicate dalla Commissione europea e le successive proposte politiche dei paesi candidati. La Conferenza europea biennale è un ulteriore esempio di dialogo formale.

La Repubblica Ceca e la preadesione all’UE

Dopo il 1989, la Cecoslovacchia, come gran parte dei paesi ex comunisti dell’Europa centro orientale, ha vissuto un importante processo di trasformazione della società imperniato sulla transizione verso la democrazia e sul passaggio a un’economia di mercato. Sul piano della politica estera, un “ritorno all’Europa” – sia sotto il profilo della politica di sicurezza, sia, soprattutto, sotto il profilo dell’adesione all’Unione europea – era considerato necessario. Tale aspirazione fu espressa in particolare dalla comunità dei dissidenti, per la quale l’Europa rappresentava il rispetto dei diritti dell’uomo e della democrazia. Václav Havel considerava altresì l’adesione all’Europa essenziale per la promozione di un pluralismo politico ed economico, per il rispetto dei diritti civili e delle libertà, e per la decentralizzazione dell’amministrazione statale (v. Bugge, 2003). Sebbene Havel inizialmente concepisse il Consiglio d’Europa come l’elemento trainante della confederazione europea, maturò la convinzione che soltanto la Comunità europea avrebbe potuto condurre alle riforme e all’integrazione (v. Integrazione, metodo della), contribuendo a contrastare la corruzione e l’instabilità delle strutture statali e del sistema partitico, la debolezza dell’amministrazione pubblica e dell’economia, nonché l’assenza di una società civile. Tutti questi fattori erano in qualche modo collegati all’eredità di un potere autoritario con un’economia pianificata e centralizzata.

Sebbene facessero capo all’organizzazione “ombrello” di gruppi politici dissidenti, il Forum Civico, eterogeneo conglomerato politico post transizione, le idee di Havel rimasero inizialmente dominanti riguardo le relazioni tra Unione europea e Repubblica Ceca. La divisione della federazione cecoslovacca tuttavia diminuì l’influenza politica di Havel. Dopo il cosiddetto “divorzio di velluto”, la sua posizione di venne sempre più contrastata dal primo ministro, Václav Klaus, del Partito democratico civico (Občanská demokratická strana, ODS), il quale credeva fermamente nell’idea di “un solo paese”, e di una costruzione di un’identità nazionale ceca, nonché di un modello economico ceco. L’adesione all’UE sarebbe stata positiva per i benefici economici del Mercato unico europeo. Tuttavia, Václav Klaus si opponeva a una integrazione che comportasse poteri normativi e politici sovranazionali sempre maggiori, o persino un’unione politica.

Di orientamento liberal-conservatore, Klaus invocava una rapida liberalizzazione dell’economia e una stabilizzazione della macroeconomia al fine di consentire una rapida crescita del prodotto interno lordo. Ciò avrebbe contribuito a controbilanciare le difficoltà che la popolazione avrebbe dovuto affrontare in seguito queste alle riforme economiche. Sul tema delle riforme e dell’amministrazione pubblica, Klaus proponeva una riduzione dell’apparato di governo, cosa che comportava l’eliminazione di settori del governo regionale, principalmente allo scopo di espellere gli ex dirigenti comunisti. A livello esecutivo centrale, Klaus preferì accordi istituzionali più informali di coordinamento e governance, che gli permettessero maggiore discrezionalità nell’organizzazione dell’esecutivo centrale. Per ciò che concerne la regolamentazione del mercato, Klaus era un grande ammiratore di Margaret Thatcher e credeva fermamente che il mercato dovesse avere completa libertà di azione. Il principio dello “Stato minimo” propugnato dall’ODS e l’atteggiamento più cauto nei confronti dell’ingresso nell’Unione europea fecero sì che la preparazione all’adesione e l’adeguamento ai requisiti dell’UE non fossero al passo con quelli di altri paesi candidati.

Tuttavia furono fatti alcuni passi avanti. Nel 1994 il governo ceco, per soddisfare i criteri dell’Unione stabiliti al Consiglio di Copenaghen del 1993, costituì la Commissione governativa per l’integrazione europea (CGIE), presieduta dal primo ministro Václav Klaus, e formata dai ministri delle Finanze, dell’Agricoltura, dell’Industria e commercio e degli Affari esteri. Il coordinamento fu affidato principalmente alla Commissione di lavoro presieduta dal viceministro degli Affari esteri. L’anno successivo, fu approvato un documento politico sull’integrazione europea, “Le priorità per l’applicazione del Libro bianco nella Repubblica Ceca”. In questo documento il governo prospettava ulteriori trasformazioni nell’amministrazione statale e nella tutela e politica ambientale, nonché cambiamenti in materia di tassazione e politica sociale. Tuttavia la CGIE, essendo alle dipendenze dei viceministri per il Coordinamento, si rivelò un organismo poco efficace e i progetti politici non corrisposero sempre necessariamente all’attuazione politica. Il ruolo centrale assunto dal ministro degli Affari esteri che supervisionava il coordinamento dei rapporti con l’UE indicava altresì che per l’amministrazione di Klaus, l’ingresso nell’UE rimaneva soprattutto una questione di politica estera (v. Rovna, 2002).

Un cambiamento importante avvenne nel 1997, allorché la coalizione di governo guidata dall’ODS di Václav Klaus fu coinvolta in uno scandalo finanziario interno al partito. La defezione dei membri più importanti del partito portò alle dimissioni di Václav Klaus. Questo periodo coincise anche con una grave crisi economica. Sebbene, secondo le teorie della transizione, dopo uno shock iniziale l’economia avrebbe iniziato a risollevarsi, le crescenti disuguaglianze regionali e la crisi finanziaria che investì le economie di transizione dell’Europa centrale e orientale minarono la fiducia dell’elettorato ceco nelle capacità di gestione economica di Václav Klaus. Un terzo sviluppo si ebbe, nel dicembre 1997, al Consiglio europeo di Lussemburgo, con l’invito rivolto alla Repubblica Ceca, a iniziare i negoziati. Il Libro bianco del 1995 solamente segnò l’inizio di un concreto processo di adesione, molto più istituzionalizzato e strutturato, basato sullo studio della compatibilità della legislazione e delle procedure amministrative ceche con quelle dell’UE. Il partito socialdemocratico (Česká Strana Sociálne Demokratická, ČSSD) di Miloš Zeman, che costituiva una minoranza dopo le elezioni del 1998, era anch’esso più apertamente favorevoli all’Europa rispetto agli esponenti dell’ODS di Václav Klaus. Più che una questione di politica estera, l’adesione europea divenne uno degli obiettivi dell’agenda della politica interna, assumendo addirittura un’importanza prioritaria (v. Rovna, 2002). In particolar modo, la politica interna avrebbe dovuto soddisfare i requisiti stabiliti dalla Commissione europea per l’adesione.

Due fattori resero più difficile la preparazione all’adesione all’UE. In primo luogo l’“accordo di opposizione”, che aveva permesso la formazione di un governo di minoranza con l’ODS, dava ancora al partito di Klaus all’opposizione il potere di frenare il programma di riforme interne, specialmente in relazione alla politica di bilancio e alle misure macroeconomiche. In secondo luogo, le severe valutazioni della Commissione europea evidenziarono come l’amministrazione precedente non avesse attuato le riforme necessarie nei settori chiave, nonché le difficoltà di adeguamento alle direttive dell’Unione, sovente molto specifiche, nonché ai criteri di Copenaghen. Nel 1998, il primo Rapporto sui progressi della Repubblica Ceca indicava le seguenti aree critiche nell’ambito delle riforme interne: la questione della minoranza rom, le riforme nella pubblica amministrazione, le leggi a garanzia della libertà di stampa, le riforme del sistema giudiziario nonché la lotta alla corruzione. Inoltre, la Commissione europea temeva che il cambiamento di governo non avesse sostanzialmente mutato la posizione ceca sull’ingresso nell’Unione europea.

La valutazione critica del Rapporto del 1999 diede una scossa all’élite politica ceca. Alla guida della riforma nella pubblica amministrazione venne posto un gruppo speciale e furono intrapresi passi concreti relativamente al problema dell’istruzione dei bambini rom. Inoltre, il governo avviò un programma molto efficace, mirato a riacquistare il ruolo di paese leader dell’adesione all’UE. Miloš Zeman rinegoziò e corresse l’accordo di opposizione con l’ODS, in particolare la clausola concernente la collaborazione nella preparazione all’adesione all’UE. Nel 2002 a Zeman successe Vladimir Spidla, membro dell’ala sinistra del ČSSD e convinto europeista. Spidla formò una coalizione di governo libera dalle costrizioni dell’“accordo d’opposizione” e presiedette alle trattative finali per l’adesione.

Le riforme nella gestione degli aiuti per la preadesione avviate dalla Commissione europea nel 1998 produssero tre importanti risultati. Per prima cosa, l’aiuto venne indirizzato alle aree indicate come problematiche nei Rapporti e agli ambiti prioritari segnalati nei Partenariati di adesione. In secondo luogo, si cercò di assicurare all’amministrazione interna un ruolo attivo nella programmazione UE, anziché considerare la programmazione stessa come un aiuto dall’estero. In terzo luogo, venne prevista una struttura di sostegno alla preadesione sotto forma di fondi di coesione e strutturali. Rientrava in tale strategia l’adozione dei programmi SAPARD e ISPA. La tabella I mostra la distribuzione degli aiuti di preadesione PHARE stanziati tra il 1999 e il 2002 per la Repubblica Ceca.

Tabella I: stanziamento annuale PHARE per la Repubblica Ceca.

Milioni di euro 1999 2000 2001 2002
Rafforzamento della capacità istituzionale e amministrativa 5,8 7 4,75 2,7
Sostegno alla capacità di applicazione di norme e regolamenti del Mercato interno 5,6 6,5 18,3
Effettuazione di adeguamenti istituzionali richiesti per l’applicazione delle norme ambientali dell’acquis 4,3 5,1 7,4
Ristrutturazione dell’industria statale e riduzione dei costi sociali
Preparazione all’adozione della Politica agricola comune (PAC) 6,2 8,28 12,4
Rafforzamento della cooperazione nei settori della Giustizia e degli Affari interni (controllo delle frontiere, criminalità organizzata, ecc.) 4 12,6 13,25 18,7
Sviluppo della coesione socioeconomica (norme sull’occupazione, sviluppo delle piccole-medie imprese, ecc.) 5,35 17,5 13,55 6,3
Programmi per il consolidamento del sistema democratico (sviluppo della società civile, protezione delle minoranze, difesa dei diritti umani). 0,5 3 3
Partecipazione a vari programmi comunitari come Leonardo, Gioventù, e SOCRATES 5 6,52 7 7,9
Politica regionale
Rispetto degli standard di sicurezza e di salute sul lavoro dell’acquis comunitario 1,75 7,4
Cooperazione in vari programmi di finanziamento multilaterale e orizzontale (tra cui l’Ufficio di assistenza tecnica per lo scambio di informazioni)
Trasporti (sostegno agli investimenti) 2 0,7
Totale escluso CBC (Cross-border cooperation, CBC) 21 59 101 86,6
CBC 29,4 10 19 19

Fonte: Regular reports.

L’importanza di tali fondi non risiedeva soltanto nel finanziamento a sostegno della preparazione all’adesione, ma anche nel graduale adeguamento dell’amministrazione ceca alle procedure della programmazione dell’UE. In effetti, la trasformazione dei modelli UE indicava che le istituzioni europee cominciavano a considerare la Repubblica Ceca più come uno Stato membro che come un paese candidato, se non addirittura come un paese associato.

Nel 1999 venne compiuto un passo notevole verso la preparazione all’adesione all’UE: una nuova procedura accelerata del Parlamento per l’armonizzazione della legislazione ceca con l’acquis comunitario. Questa procedura accelerata implicava un ruolo di primo piano del principale organo esecutivo, ossia l’Ufficio governativo della Repubblica Ceca. I compiti di coordinamento e di implementazione vennero gradatamente centralizzati nell’esecutivo nazionale. Un ulteriore, positivo sviluppo fu rappresentato da un nuovo documento sulla questione della minoranza rom.

Il Rapporto del 2000 giudicava positivamente l’avvio di riforme strutturali in concomitanza con la fine della recessione del 1999. Tuttavia, con gran dispiacere del governo ceco, il Rapporto non considerava ancora la Repubblica Ceca come un’economia di mercato pienamente funzionante. Questo giudizio si doveva principalmente all’assenza di una legge sull’amministrazione pubblica, che entrò in vigore soltanto nel 2002, e a dubbi persistenti sulla possibilità che il sistema giudiziario fosse in grado di garantire l’osservanza delle norme. Nel complesso, i Rapporti del 2001 e 2002 fornivano un quadro positivo sui passi compiuti per il soddisfacimento dei criteri politici ed economici, mettendo in rilievo i grandi progressi compiuti dalla Repubblica Ceca.

La Repubblica Ceca al momento dell’adesione

Per ciò che concerne i negoziati per l’adesione, le trattative terminarono nel dicembre 2002 con la chiusura di tutti i capitoli, fatta salva la possibilità di riaprire determinati capitoli dopo l’adesione. Tuttavia, la Commissione europea prevedeva severe sanzioni per gli Stati membri che avessero deciso in questo senso. Il Trattato di adesione fu firmato ad Atene il 16 aprile 2003, dopo che il Parlamento europeo ebbe votato a favore dell’allargamento, il 9 aprile 2003. Il Trattato di adesione elencava per capitoli i progressi dei negoziati e conteneva una serie di clausole per i regimi di transizione, relativamente all’acquisto di terreni agricoli e di residenze estive da parte di cittadini dell’UE, alla riforma dell’industria dell’acciaio, al mercato dell’energia, ad alcune imposte indirette, ad alcuni tipi di inquinamento industriale, ecc. Una questione importante nei negoziati riguardò i costi dell’adesione, per coprire i quali vennero richiesti pagamenti forfettari o perfino anticipi sui Fondi strutturali. Tra gli altri aspetti controversi vi erano la graduale introduzione da parte dell’UE di stanziamenti decennali all’agricoltura e la Libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione. Per la Repubblica Ceca e per il governo di Vladimir Spidla risultavano particolarmente rilevanti i problemi di bilancio. La Repubblica Ceca, nei negoziati, riuscì a ottenere dall’UE fondi aggiuntivi sotto forma di anticipi sui pagamenti dei fondi strutturali.

Il referendum ceco del 13 giugno 2003 si concluse con una schiacciante vittoria dei voti a favore, con il 77% dei consensi. L’affluenza alle urne peraltro (55,2%) fu relativamente bassa. Il presidente Václav Klaus non prese posizione nel referendum. Il suo partito, l’ODS, ospitava molti euroscettici. Il referendum dimostrò la validità delle politiche perseguite da Vladimir Spidla e preparò la strada per l’adesione del maggio 2004.

Subito dopo l’ingresso nell’UE, i cittadini cechi parteciparono alle seste Elezioni dirette del Parlamento europeo, nel giugno 2004, pur con una percentuale dei votanti di appena il 28,32% degli aventi diritto.

Box 1 → Banca Nazionale Ceca

Box 2 →  Mladá Fronta Dnes

Box  →  Partito civico democratico della Repubblica Ceca (ODS)

Christian C. van Stolk (2008)




Romania

La Romania che esce dalla Seconda guerra mondiale è un paese provato dalle distruzioni belliche, ma che è riuscito a separare la propria sorte dalla Germania sconfitta, ritornando – almeno per il confine occidentale romeno-ungherese – alla linea favorevole tracciata dal trattato del Trianon alla fine della Grande guerra. Anche per Bucarest, però, vale il condizionamento della liberazione/occupazione dell’Armata rossa: la presa del potere da parte del Partito comunista di Romania (PCR) avviene – come nel resto dell’Europa orientale – con la messa fuori legge dei partiti tradizionali e la contestuale fusione con la sinistra socialdemocratica, con cui si forma il Partito lavoratore romeno (Partidul Muncitoresc Român, PMR). Una volta costretto alla fuga il re Michele (1947), l’instaurazione del regime non incontra più ostacoli e la Romania diventa una Repubblica popolare (1948). La realizzazione del socialismo avviene con metodi staliniani e le “purghe” diventano anche nel paese danubiano l’occasione per un regolamento di conti interno e per il consolidamento della dirigenza al potere. Di fatto, la dirigenza stalinista e “nazionalista” di Gheorghiu-Dej (e con lui di quel gruppo “nazionale” uscito vincente nel 1952 dal confronto con il gruppo “moscovita” di Ana Pauker e Vasile Luca, entrambi esponenti di minoranze nazionali) riesce in Romania a succedere a se stessa anche alla morte di Stalin. Il regime di Gheorghiu-Dej, fino alla cosiddetta “dichiarazione di indipendenza” della primavera del 1964, evidenzia al pubblico scelte e politiche che emergono con fattezze di “comunismo nazionale”. Con l’uscita di scena del vecchio leader, nel 1965 diventa segretario generale del partito Nicolae Ceauşescu, che incarna una nuova e lunga stagione di potere: nello stesso anno c’è il ritorno alla denominazione di Partito comunista romeno e la trasformazione della denominazione in Repubblica Socialista di Romania. Con il passaggio del potere a Ceauşescu si presentano sulla scena nuove caratteristiche di “stalinismo nazionale” o “nazional-comunismo”, a partire dall’esasperazione del culto della personalità e del consolidamento del regime familiare in “socialismo dinastico” (definito per l’“eccezionalismo” nei confronti degli altri regimi del socialismo reale anche “totalitarismo-sultanismo”). Nel 1968, con la condanna della repressione della “primavera di Praga”, il conducător Ceauşescu guadagna una notevole popolarità interna e internazionale. Si approfitta di tale momento particolarmente favorevole anche per dividere in più province la regione autonoma ungherese (costituita nel 1952 con il favore di Mosca per venire incontro alle rivendicazioni autonomistiche dell’oltre un milione di ungheresi della Transilvania e delle regioni limitrofe). Gli anni Settanta segnano un periodo di notevole protagonismo per Bucarest, che propone una svolta “filocinese” del socialismo nazionale per poi porsi come interlocutore privilegiato con gli Stati Uniti e le potenze occidentali. Solo con la metà del decennio seguente e l’inizio a Mosca dell’era di Michail Gorbačëv risulta progressivamente sempre più chiaro il profilo di un regime che controlla con la propria polizia comunista – la Securitate – ogni angolo della società e che pone in atto odiose politiche di “omogeneizzazione” nazionale a scapito delle minoranze nazionali (tedesche, ebraiche e ungheresi). Il regime arriva dunque con un consenso popolare decisamente logorato (soprattutto in seguito alla rivolta di Braşov del 1987) all’autunno 1989, quando l’effetto “domino” della caduta dei regimi comunisti sembra dapprima non avere echi nel paese, per poi esplodere nella violenta rivolta di Timişoara. Nell’ultimo scorcio del dicembre 1989, dunque, con la morte dei coniugi Ceauşescu la rivoluzione romena – unica rivoluzione violenta dell’Europa orientale – apre il controverso e difficile periodo della transizione romena alla democrazia e all’economia di mercato.

