Armonizzazione

L’armonizzazione delle legislazioni nazionali è un concetto fondamentale del diritto comunitario, che presenta, però, dei contorni piuttosto sfumati. Il punto di partenza è costituito da un dato di fatto: le legislazioni degli Stati membri sono diverse e queste differenze possono ostacolare la realizzazione degli obiettivi previsti dal Trattato. L’armonizzazione è il mezzo attraverso il quale eliminare o ridurre tali disparità.

In assenza di una definizione nel diritto positivo, appare utile esaminare quali sono le attestazioni dell’uso del termine “armonizzazione” nel Trattato. Due sono gli usi ricorrenti: nel primo, è impiegato ad indicare il contenuto della competenza comunitaria (accezione positiva); nel secondo, designa il limite al contenuto della competenza stessa (accezione negativa).

In via preliminare, è necessario ricordare che le istituzioni comunitarie agiscono nei limiti delle competenze loro conferite dai Trattati (principio di attribuzione). Una competenza è una abilitazione ad agire in un determinato ambito, di solito al fine di conseguire un dato risultato. La “azione” comunitaria si traduce di regola (e sempre quando si tratta di armonizzazione) nell’adozione di atti normativi. Gli ambiti sono i settori materiali nei quali le istituzioni possono agire, e sono elencati all’art. 3 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) e specificati nella parte del Trattato stesso dedicata alle politiche. Gli scopi sono indicati sia nella specifica norma che costituisce la base giuridica dell’atto, sia più in generale in altre disposizioni del Trattato, quali l’art. 2 o altre norme di analoga portata.

Il termine “armonizzazione” compare in alcune disposizioni del Trattato come contenuto di un possibile atto comunitario. In questo senso, si possono richiamare le seguenti disposizioni: l’art. 93, relativo all’armonizzazione delle disposizioni nazionali relative alle imposte indirette, «nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno»; l’art. 95, contenuto nel capo intitolato Ravvicinamento delle legislazioni, relativo al «ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno», in cui il termine “armonizzazione” compare accanto a “ravvicinamento”.

Il termine è invece usato ad indicate il limite all’azione delle istituzioni in un’altra serie di articoli, di regola basi giuridiche introdotte o modificate in modo sostanziale a partire dal Trattato di Maastricht. Esse possono a loro volta essere divise in due gruppi. Nel primo possono essere comprese quelle basi giuridiche che non escludono l’armonizzazione, ma la sottopongono a condizioni, di tipo procedurale o contenutistico; nel secondo, l’armonizzazione è esclusa, e le istituzioni possono adottare nella materia atti che si limitino a incentivare o sostenere l’azione statale. Il primo sottogruppo comprende: l’art. 13, sulla non discriminazione per motivi diversi dalla nazionalità (la procedura per adottare atti di armonizzazione è delineata nel par. 1; il par. 2 stabilisce una diversa procedura che assicura un peso paritario a Consiglio e Parlamento, ma la limita alle ipotesi diverse dall’armonizzazione); l’art. 137, relativo alla politica sociale (se in tutti i settori della politica sociale le istituzioni possono adottare misure diverse dall’armonizzazione, solo in alcuni possono emanare direttive che definiscano «prescrizioni minime applicabili progressivamente»); e l’art. 152 relativo alla sanità pubblica («le misure di incentivazione destinate a proteggere e a migliorare la salute umana» non possono comportare l’armonizzazione delle disposizioni nazionali, ma altre disposizioni nazionali che rientrano nella nozione di “sanità pubblica” possono essere armonizzate). Al secondo sottogruppo appartengono: l’art. 129 relativo al settore dell’occupazione, l’art. 149 relativo all’istruzione, l’art. 150 relativo alla formazione professionale, l’art. 151 relativo alla cultura.