La genesi del sistema democratico multipartitico è così fortemente condizionata dalle caratteristiche proprie del regime ceausista e dal mancato completamento del circuito rivoluzionario, gestito immediatamente dalle seconde file comuniste e “securiste” e apparso a molti osservatori in realtà un colpo di Stato. Si forma un Fronte di salvezza nazionale (Frontul salvării naţionale, FSN) guidato dal giovane Petre Roman e dall’importante figura di Ion Iliescu, esponente della nomenclatura, ma critico nei confronti della dirigenza Ceauşescu. Il Consiglio del FSN fa le veci di governo provvisorio, con Iliescu al vertice dello Stato. Relativamente ai rapporti con l’estero e soprattutto con l’Europa, il filoeuropeismo della leadership di questo periodo è reso pubblico con la dichiarazione ufficiale di Bucarest del 7 gennaio 1990, che esprime il palese desiderio della “nuova” Romania a collaborare con la CEE. Il coinvolgimento di personalità della dissidenza e dei partiti politici del periodo precomunista, nel frattempo ricostituitisi – come il Partito nazional-contadino cristiano-democratico (Partidul naţional ţărănesc creştin democrat, PNŢCD), il Partito nazional-liberale (Partidul naţional liberal, PNL), il Partito social-democratico di Romania (Partidul social democrat, PSDR) – risulta essere di breve durata: il Consiglio del FSN decide la propria trasformazione in partito politico e ciò provoca la rottura con gli altri esponenti anticomunisti. Dunque, in seguito al drammatico epilogo del regime ceausista nel dicembre 1989 e alla dura transizione del biennio 1990-1992 (condotta con grandi equilibrismi da Ion Iliescu tra conflitti etnici, come il grave scontro tra romeni e ungheresi a Târgu Mureş del marzo 1990, e politico-sociali, come nelle varie “mineriadi” che si susseguono dal 1990 fino al 199), solo nel 1996 anche in Romania un blocco alternativo al “regime” – includente un partito etnico di minoranza nazionale – sarebbe potuto andare al potere. Nelle prime elezioni libere dalla caduta del regime Iliescu, infatti, viene confermato presidente a stragrande maggioranza, mentre per entrambe le camere il FSN ottiene circa i due terzi delle preferenze. Nonostante le tensioni, il governo Roman, tuttavia, incassa un importante risultato a livello internazionale, con la firma dell’Accordo di cooperazione commerciale con Bruxelles, che costituisce il primo importante passo verso l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Se a livello internazionale risulta chiaro che la posizione di Roman sia più socialdemocratica rispetto a quella di Iliescu, chiaramente conservatrice, a livello interno intervengono ancora una volta i minatori, che nel settembre 1991 costringono Roman alle dimissioni e una maggioranza allargata ai liberali appoggia come nuovo premier Theodor Stolojan. Un appoggio trasversale, invece, sostiene la nuova carta costituzionale poi approvata da referendum popolare l’8 dicembre da oltre il 77% dei romeni: la Romania diviene una repubblica presidenziale multipartitica. In novembre i partiti della Convenzione nazionale democratica (e tra questi i principali partiti non frontisti, PNŢCD, PNL, PSDR, con gli ungheresi dell’Unione democratica magiara di Romania, Uniunea democrată maghiară din România, UDMR) giungono ad un’intesa per la formazione di una Convenzione democratica di Romania (Convenţia democrată română, CDR) per la presentazione di liste uniche alle elezioni. Nel febbraio 1992 si svolgono dunque le elezioni locali, con decine di partiti e candidati indipendenti: si afferma il FSN, che raccoglie circa un terzo dei voti e conquista quasi la metà dei comuni. Contro il leader Roman, però, e in appoggio a una nuova candidatura presidenziale di Iliescu si coagula il gruppo di ministri, deputati e prefetti che costituisce il nuovo Fronte democratico di salvezza nazionale (Frontul democrat al salvării naţionale, FDSN). La CDR si prepara alla candidatura unitaria di Emil Constantinescu, a capo dell’Alleanza civica e rettore dell’Università di Bucarest: Iliescu e Constantinescu si affermano al primo turno presidenziale del 27 settembre 1992, mentre alla Camera e al Senato si afferma – con il presidente uscente Iliescu – il nuovo FDSN (con circa il 28% dei voti) seguito dalla CDR (20%). Al ballottaggio presidenziale, l’appoggio nazionalista a Iliescu ne sancisce una netta vittoria (oltre il 60%). Nel nuovo anno, il 1° febbraio 1993, il governo Văcăroiu incassa la firma del Trattato d’Associazione con Bruxelles (che entrerà in vigore nel 1995). In estate il FDSN, in una Convenzione straordinaria, decide di prendere il nome di Partito della democrazia sociale di Romania (Partidul democraţiei sociale in România, PDSR), mentre sul campo dell’opposizione il FSN, fusosi con il piccolo Partito democratico (Partidul democrat, PD), ne rileva il nome e converge verso un’intesa con la CDR. Nel giugno 1995 la dichiarazione di Snagov – sottoscritta da quasi tutti i partiti romeni – indica l’obiettivo fondamentale dell’adesione alle istituzioni comunitarie. In ottobre Bucarest viene accettata in seno all’Iniziativa centroeuropea: la contemporanea apertura per un trattato di amicizia con l’Ungheria trova, però, la prevedibile netta opposizione dei deputati nazionalisti che sostengono il governo (opposizione ignorata solo a fine legislatura, con la firma dell’accordo di Timişoara il 16 settembre 1996). Con le elezioni del 3 novembre, caratterizzate da un’alta affluenza alle urne, c’è la storica svolta e le opposizioni vanno al potere: Constantinescu, forte di un 28% rispetto al 31% di Iliescu, coagula intorno a sé il voto degli altri oppositori – come Roman, che raccoglie un 20%, e degli ungheresi, con il solito 6% – e ribalta il risultato al ballottaggio, risultando eletto presidente con il 54% dei voti. Al parlamento la CDR raccoglie il 30% dei voti circa, seguita dal PDSR (21-23% nelle due camere), l’Unione social-democratica (USD, formata dal FSN-PD e dal PSDR), l’UDMR (6%) e le due formazioni nazionaliste (il Partito dell’unione nazionale dei romeni, Partidul unităţii naţiunii Române, PUNR, e il Partito della “grande Romania” – Partidul România Mare, PRM – entrambe oltre il 3%): l’accordo tra CDR, USD e UDMR apre la strada all’esecutivo di Victor Ciorbea e alla prima maggioranza di governo delle opposizioni dalla caduta del regime comunista con la partecipazione della minoranza ungherese.

Per quanto riguarda l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) al summit di Madrid la Romania non risulta nella lista dei paesi accettati per diventare i nuovi membri. All’inizio del 1998 l’esecutivo Ciorbea viene sostituito da quello di Radu Vasile, che rilancia le privatizzazioni insieme con il contenimento dell’inflazione. La nuova compagine ministeriale, però, senza dimostrare molta più capacità di governo della precedente, si trova ad affrontare l’ultima “mineriade” del postcomunismo nel gennaio 1999 (più che altro orchestrata per un eventuale colpo “di stato” in cui i minatori del leader del PRM Miron Cozma sono più che altro uno strumento politico). A fine anno, poi, nonostante la severità del rapporto della Commissione europea, la Romania guadagna l’inclusione nel gruppo di paesi invitati all’adesione dal Consiglio europeo di Helsinki: in forza di tale decisione il successivo 15 febbraio 2000 si sarebbero aperti ufficialmente i negoziati sui 31 capitoli dell’Acquis comunitario. Il premier Vasile, però, è sostituito dal presidente Constantinescu per lasciar posto a una personalità al di sopra delle parti, quale Mugur Isărescu, governatore della Banca centrale romena. Il rilancio economico proposto da Isărescu si incentra sulla riduzione delle imposte sui profitti per una ripresa della produzione industriale. In ambito politico il PDSR stringe un’intesa con il Partito umanista di Romania (Partidul umanist Român, PUR) per la formazione di un Polo democratico sociale di Romania, che nelle elezioni locali (comunali e provinciali) del giugno 2000 torna a essere la prima forza del paese. Solo nella capitale l’affermazione del candidato del PD Traian Băsescu argina l’affermazione del blocco democratico-sociale, mentre a Cluj il segretario generale del PRM Gheorghe Funar è riconfermato sindaco. Il 26 novembre 2000 il 65% degli aventi diritto esprimono al primo turno presidenziale il malessere verso la classe politica al governo dando il 28% dei consensi al leader nazionalista Corneliu Vadim Tudor, che si accredita per il ballottaggio alle spalle di Iliescu (36%) e distacca gli altri candidati. Il PDSR (che aveva assorbito in settembre i socialdemocratici del PSDR) raccoglie il 36-37% tra Camera e Senato, il PRM si afferma come seconda forza del paese rispettivamente con il 19-21%. Si coagula dunque intorno a Iliescu l’appoggio dei 2/3 dei consensi: Adrian Năstase, premier e leader democratico-sociale, apre dunque alla collaborazione con altri partiti, in primis gli ungheresi dell’UDMR. Al Vertice di Nizza (v. anche Vertici; Trattato di Nizza), intanto, finalmente la Romania è contemplata dalla carta dell’Europa “allargata”, anche se risulta difficile completare il piano di riforme richiesto da Bruxelles (v. Allargamento). A livello ideologico i democratico-sociali tendono ormai verso il definitivo accredito nella famiglia socialdemocratica europea: nel giugno 2001 nasce il Partito social-democratico (Partidul social democrat, PSD), che si prepara all’entrata a pieno titolo nell’Internazionale socialista. Dall’Europa, invece, dopo l’apprezzamento (ma anche le critiche) dei Rapporti periodici e i documenti della Commissione europea, al Vertice di Copenaghen del dicembre 2002 la decisione dell’estensione dell’Unione europea (UE) a soli 10 nuovi paesi membri rinvia l’adesione Romania e Bulgaria.

La Romania arriva all’anno elettorale del 2004 con un risultato storico per Bucarest: la piena membership all’interno dell’Alleanza atlantica (avvenuta insieme a Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia e Slovacchia). D’altra parte, riguardo al processo d’integrazione europea, il paese risulta aver raggiunto importanti obiettivi (27 capitoli negoziali provvisoriamente chiusi su 31) ma deve procedere con fermezza nell’applicazione di nuove norme adottate – come quelle anticorruzione – e impegnarsi in un ultimo sforzo per la chiusura dei negoziati nel 2005. Nelle elezioni amministrative del 6 giugno 2004 la maggiore affermazione è quella dell’Alleanza DA (Alianţa dreptate şi adevăr), il cartello elettorale tra PNL e PD. Alle elezioni presidenziali del novembre si fronteggiano Adrian Năstase e Traian Băsescu, che raccolgono rispettivamente il 41% e il 34% dei consensi: al secondo turno, il 12 dicembre, Băsescu è eletto presidente della Romania per pochi voti di differenza. Si crea comunque una maggioranza di governo intorno all’Alleanza DA (premier Călin Popescu Tăriceanu, presidente ad interim del PNL). La firma del Trattato di adesione all’Unione europea, il 25 aprile 2005, segna di certo un importante evento politico-internazionale per Bucarest. Nonostante la vittoria, però, il sodalizio PNL-PD – dopo una prima fase di entusiasmo – non si consolida e nel 2006 esplodono le contraddizioni che sono nel frattempo emerse all’interno dei partiti e nei rapporti tra le personalità istituzionali ai vertici dello Stato, in particolare il presidente Băsescu e il premier Popescu Tăriceanu. L’apertura di una nuova crisi politica avviene alla fine dell’anno e si formalizza con l’uscita dei conservatori (ex umanisti) dalla compagine governativa. Lo stesso partito del premier, il PNL, risulta indebolito dalla fuoriuscita di una “piattaforma liberale” per la formazione di un Partito liberal-democratico (Partidul democrat-liberal, PLD). Il presidente Băsescu, d’altra parte, ha ormai un consenso personale che va oltre il partito di provenienza ed è legato a prese di posizione politiche di notevole popolarità (come la lotta alla corruzione, l’apertura degli archivi della polizia segreta comunista, la Securitate, fino alla condanna del comunismo romeno). Con il 1° gennaio 2007 e l’entrata effettiva del paese nell’Unione europea si conclude il lungo e non facile processo di avvicinamento a Bruxelles, ma la logorante “instabilità” di governo frena le possibilità di Bucarest di utilizzare al meglio il nuovo status. Nel referendum del 19 maggio 2007 si conferma l’appeal popolare della leadership di Băsescu, che vanifica con tale vittoria il procedimento di impeachment votato precedentemente dal Parlamento. Le prospettive di realizzazione di uno stabile e responsabile sistema “bipolare”, che sembravano avviate in Romania, appaiono ormai più complesse, anche se il paese sembra ancorato saldamente all’interno del contesto europeo.

Andrea Carteny (2007)




Slovacchia

L’adesione della Slovacchia all’UE non avvenne in modo così semplice come per molti altri Stati della regione. La Slovacchia fu ignorata al Consiglio europeo di Lussemburgo del 1997 per non aver soddisfatto i criteri politici stabiliti a Copenaghen quattro anni prima (v. Criteri di adesione), ma in seguito alle elezioni parlamentari del 1998 e allo scioglimento del governo guidato da Vladimir Mečiar, fu invitata ad avviare le trattative per l’adesione durante il Consiglio europeo di Lussemburgo del 1999. Il paese fece grandi passi avanti nei tre anni successivi, che culminarono nell’invito a candidarsi all’UE nel summit di Copenaghen del 2002.

Malgrado la Cecoslovacchia avesse firmato un Accordo europeo (v. Accordi europei) con la Comunità economica europea (CEE), la divisione dello Stato federale rese necessario un nuovo accordo, che fu firmato il 4 ottobre 1993 e debitamente ratificato dal parlamento slovacco due mesi dopo. A questo punto si supponeva che la Slovacchia sarebbe entrata nell’Unione europea (UE) insieme alla Repubblica Ceca; i funzionari UE ritenevano che la sua economia e la capacità di governare fossero all’altezza del compito. Di fatto, le riforme economiche attuate in Cecoslovacchia, tra il 1990 e il 1992, avevano creato una solida base per una soddisfacente economia di mercato.

Tra il 1993 e il 1997 la Slovacchia mancò l’occasione, soprattutto a causa della politica interna. Malgrado il fatto che Mečiar avesse presentato personalmente la candidatura della Slovacchia all’UE e che il suo governo avesse dichiarato la propria ambizione di unirsi alle strutture euro-atlantiche – UE, Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – il governo di coalizione di Mečiar perseguì una politica non conforme alle regole euro-occidentali e generò riprovazione a livello internazionale. Quando la Commissione europea, il 16 luglio 1997, si pronunciò sulle candidature degli Stati dell’Europa centrale e orientale, la Slovacchia emerse chiaramente come un caso anomalo (v. anche Paesi candidati all’adesione). Infatti, fu l’unico paese a essere escluso dal primo gruppo invitato a iniziare le trattative per l’adesione al Consiglio europeo di Lussemburgo, per non aver soddisfatto i criteri politici stabiliti a Copenaghen nel 1993 (v. Henderson, 1999). La Commissione stabilì che il paese non aveva ottemperato ai criteri politici sotto molti aspetti, riferendosi in particolare all’instabilità delle istituzioni slovacche, all’insufficiente radicamento nella vita politica e agli scarsi risultati nel funzionamento della sua democrazia. Inoltre, in materia di principio di legalità, diritti umani e tutela delle minoranze (v. anche Diritti dell’uomo), il governo guidato da Mečiar fu criticato per il divario fra le norme contenute nei testi costituzionali e giuridici, e la loro applicazione politica.

La bocciatura della Slovacchia nel 1997 fu il culmine di una serie di messaggi sempre più critici provenienti da Bruxelles, dopo le elezioni del 1994. Il 23 novembre 1994, prima della formazione del terzo governo guidato da Mečiar, l’UE presentò una démarche che esprimeva preoccupazione nei riguardi delle attività del governo entrante, specialmente in riferimento all’iniziale concentrazione di potere verificatasi fin dalla prima seduta parlamentare del 3-4 novembre. Una seconda démarche venne presentata il 25 ottobre 1995 ed esprimeva critiche per la campagna condotta dal governo contro il presidente e un monito alla Slovacchia affinché facesse fronte agli obblighi sottoscritti nell’Accordo associativo. Il governo, tuttavia, ignorò ampiamente la démarche e preferì, al contrario, considerarla come un comunicato o un promemoria. Le preoccupazioni dell’UE divennero ancora più esplicite in una Risoluzione del Parlamento europeo, approvata il 16 novembre 1995, nella quale si faceva riferimento in particolare alle oscure vicende intorno al rapimento del figlio del presidente Michal Kováč, ai tentativi di Mečiar di fare espellere dal Parlamento membri dell’Unione democratica (che avevano lasciato il partito del primo ministro) e all’esclusione di rappresentanti dell’opposizione dai principali comitati parlamentari (v. Henderson, 1999, p. 232).

La bocciatura della Slovacchia a Lussemburgo, nel 1997, unita alle irregolarità appurate nel referendum sull’ingresso nella NATO, servì a convincere le varie forze d’opposizione a collaborare più strettamente. Di conseguenza fu formata la Coalizione democratica slovacca (Slovenská demokratická koalícia, SDK) che univa cristiano-democratici, liberali,verdi e socialdemocratici. Inoltre, altri partiti come il successore di quello comunista, il Partito della sinistra democratica (Strana demokratickej lavice, SDL), dichiararono apertamente il proprio desiderio di restituire alla Slovacchia il suo status di normale paese europeo. Nell’autunno del 1998, alle elezioni parlamentari, i partiti d’opposizione ottennero buoni risultati. Subito dopo le elezioni venne formata una coalizione composta da quattro partiti – SDK, SDL, Partito della comprensione civica (Strana obcianskeho porozumenia, SOP) di recente istituzione e Partito della coalizione ungherese (Madarská koalícia, MK). L’inclusione del partito etnico ungherese fu molto importante per l’immagine del governo e del paese, considerate le critiche rivolte alle politiche sulle minoranze durante il governo Mečiar, contenute nell’“Agenda 2000” della Commissione europea.

Inizialmente, il nuovo governo slovacco sperava che il paese sarebbe stato invitato a iniziare le trattative per l’adesione durante il Consiglio europeo di Vienna nel dicembre 1998. In realtà, dopo le elezioni del 1998, i segnali provenienti da Bruxelles erano molto positivi, ma non lasciavano intendere che la Slovacchia sarebbe stata automaticamente promossa nel primo gruppo di paesi candidati. Tuttavia, il nuovo governo slovacco si impegnò per dimostrare la volontà del paese di aderire all’UE con una frenetica attività diplomatica. Il nuovo primo ministro Mikuláš Dzurinda effettuò personalmente 35 visite bilaterali all’estero, presso i paesi dell’UE, durante i primi dodici mesi del proprio incarico (v. Bilčík, 2001, p. 9).

Nel tentativo di riguadagnare terreno nel processo di preparazione per l’adesione, la Slovacchia cooperò attivamente con la Commissione europea. Basandosi sull’opinione favorevole dell’UE rispetto al nuovo governo slovacco, la Commissione creò uno strumento istituzionale unico: il Gruppo di lavoro di alto livello tra la Commissione europea e la Slovacchia, sotto la guida del viceministro degli Esteri Ján Figeľ e del vicedirettore degli Affari esteri CE, François Lamoureux; il Gruppo si riunì cinque volte tra il novembre 1998 e il settembre 1999 (v. Bilčík, 2001, p. 9). La valutazione finale delle attività del Gruppo di lavoro mise in evidenza i cambiamenti politici avvenuti in Slovacchia. Il sistema politico della Slovacchia, in seguito alle elezioni parlamentari, comunali e presidenziali, raggiunse una rinnovata stabilità. L’approvazione della legge sull’uso delle Lingue delle minoranze nazionali, nel luglio 1999, rappresentò una svolta fondamentale nello scenario politico interno, così come il funzionamento piuttosto stabile della nuova e allargata coalizione. Il Gruppo di lavoro concluse che la velocità dell’integrazione slovacca nell’UE sarebbe dipesa in larga misura dalla tempistica e dalla portata delle riforme interne e dalla trasposizione dell’Acquis comunitario nella legislazione slovacca (v. Bilčík et al., 2001, p.243).

Il Gruppo di lavoro e altre Istituzioni comunitarie misero in luce questioni che sarebbero state rilevanti durante l’intero processo di adesione, specialmente la riforma giudiziaria, la situazione della minoranza rom, l’applicazione di leggi volte a rafforzare il mercato interno e aumentare la trasparenza nella privatizzazione, la richiesta al governo slovacco di elaborare progetti mirati alla chiusura del reattore del blocco V1 e l’aumento della sicurezza del blocco V2 della centrale nucleare di Jaslovsé Bohunice.

Furono raggiunti diversi obiettivi nell’arco di tempo tra la formazione del nuovo governo e il summit di Helsinki del dicembre 1999, non da meno quello di rilanciare l’immagine della Slovacchia negli ambienti europei. Furono anche attuate importanti trasformazioni di carattere pratico. Malgrado il precedente governo avesse presentato la prima versione del Programma nazionale per l’adozione dell’acquis nel marzo 1998, il governo di Dzurinda si preparò a rivedere i piani in risposta alle critiche mosse dalla Commissione. Il punto più importante era l’introduzione di un migliore coordinamento dei gruppi di lavoro facenti capo al vice primo ministro per l’Integrazione, Pavol Hamžík. Nel febbraio 1999 venne approvato un nuovo piano d’azione (v. Marušiak et al., 1999, pp. 181-182).

In seguito alla raccomandazione della Commissione del 13 ottobre 1999 affinché si avviassero le trattative con la Slovacchia (insieme alla Romania, Bulgaria, Lettonia, Lituania e Malta), nel dicembre 1999 il Consiglio europeo di Helsinki acconsentì ad avviare le trattative per l’adesione agli inizi del 2000. Nel febbraio 2000, quando la Slovacchia presentò la sua posizione generale sull’ingresso nell’UE ebbero inizio. Il governo dichiarò che non avrebbe richiesto deroghe rispetto all’acquis e che avrebbe fatto istanza di periodi di transizione soltanto per un numero limitato di aree e affermò coraggiosamente il proprio ambizioso obiettivo di armonizzare la legislazione slovacca con la legislazione UE (v. Armonizzazione) entro la fine del 2002 e fissò il 1° gennaio 2004 come data di ingresso (v. Bilčík et al., 2001, p. 244).

La Slovacchia iniziò a trattare otto dei 31 capitoli (statistiche, piccole e medie imprese, scienza e ricerca, istruzione e formazione, relazioni esterne e politica estera e di sicurezza comune, cultura e politica dell’audiovisivo e concorrenza), e la conclusione preliminare dei primi sei venne confermata nella riunione dei ministri degli Esteri a Lussemburgo nel giugno 2000. Il mese successivo, la Slovacchia aprì altri otto capitoli (politica industriale, tutela dei consumatori, pesca, Libera circolazione dei servizi, Libera circolazione dei capitali, trasporti, telecomunicazioni e tecnologia dell’informazione e Unione doganale), i primi tre dei quali vennero chiusi nell’ottobre 2000, mentre quello relativo alla cultura e Politica degli audiovisivi fu chiuso il mese successivo. Malgrado i progressi compiuti, gli analisti espressero perplessità riguardo alla capacità della Slovacchia di rispettare l’ambiziosa data d’ingresso (v. Bilčík et al., 2001). Restavano ancora molti capitoli, ritenuti tra i più difficili, da chiudere e si erano raggiunti scarsi progressi in settori particolari come il diritto commerciale e le capacità istituzionali della Slovacchia di stare al passo con i vicini.

La Slovacchia, sostenuta in parte dal Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000 (che approvò una road map per completare le trattative e auspicò che nuovi Stati membri partecipassero al turno successivo per eleggere il Parlamento europeo nel giugno 2004), compì “notevoli progressi” nelle trattative per l’adesione durante il 2001 e riuscì a tenere il passo dei più importanti paesi candidati, almeno per quanto riguardava la chiusura dei capitoli dell’acquis (v. Bilčík, 2002, p. 286).

Sebbene l’UE avesse inizialmente deciso di aprire le trattative con la Slovacchia per l’adesione su tutti i rimanenti capitoli – eccetto quello relativo al controllo finanziario – i diplomatici slovacchi riuscirono a persuadere i funzionari UE a includerlo. Durante la presidenza svedese nella prima metà del 2001 (v. Presidenza dell’Unione europea), la Slovacchia riuscì a chiudere altre nove capitoli (Libera circolazione delle merci, libera circolazione dei servizi, diritto societario, Politica sociale e occupazione (v. Politiche per l’occupazione), telecomunicazioni e tecnologia dell’informazione (v. Politica europea delle telecomunicazioni), Libera circolazione delle persone, libera circolazione dei capitali, unione doganale e Unione economica e monetaria). I progressi realizzati in questo periodo si rivelarono significativi al punto che il Consiglio europeo di Göteborg nel giugno 2001 prese la decisione di concludere le trattative con i paesi candidati meglio preparati, entro la fine del 2002. Grazie alle trattative relativamente rapide, la Slovacchia era riuscita a tenere il passo con i vicini del primo gruppo. Al termine della presidenza svedese, la Slovacchia aveva chiuso 20 capitoli, un risultato simile a Polonia (17), Ungheria (22) e Repubblica Ceca (19; v. Bilčík, 2002, p. 288).

Tuttavia, durante la seconda metà del 2001, i progressi rallentarono. Malgrado Figeľ avesse espresso il desiderio di arrivare a chiudere i capitoli relativi a energia, tassazione e trasporti, raggiungendo allo stesso tempo progressi considerevoli nel controllo finanziario, ambiente, concorrenza, giustizia e affari interni, questi obiettivi non furono raggiunti. Soltanto altri due capitoli (energia e ambiente) si conclusero prima della fine del 2001. Per entrambi i capitoli la Slovacchia negoziò accordi transitori. Nel caso del capitolo sull’Energia, l’UE riconobbe che sarebbero stati necessari ulteriori e significativi investimenti e una dilazione di tempo affinché la Slovacchia soddisfacesse i requisiti UE e portasse le riserve strategiche di petrolio fino a un livello corrispondente a 90 giorni di consumo, per cui accordò alla Slovacchia una proroga di cinque anni. La Slovacchia inoltre negoziò sette periodi di transizione per i capitoli sull’ambiente (v. anche Politica ambientale).

I preparativi per l’adesione all’UE, non furono certamente favoriti da uno scandalo scoppiato nella primavera del 2001. I funzionari del governo slovacco vennero sospettati di essersi appropriati indebitamente di fondi UE. Lo scandalo condusse alle dimissioni di Hamžík, che venne sostituito, come vice primo ministro per l’integrazione europea, da Maria Kadlečíková. Inoltre, l’UE rispose con il temporaneo congelamento di ulteriori fondi per la Slovacchia. Per quanto le indagini sullo scandalo non svelarono attività criminali, la vicenda mise in evidenza una mancanza di trasparenza e una impreparazione generale delle istituzioni slovacche a recepire gli strumenti di assistenza dell’UE nella fase di preadesione (v. Bilčík, 2002, p. 290).

Tuttavia, nel 2001 si osservarono progressi considerevoli nella riforma giudiziaria e nella pubblica amministrazione. Nel novembre 2000, la Commissione europea nella sua relazione periodica criticò la Slovacchia per l’insufficiente indipendenza del sistema giudiziario, gli scarsi risultati nella lotta alla corruzione, il livello generalmente scarso di preparazione istituzionale e di capacità amministrativa complessiva. In risposta, il 23 febbraio 2001, il parlamento slovacco «adottò il più ampio emendamento alla Costituzione slovacca» sin dall’indipendenza (v. Bilčík, 2002, p. 289). L’emendamento spianò la strada alla riforma del sistema giudiziario, chiarì lo status dei trattati internazionali, ridefinì i poteri della Corte Costituzionale, provvide alla creazione di un mediatore (Ombudsman) nel campo della tutela dei diritti civili e favorì la riforma della pubblica amministrazione.

Durante la presidenza spagnola, nella prima metà del 2002, la Slovacchia chiuse altri quattro capitoli (tassazione, trasporti, giustizia e affari interni e istituzioni). Per quanto concerne il primo di questi, i negoziatori slovacchi si dimostrarono vincenti, esigenti e abili nell’ottenere vari periodi di transizione e deroghe mirati ad attutire l’impatto dell’adesione all’UE sull’imposta sul valore aggiunto e sui diritti di accisa (v. Bilčík, 2003, p. 331).

La fase finale delle trattative slovacche fu completata durante la presidenza danese, nella seconda metà del 2002. La fase più spinosa si rivelò quella relativa alla concorrenza, che non venne chiusa fino all’ottobre 2002. I negoziati si concentrarono sull’assistenza statale fornita alle aziende private, specialmente le agevolazioni fiscali e gli incentivi concessi a due tra i più importanti investitori stranieri, Volkswagen e US Steel (v. Bilčíc, 2003, p. 333). Sebbene l’UE rifiutasse generalmente di accordare periodi di transizione e deroghe in questa materia, si arrivò infine a un accordo. Per quanto riguarda la Volkswagen, fu concesso alla Slovacchia di continuare a fornire gli aiuti di Stato in base agli accordi stabiliti tra la casa automobilistica e il governo slovacco fino al 2008. L’accordo riguardante la US Steel fu complesso, ma in modo analogo il governo slovacco poté continuare a fornire sgravi fiscali, alle stesse condizioni dell’accordo iniziale. Nella raffica finale di trattative, che culminarono nel Consiglio europeo di Copenaghen del dicembre 2002, prevalsero le questioni relative al bilancio e all’agricoltura (analogamente agli altri Stati candidati). La Slovacchia si dimostrò relativamente flessibile nelle trattative rispetto ad altri paesi candidati come la Polonia.

Grazie a un largo consenso politico sulla necessità di unirsi all’UE e all’assenza di richieste forti durante le trattative per l’adesione, il processo di adesione della Slovacchia fu molto più facile rispetto a quello di altri Stati candidati. La strategia slovacca nei negoziati di adesione all’UE guidati da Ján Figeľ (v. anche Strategia di preadesione), fu diretta e si basò molto sulla fiducia tra le parti interessate. Le richieste slovacche di periodi di transizione furono limitate a poche questioni di vitale interesse nazionale e non ci furono richieste di deroghe sull’applicazione dell’acquis. Le trattative più difficili furono quelle riguardanti i problemi del mercato interno (le “quattro libertà”), ambiente, energia, imposte, agricoltura e concorrenza (v. Figeľ, Adamiš, 2003). Fu grazie a questa strategia negoziale e alla determinazione nel tenere il passo che la Slovacchia riuscì a concludere i negoziati in meno di tre anni.

Dopo la chiusura delle trattative e la firma del Trattato di adesione ad Atene nell’aprile 2003, iniziò la ratifica del trattato (che costituisce il passo conclusivo indispensabile per l’adesione). Tuttavia, la Slovacchia aveva cominciato i propri preparativi prima che il trattato venisse firmato. In risposta a una risoluzione approvata dal Parlamento, il presidente Rudolf Schuster indisse un referendum per il 16-17 maggio 2003. Sebbene non fosse necessario sul piano legale un referendum, i leader politici ritennero che, data l’importanza dell’evento storico, fosse indispensabile. Fu una mossa rischiosa, in particolare a causa del requisito legale del 50% di elettori per convalidare il risultato. Dato l’ampio consenso interno, con solo poche voci marginali che esprimevano seri dubbi sull’impatto dell’adesione, si suppose che il “sì” avrebbe facilmente vinto; tuttavia, la sfida rimaneva quella di assicurare un numero sufficiente di elettori. Dopo una debole campagna a favore del “sì” condotta dal vice primo ministro Pál Csáky, nei più illustri ambienti politici si temette che l’affluenza alle urne sarebbe rimasta sotto la soglia del 50%. Di conseguenza, molti politici di alto profilo, tra i quali il portavoce del Parlamento, Pavol Hrušovký, esortarono i cittadini a recarsi alle urne. Probabilmente gli appelli dell’ultima ora furono decisivi, poiché la partecipazione al voto riuscì a raggiungere la soglia del quorum, con il 52,2% di votanti. Come previsto, una schiacciante maggioranza (92,5%) si pronunciò a favore dell’adesione. Dopo il referendum e il suo significato più simbolico che legale, il parlamento slovacco dovette ratificare formalmente il trattato nel giugno 2003, aprendo la strada all’adesione del 1° maggio 2004.

Sorprendentemente, i deputati del Partito comunista slovacco votarono contro il trattato durante la ratifica parlamentare, anche se la leadership del partito aveva sostenuto il “sì” nel referendum. La stessa leadership non voleva essere considerata come la causa del fallimento dell’adesione all’UE, ma usò la ratifica del voto parlamentare come un’opportunità per sottolineare il proprio dissenso nei confronti delle condizioni accordate per l’adesione (v. Haughton, Rybář, 2004). Infatti, concluso il processo di ratifica, cominciò a emergere un dibattito molto più incisivo su quale fosse il modello di UE al quale il paese voleva aderire. In precedenza, soltanto il dibattito parlamentare sugli emendamenti costituzionali aveva prodotto un risultato significativo e ciò avvenne quando i deputati dell’opposizione accusarono il governo di tradimento.

Durante il processo di adesione era mancata una sostanziale discussione, a tutti i livelli sociali, non soltanto a livello politico ma anche nell’ambito delle organizzazioni non governative e in quello economico, su quale fosse il modello di UE al quale il paese desiderasse aderire. Era stato fatto un tentativo per facilitare questo dibattito nell’ambito della Convenzione nazionale sul futuro della Slovacchia in Europa, ma tale iniziativa si dimostrò inefficace a causa della mancanza d’interesse dei partecipanti.

Durante il periodo 1998-2002, il principale obiettivo nazionale della Slovacchia fu chiaramente quello di ottenere l’adesione all’UE. Talvolta la Slovacchia appariva come «un cane ubbidiente che segue devotamente gli ordini del suo padrone» (v. Málova, Haughton, 2005). Alla luce della bocciatura di Lussemburgo e del desiderio della Slovacchia di non “perdere il treno”, quella posizione era comprensibile. Ciò che stupisce è il fatto che l’obiettivo dell’adesione ostacolasse l’emergere di un dibattito interno sul modello preferito di Unione europea al quale aderire. In ogni caso, l’adesione costrinse la Slovacchia a definire le proprie priorità nazionali. Pressioni per una chiara diffusione di tali interessi nazionali emersero nel corso della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) di Roma nel dicembre 2003. In quanto nuovo Stato membro senza una tradizione di politica estera indipendente, con programmi in molti settori della politica fortemente condizionati nel decennio precedente dall’adesione all’UE e alla NATO, e con attori politici slovacchi così diversamente orientati, forse non era sorprendente che il paese lottasse per definire la propria posizione. Infatti, la posizione ufficiale del paese, che spinse l’opposizione al governo verso un’ulteriore integrazione in un certo numero di settori – in particolare il desiderio di mantenere una strategia di decision-making unanime su tassazione, politica sociale e difesa – fu chiarita solo due giorni prima del summit di Roma.

Dopo quell’avvio infausto, la Slovacchia cominciò a definire più chiaramente la propria posizione. Al contrario delle questioni fiscali, nell’ambito della politica estera, la direzione della strategia governativa fu a favore dell’integrazione. Alla vigilia dell’adesione slovacca all’UE, il primo ministro Dzurinda stabilì come priorità assolute della politica estera slovacca sia i Balcani Occidentali che l’Ucraina. Dopo il suo discorso, il ministero degli Esteri redasse i documenti che delineavano le priorità politiche, basate sul processo di stabilizzazione e di associazione all’UE, sulla politica europea di buon vicinato e sul perseguimento di un’UE sempre più allargata. La Slovacchia dimostrò il proprio impegno verso i Balcani occidentali, facendosi portavoce dell’avvio di negoziati per l’adesione della Croazia, aprendo una propria ambasciata in Bosnia-Herzegovina e inviando un diplomatico di grande esperienza alla guida della missione del paese a Sarajevo. Mentre la Slovacchia aveva espresso il proprio sostegno a iniziative europee quali la Strategia europea per la sicurezza, il governo espresse alcune riserve riguardo a un’ulteriore integrazione in questo settore, in particolare sul fatto che nuove strutture avrebbero potuto gravare sui rapporti tra la NATO e l’UE. In generale, la Slovacchia manifestò il proprio desiderio di garantire buone relazioni tra l’UE e gli USA.

Sembrerebbe che la posizione slovacca rispetto a un’ulteriore integrazione durante il primo anno di adesione fosse riconducibile alle preoccupazioni ideologiche del governo. Dopo aver ottenuto l’adesione, partiti quali l’Unione democratica cristiana slovacca del primo ministro Dzurinda (Slovenská Demokratická a Kresťanská Únia, SDKÚ), che avevano incentrato la campagna elettorale del 2002 sull’adesione all’UE, spostarono la propria attenzione verso preoccupazioni di natura più ideologica. Al centro dei programmi dei ministri nominati della SDKÚ, in particolare quelli del ministro delle Finanze, Ivan Mikloš, vi erano politiche neoliberiste ispirate e incoraggiate da organismi finanziari internazionali come la Banca mondiale. Il governo Dzurinda, ad esempio, introdusse la tanto decantata tassa del 19% di aliquota unica, tagliò i benefici previdenziali e intraprese riforme radicali delle pensioni e della sanità. Queste riforme furono sostenute dalla fiducia nella superiorità del mercato rispetto agli interventi dello Stato e implicarono la sostituzione degli stessi con soluzioni ampiamente basate sul mercato. Mentre la situazione interna, specialmente la debole opposizione, aveva facilitato il perseguimento di tali politiche, la dimensione europea poneva una minaccia. Rinunciare al proprio diritto di veto sulle imposte, per esempio, avrebbe portato all’armonizzazione fiscale e avrebbe messo in pericolo il programma neoliberista (v. Málova, Haughton, 2005).

Box 1 → Banca Nazionale Slovacca

Box 2 → Convenzione Nazionale sul futuro europeo della Slovacchia

Box 3 → Fondazione Friedrich Ebert

Box 4 → Istituto per gli Affari pubblici

Tim Haughton, Jana Shepperd (2007)




Slovenia

La strada per l’indipendenza

I primi segnali della disintegrazione del secondo Stato iugoslavo si erano già manifestati decenni prima della sua effettiva caduta. È tuttavia la morte del carismatico presidente di Stato e del Partito comunista, Josip Broz Tito, il 4 maggio 1980, che viene considerata il punto di svolta di questo processo. Dalla morte di Tito fino alla seconda metà degli anni Ottanta, la politica slovena rispetto alla Iugoslavia può definirsi difensiva e orientata al mantenimento della posizione acquisita. Soltanto alla fine di quel decennio la situazione muta drasticamente. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta non vi erano stati né valutazioni politiche né un programma nazionale da parte slovena che non sostenessero la società socialista, e neppure serie prese di posizione a favore di una piena indipendenza nazionale. L’unica eccezione fu, negli anni Sessanta, quella di alcuni programmi di emigrati politici sloveni in sostegno di una Iugoslavia multipartitica e confederativa, che in parte si ricollegavano al programma del gruppo “liberale” interno alla Lega dei comunisti sloveni al governo.

Sulle questioni economiche, le valutazioni politiche slovene evidenziavano chiaramente la posizione di una repubblica sviluppata: opposizione alle richieste di socializzare il debito, di contribuire al fondo di mutua solidarietà utilizzato soprattutto per coprire il deficit delle repubbliche sottosviluppate, e ad altre misure amministrative per la distribuzione delle merci simili a quelle adottate alla fine della Seconda guerra mondiale. Riguardo al funzionamento dello Stato federativo, l’opposizione della Slovenia era orientata contro gli sforzi per modificare l’ordine costituzionale contro i tentativi di uniformare alcuni importanti ambiti sociali, quali il settore dell’istruzione, quello scientifico e i sistemi delle macro infrastrutture. Nell’ambito della politica estera, la Slovenia si impegnò per avere contatti diretti con paesi stranieri e una rappresentanza paritaria nella diplomazia iugoslava. Nel settore degli affari interni, tuttavia, tra le questioni più accese figuravano lo status paritario della lingua slovena e il mantenimento della cultura slovena.

La credibilità dei politici comunisti sloveni fu compromessa dalla loro incapacità di risolvere i problemi fondamentali dell’economia e della democrazia (pluralismo politico) e in primo luogo dalla loro incapacità di proteggere dalle pressioni di Belgrado lo status normativo raggiunto.

La vecchia generazione di politici, consapevole della propria incapacità di far fronte alle nuove sfide, acconsentì con riluttanza al riformismo personificato da Milan Kučan, leader del partito comunista sloveno. La posizione in merito allo Stato federativo prese progressivamente forma attraverso il graduale mutamento dei rapporti tra il governo e l’opposizione emergente. Una spinta al dibattito sul futuro status della nazione/Stato sloveno provenne nel 1987 dal ben noto numero 57 di “Nova revija” (Nuova rivista), la rivista portavoce dell’opposizione slovena. Studi e saggi filosofici e sociologici si concentrarono sul problema se il popolo sloveno dovesse diventare una nazione, ossia ottenere una propria entità statale con una reale sovranità, indipendente dal controllo e dal dominio iugoslavo, e sulla necessità di introdurre un nuovo ordine, che favorisse l’espressione democratica dei cittadini sloveni, vale a dire il pluralismo politico. Con l’allargamento dello spazio democratico, era aumentata notevolmente l’influenza della società civile e dell’opposizione.

Due documenti del 1989, la Dichiarazione di maggio e la Carta fondamentale della Slovenia, riflettono chiaramente le differenti posizioni assunte dall’opposizione e dall’autorità riguardo alla Iugoslavia e all’integrazione europea. Nella Dichiarazione di maggio erano espresse le seguenti rivendicazioni:

«1) Vogliamo vivere in uno Stato sovrano della nazione slovena. 2) In quanto Stato sovrano decideremo autonomamente sulle relazioni con gli slavi meridionali e le altre nazioni all’interno di un’Europa moderna. 3) Le uniche basi possibili dello Stato sloveno sono: il rispetto dei diritti umani e delle libertà, la democrazia basata sul pluralismo politico, un ordine sociale che garantisca benessere economico e spirituale in accordo con le risorse naturali e le capacità umane dei cittadini sloveni».

La Carta fondamentale della Slovenia era meno radicale e cercava soluzioni all’interno della federazione iugoslava, continuando a sostenere l’autogestione, sebbene in forma riveduta. La competizione tra i sostenitori delle due parti si espresse con le firme apposte su ciascun documento, ma abbastanza significativamente molti firmarono entrambi. Fu il documento più radicale, la Dichiarazione di maggio, a reggere alla prova della storia.

Nell’ultimo periodo, il governo del croato Ante Marković si impegnò a salvare la Iugoslavia applicando il concetto di “socialismo moderno”. Marković, eletto presidente nel 1989, avviò una serie di riforme economiche che avrebbero dovuto aiutare a mantenere la Iugoslavia unita. Fu tuttavia incapace di confrontarsi con la nomenklatura politica ideologicamente rigida, legata a un socialismo di tipo “monopartitico” che continuò a esercitare un’influenza decisiva sull’economia rifiutando qualsiasi riforma. Inoltre, il conflitto tra le nazioni della Iugoslavia era già diventato così teso che solo in politica estera questa funzionava come nazione unita. In Slovenia, a ogni livello, furono sollevate molte obiezioni al programma di Marković, soprattutto riguardo alla concentrazione di autorità nel consiglio esecutivo federale/governo e nella Banca nazionale di Iugoslavia. Tuttavia, malgrado le critiche, venne approvato dall’Assemblea della Repubblica di Slovenia.

Nonostante alcuni passi verso la democratizzazione e l’apertura dello spazio politico, non si avvertì alcun cambiamento sostanziale nella struttura politica della Iugoslavia e nella posizione slovena nei suoi confronti. Fu solo alcune settimane prima del conseguimento dell’indipendenza che si avviò una discussione su basi paritarie con gli organi federali e soprattutto con Marković, mentre fu solo con gli Accordi di Brioni del luglio 1991 che iniziarono gli effettivi negoziati. All’inizio del 1991, la Slovenia avviò le discussioni con i rappresentanti di tutte le repubbliche iugoslave, offrendo la possibilità di un’unione di Stati indipendenti, autonomi e sovrani (una confederazione) o di una comunità economica. Il 20 febbraio 1991, dopo il fallimento dei negoziati, l’Assemblea slovena di comune accordo adottò la risoluzione sulla sua indipendenza.

Quando alla fine di giugno del 1991 in Iugoslavia scoppiò la guerra, per evitare ulteriori conflitti l’Unione europea inviò un gruppo di osservatori in Slovenia. Il 28 giugno una delegazione speciale incaricata dei negoziati composta da tre mediatori UE (Gianni De Michelis, Jacques Poos, Hans Van den Broek) giunse a Zagabria (passando per Belgrado) per incontrare il presidente croato Franjo Tudjman, il presidente sloveno Milan Kučan e il presidente del governo federale Ante Marković. Si raggiunse un accordo sulla sospensione delle ostilità, sulla ripresa dell’attività della presidenza della Repubblica sociale federalista di Iugoslavia (RSFI, che cessò di funzionare poiché la parte serba rifiutò di riconoscere il croato Stipe Mesić come presidente) e sul rinvio della Carta costituzionale riguardante l’autonomia e l’indipendenza della Slovenia. Ciò nonostante, gli scontri si protrassero fino al 4 luglio, quando l’esercito iugoslavo si ritirò nelle caserme.

Il 7 luglio a Brioni furono avviati i negoziati presieduti dagli allora mediatori UE tra la federazione e la Croazia, la Slovenia e la Serbia, che portarono agli Accordi di Brioni. Tra le decisioni, la più discutibile fu la richiesta che Slovenia e Croazia rimandassero di tre mesi il conseguimento dell’indipendenza. Gli osservatori dell’Unione europea (UE) vigilarono sull’armistizio e sulla moratoria della procedura per l’indipendenza. In Slovenia gli Accordi di Brioni suscitarono varie reazioni, molti membri del Parlamento, soprattutto quelli appartenenti ai partiti nazionalistici, li intesero come un diktat. Il 12 luglio, tuttavia, l’Assemblea slovena li ratificò con una maggioranza di due terzi.