Da questa breve disamina si ricava che l’armonizzazione è il contenuto dell’azione delle istituzioni, che si contrappone e si differenzia rispetto ad altri possibili contenuti, quali il sostegno o l’incentivazione dell’azione statale. L’armonizzazione nell’accezione positiva non è limitata alle sole ipotesi in cui è espressamente prevista. Dal momento che si tratta di una tecnica normativa, che si traduce nell’imporre modifiche alle legislazioni nazionali per ridurre le disparità, allora, è possibile tutte le volte in cui il Trattato attribuisce un potere normativo alle istituzioni e non la esclude espressamente. In questo senso, altre espressioni che il Trattato impiega, quali ravvicinamento delle legislazioni (come ad es. all’art. 94), coordinamento delle disposizioni nazionali (come all’art. 47, ma non come all’art. 99, che riguarda il diverso concetto del coordinamento delle politiche nazionali, in quel caso in materia di politica economica), sono equivalenti ad “armonizzazione”.

L’armonizzazione non è neppure una prerogativa del pilastro comunitario, ma anzi è utilizzata anche nel c.d. terzo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea) ed è estesa a tutti i settori che rientrano nella cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Può essere realizzata solo con decisioni-quadro (v. Decisione), atti che hanno per scopo precipuo «il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri» (a differenza delle decisioni, che hanno «qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del presente titolo, escluso qualsiasi ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri»: art. 34 del Trattato sull’Unione europea). L’armonizzazione non è invece possibile nel c.d. secondo pilastro (Politica estera e di sicurezza comune), non perché espressamente esclusa, ma come conseguenza dell’assenza di competenza normativa in capo alle istituzioni.

Nell’economia generale del Trattato di Roma come concepito dagli Stati che lo sottoscrissero, l’intervento normativo delle istituzioni comunitarie attraverso atti di armonizzazione delle legislazioni nazionali era essenziale per rendere concretamente operanti le c.d. quattro libertà fondamentali (libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali) (v. Libera circolazione delle merci; Libera circolazione delle persone; Libera circolazione dei servizi; Libera circolazione dei capitali). Tuttavia, in molti settori le istituzioni non riuscirono ad adottare gli atti nei casi previsti dal Trattato, circostanza che avrebbe potuto impedire la realizzazione del mercato comune, se non fosse intervenuta la Corte di giustizia a valorizzare altre disposizioni del Trattato. La Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) infatti, sin dal caso Van Gend & Loos (sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62, in “Raccolta”, p. 1 e ss.), ha elaborato la dottrina degli effetti diretti delle norme del Trattato. In particolare, ha affermato che le disposizioni del Trattato che sono chiare, precise e incondizionate possono far sorgere diritti in capo ai singoli. La diretta applicabilità comporta che le disposizioni nazionali siano disapplicate se contrastano con il Trattato. Questa dottrina ha consentito di superare l’inerzia delle istituzioni, che per vari motivi non riuscirono ad adottare atti di armonizzazione. La Corte ha così realizzato una sorta di “integrazione negativa”, che ha permesso di superare alcune delle barriere all’instaurazione delle quattro libertà. È utile ricordare quanto la Corte affermò nel caso Reyners: «dopo la fine del periodo transitorio [scaduto il 31 dicembre 1969], le direttive contemplate dal capitolo relativo al diritto di insediamento sono divenute superflue per l’attuazione della norma del trattamento nazionale, dato che quest’ultima è ormai sancita, con efficacia diretta, dal trattato stesso. Tali direttive non hanno tuttavia perduto ogni interesse, in quanto conservano un campo di applicazione importante nel settore delle misure dirette a favorire ed a facilitare l’effettivo esercizio del diritto di libero stabilimento» (sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74, in “Raccolta”, p. 631, parr. 30-31). In altri termini, la Corte chiarisce il rapporto tra atti che le istituzioni devono adottare e disposizioni del Trattato sulle libertà fondamentali. Il trattamento nazionale o il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità si impongono agli Stati in quanto norme chiare, precise e incondizionate. Gli atti delle istituzioni possono e devono facilitare l’esercizio delle libertà, ma non ne sono la fonte.

Questa giurisprudenza ha cambiato il rapporto tra diritto nazionale e diritto comunitario. Da quel momento, la contrarietà al Trattato di una disposizione nazionale ha potuto essere fatta valere da chiunque ne avesse interesse attraverso un ricorso al giudice nazionale. La misura statale è considerata incompatibile con il Trattato, e quindi disapplicabile, a meno che non sia giustificata da esigenze imperative, nei casi stabiliti dal Trattato quando la misura nazionale è discriminatoria, oppure nei casi previsti dalla giurisprudenza Cassis de Dijon se la misura è indistintamente applicabile. Le esigenze di armonizzazione non sono però venute meno. Anzi, trovano un campo di intervento in relazione ai settori nei quali gli Stati possono invocare le esigenze imperative, in quanto l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in quei settori agevola le quattro libertà fondamentali. In questo senso, si può parlare di “integrazione positiva” realizzata attraverso atti di diritto derivato.