Il 18 luglio, la presidenza della RSFI annunciò inaspettatamente il ritiro dell’esercito iugoslavo dalla Slovenia in tre mesi, compiutosi poi il 25 ottobre. L’esercito iugoslavo, interamente sotto il controllo serbo, depositò alcuni armamenti ed equipaggiamenti in Croazia (dove gli scontri ebbero inizio nell’autunno 1991) e la parte più consistente in Bosnia-Erzegovina, dove presto scoppiò il conflitto più sanguinoso in territorio jugoslavo.

Quando decadde la moratoria, la Slovenia assunse il controllo dei suoi confini e adottò la propria moneta, il tallero. Il 23 dicembre 1991 fu adottata una nuova Costituzione in accordo con i principi generalmente riconosciuti di una democrazia moderna: il sistema parlamentare, la divisione dei poteri, l’uguaglianza di fronte alla legge e altre libertà politiche e socio-economiche quali la protezione dei diritti delle comunità nazionali autoctone italiane e ungheresi.

Nel settembre 1991, quando erano già scoppiati scontri accesi in Croazia, si sarebbe dovuta adottare una decisione sul destino della Iugoslavia durante una conferenza internazionale all’Aia. Una commissione speciale, la commissione di arbitrato Badinter, concluse che in Iugoslavia era in corso un processo di dissoluzione e sottolineò che la questione non riguardava soltanto la secessione delle due repubbliche, Slovenia e Croazia. La Commissione propose che tutte le repubbliche fossero successori paritari della RSFI, che i precedenti confini divenissero frontiere protette dal diritto internazionale e che i problemi dell’eredità statuale derivante dalla cessazione della RSFI dovessero essere risolti di comune accordo tra i vari Stati successori. Tuttavia, la conferenza sulla Iugoslavia, che proseguì a Bruxelles e Londra, non fu molto efficace. Alla fine fallì a causa del rifiuto da parte di Miloševič di tutte le proposte per il mantenimento della Iugoslavia, comprese quelle che prospettavano dei legami fortemente allentati. Con l’appoggio di alcuni Stati, in particolare della Germania, la Slovenia investì tutti i suoi sforzi per ottenere il riconoscimento internazionale. A dicembre, l’UE decise che il 15 gennaio 1992 avrebbe riconosciuto tutte le repubbliche iugoslave che ne avessero fatto richiesta. La Slovenia fu riconosciuta dalla Germania già nel dicembre 1991 (con validità dal 15 gennaio 1992), seguita dall’Islanda (19 dicembre 1991), dal Vaticano (13 gennaio 1992) e dalla maggioranza degli Stati membri dell’UE (15 gennaio 1992). Insieme a Croazia e Bosnia-Erzegovina, la Slovenia venne ammessa nell’ONU il 22 maggio 1992 come 176° membro.

Adesione all’UE

Nei suoi documenti strategici e al più alto livello politico, la Slovenia sottolineò costantemente la volontà e l’obiettivo di diventare membro a pieno titolo dell’UE. Fu dichiarato nei documenti programmatici che lo sviluppo ottimale a lungo termine della Slovenia era inevitabilmente legato all’adesione a pieno titolo all’UE. Sin dalla proclamazione dell’indipendenza – con l’adozione il 25 giugno 1991 in Parlamento della Carta costituzionale fondamentale sulla sovranità e sull’indipendenza della Repubblica di Slovenia nonché con l’assemblea popolare tenutasi il 26 giugno 1991 di fronte al Parlamento – il governo della Repubblica di Slovenia sottolineò costantemente che in cima alla lista delle priorità vi era l’adesione all’UE.

Un anno dopo, nel 1992, la Slovenia presentò la domanda di adesione all’Accordo europeo e richiese aiuti per la ricostruzione e il consolidamento della sua economia. Dopo l’Accordo di cooperazione tra UE e Slovenia del 1993, il governo sloveno chiese di avviare i negoziati di adesione all’UE. Nel 1993 la Slovenia diventò membro del Fondo monetario internazionale.

Il 10 giugno 1996, Slovenia e UE firmarono l’Accordo di Associazione e il governo della Repubblica di Slovenia presentò ufficialmente domanda di adesione all’UE. L’11 novembre 1996 fu firmato l’Accordo interinale sul commercio tra UE e Slovenia (in vigore dal 1° gennaio 1997), con cui venne implementata la parte commerciale dell’Accordo di associazione e rafforzata un’area di libero scambio tra UE e Slovenia. Nel maggio 1997, la Slovenia adottò i Criteri di adesione, confermando la sua volontà di diventare membro a pieno titolo dell’UE.

Il 16 luglio 1997 fu presentato nell’ambito di “Agenda 2000” il Parere della Commissione europea sui paesi candidati. Dopo la relazione favorevole, nel dicembre 1997, la Slovenia si attestò nel primo gruppo di candidati per i negoziati, che iniziarono ufficialmente il 31 marzo 1998. Il 1° maggio 2004, divenne membro a pieno titolo dell’Unione europea. Un anno prima, nel plebiscito del 23 marzo 2003, l’89,64% degli elettori sloveni si pronunciò a favore dell’adesione all’UE. L’adesione fu sostenuta da tutti i partiti politici, tranne il Partito nazionalista sloveno che espresse le sue riserve e il suo Euroscetticismo.

In qualità di membro dell’UE, la Slovenia ha i suoi rappresentanti in tutte le Istituzioni comunitarie, gli organi e gli enti e partecipa attivamente al processo di decision-making. Ha sette eurodeputati al Parlamento europeo e un commissario alla Commissione europea e, come tutti gli altri membri, ha diritto a un voto nel Consiglio dei ministri.

Nel periodo tra il 2004 e il 2006, la Slovenia fu un beneficiario netto dei fondi del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea). Si calcola che abbia ricevuto circa 392,7 milioni di euro più di quanto vi abbia contribuito. Il totale dei fondi di cui ha beneficiato tra il 2004 e il 2006 ammonta a 1,23 miliardi di euro. Quasi un terzo è stato destinato all’agricoltura, un quinto alle politiche strutturali (dai Fondi strutturali finalizzati a ridurre i ritardi di sviluppo tra le diverse regione dell’UE e dai Fondi di coesione per progetti relativi all’ambiente e alle infrastrutture dei trasporti), un buon sesto alla politica interna (per istituire la frontiera Schengen e nei settori quali ricerca e sviluppo, istruzione, cultura, occupazione, ambiente, sanità, ecc.), un quarto per abbattimenti forfettari (per rafforzare la liquidità e per la compensazione di bilancio) e un sesto come aiuti di preadesione.

Nell’anno finanziario 2007 si stima che la Slovenia abbia ricevuto 582,1 milioni di euro dal bilancio generale UE, mentre il suo contributo è stato di 317,1 milioni di euro.

Oltre agli aiuti finanziari e allo sviluppo derivanti dall’adesione all’UE, hanno conosciuto un incremento anche le opportunità di lavoro per i cittadini sloveni in altri Stati membri dell’UE, soprattutto da quando nel 2007 la Slovenia entra nello spazio Schengen. Il 1° gennaio 2007 il paese consolida i suoi legami con altri membri UE in qualità di 13° Stato che ha adottato come moneta l’euro. Tuttavia, è stata la Presidenza dell’Unione europea a costituire la sfida più importante per il giovane paese. Come primo dei nuovi membri, la Slovenia ha assunto la presidenza dal 1° gennaio fino al 30 giugno 2008.

Presidenza slovena del Consiglio UE e i suoi risultati

Il programma della presidenza slovena è stato in larga misura già definito nel programma tripartito di 18 mesi di presidenza (Germania, Portogallo e Slovenia) e si è basato sull’agenda ereditata dal Consiglio UE. La stessa Slovenia ha definito i seguenti cinque settori di azione prioritari:

Il futuro dell’Unione e l’entrata in vigore in tempi rapidi del Trattato di Lisbona. Dopo la firma del Trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007, tutti gli Stati membri si sono concentrati sul completamento delle procedure di ratifica. Il 29 gennaio 2008 la Slovenia è stato il secondo Stato membro UE a ratificare il Trattato ed entro la metà di maggio 13 paesi l’avevano ratificato. Sebbene l’esito negativo del plebiscito irlandese sia stato demoralizzante, la Slovenia ha fatto del suo meglio per trovare insieme all’Irlanda una soluzione adeguata per tutti i membri UE.

Il lancio positivo del nuovo ciclo della strategia di Lisbona. Per consentire al nuovo Trattato di entrare in vigore il 1° gennaio 2009, la presidenza slovena ha anche gestito le attività preparatorie per l’attuazione del Trattato di Lisbona. Basandosi su consultazioni informali su varie tematiche, la presidenza ha anche elaborato un rapporto per documentare il suo operato. Al Consiglio europeo di primavera è stato lanciato con successo il secondo ciclo triennale della Strategia di Lisbona rinnovata. È stato deciso che non occorrevano cambiamenti radicali delle priorità o dei processi e che bisognava concentrarsi sull’attuazione dei programmi di riforma. Tra i risultati della presidenza slovena merita di essere menzionato l’accordo di compromesso degli Stati membri UE di continuare a lavorare nei settori prioritari definiti nel 2006 anche dopo il 2010.

Questione clima-energia. Una dei dossier prioritari della presidenza slovena è stato il pacchetto energia e cambiamenti climatici pubblicato dalla Commissione europea alla fine di gennaio 2008. Il Consiglio europeo di primavera ha preso decisioni politiche strategiche per giungere a una conclusione positiva e tempestiva dell’accordo: l’impegno di giungere a un accordo tra gli Stati membri prima della fine del 2008 e una distribuzione degli sforzi tra gli Stati membri. Era di fondamentale importanza adottare un pacchetto legislativo prima del 2009, per permettere all’UE di svolgere un ruolo fondamentale nel nuovo negoziato internazionale sul clima a Copenaghen a dicembre 2009. Dopo ampi e intensi dibattiti, si è giunti a un accordo politico tra gli Stati membri. Un obiettivo comune a cui hanno contribuito riunioni informali con il Parlamento europeo. Uno dei successi della presidenza slovena riguarda i passi avanti compiuti circa il terzo pacchetto del mercato interno per l’energia, che riguarda la liberalizzazione del mercato nazionale del gas e dell’elettricità. Presentando una proposta di compromesso, la Slovenia è riuscita ad allineare la posizione dei 27 Stati e a raggiungere un ampio consenso d’opinione su parti cruciali di tutte e cinque le proposte di legge, riguardanti sia l’elettricità che il gas.

Rafforzamento della prospettiva europea per i Balcani occidentali. Durante la presidenza slovena è stata avviata una rete di Accordi di stabilizzazione-associazione con i paesi dei Balcani occidentali. Sono stati firmati accordi con la Serbia e la Bosnia-Erzegovina. Tale rete promuove i processi di integrazione dei Balcani occidentali, contribuendo pertanto alla stabilità e alla prosperità generale della regione. Iniziative nei singoli settori della cooperazione regionale e dello sviluppo economico risultano di particolare importanza, quali: il dialogo sulla liberalizzazione dei visti avviato con tutti gli Stati dei Balcani occidentali, il conferimento alla Commissione europea del mandato per avviare negoziati per un accordo sul trasporto, l’accordo sulla creazione di un meccanismo d’investimenti per i Balcani occidentali, il rafforzamento della cooperazione tra la regione e l’UE nel settore della protezione civile, l’avvio di un’iniziativa per trasferire la metodologia UE e preparare una relazione della South Eastern Europe organised crime threat assessment (SEE OCTA, Valutazione della minaccia della criminalità organizzata nell’Europa sud-orientale) e per trasferire le raccomandazioni sulla Lotta contro il terrorismo ai paesi dei Balcani occidentali.

Dopo la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, la Slovenia si è impegnata per la stabilità nella regione sostenendo la presenza dell’UE in Kosovo con la missione EULEX e i suoi rappresentanti speciali (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa). Grazie a questi sforzi è stato possibile mantenere l’unità dell’UE in tutte le questioni più importanti ed evitare la destabilizzazione della regione. I negoziati di adesione con la Croazia e la Turchia sono proseguiti. Con il primo paese, la Slovenia ha aperto quattro capitoli e con il secondo due. Alla fine del 2008, tuttavia, la Slovenia ha revocato il suo sostegno a ulteriori negoziati di adesione con la Croazia poiché questa nei suoi documenti per l’adesione ha adottato una linea di confine tra i due paesi sulla quale non si era ancora raggiunto un accordo.

Promozione del dialogo tra culture, credenze e tradizioni nell’ambito dell’Anno europeo del dialogo interculturale. Simbolicamente e di fatto la presidenza slovena è iniziata con l’inaugurazione a Lubiana dell’Anno europeo del dialogo interculturale, seguita da numerose conferenze, dibattiti e altri eventi. Sono state lanciate svariate iniziative finalizzate a rafforzare e a diffondere il dialogo interculturale tra tutta l’opinione pubblica europea. Sono state intraprese diverse azioni per favorire l’integrazione sul piano culturale relative alle relazioni esterne dell’UE, alla gioventù, all’educazione, al multilinguismo e alla cultura. In particolare, la presidenza si è impegnata a promuovere il dialogo interculturale con i paesi del Mediterraneo, dei Balcani occidentali e di altre regioni. Uno speciale contributo sloveno a questo riguardo è stata la creazione nel giugno 2008 dell’Università euro-mediterranea con sede a Pirano.

Riunioni al vertice, risposte della Presidenza a eventi imprevisti e alcuni dati statistici. Durante la presidenza si sono svolti quattro vertici tra UE e paesi terzi: UE-Giappone, UE-LAC (paesi dell’America Latina), UE-USA e UE-Federazione russa, tutti con l’obiettivo di rafforzare la dimensione strategica delle relazioni e dei partenariati tra l’UE e i paesi terzi e di fornire al contempo l’opportunità per discutere le questioni attuali globali, regionali, economiche, di sicurezza e altre, compresi i cambiamenti climatici e l’energia.

Un altro importante risultato è stata la conferma del mandato per aprire negoziati su un nuovo accordo tra l’UE e la Russia, che sostituirà l’accordo di partenariato e di cooperazione.

È insito nei compiti della presidenza anche l’obbligo di fronteggiare eventi che non possono essere previsti, e per i quali quindi è impossibile essere preparati in anticipo. La presidenza slovena ha reagito a tutti gli eventi inaspettati con tempestività e in modo molto apprezzato. Il Consiglio europeo di marzo ha affrontato le turbolenze dei mercati finanziari. Sono state aggiornate tre ampie e dettagliate tabelle di marcia in diverse aree relative alla regolamentazione e alla vigilanza dei mercati finanziari. È stato firmato ed è entrato in vigore un memorandum d’intesa sulla cooperazione transfrontaliera in materia di stabilità finanziaria.

La presidenza ha dovuto fronteggiare gli eventi in Kenia e nel Ciad, le sommosse nel Tibet, il terremoto in Cina e il ciclone nel Myanmar (Birmania).

Conclusioni

In breve tempo e senza grandi scompigli e problemi, la Slovenia si è integrata nell’UE. L’adesione europea ha consentito al paese di conseguire valori e interessi nazionali fondamentali, apprezzati da tutti i paesi, ovvero sicurezza, benessere e sviluppo. Prima dell’adesione, la Slovenia era considerata il nuovo membro più preparato, oggi è il nuovo membro più integrato. Il fatto che tra tutti i nuovi membri la Slovenia partisse da un’ottima base politica ed economica ha contribuito per molti versi a farle guadagnare questa posizione. Va comunque sottolineato che la Slovenia non era tra gli Stati appartenenti al cosiddetto “socialismo reale”.

Box 1 → Banca di Slovenia

Box 2 → Democrazia liberale della Slovenia

Box 3 → Ufficio governativo per gli Affari europei della Slovenia

Dušan Nečak (2010)




Spagna

L’ingresso della Spagna nelle Comunità europee, avvenuto ufficialmente il 1° gennaio 1986, da un lato ha rappresentato il punto d’arrivo di un lungo e tortuoso processo di avvicinamento iniziato a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, cioè in pieno regime franchista, e dall’altro ha costituito l’agognato traguardo di un europeismo democratico le cui radici affondano nel cuore del XIX secolo.

Sin dai primi decenni dell’Ottocento, infatti, non solo i liberali spagnoli avevano guardato all’Europa, intesa come l’insieme degli Stati più avanzati del continente, come a un modello di riferimento per modernizzare il paese, ma anche tanti repubblicani e socialisti utopisti avevano addirittura indicato negli Stati uniti d’Europa un obiettivo programmatico di politica estera, a completamento dei progetti di Unione iberica con il Portogallo e di Unione latina con Francia e Italia.

Questo, ad esempio, era il caso di intellettuali quali il saint-simoniano Francisco Díaz de Morales Bernuy (1792-1850), e del socialista Fernando Garrido y Tortosa (1821-1883), autore nel 1855 del celebre saggio intitolato La República democrática, federal universal. Nociones elementales de los principios democráticos, nel quale si auspicava una rivoluzione che avrebbe rovesciato il sistema monarchico in Europa e dato vita a una federazione continentale. Ma anche il fourieriano Sixto Sáenz de la Cámara (1825-1859), o il democratico José María Orense Milá de Aragón (1803-1880), e lo stesso Emilio Castelar y Ripoll (1832-1899), almeno negli anni compresi tra la caduta di Isabella II e la Prima repubblica, o perfino Francisco Pi y Margall (1824-1901), il massimo pensatore federalista spagnolo della seconda metà dell’Ottocento, con particolare riferimento al volume su Las nacionalidades del 1876, fecero propri i valori dell’unità europea, anche se con toni e accenti spesso differenti.

Trattandosi poi non soltanto di intellettuali, ma anche di personaggi di primo piano della vita politica spagnola, le loro idee europeiste finirono per segnare profondamente la sinistra repubblicana spagnola del XIX secolo, sino a trasformarsi in programma d’azione nell’ambito di quel Partido republicano federal español che avrebbe svolto un ruolo da protagonista durante il Sessennio rivoluzionario (1868-1874). Poco importa se il loro europeismo fosse in gran parte di derivazione mazziniana, anche perché nelle loro riflessioni non mancò mai un significativo apporto teorico originale, così come non vale la pena soffermarsi troppo sul carattere utopistico di una proposta politica destinata necessariamente a essere troppo in anticipo sui tempi della storia; il dato sorprendente, l’elemento che merita invece di essere sottolineato, consiste nel fatto che la Spagna di quegli anni fu l’unico paese europeo in cui il Federalismo infranazionale e sopranazionale arrivò ad avere un seguito realmente popolare, quasi da ideologia di massa.

L’europeismo spagnolo del XIX secolo ebbe però vita breve, dato che la guerra franco-prussiana del 1870 e, più in generale, la degenerazione dei nazionalismi nella cosiddetta età dell’imperialismo misero presto la parola fine su qualsiasi progetto di unificazione continentale. Solo al momento della proclamazione della Repubblica nel 1873 venne rispolverata la prospettiva dell’unità europea, ma si trattava ormai soltanto di discorsi di rito, pronunciati senza più alcuna convinzione.

Di conseguenza, nell’ultimo quarto dell’Ottocento furono semmai l’internazionalismo marxista e quello anarchico a contrapporsi alla nuova ondata nazionalista. Solo il disastro del 1898, cioè l’umiliante sconfitta nella guerra contro gli Stati Uniti e la conseguente perdita della ricca colonia cubana, fecero sì che in Spagna si tornasse in qualche modo a parlare d’Europa, almeno nei termini indicati dal rigenerazionista Joaquín Costa y Martínez (1846-1911), il quale aveva indicato nell’europeizzazione del paese l’unica possibile via d’uscita da una crisi e da un declino altrimenti irreversibili.

Non fu pertanto casuale il fatto che molti intellettuali della cosiddetta generazione del 1898 abbiano sviluppato un notevole interesse per l’Europa, anche se è vero che forse solo José Ortega y Gasset (1883-1955), pur tra qualche incertezza e contraddizione, arrivò a parlare esplicitamente di unificazione europea. Questi orientamenti non furono però fatti propri dai governanti, che tuttavia nei primi due decenni del Novecento ebbero il merito di aver fatto uscire la Spagna dall’isolamento internazionale e di non averla trascinata nella tragedia della Prima guerra mondiale. Forte di questo risultato la Spagna negli anni successivi avrebbe addirittura rivendicato un seggio permanente nel Consiglio della Società delle Nazioni.

Con la dittatura di Primo de Rivera si accentuò ulteriormente l’impostazione nazionalista della politica estera spagnola, che subì una svolta solo durante la Seconda repubblica. Nei pochi anni che precedettero la guerra civile, il paese infatti si distinse nel sostegno attivo alle politiche della Società delle Nazioni, oltre che per una nuova impostazione internazionale rigorosamente neutralista e pacifista. Ma l’instabilità politica che caratterizzò la storia della Seconda repubblica e la conseguente successione di governi impedì di fatto al paese di svolgere sotto questo aspetto un’azione realmente incisiva.

Con la guerra civile la situazione tuttavia mutò radicalmente, dato che il conflitto superò subito i confini della dimensione nazionale per internazionalizzarsi in un confronto più generale tra fascismo e antifascismo, dittatura versus democrazia. A questo proposito sono noti gli aiuti forniti ai militari franchisti da Germania, Italia e Portogallo, così come l’inerzia di Francia e Regno Unito, cioè dell’Europa democratica, nei confronti del governo legittimo, che pur ricevette un concreto sostegno dall’URSS e dal Messico, oltre che dalle migliaia di combattenti per la libertà inquadrati nelle Brigate internazionali.

Francia e Gran Bretagna, insomma, tradirono le aspettative di Azaña e dei repubblicani spagnoli, che si sentivano europei e che nell’Europa democratica avevano al contrario riposto fiducia. Da parte sua il franchismo pretendeva invece di incarnare l’identità nazionale, e pur avendo osservato la neutralità durante la Seconda guerra mondiale – con l’eccezione della partecipazione della divisione Azul all’operazione Barbarossa –, non smise mai di simpatizzare per i paesi dell’Asse, con i quali aveva del resto firmato il patto anti Comintern il 6 aprile 1939, né di condividere il progetto hitleriano per l’instaurazione di un nuovo ordine europeo e mondiale.

Queste scelte di politica estera, motivate indubbiamente anche da affinità ideologiche con i fascismi, avrebbero condotto il paese nel dopoguerra all’isolamento internazionale. Nel dicembre 1946 l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), infatti, dichiarò di non riconoscere il governo di Franco come rappresentante della nazione spagnola, e invitò i suoi membri a rompere le relazioni diplomatiche con Madrid (gli unici a non adeguarsi furono il Portogallo, la Svizzera e il Vaticano, anche se molti paesi continuarono ad avere rapporti commerciali con la Spagna, a cominciare proprio dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna). A parte il Portogallo di António de Oliveira Salazar, solo l’Argentina del generale Juan Perón si schierò apertamente al suo fianco, tanto da concludere nel 1947 un importante accordo economico che di fatto salvò il paese dalla carestia.

In generale, l’Europa si mostrò poi particolarmente ostile verso la Spagna, e anche per questa ragione la bandiera dell’europeismo entrò a far parte ancor più chiaramente del bagaglio culturale degli esuli politici. Non deve perciò stupire che al Congresso dell’Aia del 1948 avessero partecipato illustri personalità dell’esilio spagnolo come il saggista Salvador de Madariaga, il socialista Indalecio Prieto, il chirurgo Josep Trueba e il leader nazionalista basco José Antonio Aguirre. Così come rientra nella logica delle condanne espresse verso ogni tipo di dittatura la ferma presa di posizione del Consiglio d’Europa – uno dei primi organismi europei – nei confronti del regime franchista, approvata dall’Assemblea consultiva il 10 agosto 1950.

Nell’immediato dopoguerra, e per tutta la seconda metà degli anni Quaranta, la Spagna franchista percepì l’Europa come una minaccia, essendo stata completamente emarginata dalla vita politica del continente e dall’avvio del processo d’integrazione (v. Integrazione, metodo della). Particolarmente ostile nei suoi confronti risultava poi la Francia, che nel 1947 chiese esplicitamente agli Usa di escludere la Spagna dai finanziamenti del Piano Marshall. Era comunque evidente che i valori di fondo che ispiravano il processo d’integrazione europea erano proprio quei valori liberali, democratici e forse perfino socialdemocratici contro cui Franco e gli altri generali insorti nel 1936 avevano combattuto durante la guerra civile (v. Integrazione, teorie della).

In quel nuovo contesto internazionale la Spagna si mosse respingendo da un lato le accuse che le erano state rivolte, ma dall’altro mostrando qualche timido segnale di apertura, sopprimendo ad esempio il saluto fascista, assegnando incarichi di governo a esponenti della Asociación católica nacional de propagandistas (ACNP) e mitigando attraverso riforme costituzionali di facciata il carattere totalitario del regime. Non furono però certo questi piccoli cambiamenti a modificare l’immagine internazionale della Spagna, bensì il clima più favorevole che si venne instaurando grazie all’avvio della Guerra fredda.

In questa logica l’anticomunismo di Franco diventava paradossalmente un titolo di merito, tanto da far passare in secondo piano i suoi crimini. Così nell’autunno del 1947 gli USA decisero di normalizzare i rapporti con la Spagna, considerandola un possibile interlocutore nel confronto planetario con l’URSS, e nel febbraio 1948 anche la Francia lanciò un segnale in questa direzione riaprendo le frontiere con il paese iberico. Il primo successo della diplomazia spagnola si verificò tuttavia solo nel febbraio dell’anno successivo, con la concessione di un prestito di 25 milioni di dollari dalle banche americane, cui fece seguito nel novembre 1950 il voto favorevole dell’Onu al ritorno degli ambasciatori a Madrid e all’ammissione del paese nella Food and agricolture organization (FAO).

Nei primi anni Cinquanta vennero compiuti altri passi decisivi per l’accettazione della Spagna nel consesso internazionale: nel 1952 essa diventò infatti membro dell’United Nations educational, scientific and cultural organization (UNESCO), nel 1953 siglò in agosto un concordato con il Vaticano e in settembre stipulò un accordo di mutua assistenza con gli USA che gli avrebbe fruttato nuovi crediti, mentre nel 1955 venne ammessa come membro a pieno titolo nell’ONU. In quel periodo praticamente solo i paesi del blocco sovietico sostennero la linea dell’intransigenza nei confronti di Franco, mentre aperture nei suoi confronti provenivano oltre che dagli Stati Uniti da quasi tutti i paesi latino-americani, a eccezione del Messico, e dai paesi arabi. I paesi europei, viceversa, continuano a mostrarsi ostili verso il dittatore, dato che l’opinione pubblica non aveva certamente dimenticato i recenti crimini del fascismo.

Tuttavia, sin dal 1953, furono avviati contatti con l’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE), che alla fine la accettò tra i suoi membri nel 1955. Di conseguenza la Spagna venne inserita in alcuni progetti di cooperazione sopranazionale che, per la loro natura strettamente economica, non implicavano alcuna pregiudiziale di tipo politico. Questi primi risultati costituirono un importante successo per Franco che, antieuropeista per ragioni ideologiche, si era però via via convinto che nel caso in cui si fosse realizzata in Europa un’area di libero scambio, la Spagna non avrebbe potuto restarne fuori.

L’interesse per l’Europa, intesa nel suo significato storico-politico, nella Spagna franchista risaliva almeno alla fine degli anni Quaranta, quando venne realizzata una serie di iniziative tese a conoscere meglio la realtà europea promosse dall’Ateneo di Madrid, da varie università, da enti culturali come ad esempio la reale Accademia di scienze morali e politiche o l’Istituto di studi politici. Se tuttavia per Franco l’Europa rappresentava soprattutto un’occasione, o tutt’al più una sgradevole necessità, in Spagna si svilupparono invece in quegli anni convincimenti più sinceramente europeisti, come nel caso dei cattolici della ACNP, o anche di alcuni gruppi dell’opposizione interna. Resta però fuori dubbio che l’autentico europeismo era per lo più appannaggio della Spagna dell’esilio, dove operavano il già menzionato Salvador de Madariaga, che nel 1952 pubblicò a Londra il volume Europe, a unit of human culture ed Enrique Adroher “Gironella”, allora dirigente del Movimento europeo e del Movimento socialista per gli Stati uniti d’Europa; inoltre, dopo qualche anno sarebbe stato costretto all’esilio anche Enrique Tierno Galván, già docente all’Università di Salamanca ed eminente studioso delle tematiche europee.

Del resto, per tutti i primi anni Cinquanta, la politica estera spagnola guardava più agli USA e all’atlantismo che non all’Europa. Franco tuttavia riteneva che la Spagna avrebbe dovuto svolgere una sorta di missione in Europa, recuperando quei valori tradizionali e quelle radici cristiane che la cultura laica, materialista e financo marxista aveva a suo avviso rimosso. Ma egli era al contempo consapevole dell’impossibilità oggettiva della sua proposta, lontana anni-luce dai progetti di Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman e Paul-Henri Spaak.

Ma a fine anni Cinquanta, di fronte al rilancio comunitario rappresentato dalla Comunità economica europea (CEE) e dalla Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), anche la Spagna accrebbe il suo interesse per l’Europa. Nonostante il fatto che nel biennio 1956-1957 fossero usciti di scena sia il ministro della Pubblica istruzione Joaquín Ruíz-Giménez, sia il ministro degli Esteri Alberto Martín Artajo, due cattolici ritenuti troppo liberali, la prospettiva europea non venne però messa in discussione. Anzi, con il rimpasto governativo del 25 febbraio 1957, e l’arrivo al governo di un gruppo di tecnocrati vicini all’Opus Dei come il ministro del Commercio Alberto Ullastres e quello delle Finanze Mariano Navarro Rubio, tale prospettiva finì addirittura per rafforzarsi.

Così, a fronte della firma dei Trattati di Roma, venne istituita in Spagna, nel luglio del 1957, la Commissione interministeriale per lo studio delle Comunità economica e atomica europee (CICE), con il compito di studiare il loro funzionamento e valutare se esse avessero condotto alla creazione di un’area di libero scambio. Ma soprattutto è importante ricordare che nel 1959, proprio i nuovi ministri economici Ullastres e Navarro Rubio lanciarono quel Piano di stabilizzazione economica che introduceva in Spagna cospicui elementi di liberalismo e avvicinava di fatto il paese al resto dell’Europa.

Di conseguenza, crebbero considerevolmente i vincoli economici con i paesi della CEE, mentre anche sul piano politico vennero compiuti passi in questa direzione dal nuovo ministro degli Esteri Fernando María Castiella. Tuttavia, non tutti gli economisti spagnoli, e ancora meno gli uomini politici, erano convinti che questa fosse l’unica strada possibile per rilanciare l’economia del paese, una sorta di percorso obbligato. Non era infatti così scontato il buon funzionamento della CEE, e un’alternativa appetibile era offerta dall’Associazione europea di libero scambio (EFTA), che era stata creata proprio nel 1959 dalla Gran Bretagna in concorrenza con le Comunità europee.

Anche nel nuovo contesto gli europeisti più convinti continuarono però a essere gli antifranchisti, poiché a nessuno sfuggivano le implicazioni politiche, in termini di democrazia, dell’ingresso della Spagna in Europa. Nel frattempo, anche sul piano delle relazioni internazionali, si registrarono netti miglioramenti nei rapporti con la Francia e con la Germania, così come si verificò l’ammissione dell’ambasciatore spagnolo a Bruxelles, cioè presso la CEE, alla fine del 1960. Ma un ruolo decisivo giocò soprattutto la constatazione nei primi anni Sessanta dei buoni risultati conseguiti dalla CEE, che costituivano una delle ragioni principali del boom economico dei suoi Stati membri.

Di conseguenza anche la Spagna, sulla scia di altri paesi, si apprestava a chiedere l’apertura di un negoziato di Associazione alla CEE. Una complicazione non di poco conto derivava però dal fatto che il 31 dicembre 1961 il Parlamento europeo avesse approvato un decreto, presentato dal socialdemocratico tedesco Willy Bilkerbach, che stabiliva la pregiudiziale democratica come presupposto a ogni richiesta di adesione.

In ogni caso, l’istanza spagnola venne ufficialmente inoltrata il 9 febbraio 1962 da Castiella a Maurice Couve de Murville, ministro francese e presidente della CEE. Nel paese questa richiesta incontrò larghi consensi, anche se l’opposizione interna non perse l’occasione per ribadire la necessità di accelerare parallelamente il processo di democratizzazione; viceversa, l’opposizione in esilio invitava la CEE a rifiutare senza indugio la proposta di Franco.

Adesso spettava alla Comunità europea dare una risposta. Era evidente che vi erano sia dei pro che dei contro, e si trattava pertanto di valutare nei vari aspetti l’intera faccenda. Walter Hallstein, il primo Presidente della Commissione europea, non era in realtà mal disposto, ma di tutt’altro avviso era la componente socialista nel Parlamento europeo. Intanto, il 6 marzo, arrivò a Castiella una lettera interlocutoria da parte di Couve de Mourville, nella quale il mittente dichiarava di aver ricevuto l’istanza spagnola e di averla quindi girata al Consiglio dei ministri competente.

Mentre il governo era in attesa di una risposta ufficiale, nel mese di giugno si svolse a Monaco di Baviera un congresso del Movimento europeo che avrebbe segnato profondamente la storia dell’europeismo spagnolo. Per il paese iberico parteciparono al Congresso tutte le componenti dell’opposizione sia interna che in esilio, a eccezione dei comunisti, che tuttavia inviarono due osservatori. In questa occasione il Congresso approvò un ordine del giorno teso a sottolineare l’inderogabilità della pregiudiziale democratica nell’integrazione europea, facendo peraltro esplicito riferimento alla situazione spagnola e suscitando di conseguenza le ire del regime, che dapprima denigrò il congresso definendolo “contubernio di Monaco” e poi fece addirittura arrestare gli spagnoli che vi avevano partecipato al momento del ritorno in patria.

Naturalmente questo comportamento di Franco non passò inosservato, procurando un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica europea e giocando di conseguenza a sfavore della Spagna nella vicenda dell’associazione alla CEE. Tra i sei paesi membri, quello che esprimeva le più forti riserve in proposito era sicuramente l’Italia, mentre Francia e Germania erano sostanzialmente favorevoli e i paesi del Benelux apparivano indecisi. L’Italia chiarì però la sua posizione solo più avanti, quando cioè il 4 maggio 1964 presentò al Consiglio dei ministri il memorandum di Giuseppe Saragat, con il quale veniva esclusa ogni ipotesi di adesione per paesi il cui regime politico interno non risultasse conforme a quello dei sei paesi fondatori.

In generale però possiamo dire che un po’ in tutto l’ambiente comunitario la richiesta spagnola venne accolta con freddezza. In realtà nel dicembre del 1962 e poi ancora nel gennaio del 1963 il Consiglio dei ministri della CEE affrontò la questione, ma non venne presa nessuna iniziativa, dato che prevalse la tesi di quei paesi che sostenevano la necessità di un’ulteriore riflessione. Contro la Spagna giocò indirettamente pure il veto di Charles de Gaulle alla Gran Bretagna, che dimostrava come anche il veto di un solo paese potesse bloccare le procedure di adesione alle Comunità europee. In quel contesto la Spagna, che sino a quel momento non aveva ricevuto alcuna risposta ufficiale da Bruxelles, il 14 febbraio 1964 decise di presentare una nuova richiesta, questa volta non sollecitando però l’associazione alla CEE, ma soltanto l’apertura di un processo negoziale.

Questa volta Bruxelles non poteva ignorare la nuova istanza, e pertanto già il successivo 25 marzo riunì il Consiglio dei ministri per dare una risposta. Anche in questa occasione l’Italia espresse un parere negativo, ma questa volta il gruppo dei paesi favorevoli prevalse. Così il 6 giugno 1964 il Consiglio, tramite Spaak, rispose finalmente a Madrid autorizzando la Commissione europea ad avviare incontri esplorativi; il primo incontro tra la delegazione spagnola e quella della Commissione si svolse a Bruxelles il 9 dicembre successivo.

Le prime riunioni non diedero grandi risultati, ma nel corso di esse le parti esposero i punti base del negoziato. Un ruolo importante in questa fase giocò in particolare Ullastres, che dall’estate del 1965 era l’ambasciatore spagnolo presso la Comunità europea. Nel luglio del 1966 si concluse questa prima fase del negoziato, e a questo proposito in novembre la Commissione presentò al Consiglio dei ministri una relazione riassuntiva contenente anche alcune ipotesi di lavoro per il prosieguo delle trattative. Il 7 luglio 1967 il Consiglio pertanto diede il via libera all’apertura del negoziato vero e proprio, sulla base della formula dell’Accordo preferenziale, regolato dall’articolo 113 del Trattato CEE, anziché dell’associazione.

Di conseguenza ebbe presto inizio una nuova fase negoziale, che risultò più complessa del previsto anche per la crescente avversione dell’opinione pubblica internazionale verso Franco. Negli anni Sessanta infatti il regime utilizzò in più di un’occasione sistemi repressivi contro i suoi oppositori, come nel già citato caso dell’arresto dei partecipanti al Congresso di Monaco o nella proclamazione dello stato di emergenza durante le manifestazioni studentesche del 1968. In ogni caso, nonostante tali critiche, il 17 ottobre 1969 il Consiglio CEE approvò un secondo mandato negoziale con la Spagna, che prevedeva una riduzione delle tariffe doganali in due fasi successive. Si aprì pertanto la strada a quell’Accordo preferenziale, che venne siglato a Lussemburgo il 29 giugno 1970 dal ministro degli Esteri spagnolo Gregorio Lopez-Bravo, dal presidente del Consiglio della CEE Pierre Harmel e dal presidente della Commissione Jean Rey. Tale accordo entrò in vigore a partire dal 1° ottobre 1970, e tale sarebbe rimasto sino al 31 dicembre 1985.

La firma dell’Accordo preferenziale rappresentò senz’altro un successo per il regime, che a dispetto di quanto riteneva l’opposizione aveva così dimostrato che per la Spagna era possibile integrarsi in Europa, almeno parzialmente, senza dover fare alcuna concessione di natura politica. Tuttavia, l’Accordo preferenziale dovette quasi subito essere rivisto e integrato per via dell’imminente ingresso di Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda nella Comunità europea. Alla luce di questo fatto, il 21 ottobre 1971 Lopez-Bravo inviò pertanto una lettera a tutti i ministri degli Esteri dei paesi CEE e al presidente della Commissione europea per chiedere la riapertura del negoziato al fine di adattare i precedenti accordi alla nuova situazione.

Più precisamente, la Spagna lamentava i danni economici derivanti dall’Allargamento e di conseguenza rivendicava concessioni agricole unilaterali da parte della CEE a titolo di compensazione. Tuttavia, il Consiglio europeo del 29 giugno 1972 non solo oppose un netto rifiuto a tali richieste, ma addirittura negò alla Spagna le agevolazioni di cui beneficiavano i paesi meno sviluppati, dato che negli anni Sessanta il paese iberico si era sviluppato economicamente sino a diventare la nona potenza industriale del mondo. La controproposta della Comunità si riduceva alla ridiscussione della situazione nel quadro di un discorso complessivo sulla politica mediterranea, ma questa ipotesi non poteva certo soddisfare Madrid. Era del resto evidente il fatto che sulla vicenda avevano pesato i timori dell’Italia, ma soprattutto della Francia, nei confronti di prodotti agricoli che in un’ottica di concorrenza avrebbero potuto danneggiare economicamente gli interessi nazionali.

Come già accennato le decisioni assunte dal Consiglio suscitarono reazioni negative in Spagna, tanto che negli ambienti di governo vi fu perfino chi suggerì di abbandonare i negoziati. Prevalse però una linea improntata a una maggiore prudenza, anche se risulta che proprio nell’estate del 1972 la Spagna avesse ripreso i contatti con l’EFTA e che essi furono interrotti solo quando la Norvegia e la Svezia chiesero di nuovo a Madrid adeguate garanzie democratiche. Nel frattempo erano però continuati pure i negoziati con la CEE, che culminarono in una serie di incontri tenutisi tra il novembre e il dicembre del 1972.

Questi incontri non furono comunque infruttuosi, dato che un compromesso venne raggiunto sul Protocollo aggiuntivo che avrebbe dovuto integrare l’Accordo preferenziale. Il Protocollo venne pertanto firmato dalle parti il 29 gennaio 1973, anche se la vicenda era tutt’altro che chiusa, in quanto si trattava di un documento interlocutorio che si limitava a invitare le parti a negoziare un nuovo accordo, che sarebbe entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 1974, e a non modificare sino a quel momento le relazioni commerciali tra la Spagna e i tre nuovi partner comunitari.

Il 26 giugno 1973 il Consiglio dei ministri diede pertanto mandato alla Commissione di negoziare con i paesi mediterranei il progetto di dar vita a una zona di libero commercio per i prodotti industriali. I dazi doganali sarebbero stati soppressi completamente a partire dal 1° luglio 1977, ma alla Spagna venivano concesse eccezioni per alcuni prodotti sino al 1° gennaio 1980. Per quanto concerne l’agricoltura si rimandava invece la questione a nuovi negoziati.

Ai negoziati, svoltisi a Bruxelles, prese parte anche il nuovo ministro degli Esteri, il tecnocrate Laureano López-Rodó, personalità estremamente gradita agli ambienti comunitari. In quell’occasione la Spagna presentò una controproposta, che consisteva nell’inclusione nell’area di libero commercio anche dei prodotti agricoli. Seguirono quindi parecchi incontri dei gruppi di lavoro, che si svolsero in un clima collaborativo, tanto da indurre a credere di poter arrivare a un accordo entro la fine dell’anno.

Ma in ottobre le cose si complicarono terribilmente a causa dell’improvviso scoppio della IV guerra arabo-israeliana, la cosiddetta guerra del Kippur. Le conseguenze di questa crisi internazionale furono infatti gravissime sul piano economico, poiché comportarono il rialzo del prezzo del petrolio, l’impennata dell’inflazione e una tempesta valutaria. Di conseguenza problemi gravi e urgenti si imposero all’attenzione delle Istituzioni comunitarie, relegando in secondo piano la questione dei rapporti tra la Spagna e la CEE. Visti tali sviluppi l’ambasciatore Ullastres cercò invano di forzare la situazione inviando una nuova lettera ai rappresentanti dei Nove per indurli ad accelerare i tempi in merito alla riduzione delle tariffe doganali.

Si entrò pertanto in una fase di impasse, causata certo dal particolare contesto internazionale, ma alla quale non furono completamente estranei i comportamenti repressivi contro gli oppositori dell’ultimo franchismo, a cominciare dal processo contro i leader sindacali delle Comisiones obreras (CCOO). Nell’estate del 1974 ripresero comunque i negoziati, ma essi vennero tuttavia nuovamente interrotti il 1° ottobre 1975 a seguito dell’esecuzione da parte del regime di alcuni militanti dell’Euskadi ta askatasuna (ETA) e del Frente revolucionario antifascista y patriota (FRAP). Di lì a poche settimane la situazione sarebbe però nuovamente cambiata, dato che la morte di Franco, avvenuta il 20 novembre 1975, e la successiva transizione democratica avrebbero inaugurato una nuova stagione nei rapporti tra la Spagna e la Comunità europea.

Il percorso che nell’arco di un decennio avrebbe portato alla piena integrazione della Spagna in Europa fu tuttavia più complesso del previsto, dato che una volta risolte le questioni politiche rimanevano però ancora in piedi le controversie economiche. I segnali di questi possibili sviluppi potevano essere colti già nell’estate del 1974, quando si verificò la cosiddetta guerra delle pesche con la Francia, con tanto di assalti da parte degli agricoltori francesi ai camion spagnoli.