In altri settori, diversi dalle quattro libertà, il rapporto tra integrazione negativa e positiva non si pone negli stessi termini. L’armonizzazione è allora indipendente alla diretta applicabilità e diventa contenuto della misura comunitaria.

Il sistema comunitario, fondato, come già ricordato, sul principio delle competenze di attribuzione, comporta che per ogni atto normativo, in questo caso di armonizzazione, sia necessario identificare una base giuridica. Il Trattato prevede due possibilità a questo fine: basi giuridiche generali e speciali. Sono generali le basi giuridiche costituite dagli art. 94, 95 e 308. Sulle prime due si ritornerà diffusamente nel paragrafo successivo. L’art. 308 definisce una procedura per l’adozione di atti per realizzare obiettivi comunitari nel caso in cui il Trattato non abbia attribuito alle istituzioni specifici poteri di azione. La disposizione può allora essere utilizzata per emanare atti di armonizzazione. Il Trattato di Lisbona del 2007 modifica però l’art. 308 stabilendo che per questa via non è possibile realizzare l’armonizzazione dei diritti nazionali nei casi in cui il Trattato espressamente la esclude. Questa limitazione è comunque ricavabile in via interpretativa, se solo si considera che si tratterebbe di una modifica del Trattato che non può essere realizzata per mezzo dell’art. 308, ma richiede una specifica procedura (parere 2/94 del 28 marzo 1996, in “Raccolta”, p. I-1759 e ss.).

Le basi giuridiche specifiche sono quelle previste dai Trattati in relazione a specifiche materie, alle quali si deve ricorrere se la misura di armonizzazione incide su quella materia. Il rapporto tra le prime e le seconde è retto dal principio di specialità: alle basi giuridiche generali si ricorre soltanto se non esiste una base giuridica specifica e, viceversa, le basi giuridiche specifiche sono da preferire a quelle generali (sentenza 23 febbraio 1988, causa 131/86, Regno Unito contro Consiglio, in “Raccolta”, p. 905 e ss. Sul problema della scelta della base giuridica con riferimento alle misure di armonizzazione, v. Fallon, 2002, p. 216 e ss.; Barnard, 2007, p. 581 e ss.).

Determinare la base giuridica dell’atto è questione interpretativa di capitale importanza nel sistema comunitario. La scelta deve essere guidata da alcuni principi, elaborati dalla Corte di giustizia. Secondo costante giurisprudenza, l’elemento che guida la scelta è costituito dallo scopo principale dell’atto in progetto, quale si ricava dal suo contenuto. Solo se l’atto è destinato a perseguire contemporaneamente più obiettivi tra loro inscindibili e di pari importanza, esso dovrà basarsi su più basi giuridiche.

La base giuridica dell’atto è fondamentale anche sotto un profilo più specifico: l’ammissibilità di misure nazionali derogatorie dipende dalla base giuridica posta a fondamento dell’atto di armonizzazione ed è in relazione ad essa che la questione deve essere esaminata e risolta (v. oltre, § 5).

L’art. 94 era già contenuto nella versione originaria del 1957 e le modifiche che vi sono state apportate dal Trattato di Maastricht hanno riguardato la procedura di adozione degli atti, ma non la sua sostanza. La disposizione prevede che il Consiglio dei ministri, all’unanimità (v. Voto all’unanimità), possa adottare direttive per il ravvicinamento delle disposizioni nazionali «che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune». In origine, il Consiglio doveva consultare il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale solo nel caso in cui l’attuazione dell’atto in progetto comportasse una modifica di atti legislativi in uno o più Stati membri. Ora la consultazione è sempre obbligatoria, benché non vincolante.