In ogni caso la Spagna della transizione democratica guardò subito all’Europa con nuove speranze, peraltro incoraggiate dal Consiglio dei ministri della CEE, che il 20 gennaio 1976 prese ufficialmente atto della nuova situazione politica spagnola e dichiarò decaduti i principali ostacoli per l’avvio del negoziato. In realtà all’inizio del 1976 i problemi politici non erano ancora stati superati, poiché la Spagna non risultava ancora un paese democratico, bensì un paese in via di democratizzazione.

Il capo del governo Arias Navarro era infatti un personaggio troppo compromesso con il passato regime franchista per godere di un’adeguata credibilità. E così, nel tentativo di rassicurare l’Europa, nella primavera del 1976 il ministro degli Esteri José María de Areilza si recò in visita in tutti i nove paesi della Comunità europea (CE) per illustrare la situazione politica spagnola. Questo viaggio rappresentò sicuramente un successo, ma da più parti Areilza si sentì suggerire che per la Spagna sarebbe stato meglio completare la transizione alla democrazia prima di presentare una nuova domanda di adesione.

In realtà su questo punto vi era una sostanziale differenza di vedute all’interno delle istituzioni comunitarie, dato che il Parlamento europeo era più intransigente rispetto al Consiglio e alla Commissione nell’esigere adeguate garanzie. Era questa, del resto, anche la linea dell’opposizione spagnola, che invitava l’Europa alla prudenza nei confronti di Madrid e le chiedeva di esercitare una costante opera di pressione sulla sua classe dirigente. In quest’ottica crebbero notevolmente nel corso del 1976 i contatti tra la Spagna e l’Europa, a dimostrazione dell’interesse con cui Bruxelles e Strasburgo seguivano gli avvenimenti del paese iberico.

La svolta si ebbe nel luglio del 1976 con la formazione di un nuovo governo guidato da Adolfo Suárez. In realtà anche quella di Suárez era una figura alquanto compromessa con Franco, e inoltre sino a quel momento il nuovo premier non aveva mostrato particolare interesse per l’Europa, tuttavia egli seppe smentire con fatti concreti tali perplessità. In pochi mesi Suárez riuscì infatti a far approvare quella legge di riforma politica che poneva fine alla dittatura, a legittimare partiti e sindacati, comunisti compresi, a ristabilire le libertà fondamentali e a indire elezioni democratiche per il giugno 1977.

Per quanto concerne la politica estera egli ebbe inoltre l’intuizione di affidarne la guida a Marcelino Oreja, il quale, forte dell’esperienza maturata a fianco di Areilza, giocò un ruolo importante nell’avvicinamento della Spagna all’Europa. Parimenti si mosse in quella direzione pure Juan Carlos, che sfruttò i suoi contatti personali e, più in generale i contatti con l’aristocrazia europea, per cercare di migliorare l’immagine internazionale del paese. E in effetti gli sforzi di Suárez, Oreja e Juan Carlos servirono non poco a vincere la diffidenza degli ambienti comunitari.

Di conseguenza il 28 luglio 1977 Marcelino Oreja, a nome di Suárez e del governo, presentò a Henry Simonet, presidente del Consiglio dei ministri delle Comunità europee (v. anche Presidenza dell’Unione europea), la richiesta ufficiale di adesione della Spagna. Questa volta le istituzioni comunitarie espressero all’unisono la loro soddisfazione essendo stati superati i problemi politici del passato, tuttavia sulla strada del nuovo allargamento esistevano ancora non pochi problemi di natura tecnica ed economica.

Intanto alcuni mesi dopo, per l’esattezza il 24 novembre 1977, la Spagna diventava il 20° membro del Consiglio d’Europa, nonché il primo paese a essere ammesso in assenza di una costituzione democratica. E nel frattempo la Spagna avviò anche i negoziati con i paesi dell’EFTA, che sarebbero poi sfociati negli accordi del 26 giugno 1979 sul commercio dei prodotti industriali e di alcuni prodotti agricoli, e che entrarono in vigore il 1° luglio 1980. Viceversa la Spagna non sembrava allora interessata all’ingresso nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), anche per evitare pericolose tensioni con i partiti di sinistra.

Il primo ostacolo nei negoziati con le CE era rappresentato dal fatto che la Grecia aveva rinnovato la domanda di adesione già nel 1975, quindi con due anni d’anticipo sulla Spagna, e di conseguenza stava davanti al paese iberico nelle trattative. Poi vi erano i già accennati problemi economici, anche se il Consiglio dei ministri del 20 e 21 settembre 1977, nell’esprimere il proprio assenso all’avvio dei negoziati con la Spagna secondo quanto previsto dagli articoli 98 del Trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), 237 del Trattato CEE e 205 del Trattato CEEA, non vi aveva fatto alcun riferimento. A questo punto il Consiglio incaricò la Commissione di stendere un Parere sull’argomento.

Di conseguenza la Commissione elaborò un documento intitolato Considerazioni generali relative ai problemi dell’allargamento, noto come el fresco, che venne reso pubblico nell’aprile del 1978. Esso recepiva tutte le riserve francesi nei confronti dell’allargamento, dato che da un lato riconosceva gli effetti positivi dell’ampliamento dei mercati e delle nuove possibilità che offrivano verso l’America Latina, ma dall’altro non nascondeva le difficoltà e la necessità di misure precauzionali tese a preparare i paesi candidati all’ingresso al fine di rendere più agevole l’integrazione. Questo documento, che faceva riferimento a un periodo transitorio che avrebbe dovuto essere compreso tra un minimo di 5 anni e un massimo di 10, venne trasmesso a fine novembre al Consiglio dei ministri.

Il 5 febbraio 1979 ebbe pertanto luogo a Bruxelles l’apertura ufficiale dei negoziati. In tale occasione Jean François Poncet, presidente di turno del Consiglio dei ministri, precisò che la Spagna per entrare in Europa avrebbe dovuto accettare il contenuto dei Trattati comunitari e di tutte le delibere successivamente approvate, nonché condividere le loro finalità politiche. Per la Spagna prese invece la parola Leopoldo Calvo Sotelo, ministro per le relazioni con le Comunità europee, sostenendo che il suo paese era assolutamente pronto a recepire tali disposizioni.

Questa era però soltanto la cerimonia ufficiale, mentre i negoziati veri e propri sarebbero iniziati nel mese di giugno, non a caso alla fine della presidenza francese e dopo lo svolgimento delle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo. Tuttavia, il 10 maggio 1979, il Parlamento uscente era riuscito ad approvare ancora una Risoluzione nella quale esso esprimeva la sua preoccupazione per le serie difficoltà economiche che sarebbero potute derivare dall’allargamento e chiedeva che fossero prese misure adeguate in proposito.

Alla ripresa dei negoziati arrivò anche il rapporto che nel frattempo era stato elaborato dal Comitato economico e sociale (CES) in merito alle domande di adesione di Grecia, Portogallo e Spagna. Questo documento si distingueva dai precedenti in quanto sottolineava soprattutto le conseguenze positive dell’allargamento, considerato come momento di fondamentale importanza nel rafforzamento della democrazia nel Sud del continente. Per quanto concerne le questioni economiche e sociali il Comitato invitava a risolverle in modo equo e in tempi brevi, mentre, su di un piano più generale, esso indicava la necessità di adattare le strutture istituzionali alle nuove dimensioni della Comunità.

I negoziati intanto procedevano con estrema lentezza, anche perché si palesavano via via le riserve espresse dalla Francia di Valéry Giscard d’Estaing. Nonostante la posizione francese non fosse condivisa dai partner comunitari, Parigi continuò a sollevare problemi sino ad assumere posizioni quasi ostruzionistiche. Intanto, nel settembre del 1980, un rimpasto governativo aveva cambiato gli interlocutori spagnoli nelle trattative con Bruxelles: Marcelino Oreja era stato sostituito agli Esteri da José Pedro Peréz Llorca, mentre come nuovo ministro per la Comunità europea era stato scelto Eduardo Punset al posto di Calvo Sotelo.

Nel tentativo di sbloccare la situazione, a partire dal mese di novembre Punset intraprese un viaggio nelle capitali europee. Di grande importanza risultò soprattutto la tappa di Parigi, nella quale egli raccolse dai francesi alcune rassicurazioni, cui però non seguirono fatti concreti. Nei mesi successivi l’attenzione dell’Europa nei confronti della Spagna si spostò tuttavia dai negoziati alle vicende interne del paese. Nel gennaio 1981 Suárez presentò le dimissioni da primo ministro, il 12 febbraio si formò un nuovo governo presieduto da Calvo Sutero e il 23 febbraio alcuni uomini della Guardia civil di Madrid, guidati dal tenente-colonnello Tejero, assaltarono il Parlamento con l’obiettivo di reintrodurre nel paese la dittatura militare. La minaccia fu sventata anche grazie al tempestivo intervento di re Juan Carlos a sostegno delle legittime istituzioni, ma l’episodio mostrava drammaticamente la fragilità della giovane democrazia spagnola.

Questa vicenda ebbe naturalmente alcune ripercussioni sullo stesso andamento del negoziato, perché agli occhi di tutti diventava più che mai urgente inserire la Spagna in Europa per evitare possibili derive autoritarie. Di conseguenza, nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe, la Commissione, il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri si espressero tutti in favore di un’accelerazione delle trattative. Ma ancora una volta la Francia finì per svolgere un ruolo frenante, nonostante il recente passaggio di poteri da Giscard d’Estaing a François Mitterrand.

Viceversa le trattative per l’ingresso del paese nell’Alleanza atlantica, prospettiva questa sostenuta con forza dal premier Calvo Sotelo, procedettero senza intoppi, e così, il 16 febbraio 1982, si registrò l’adesione formale della Spagna all’organizzazione, come suo 16° membro. Tuttavia l’opinione pubblica spagnola risultava estremamente divisa su questo punto, tanto da indurre i socialisti a chiedere un referendum popolare in merito a questo controverso tema.

Frattanto, il 28 dicembre 1982, si svolsero le elezioni politiche e il Partido socialista obrero español (PSOE) ottenne una sonante vittoria. Felipe González fu nominato primo ministro e quindi spettò a lui e al suo governo gestire le tappe finali del negoziato di adesione. Il PSOE vantava una solida tradizione europeista e di conseguenza i ministri economici del nuovo esecutivo, Miguel Boyer e Carlos Solchaga in particolare, presero subito le misure necessarie per adattare la struttura economica della Spagna ai parametri richiesti dalla CEE.

Parimenti, un chiaro orientamento europeista mostrò Fernando Morán, il nuovo titolare del dicastero degli Esteri. Egli intuì che l’unico modo per sbloccare la situazione era quello di intraprendere negoziati diretti con la Francia, scavalcando per certi aspetti le stesse sedi comunitarie. Questa strada non sortì tuttavia gli effetti sperati, dato che alla fine del 1983 erano ancora molti i settori su cui non era stato raggiunto alcun accordo, tanto che nei corridoi cominciò a circolare l’ipotesi del 1° gennaio 1986 come data d’ingresso per Spagna e Portogallo. Nell’estate del 1984 risultò però di grande importanza l’approvazione di un Programma comunitario (v. Programmi comunitari) di aiuti ai settori agricoli più arretrati di Francia, Grecia e Italia: grazie a esso furono vinte le ultime resistenze.

In dicembre fu trovato un accordo sulla produzione vinicola – altro tema delicato – ma all’inizio del 1985, dopo 57 sessioni negoziali, restavano aperti ancora sei capitoli (agricoltura, pesca, affari sociali, risorse proprie, Canarie, relazione Spagna-Portogallo). Ma in quel momento anche da parte comunitaria si avvertiva l’esigenza di chiudere questa estenuante trattativa: e così, con un’improvvisa accelerazione finale, il 29-30 marzo 1985, in concomitanza con il Consiglio europeo di Bruxelles, si arrivò all’accordo definitivo. In questo ultimo sforzo giocò un qualche ruolo positivo anche l’Italia con Giulio Andreotti, allora presidente di turno del Consiglio dei ministri.

L’opinione pubblica spagnola seguì con grande attenzione tutta questa vicenda, essendo in massima parte favorevole all’ingresso del proprio paese in Europa. Le Cortes ratificarono questi accordi all’unanimità e così, il 12 giugno 1985, il Trattato di adesione venne solennemente firmato nel Palazzo reale di Madrid. Nel pomeriggio di quello stesso giorno veniva siglato a Lisbona anche il Trattato di adesione del Portogallo: dal 1° gennaio 1986, data dell’entrata in vigore dei due Trattati, Spagna e Portogallo diventavano così l’undicesimo e il dodicesimo membro delle Comunità europee.

Le prime ripercussioni dell’evento si ebbero sul piano economico. In nome della politica agricola comune furono infatti chiesti alcuni sacrifici ai produttori di latte e vino, agli allevatori di bovini e ai pescatori, mentre a livello industriale l’ingresso in Europa comportò la ristrutturazione, e in certi casi anche la dismissione, delle aziende meno competitive (v. anche Politica agricola comune). I benefici non tardarono però a farsi sentire e furono piuttosto rilevanti, se è vero che grazie al mercato comune e ai fondi di coesione nel giro di pochi anni il paese registrò un forte incremento del PIL, riuscì a richiamare notevoli investimenti stranieri, a stabilizzare la peseta e a migliorare perfino il suo welfare.

Contemporaneamente, sul piano politico, si avviava alla conclusione una stagione caratterizzata dal largo consenso tra i partiti sulle tematiche europee. Se infatti i socialisti continuarono a guardare con fiducia a Bruxelles e Strasburgo, l’opposizione di destra, per voce del suo leader Manuel Fraga, passò invece a criticare il governo per il modo in cui aveva condotto i negoziati di adesione. Le rivelazioni dell’Eurobarometro mostravano inoltre l’incremento del livello di Euroscetticismo nel paese, che pur restava in maggioranza europeista.

L’ingresso in Europa favorì poi una più stretta integrazione della Spagna con il mondo occidentale. Così i socialisti abbandonarono il loro tradizionale neutralismo in favore di posizioni filoatlantiche, tanto da arrivare a sostenere la permanenza del paese nella NATO nel referendum del marzo 1986, a dispetto del voto contrario espresso da altri settori della sinistra spagnola. Questo processo si sarebbe completato nel novembre 1988 quando il paese entrò a far parte anche dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO).

All’interno delle Comunità la Spagna si distinse per il suo impegno europeista, trovando in quegli anni una particolare consonanza con la Germania di Helmut Kohl. I suoi rappresentanti nelle istituzioni europee nel 1986 sostennero infatti l’Atto unico europeo, nel 1988 il raddoppio dei fondi strutturali, nel 1989, anno della prima presidenza spagnola della Comunità, l’approfondimento dell’integrazione e l’avvio di una politica estera unitaria. Il Consiglio europeo di Madrid del giugno 1989, anche per merito della presidenza di turno, prese inoltre importanti decisioni in merito all’unione monetaria (v. anche Unione economica e monetaria).

La presidenza spagnola fu molto apprezzata, tanto che l’abolizione con tre anni e mezzo di anticipo dei dazi sulle esportazioni spagnole verso la Comunità, venne unanimemente interpretata come una sorta di premio per aver svolto fino a quel momento un buon lavoro. Un ulteriore riconoscimento per il paese venne rappresentato dall’elezione del socialista Enrique Barón Crespo alla presidenza dell’europarlamento nel luglio 1989, a poco più di un mese di distanza dall’entrata della peseta nel Sistema monetario europeo (SME).

L’avversione del premier britannico Margaret Thatcher impedì tuttavia il progresso di quell’Europa sociale che costituiva uno dei principali obiettivi di González. Nel frattempo, mentre le divisioni interne e vecchi retaggi culturali rallentavano ancora il processo d’integrazione europea, il mondo intorno stava cambiando rapidamente la sua fisionomia: il crollo del Muro di Berlino diventò l’avvenimento emblematico di tale trasformazione. La Spagna osservò con molta attenzione gli eventi che allora interessavano l’Europa orientale, mostrando un atteggiamento aperto nei confronti della Riunificazione tedesca, ma nel contempo non nascondendo qualche preoccupazione nei confronti di un allargamento a Est della Comunità per il timore di veder ridimensionati i finanziamenti di Bruxelles e perdere gran parte degli investimenti privati stranieri.

Nel 1991 la guerra in Iraq costringeva poi il paese a onorare i suoi impegni internazionali nel quadro dell’Alleanza atlantica, consentendo agli USA di utilizzare le basi aeree spagnole e quindi inviando esso stesso nel Golfo persico una fregata e due corvette. Fu però soprattutto con la guerra in Iugoslavia che la Spagna assunse un significativo ruolo internazionale grazie all’invio di un cospicuo contingente di pace.

Per González, tuttavia, risultava assai più importante la partita che si stava allora giocando nella Comunità. Il 7 febbraio 1992 venne infatti compiuto un importante passo nella costruzione dell’Europa grazie alla firma del Trattato di Maastricht. Il leader spagnolo capì che si trattava di una grande occasione per il suo paese, e non ebbe alcun indugio nell’aderire all’Unione economica e monetaria, nonostante i sacrifici che sarebbero stati richiesti ai cittadini per entrare nell’area dell’Euro. Di qui la fama di leader europeista, tanto che negli ambienti comunitari circolava la voce di una sua possibile successione a Jacques Delors alla guida della Commissione.

Nel giro di pochi mesi tuttavia la situazione cambiò radicalmente. Nell’autunno del 1992 la peseta fu infatti vittima della speculazione finanziaria e rischiò addirittura di dover uscire dallo SME, mentre gli ultimi dati economici non sembravano particolarmente buoni, a cominciare dal tasso di disoccupazione che raggiungeva la quota record del 24%. Di conseguenza l’atteggiamento della Spagna nei confronti dei partner comunitari mutò sensibilmente, rivelando una minore spinta ideale e una crescente attenzione alla difesa degli interessi nazionali. Di fatto tra il 1992 e il 1993 la Spagna puntò più volte i piedi in vari Consigli europei, arrivando a barattare il suo consenso all’allargamento a Nord ed Est col raddoppio dei fondi strutturali e la creazione di un Fondo di coesione, del quale avrebbe ampiamente beneficiato.

Anche l’atteggiamento dell’opinione pubblica spagnola era nel frattempo mutato e si registrava nel paese un’ulteriore crescita dell’euroscetticismo. Non deve perciò trarre in inganno il voto quasi plebiscitario con cui il Parlamento aveva ratificato il Trattato di Maastricht: 314 voti a favore, 3 contrari e 8 astensioni, queste ultime tutte provenienti dai banchi di Izquierda unida. Anche in quell’occasione infatti i distinguo e le precisazioni furono molti, mentre risultarono rari gli interventi ispirati da un sincero spirito europeista.

Nel frattempo scandali e corruzione interessarono sempre più da vicino la classe dirigente al potere. Furono coinvolti in questo tipo di vicende personaggi di spicco del Partito socialista come Alfonso Guerra e Carlos Solchaga, mentre lo stesso presidente González risultò implicato nei fatti del Grupo antiterrorista de liberación (GAL), reo di aver utilizzato metodi gravemente illegali nella lotta contro l’ETA. A dispetto di ciò il PSOE vinse ancora le elezioni politiche del giugno 1993, pur perdendo la maggioranza assoluta in Parlamento ed essendo perciò costretto a formare un governo di coalizione con i nazionalisti baschi e catalani.

Anche l’immagine internazionale della Spagna uscì naturalmente danneggiata da queste vicende politico-giudiziarie, ma ciò non impedì al paese di ospitare alla fine del 1995 due eventi di grande rilevanza. In novembre, infatti, si svolse a Barcellona la Conferenza euromediterranea (v. Processo di Barcellona), nella quale si riunirono i rappresentanti di tutti i paesi europei, africani e asiatici che si affacciavano su questo mare. Vi fu un serrato dibattito tra le delegazioni presenti, furono raggiunte alcune significative intese in materia di sicurezza, immigrazione, droga, democrazia e Università, e prese inoltre corpo un progetto di grande importanza relativo alla formazione di un’area di libero commercio, comprensiva di 800 milioni di abitanti, da realizzarsi entro il 2000. In dicembre si tenne invece a Madrid una riunione del Consiglio d’Europa, nel corso della quale si discussero i problemi relativi al passaggio alla terza fase dell’unione monetaria, la nascita dell’euro e il patto di stabilità. Quasi contemporaneamente la Spagna raccoglieva i frutti dei suoi recenti impegni internazionali grazie alla nomina di Javier Solana, leader storico del PSOE e ministro del governo González, a segretario generale della NATO.

Questi successi di politica estera non furono però sufficienti ai socialisti per risalire la china. Così alle elezioni del marzo 1996 il Partido popular di José María Aznar uscì vincitore, sebbene con un risultato inferiore alle aspettative. Il nuovo governo, presieduto dallo stesso Aznar, da un lato continuò quella politica di risanamento economico e finanziario tesa a riportare il paese entro i parametri di Maastricht, dall’altro portò avanti una diversa idea di Europa fondata sugli Stati nazionali, sul consolidamento dell’Alleanza atlantica e della NATO, sulla cooperazione nella Lotta contro il terrorismo. Quest’ultimo punto diventò uno dei cavalli di battaglia di Aznar, tanto che sin dall’avvio della discussione sulla riforma del Trattato di Maastricht, egli chiese espressamente il divieto di asilo tra i partner comunitari, il rafforzamento dell’Ufficio europeo di polizia (Europol) e il potenziamento dello spazio giudiziario europeo.

Ai popolari spettò quindi il compito di varare un piano economico rigoroso per entrare nell’unione monetaria, evitando peraltro di raccogliere i suggerimenti di coloro che, in patria e all’estero, ventilavano la possibilità di una proroga. Questo impegno diede i suoi frutti, dato che nel gennaio 1997 José María Gil-Robles venne eletto presidente del Parlamento europeo, mentre nel maggio successivo l’ECOFIN approvava il piano di risanamento spagnolo.

La grande sfida europea di quell’anno era soprattutto rappresentata dalla riforma dei Trattati di Maastricht, che si concretizzò in giugno nella firma del nuovo Trattato di Amsterdam. Nella fase finale delle trattative Aznar intervenne più volte sia per scongiurare una riforma istituzionale che reputava dannosa per il suo paese sia per garantire i pieni diritti comunitari alle isole Canarie. Alla fine egli ottenne quanto desiderato in nome dell’interesse nazionale spagnolo, ma la sua linea politica rivelava una carenza di respiro europeo.

Non era casuale che la Spagna avesse trovato in quel frangente un alleato nella Gran Bretagna di Tony Blair, tuttavia in altre occasioni Aznar si trovò praticamente isolato, come quando, nel dicembre 1997, durante il Consiglio europeo di Lussemburgo, si oppose strenuamente alle misure contro la disoccupazione sostenute dal premier francese Lionel Jospin. Ma in quegli anni la questione cruciale per la Spagna era quella dei costi dell’allargamento a Est della Unione europea (UE), dato che a Bruxelles circolava l’ipotesi di reperire parte delle risorse riducendo i fondi di coesione. La Spagna fece allora sapere di non essere disposta a cedere su questo punto, avviando così una lunga fase negoziale che si sarebbe conclusa solo nel marzo 1999 col Consiglio europeo straordinario di Berlino, quando fu raggiunto un accordo che per Madrid risultava migliore del previsto e venne approvato, dopo molte dilazioni, il programma “Agenda 2000”.

In quello stesso anno anche la Spagna fu indirettamente coinvolta negli scandali che interessarono la Commissione guidata da Jacques Santer, poiché il suo commissario González Manuel Marín risultava tra i maggiori indiziati insieme alla francese Édith Cresson. Ciò non impedì però al paese di conseguire due nuovi riconoscimenti a livello comunitario con la nomina di Solana a rappresentante della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) della UE e poi anche a segretario generale della UEO, e con il conferimento a Barón Crespo della presidenza del gruppo socialista nel Parlamento europeo (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo).

Intanto il paese cresceva a un ritmo sostenuto e nella popolazione si era diffuso un certo ottimismo. Alle elezioni politiche del marzo 2000 i votanti premiarono allora il Partido popular (PP), che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi alle Cortes. Questo successo venne interpretato da Aznar anche come un apprezzamento per la linea di politica estera, invero alquanto nazionalista, portata avanti dal suo governo a livello comunitario, e di conseguenza, al Consiglio europeo di Nizza, egli si scontrò nuovamente con gli altri partner sulla delicata questione del numero dei voti in Consiglio. L’altro punto fondamentale della sua visione internazionale consisteva nel suo dichiarato atlantismo, che portò la Spagna a un crescente allineamento con gli USA sia in occasione della guerra del Kosovo sia nell’impostazione delle relazioni con la Cuba di Fidel Castro: la tragedia dell’11 settembre 2001 a suo avviso costituiva un’indiretta conferma della necessità di stringere un rapporto più solidale con l’alleato americano.

Nel primo semestre del 2002 la Spagna tornò a essere protagonista in Europa grazie alla terza presidenza della UE. Per Aznar il periodo non poteva essere più favorevole, poiché l’entrata in vigore dell’euro aveva suscitato notevole entusiasmo nel vecchio continente. Inoltre la Spagna aveva un ulteriore motivo di soddisfazione, dato che Pedro Solbes era allora il commissario europeo agli affari economici e monetari.

Il governo si presentò quindi all’appuntamento con un programma significativamente intitolato Más Europa, che toccava sia i temi dell’approfondimento del processo di integrazione, a partire dalla necessità di dotarsi di una Costituzione, sia l’irrisolta questione del ruolo internazionale della UE, a cominciare da quella prospettiva euromediterranea che sin dagli anni Novanta era stata portata avanti dalla Spagna (v. Partenariato euromediterraneo). Non potevano inoltre mancare i tradizionali riferimenti alla sicurezza: dalla lotta al terrorismo alla prevenzione dell’immigrazione clandestina, sino alla proposta di una Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) da sviluppare, naturalmente, nell’ambito dell’alleanza atlantica.

Al di là di questi buoni propositi, il 2003 segnò invece un momento di grande difficoltà per la UE proprio in relazione alla politica estera. Il conflitto tra Stati uniti e Iraq rese infatti evidente non solo la mancanza di una politica comune, ma un’autentica spaccatura tra gli Stati membri, con Danimarca, Gran Bretagna, Italia, Portogallo e Spagna, insieme a tre paesi candidati a entrare in Europa come Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria, che firmarono un documento di sostegno a George W. Bush a fronte di un atteggiamento assai più prudente mostrato nell’occasione da Francia, Germania e dagli altri paesi dell’Unione. In quest’ambito si distinsero in particolare sia Blair che Aznar, fautori della linea dell’appoggio incondizionato alla Casa Bianca.

Questa spaccatura non poteva naturalmente non avere riflessi sulle altre questioni allora sul tappeto in Europa, a cominciare dalla Costituzione europea. Riguardo alla nuova ripartizione dei voti nel Consiglio dell’Unione, si creò infatti un’inedita alleanza tra Spagna e Polonia – quest’ultimo, paese di prossima adesione – al fine di scongiurare un tipo di rappresentanza rigorosamente proporzionale al numero degli abitanti degli Stati membri. Tale alleanza, rafforzata dal sostegno offerto dalla Gran Bretagna, riuscì a far naufragare il primo tentativo di dotare l’Europa di una Costituzione, nonostante si fosse contrapposta a essa un’ampia maggioranza di paesi che gravitavano intorno all’asse franco-tedesco.

Questa volta Parigi e Berlino non erano però disposte a cedere, tanto da minacciare la Spagna di ritorsioni in campo economico e finanziario. Tuttavia, mentre questa delicata partita era in corso, la situazione cambiò improvvisamente a causa degli attentati terroristici che l’11 marzo 2004, a Madrid, causarono 191 morti e oltre 1500 feriti. Alle elezioni politiche, svoltesi a soli tre giorni di distanza da quella tragedia, i socialisti vinsero infatti inaspettatamente, e il nuovo premier, José Luis Rodríguez Zapatero, impostò subito in modo diverso i rapporti con i partner europei, mostrando un atteggiamento più collaborativo che favorì, nel giugno successivo, la firma del Trattato costituzionale della nuova Europa a Venticinque. Il suo dichiarato europeismo non gli impedì comunque, anche in quella occasione, di portare a casa risultati positivi per il suo paese, che ottenne allora un aumento del numero dei deputati, il riconoscimento dello spagnolo come lingua coufficiale e la conferma di una serie di diritti e garanzie anche per le isole Canarie.

In Europa tutto sembrava procedere allora per il meglio, verso una più stretta integrazione. La Spagna contribuì a questo risultato grazie al dinamismo impresso alla UE in politica estera da Solana, al lavoro svolto dal nuovo presidente del Parlamento europeo José Borell e soprattutto grazie a una celere approvazione, per via referendaria, del Trattato costituzionale. In tale occasione si recarono infatti alle urne il 57,7% degli elettori e il 76,6% dei votanti si espresse favorevolmente. Nulla, insomma, lasciava in quel momento intravvedere all’orizzonte quella crisi che avrebbe di lì a poco sconvolto il panorama europeo con il doppio voto negativo espresso in analoghe consultazioni dai cittadini francesi e olandesi.

Nella seconda metà del 2005 la UE accusò il colpo e la sua attività politica rimase di fatto paralizzata. Tutto sarebbe diventato più difficile: dall’approvazione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) per il periodo 2007-2013 alle trattative in corso con la Turchia e altri paesi aspiranti a entrare nella UE. Nel 2006 il cancelliere tedesco Angela Merkel e il primo ministro belga Guy Verhofstadt, ai quali si associarono poi i rappresentanti di altri paesi a cominciare dall’Italia di Romano Prodi e Giorgio Napolitano, in realtà provarono a rilanciare il processo d’integrazione europea proprio attraverso la ratifica di un Trattato costituzionale, eventualmente emendato nei punti più controversi, ma la strada apparve subito estremamente tortuosa.

Il pericolo era naturalmente quello di un accordo al ribasso, che snaturasse il testo iniziale. In questa vicenda giocò un ruolo importante la Spagna di Zapatero, che nel gennaio 2007 ospitò a Madrid i rappresentanti dei paesi che avevano già ratificato il Trattato costituzionale, proprio per scongiurare una soluzione minimalista. In tal senso si espresse chiaramente il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, che invitò i convenuti a respingere l’ipotesi di approvare solo la parte del testo relativa alle riforme istituzionali, perché a suo avviso «essa non rappresentava da sola la sostanza del Trattato». Questa posizione era del resto condivisa da quasi tutti i paesi europei, tuttavia quando la questione costituzionale venne nuovamente affrontata nel Consiglio europeo di Bruxelles, svoltosi nella capitale belga nel giugno 2007, bastò l’opposizione di soli due Stati membri, cioè la Gran Bretagna di Blair e la Polonia dei gemelli Lech e Jarosław Kaczynski, per affossare ancora una volta il progetto.

Ma si trattava solo di un rinvio. Infatti, com’è noto, il nuovo Trattato venne dapprima approvato in un vertice informale a Lisbona il 18 ottobre 2007, e poi fu firmato dai capi di Stato e di governo, sempre nella capitale portoghese, il 13 dicembre 2007. La Camera e il Senato spagnolo ratificarono quindi il Trattato nell’estate del 2008, quasi all’unanimità, (favorevoli il PSOE, il PP, i catalanisti Convergència i Unió, i baschi del PP e alcune formazioni minori; contrari IU e piccoli partiti regionalisti).

Questo successo rafforzò ulteriormente la leadership di Zapatero, che nel marzo 2008 aveva vinto per la seconda volta consecutiva le elezioni politiche. Ma con la crisi economica, che anche in Spagna mostrava i primi segni proprio in quei mesi, il clima mutò rapidamente. Zapatero fu infatti costretto a una politica dei tagli della spesa pubblica e del walfare che in breve tempo gli alienò il sostegno dei sindacati e della maggioranza dei suoi concittadini: il PSOE fu pertanto sconfitto alle elezioni europee del giugno 2009, vinte dal PP di Jaime Mayor Oreja. La scarsa partecipazione al voto, scesa al minimo storico del 44,9%, evidenziava tuttavia anche una minor sintonia tra gli spagnoli e l’Unione europea.

Le difficoltà economiche indebolirono inoltre l’immagine del Paese a livello internazionale. Così, quando nel primo semestre del 2010 spettò alla Spagna la presidenza di turno dell’UE – seppure in coabitazione con il belga Herman Van Rompuy, presidente permanente del Consiglio europeo – Zapatero non fu sostanzialmente in grado di imporre agli altri Stati membri, e alla Germania in primis, un ambizioso programma d’azione che spaziava dalla piena attuazione delle riforme previste dal Trattato di Lisbona all’adozione di misure straordinarie in risposta alla crisi economica, dall’approvazione della “Strategia 2020” per un nuovo modello di sviluppo a un maggiore dinamismo nella politica estera, da un piano comune contro la violenza alle donne e per l’uguaglianza dei sessi al sostegno all’ingresso della Turchia.

Il peggio doveva tuttavia ancora arrivare. A causa del rischio default, la Spagna venne infatti praticamente commissariata dall’Eurogruppo (i ministri delle Finanze della zona euro). Le misure di austerity adottate non sortirono però gli effetti sperati, e di conseguenze, a fronte dell’aggravarsi della crisi, nell’estate 2011 Zapatero fu costretto a presentare le sue dimissioni da capo del governo e a indire nuove elezioni per l’autunno. Come era facile immaginare dalle urne uscì vincitore il Partido popular di Mariano Rajoy, che ha poi affidato il delicato ministero del Tesoro a Luis de Guindos, ex presidente in Spagna di Lehman Brothers.

In questo contesto − come rilevano alcuni sondaggi − a fronte di una scarsa solidarietà verso Madrid da parte degli altri Paesi dell’Unione, anche in Spagna l’euroscetticismo ha finito per guadagnare terreno.

Guido Levi (2012)




Ungheria

Le relazioni dell’Ungheria con l’Occidente durante la Guerra fredda

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Ungheria entrò nella sfera d’influenza sovietica e di conseguenza aderì al Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON), caratterizzato da economia centralizzata, produzione e scambi pianificati, e al Patto di Varsavia, l’organizzazione di difesa militare del blocco comunista.

Il ruolo dell’Ungheria all’interno del blocco orientale dominato dall’Unione Sovietica fu ampiamente determinato dalla rivoluzione del 1956. In particolare, alcuni anni dopo che la Rivoluzione era stata repressa e le rappresaglie erano terminate, il governo comunista cambiò politica. Gli anni Sessanta furono contrassegnati dallo sviluppo economico e dall’introduzione di maggiore libertà. Venne realizzata una certa liberalizzazione del mercato e in seguito fu addirittura possibile creare piccole imprese private (una cosa inaudita nel sistema socialista). Allo stesso tempo, gli ungheresi godettero di maggiore libertà di spostamento verso l’altra parte della cortina di ferro anche se con qualche restrizione (ad esempio disponibilità limitate di valute occidentali).

Durante la Guerra fredda, l’Ungheria cercò anche di entrare in organizzazioni internazionali fondate dal mondo occidentale, quali l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General agreement on tariffs and trade, GATT) e il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale. L’Ungheria aderì a queste organizzazioni rispettivamente nel 1973 e nel 1982.

Per quanto concerne l’integrazione europea, per quasi trent’anni dalla fondazione della Comunità economica europea (CEE), l’Unione Sovietica e il blocco comunista non riconobbero ufficialmente la CEE e di conseguenza non esistevano rapporti istituzionali tra le parti a livello governativo. Inoltre i paesi del COMECON furono definiti dalla CEE paesi “a commercio di Stato” e ciò comportò discriminazioni commerciali. Tuttavia, in questo contesto, l’Ungheria cercò di migliorare la sua posizione all’interno del Mercato comune riuscendo a giungere a un accordo su ragioni di scambio più favorevoli riguardo ad alcuni prodotti. Tra il 1968 e il 1971 si conclusero i cosiddetti accordi tecnici o di garanzia dei prezzi (in conformità con la regolamentazione dei prezzi agricoli comunitari) tra la Commissione europea e le principali aziende esportatrici ungheresi del settore della carne suina, del vino e del formaggio. In seguito, tra il 1978 e il 1981 si giunse ai cosiddetti accordi settoriali o di autolimitazione nel settore siderurgico, tessile e dell’abbigliamento nonché riguardo a prodotti ovini e caprini. A tale riguardo, l’Ungheria fu uno dei paesi che svolsero un ruolo pionieristico nello sviluppo di legami di natura economica con la CEE (v. Balázs, 2006).

Riavvicinamento e istituzionalizzazione delle relazioni

Negli anni Settanta le relazioni tra i due blocchi iniziarono a essere più distese e sembrò realizzarsi il riconoscimento politico della CEE da parte del COMECON con alcuni tentativi di riavvicinamento. Ci furono due chiari esempi a testimonianza di ciò. Il primo fu la firma congiunta dell’Atto finale di Helsinki nel 1975 da parte dei paesi socialisti e della Comunità, che attestò la condivisione di una serie di valori da entrambe le parti. Il secondo fu l’avvio dei negoziati su un auspicato accordo quadro CEE-COMECON sul commercio, che proseguirono fino al 1981. Sebbene le trattative non sfociarono in un accordo, le periodiche riunioni di esperti segnarono di per sé un cambiamento importante nelle relazioni (v. Balázs, 2006).

Pur in qualità di membro del COMECON, l’Ungheria cercò di stabilire legami più stretti con la CEE. Il governo ungherese iniziò le trattative e alla fine firmò un Accordo di commercio e di cooperazione nel 1988 (a cui Mosca non si oppose). L’accordo aveva l’obiettivo principale di fornire una regolamentazione generale delle relazioni commerciali, tra cui l’abolizione graduale delle misure discriminatorie entro il 1995, l’instaurazione di un reciproco riconoscimento politico e l’estensione della cooperazione oltre il settore commerciale.

Poco dopo, l’Europa orientale fu attraversata da cambiamenti rivoluzionari, politici, sociali ed economici. Nell’agosto 1989 venne aperta la frontiera tra Ungheria e Austria consentendo a centinaia di cittadini della Germania Est di fuggire verso Ovest (v. anche Riunificazione tedesca). L’evento ebbe luogo con il patrocinio di Otto von Habsburg e del ministro riformista Imre Pozsgay (v. Nemes, 1999). Il mese dopo i confini vennero ufficialmente aperti dal governo ungherese e in novembre cadde il Muro di Berlino provocando un effetto a catena sull’intero blocco comunista. Pertanto le rivolte più o meno pacifiche delle società dell’Europa orientale abbatterono rapidamente il vecchio regime mettendo anche fine alla precedente divisione tra Est e Ovest. Tutto ciò non sarebbe certamente accaduto senza il presidente sovietico Michail Gorbačëv che aveva una visione più liberale del futuro dell’Unione Sovietica e del regime comunista.

La Comunità europea riconobbe e sostenne subito tali cambiamenti rivoluzionari adottando tre misure nel 1989-1990: abolì le discriminazioni commerciali nei confronti di questi Stati, estese anche a loro il Sistema di preferenze generalizzato (SPG) e infine offrì un pacchetto di aiuti non rimborsabili, il Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (Poland, Hungary aid for the reconstruction of the economy, PHARE), che fu avviato inizialmente per aiutare questi due paesi e presto esteso a tutti i paesi dell’Europa centro orientale allo scopo di fornire assistenza alle giovani democrazie in transizione politica ed economica. Nel frattempo l’Ungheria divenne membro del Consiglio d’Europa, nel 1996 entrò a far parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e dopo preparativi più lunghi nel 1999 aderì all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) insieme alla Polonia e alla Repubblica Ceca, primi paesi dell’area orientale. L’Ungheria si prefisse inoltre l’obiettivo di aderire alla Comunità europea entro il 1995, ma gli eventi ritardarono questo momento di almeno un decennio.

Il processo di associazione: 1990-1994

Già nel 1990-1991 furono avviati negoziati di associazione alle Comunità europee per i primi tre paesi dell’Europa centrale, e nel dicembre 1991 furono firmati gli speciali accordi di associazione, i cosiddetti Accordi europei, da Polonia, Ungheria e Repubblica Cecoslovacca (a seguito della divisione di quest’ultima federazione nel 1993, la Repubblica Ceca e la Slovacchia dovettero rinegoziare e firmare un nuovo Accordo lo stesso anno).

Gli Accordi europei furono divisi in due parti, il testo principale del trattato e il cosiddetto Accordo provvisorio sulla liberalizzazione degli scambi. Nel caso dell’Ungheria il primo entrò in vigore soltanto nel 1994, ma grazie al più semplice processo di ratifica, l’Accordo provvisorio poté già diventare effettivo nel 1992. Da quell’anno in poi ebbe inizio l’asimmetrica liberalizzazione degli scambi tra le parti: nei primi cinque anni la CEE e negli altri cinque l’Ungheria dovettero gradualmente abolire tutte le barriere doganali al commercio industriale e introdurre tariffe ridotte in settori delicati (quali l’agricoltura). Nel 2001 venne così creata un’area di libero scambio dei prodotti industriali tra l’Ungheria e la CEE dei Quindici, l’area di scambio più importante per l’Ungheria, e vennero anche decisamente migliorate le condizioni degli scambi agricoli. Il documento regolamentò anche i movimenti di capitali (liberalizzazione graduale) e le modalità di stabilimento (introducendo il trattamento nazionale) mentre per quanto riguarda i servizi questi non furono liberalizzati e la libera circolazione dei lavoratori dipese soprattutto dagli accordi bilaterali tra i singoli Stati membri e i paesi associati.

L’intero Accordo europeo, che entrò in vigore nel 1994, fornì un quadro per un regolare dialogo politico e istituzionale, previde l’Armonizzazione legislativa, introdusse nuove aree per la cooperazione e garantì la continuazione del programma di assistenza PHARE sostenendo finanziariamente il processo di adesione, in aggiunta ai prestiti erogati dalla Banca europea per gli investimenti (v. Van den Bempt, Theelen, 1996). Tuttavia, gli Accordi europei limitarono le aspettative dei paesi dell’Europa centrale riguardo a un aspetto in particolare: questi Stati intendevano includere nel Preambolo la prospettiva di un’adesione a pieno titolo, un impegno che non era ancora condiviso dagli Stati membri (i quali si stavano preparando innanzitutto all’importante approfondimento previsto dal Trattato di Maastricht). Il Preambolo, quindi, fece solo riferimento alla volontà dei paesi associati di ottenere in futuro l’adesione.

L’approccio dell’Unione europea verso questa regione mutò nel giugno 1993, quando durante il Consiglio europeo di Copenaghen gli Stati membri dichiararono il loro impegno a favore dell’Allargamento a Est e stabilirono i famosi criteri “tre più uno” a questo riguardo. I criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione), vale a dire democrazia parlamentare stabile, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali (v. anche Diritti dell’uomo), economia di mercato affidabile e capacità di applicare l’Acquis comunitario, furono ben accolti dall’Ungheria, sebbene il quarto criterio potesse ancora interrompere il processo di adesione vale a dire che l’allargamento a Est non rallentasse l’Approfondimento dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Dopo la svolta compiuta a Copenaghen, l’Unione e i paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) si avvicinarono sempre più di anno in anno. Nel 1994, il Consiglio europeo di Essen offrì la possibilità ai PECO di prendere parte ai negoziati del Consiglio in modo da acquisire esperienza e farsi un’idea dell’attività quotidiana dell’UE (dialogo strutturato). Nel 1995, il Consiglio europeo di Cannes approvò il Libro bianco – una raccolta di direttive europee che regolamentavano il mercato interno da trasporre nelle legislazioni nazionali dei paesi associati (v. Libri bianchi).