L’idea alla base della disposizione è quella secondo la quale la differenza tra le legislazioni nazionali in materie relative al mercato comune può produrre distorsioni che ne ostacolano il funzionamento, mentre l’identità delle regolamentazioni non è un requisito indispensabile per il funzionamento del mercato comune (v. Draetta, 1965, p. 785).

Il ravvicinamento è quindi un mezzo per realizzare il fine costituito dal funzionamento del mercato comune. Di conseguenza, non ogni divergenza tra le disposizioni nazionali deve essere eliminata attraverso il ravvicinamento, perché la competenza che l’art. 94 assegna alle istituzioni si limita all’eliminazione per mezzo del ravvicinamento delle sole differenze che abbiano un’incidenza e perlopiù diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune.

L’art. 95 è stato invece inserito dall’Atto unico europeo (AUE), e modificato in modo significativo dai successivi Trattati di revisione. È anch’essa una base giuridica generale, ma si pone come subordinata rispetto all’art. 94. L’art. 95 consente l’adozione di misure secondo la Procedura di codecisione, per il ravvicinamento delle disposizioni nazionali «che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno», ma a esclusione delle disposizioni fiscali, di quelle relative alla libera circolazione delle persone e a quelle relative ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti (par. 2). Le materie escluse possono comunque essere oggetto di ravvicinamento, ma ricorrendo ad una diversa base giuridica, speciale (per es. l’art. 93 in tema di armonizzazione delle imposte indirette: sentenza 26 gennaio 2006, causa C-533/03, Commissione contro Consiglio, in “Raccolta”, p. I-1025 e ss.) oppure generale (e il riferimento principale è all’art. 94).

In ogni caso, presupposto per l’applicazione dell’art. 95, come anche dell’art. 94, è la presenza di norme nazionali da armonizzare. In assenza di disposizioni nazionali in una certa materia, esso non è base giuridica appropriata per l’introduzione di istituti nuovi. In questa ipotesi, l’unica base giuridica generale utilizzabile è l’art. 308 (in questo senso, v. sentenza della Corte 2 maggio 2006, causa C-436/03, Parlamento europeo contro Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-3733 e ss.).

Dal punto di vista dei poteri delle istituzioni, due sono le principali differenze tra gli articoli 94 e 95. In primo luogo, la scelta dell’atto che l’art. 95 conferisce alle istituzioni non è limitata, come nell’art. 94, alle direttive, con la conseguenza che anche un regolamento potrà essere utilizzato al fine di realizzare il ravvicinamento. Tuttavia, una dichiarazione allegata all’AUE stabiliva che la Commissione europea avrebbe privilegiato la direttiva «se l’armonizzazione comporta in uno o più Stati membri una modifica di disposizioni legislative». Il favore per le direttive è espresso anche in termini più generali dal Protocollo sull’applicazione del principio di sussidiarietà e del principio di proporzionalità, allegato al Trattato comunitario e parte integrante di esso. Le direttive devono essere attuate dagli Stati. La Corte, tuttavia, non esclude che misure di armonizzazione non recepite entro il termine di scadenza possano essere invocate dai singoli per opporsi a norme nazionali incompatibili (uno dei casi fondamentali per lo sviluppo della dottrina degli effetti diretti delle direttive verteva su misure di armonizzazione, adottate in base all’art. 100, ora 94: v. sentenza della Corte 5 aprile 1979, causa 148/78, Ratti, in “Raccolta”, p. 1629 e ss.).

In secondo luogo, la procedura di adozione degli atti prevista dall’art. 95 garantisce, rispetto a quella di cui all’art. 94, un migliore bilanciamento dei poteri di Parlamento e Consiglio: il primo assurge al ruolo di colegislatore e il peso del secondo è ridotto, non essendo prevista l’unanimità come regola di voto. Tale risultato è frutto di due fenomeni concomitanti: da un lato, la progressiva sostituzione alla procedura di cooperazione (prevista dalla versione originaria dell’articolo) di quella di codecisione (modifica apportata con il Trattato di Maastricht); dall’altro, il perfezionamento della procedura di codecisione, realizzata con il Trattato di Amsterdam, che ha effettivamente equiparato i poteri del Parlamento e del Consiglio.