In realtà, all’epoca (e precisamente nel 1996), la formula degli Accordi europei fu estesa a 10 PECO: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria e Slovenia. Ciò comportò per l’Ungheria (e per gli altri tre paesi cosiddetti di Visegrad ossia Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che lo status iniziale di precursori svaniva e la speranza di un allargamento anticipato che comprendesse solo pochi paesi diminuiva.

Il processo di adesione: dalla candidatura all’adesione a pieno titolo: 1994-2004

Nella primavera del 1994, l’Ungheria presentò la sua candidatura all’Unione europea seguita, entro la primavera del 1996, da quella degli altri nove paesi sopramenzionati, oltre a Cipro e Malta. Lo stesso anno la Commissione europea sottopose a tutti i dodici governi candidati un questionario molto dettagliato da completarsi entro un paio di mesi. Basandosi sulle risposte ottenute, la Commissione pubblicò i suoi pareri (avis) sul grado di preparazione in vista dell’adesione e inoltrò le sue proposte al Consiglio. Alla fine, il Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997 decise di avviare i negoziati di adesione con cinque paesi più uno, vale a dire Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Estonia e Cipro. I restanti cinque PECO non furono ritenuti pronti per tali negoziati (Malta aveva all’epoca ritirato la sua candidatura per poi ripresentarla subito dopo). Pertanto nella primavera del 1998 fu inaugurato il “processo di allargamento” e in quel quadro di riferimento furono avviati i negoziati con l’Ungheria e con gli altri cinque paesi.

I negoziati di adesione furono divisi in due fasi. La prima venne denominata processo di “screening dell’acquis” con la quale esperti della Commissione europea e dei paesi candidati si riunirono per esaminare sistematicamente l’intero acquis giuridico dell’Unione. I candidati dovettero indicare per ogni voce se era già stata trasposta nella legislazione nazionale, se lo sarebbe stata al momento dell’adesione, o se riguardo a uno specifico atto giuridico sarebbe stata necessaria una deroga temporanea. La Commissione raggruppò l’acquis in 31 capitoli (29 capitoli settoriali più questioni istituzionali e varie). Nel dicembre 1988, grazie alla presidenza austriaca, il Consiglio europeo decise di accelerare i negoziati consentendo un approccio in parallelo che rendeva non indispensabile lo screening di tutti i capitoli prima di passare alla seconda fase dei negoziati; in tal modo una volta realizzato lo screening di un capitolo si potevano iniziare i cosiddetti negoziati reali. Durante questa seconda fase gli Stati membri e i candidati negoziarono le condizioni concrete dell’adesione e quindi le deroghe temporanee all’acquis (sia in termini di diritti che di doveri) da parte dell’Unione e dei paesi in via di adesione. Questi negoziati si rivelarono ovviamente più complessi e assunsero la forma di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) tra i Quindici e i rappresentanti governativi dei futuri Stati membri coadiuvati dalla Commissione europea. Contemporaneamente al processo negoziale, la Commissione pubblicò ogni autunno (dal 1998 in poi) le cosiddette Relazioni sui progressi compiuti per prepararsi all’adesione valutando gli sforzi intrapresi da tutti questi paesi.

L’Ungheria creò una struttura amministrativa altamente efficiente a sostegno dei negoziati e si avvalse di diplomatici ed esperti molto preparati nel corso di questi anni (v. Pyszna, Vida, 2002). Il paese compì notevoli sforzi per soddisfare tutti i requisiti dell’Unione, e il governo si prefisse come data di ingresso l’anno 2002 e programmò di conseguenza tutto il lavoro da svolgere. La data prefissata era collegata al pacchetto chiamato “Agenda 2000” adottato dal Consiglio europeo di Berlino nel marzo 1999. In questo documento, l’UE pubblicò il nuovo quadro finanziario per gli anni 2000-2006 e indicò esplicitamente le spese previste per i sei nuovi Stati membri dal 2002 in poi. Ciò nonostante, le speranze per un’adesione anticipata dei sei paesi appartenenti alla “prima ondata” naufragarono velocemente quando il Consiglio europeo di Helsinki nel dicembre 1999 diede via libera agli altri cinque paesi più uno per iniziare i negoziati di adesione. Divenne subito chiaro che il principio dell’Unione di negoziare in base al grado di preparazione dei singoli Stati era stato scalzato da un approccio big bang. Pertanto le due ondate stabilite precedentemente (il gruppo di Lussemburgo e quello di Helsinki) cominciarono a diventare una sola nel 2000-2001; solo per Bulgaria e Romania i negoziati proseguivano a un ritmo più lento.

Nel frattempo, anche l’Unione si preparava per l’allargamento. Dopo aver stabilito il quadro finanziario all’interno di “Agenda 2000”, il Consiglio europeo di Nizza adottò inoltre il quadro istituzionale per adattarsi a 27 Stati membri. Pertanto, dopo la ratifica piuttosto accidentata del Trattato di Nizza, vennero superati anche gli ostacoli istituzionali all’allargamento. Nel giugno 2001, il Consiglio europeo di Göteborg stabilì l’obiettivo dell’Unione di concludere i negoziati con i paesi più preparati entro la fine del 2002 (affinché potessero partecipare alle elezioni del Parlamento europeo del 2004 come membri a pieno titolo) e sei mesi dopo al summit di Laeken fu confermata la prospettiva di accogliere dieci nuovi Stati membri di lì a poco (allargamento big bang approvato).

I negoziati sulle condizioni di adesione si conclusero durante la maratona negoziale del 13 dicembre 2002, quando fu raggiunto l’accordo definitivo. A seguito di contrattazioni bilaterali, l’Ungheria ottenne le cosiddette deroghe, o più precisamente i periodi di transizione in materia di tassazione, trasporti, Politica sociale e concorrenza (v. Politica europea di concorrenza) – la maggior parte dei quali sono già scaduti. I periodi di transizione più importanti e quindi più lunghi furono quelli riguardanti la Libera circolazione dei capitali (vale a dire per l’acquisto di terreni agricoli da parte di persone fisiche o giuridiche dei vecchi Stati membri, una deroga di sette anni e una di cinque per l’acquisto di seconde case), alcuni standard ambientali (fino al 2015), la libera circolazione dei lavoratori (basata su accordi bilaterali e possibili restrizioni per un periodo massimo di sette anni) e il settore dei pagamenti diretti agricoli (gli agricoltori dell’Europa dell’Est, compresi gli ungheresi, avrebbero gradualmente aderito al sistema ricevendo al più tardi entro il 2013 l’ammontare totale delle loro controparti dell’Europa occidentale).

Dopo averlo tradotto in tutte le venti lingue ufficiali, il Trattato di adesione fu firmato ad Atene il 16 aprile 2003. Dopo le procedure di ratifica (in Ungheria l’ingresso fu approvato da quasi l’84% degli elettori, anche se con un’affluenza piuttosto bassa del 45,6%) i dieci nuovi Stati membri entrarono nell’Unione europea il 1° maggio 2004.

L’allargamento del 2004 significò per l’Unione un aumento della popolazione e del territorio di circa un quinto. Al contempo, la povera “sposa” portò al “matrimonio” solo il 5% del PIL dell’UE dei Quindici e il livello di vita medio (PIL pro capite) dei dieci nuovi membri non raggiungeva la metà di quello medio dei vecchi Stati membri (nel 2004 questa cifra era solo del 46%). Al di là delle statistiche, bisogna tuttavia sottolineare che l’allargamento a Est dell’Unione (compresa l’adesione della Bulgaria e Romania nel 2007 e anche in prospettiva del futuro ingresso dei paesi dei Balcani occidentali) riveste l’importanza storica di aver riunito l’Europa e aver fornito un quadro di riferimento migliore per la cooperazione pacifica, la solidarietà e la prosperità.

Primi passi come Stato membro: 2004-2007

L’Ungheria aderì in realtà al suo più importante partner economico. Alla chiusura dei negoziati di adesione (2002), il contributo dell’Unione alle esportazioni aumentò dal 18% del 1989 a più del 75% e alle importazioni dal 21% al 58% nello stesso periodo (v. Palánkai, 2007). Inoltre, la parte più consistente degli investimenti esteri diretti (circa l’80%) giunse dagli Stati membri dell’UE, soprattutto da Germania, Austria, Paesi Bassi e Francia. Tale riorientamento economico da Est a Ovest fu certamente consolidato dal processo di adesione che eliminò gradualmente le barriere agli scambi. Analogamente, l’Ungheria “riorientò” il suo sistema giuridico per allineare sistematicamente la sua legislazione all’acquis (v. anche Ravvicinamento delle legislazioni). Già durante i negoziati di adesione la pubblica amministrazione ungherese fu in grado di ristrutturarsi e organizzarsi secondo le logiche interne dell’attività quotidiana dell’UE (elaborazione rapida delle posizioni nazionali, partecipazione ai negoziati multi-attore, ricerca di alleati, imparare a fare compromessi, ecc.). Allo stesso tempo, l’Ungheria si fece un’idea del funzionamento del sistema di finanziamento dell’Unione, grazie al PHARE e successivamente all’Instrument for structural policies for pre-accession (ISPA) e allo Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD). Questi cosiddetti fondi di preadesione (pari a 3 miliardi di euro all’anno) prepararono i dieci PECO candidati, compresa l’Ungheria, ad avvalersi degli strumenti di assistenza. Attraverso tali fondi, tra il 2000 e il 2004 l’Ungheria ricevette circa 220 milioni di euro all’anno, diretti soprattutto all’armonizzazione legale e allo sviluppo istituzionale, alle infrastrutture di trasporto e agli investimenti ambientali, nonché al settore agricolo e allo sviluppo rurale.

All’atto dell’adesione, l’Ungheria intraprese un lungo processo di apprendimento e di adattamento diventando un membro dell’Unione europea molto ben preparato. Riguardo alla performance ungherese come Stato membro, tuttavia, gli ultimi tre anni e mezzo hanno dato risultati contrastanti e l’Ungheria non può ancora essere definita un membro di pieno successo.

Innanzitutto, diversamente dagli altri nuovi Stati membri, l’Ungheria non ha sperimentato quello slancio alla crescita dopo l’adesione all’UE ma, al contrario, il tasso di crescita è diminuito dal 4,8% del 2004 al 3,9% del 2006 per poi rallentare e scendere al di sotto del 3% nel 2007. Questo è certamente un risultato negativo in termini di miglioramento del tenore di vita, che rappresenta uno dei principali motivi per aderire all’UE. Con un tasso del 63,1%, in relazione al PIL pro capite (a parità di potere d’acquisto) e su una media di 100 nell’UE-25, alla fine del 2006 l’Ungheria ha perso il terzo posto diventando il quarto paese dopo Slovenia (83,8%), Repubblica Ceca (76,1%) ed Estonia (64,8%). Per un recupero più veloce l’Ungheria avrebbe bisogno di una crescita economica più dinamica e sostenibile.

Nel 2004, quando l’Ungheria e gli altri nove paesi aderirono all’Unione doganale e al mercato interno, si osservò un interessante fenomeno. Poiché già esisteva il libero scambio industriale tra i PECO e l’UE, l’espansione commerciale non si verificò con i vecchi Stati membri; gli scambi esplosero invece con quelli nuovi soprattutto nel primo anno dopo l’adesione. Inoltre si assistette a un maggiore dinamismo nel commercio agricolo sia con i vecchi che tra i nuovi Stati membri dal momento che il settore agricolo non era stato completamente liberalizzato prima dell’allargamento.

I nuovi Stati membri beneficiarono anche dei sussidi dell’UE alle esportazioni verso paesi terzi, che potevano essere utilizzati soprattutto con i loro vicini orientali.

Per quanto riguarda il settore delle esportazioni, l’Ungheria mantiene la sua competitività nel mercato interno. La maggior parte delle esportazioni industriali ungheresi avviene verso i vecchi Stati membri (in particolare la Germania) e riguarda prodotti lavorati ad alto valore aggiunto (ad es. macchinari, prodotti elettronici). Negli ultimi anni l’Ungheria ha cercato di migliorare la performance delle esportazioni (ma la sua bilancia commerciale complessiva è ancora negativa). Il suo punto debole rimane il fatto che circa l’80% delle esportazioni proviene da società estere con sede in Ungheria da cui il paese dipende fortemente.

A parte gli eccellenti risultati ottenuti dall’Ungheria nel commercio di prodotti industriali, nel settore agricolo si è verificata la situazione opposta. In realtà l’intero settore (per tradizione molto importante per l’Ungheria) aveva subito una grave recessione e contrazione: all’inizio del nuovo millennio, la produzione agricola era scesa a circa il 60% del livello raggiunto nel 1989 – e questo non era il peggior risultato tra i paesi in via di adesione (v. Pálankai, 2007). Mentre rendeva il settore agricolo più competitivo, l’Ungheria perdeva la discreta posizione guadagnata nel mercato interno nel settore delle esportazioni con un’eccedenza commerciale sempre più ridotta. Il paese è intenzionato a recuperare il dinamismo in questo settore prestando particolare attenzione alla crescente richiesta di prodotti alimentari a livello mondiale. A questo riguardo, l’Ungheria (pur sostenendo i principi della Politica agricola comune) vorrebbe avviare una revisione dell’attuale politica di riduzione della produzione.

Un’altra importante libertà nel mercato interno è la Libera circolazione delle persone e dei lavoratori. Per quanto riguarda la prima, l’Ungheria e gli altri nuovi Stati membri sono stati gradualmente integrati nell’area Schengen e l’adesione completa è prevista per il 1° gennaio 2008. Ciò riveste particolare importanza per l’Ungheria, considerata la presenza di minoranze ungheresi in tutti i paesi limitrofi. Da quando sono iniziati i cambiamenti strutturali, una delle priorità della politica estera ungherese è stata quella di riunire gli ungheresi del bacino carpatico attraverso l’adesione nell’Unione europea, dove i confini scompaiono. Certamente un altro importante traguardo per i cittadini ungheresi è quello di poter viaggiare in Europa con un semplice documento d’identità e senza controlli interni alle frontiere.

La circolazione di lavoratori, tuttavia, non è avvenuta in tempi così rapidi. Come detto prima, il Trattato di adesione affidò agli Stati membri il compito di risolvere individualmente tale questione. Da un lato Austria e Germania, i due potenziali paesi più importanti per gli ungheresi in cerca di lavoro, non hanno liberalizzato i loro mercati del lavoro e sembrano attenersi alla formula del periodo massimo di sette anni (ciò non proibisce di impiegare cittadini dei nuovi Stati membri, ma impone il rispetto di rigide quote che limitano l’afflusso di manodopera). Dall’altro lato Regno Unito, Irlanda e Svezia hanno aperto i loro mercati del lavoro al momento dell’allargamento (ed entro il 2007 più della metà dei vecchi Stati membri liberalizzava la mobilità dei lavoratori). Molti cittadini dei nuovi Stati membri hanno sfruttato questa occasione, in particolare polacchi, lituani e lettoni. In Ungheria, tuttavia, si è assistito a un flusso migratorio relativamente minore di lavoratori e solo 10-15 mila hanno abbandonato il loro paese per trovare lavoro in uno dei sopraccitati Stati (soprattutto nel Regno Unito). La spiegazione principale è la mobilità tradizionalmente scarsa dei lavoratori ungheresi, oltre al fatto che finora il tasso di disoccupazione è stato molto basso (6-7%) rispetto ai tre paesi citati, i quali al momento dell’adesione risentivano di alti tassi di disoccupazione a due cifre. Ciò nonostante, ultimamente questa percentuale di così grande importanza sociale è andata lentamente aumentando in Ungheria, mentre è diminuita in tutti gli altri nuovi membri, e ciò potrebbe contribuire a un’ulteriore emigrazione. Strettamente collegato a questa questione è il tasso di occupazione che è il più basso dopo quello della Polonia: l’attuale percentuale del 57% è molto lontana dall’obiettivo fissato a Lisbona del 70% per il 2010. (Al di là degli effetti positivi della maggiore mobilità dei lavoratori all’interno dell’Europa, bisogna prendere in considerazione e gestire la fuga di cervelli in tutti i nuovi Stati membri).

Esistono probabilità concrete che entro il 2013 l’economia ungherese possa registrare un’importante crescita grazie a un afflusso di circa 3 miliardi di euro dal bilancio europeo destinato allo sviluppo nazionale (v. Bilancio dell’Unione europea). La Commissione europea ha dato il via a 15 programmi operativi (compresi sette programmi regionali e altri settoriali e orizzontali) (v. Programmi comunitari). Si spera che gli imminenti investimenti nelle infrastrutture fisiche e umane, nella tutela dell’ambiente e nello sviluppo rurale possano produrre un effetto benefico sulla crescita, sull’occupazione e sul tenore di vita in genere. In realtà a questo riguardo, l’Ungheria sembra aver iniziato bene dal momento che secondo la Commissione europea ha raggiunto il miglior risultato nell’assorbimento dell’assistenza comunitaria tra i nuovi Stati membri arrivando a un tasso di pagamenti del 63% alla fine del 2006 (contro una media raggiunta dagli otto PECO di circa il 44%).

Un ulteriore slancio e una convergenza reale più dinamica alla media UE dovrebbero essere associati anche a una convergenza nominale più equilibrata e sostenibile. Quando l’Ungheria aderì all’UE, si assunse tutti gli obblighi inerenti, compresa l’adesione all’Unione economica e monetaria e la futura introduzione della moneta unica. Ciò comporta che l’Ungheria dovrà soddisfare gradualmente i due criteri fiscali e i tre monetari (i cosiddetti criteri di Maastricht) per poter accedere all’area dell’Euro. Tuttavia, nei primi tre anni dopo l’adesione (diversamente dagli altri nuovi membri) il paese si è allontanato da questo obiettivo. Nel 2006, l’Ungheria è stato l’unico Stato membro a non soddisfare nessuno dei cinque criteri: ha accumulato (in termini di PIL) un disavanzo di bilancio superiore al 9% e un debito pubblico del 66%, ha raggiunto un tasso di inflazione del 4%, tassi di interesse a lungo termine del 7,1% e inoltre la sua valuta non ha partecipato al Meccanismo di cambio europeo (ERM II). Il governo ungherese ha introdotto severe misure di austerity per diminuire il disavanzo di bilancio. A causa di questi problemi non è stata ancora fissata alcuna data ufficiale in merito all’introduzione dell’euro.

Per quanto concerne le istituzioni e l’applicazione del Diritto comunitario, le prestazioni dell’Ungheria sono positive. Occorre sottolineare che l’allargamento da 15 a 27 Stati membri non ha ostacolato il funzionamento delle istituzioni e l’integrazione dei nuovi Commissari, funzionari europei, membri del Parlamento europeo o giudici è avvenuta senza intoppi. Anche in merito alla trasposizione delle Direttive (v. Direttiva) i risultati che l’Ungheria sta raggiungendo sono positivi e il paese rimane in cima alla classifica degli Stati membri, al terzo posto. Inoltre, finora solo in tre casi l’Ungheria è comparsa davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) (su deferimento della Commissione europea) per non aver ottemperato al diritto comunitario.

In sintesi (v. Túry, Vida, 2007) l’Ungheria ha i suoi punti deboli e i suoi punti di forza come membro dell’Unione europea. È in atto in realtà una “pressione diplomatica” sull’Ungheria affinché raggiunga risultati migliori come Stato membro in vista della presidenza dell’UE che nella prima metà del 2011 spetterà all’Ungheria coadiuvata da Spagna e Belgio (detentori della presidenza nel 2010) (v. anche Presidenza dell’Unione europea). In quel periodo l’Ungheria sarà necessariamente alla ribalta e quindi il governo ha già iniziato a prepararsi all’evento.

Conclusioni

Pur appartenendo al blocco d’oltre cortina controllato dai sovietici, l’Ungheria ha sempre perseguito buone relazioni con il mondo occidentale. Come sottolineato prima, durante la Guerra fredda ha aderito al GATT, al FMI e alla Banca mondiale stabilendo buone relazioni anche con la CEE. L’Ungheria ha svolto un ruolo primario nell’abbattimento della cortina di ferro ed è stato tra i primi paesi ad aderire al Consiglio d’Europa, alla NATO e infine all’Unione europea. Sia sotto il profilo politico che quello economico, l’UE ha rappresentato la principale “ancora di salvezza” per l’Ungheria, a partire dai cambiamenti strutturali. L’economia dell’Ungheria è profondamente interconnessa al Mercato interno e il suo sistema giuridico e istituzionale ha raggiunto un alto livello di conformità. Tuttavia, l’Ungheria dovrebbe impegnarsi maggiormente per raggiungere una convergenza sia reale che nominale (espressa in termini di tenore di vita nonché di indicatori fiscali e monetari per poter aderire all’area dell’euro).

A livello politico (a parte alcuni contrasti come accadde ad esempio quando il governo ungherese mostrò la sua esitazione riguardo agli impegni dell’UE in materia di diversificazione delle importazioni di energia) l’Ungheria si è dimostrata un partner collaborativo, impegnato verso riforme istituzionali/costituzionali, verso un ulteriore approfondimento e un ulteriore allargamento. Concretamente ciò significa che l’Ungheria è stata il secondo Stato membro (dopo la Lituania) a ratificare il Trattato costituzionale ed è anche favorevole al Trattato di riforma (v. Costituzione europea). L’Ungheria è anche a favore di una liberalizzazione maggiore nel Mercato interno (ad esempio riguardo alla Libera circolazione dei servizi), di un ulteriore allargamento dell’UE (considerati gli ungheresi che vivono intorno ai confini nazionali) e inoltre vorrebbe promuovere la Politica europea di vicinato dell’UE.

Krisztina Vida (2007)