Per quanto riguarda il campo di applicazione dell’art. 95, essenziale è il riferimento alla giurisprudenza comunitaria. Il Trattato, infatti, si limita a richiedere che le legislazioni da armonizzare debbano avere per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. L’interpretazione secondo la quale la sola disparità tra le normative nazionali giustifica il ricorso all’art. 95, è stata infatti respinta dalla Corte di giustizia. Una misura di armonizzazione è giustificata solo se le disparità sono tali da ostacolare le libertà fondamentali o da creare distorsioni di concorrenza, incidendo così direttamente sul funzionamento del mercato interno, e solo se la misura comunitaria è effettivamente diretta all’eliminazione o alla prevenzione di quegli ostacoli o di quelle distorsioni (la giurisprudenza sul punto è consolidata. La formula è espressa con particolare chiarezza nella sentenza 12 dicembre 2006, causa C-380/03, Germania contro Parlamento europeo e Consiglio, in “Raccolta”, p. I-11573 e ss. Per un’analisi della coerenza della Corte nell’applicazione di questa formula, v. Barnard, 2007, p. 578). Questa interpretazione valorizza il legame tra armonizzazione e mercato interno, letto alla luce degli articoli 2 e 3 del Trattato.

In ogni caso, se l’obiettivo che la misura persegue rientra in una base giuridica specifica che esclude l’armonizzazione, il ricorso all’art. 95 è precluso (sentenza 5 ottobre 2000, causa C-376/98, Germania contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-8419 e ss.).

A bilanciare l’assenza dell’unanimità del Consiglio (che riduce il peso dei singoli Stati membri) stanno due previsioni dell’art. 95: da una parte, alcune indicazioni quanto al contenuto dell’atto; dall’altra, la facoltà per gli Stati di mantenere o introdurre disposizioni nazionali in deroga alla misura comunitaria.

Sotto il primo profilo, le istituzioni devono basarsi su «un livello elevato di protezione» in materia di «sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori» (par. 3) e devono, se del caso, contemplare l’introduzione di clausole di salvaguardia nelle singole misure di armonizzazione, per autorizzare gli Stati «ad adottare, per uno o più dei motivi non economici di cui all’articolo 30, misure provvisorie soggette ad una procedura comunitaria di controllo» (par. 10).

Sotto il secondo profilo, è utile premettere che le direttive adottate in base all’art. 94 non consentono deroghe agli Stati, a meno che ciò non sia previsto dall’atto stesso (v. sentenza 25 aprile 2002, causa C-183/00, González Sánchez, in “Raccolta”, p. I-3901 e ss.). Al contrario, un atto che ha per base giuridica l’art. 95 può essere derogato dagli Stati nel rispetto delle procedure previste in termini generali dalla disposizione stessa. Al fine di evitare un uso abusivo di tali facoltà, è previsto il controllo della Corte di giustizia, che può essere adita direttamente dalla Commissione o da un altro Stato membro, in deroga alla procedura ordinaria di infrazione (par. 9).

Il par. 4 è relativo all’ipotesi in cui uno Stato membro voglia mantenere disposizioni già esistenti che siano giustificate da una delle esigenze di cui all’art. 30 (deroghe al divieto di restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione delle merci) o relative alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro. Il par. 5 riguarda l’introduzione di nuove norme, cioè l’adozione, dopo la misura comunitaria di armonizzazione, di «disposizioni nazionali fondate su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, giustificate da un problema specifico a detto Stato membro insorto dopo l’adozione della misura di armonizzazione». Il Tribunale di primo grado ha interpretato in modo restrittivo il requisito del “problema specifico”, escludendo che uno Stato possa beneficiare della deroga del par. 5 per far fronte ad un rischio, per esempio ambientale, che presenta un carattere generale e tocca tutti gli Stati membri (v. sentenza 27 giugno 2007, causa T-182/06, Paesi Bassi contro Commissione, in “Raccolta”, p. II-1983 e ss.).

In entrambi i casi, lo Stato deve notificare alla Commissione l’intenzione di mantenere o introdurre norme nazionali, motivandola in base ai requisiti sostanziali indicati.

La versione dell’AUE era molto più ambigua, sia poiché faceva riferimento alla possibilità per gli Stati di “applicare” norme nazionali, senza specificare se precedenti o successive alla misura comunitaria, sia perché non chiariva i poteri della Commissione, ed ha così dato adito a dubbi interpretativi, chiariti dalla Corte di giustizia (v. Condinanzi, 2001, p. 499) e superati grazie alla modifica della disposizione in senso conforme alla giurisprudenza, realizzata con il Trattato di Amsterdam.

In base alla versione attuale dell’art. 95, la Commissione, ricevuta la notifica, dispone di sei mesi di tempo (eventualmente prorogabili di ulteriori sei mesi) per approvare o respingere la richiesta (il silenzio equivale ad approvazione), valutando se le disposizioni nazionali, oltre a soddisfare i requisiti previsti, costituiscono o no «uno strumento di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata nel commercio tra gli Stati membri» e se rappresentano o no «un ostacolo al funzionamento del mercato comune» (par. 6). Le condizioni previste ai par. 4 o 5 e al par. 6 devono essere cumulativamente soddisfatte (v. sentenza della Corte 20 marzo 2003, causa C‑3/00, Danimarca contro Commissione, in “Raccolta”, p. I‑2643 e ss.). La procedura non ha carattere contraddittorio, perché la Commissione si limita a valutare gli argomenti prodotti dallo Stato, che non deve pertanto essere sentito prima della decisione (v., a proposito del par. 4, sentenza della Corte 20 marzo 2003, causa C‑3/00, Danimarca contro Commissione, in “Raccolta”, p. I‑2643 e ss., e del par. 5, sentenza della Corte 13 settembre 2007, cause riunite C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich e Austria contro Commissione, in “Raccolta”, p. I-7141 e ss., punti 37-38). In pendenza dell’autorizzazione, lo Stato non può applicare le norme nazionali derogatorie, perché la decisione della Commissione ha valore costitutivo (sentenza 17 maggio 1994, causa C-41/93, Francia contro Commissione, in “Raccolta”, p. I-1829 e ss.).

Nell’ipotesi in cui uno Stato sia stato autorizzato a mantenere o a introdurre disposizioni nazionali derogatorie, la Commissione deve verificare se non sia opportuno proporre una modifica della misura comunitaria di armonizzazione (par. 7). La Commissione, inoltre, esamina l’opportunità di proporre una modifica della misura comunitaria, qualora uno Stato sollevi un problema attinente alla pubblica sanità (par. 8), anche se non chiede di mantenere o introdurre disposizioni nazionali derogatorie.

La Corte ha riconosciuto che le istituzioni godono di un certo margine di discrezionalità nel determinare quale sia la tecnica di armonizzazione più appropriata per ottenere il risultato auspicato. Ne consegue che le misure di ravvicinamento delle legislazioni nazionali che pure presentano la stessa base giuridica possono avere caratteristiche molto diverse. Per esempio, in relazione all’art. 95 sono state considerate valide sia una direttiva che vietava la commercializzazione di un prodotto in tutti gli Stati membri (sentenza 14 dicembre 2004, causa C-434/02, Arnold André, in “Raccolta”, p. I-11825 e ss.), sia una direttiva che prevedeva una procedura comunitaria per l’autorizzazione di certi prodotti alimentari (sentenza 6 dicembre 2005, causa C-66/04, Regno Unito contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-10553 e ss.).

La dottrina suole classificare le misure di armonizzazione secondo il grado di intensità (v. Fallon, 2002, p. 227 e ss.; Dubouis, Blumann, 2004, p. 268 e ss.; Barnard, 2007, p. 591 e ss.).

L’armonizzazione è completa, quando la misura comunitaria disciplina tutti gli aspetti di una materia, senza lasciare spazio a disposizioni nazionali e sostituendosi ad esse. Nel caso di prodotti, si tratta di disciplinare le caratteristiche che una merce deve presentare per essere prodotta e commercializzata nella Comunità. La produzione di beni difformi dagli standard comunitari non è possibile.

L’armonizzazione è parziale, se riguarda solo alcuni aspetti; in questo caso, gli Stati sono liberi di regolare le questioni non disciplinate a livello comunitario (v. sentenza 22 giugno 1993, causa C-222/91, Philip Morris Belgium e a., in “Raccolta”, p. I-3469 e ss.).

L’armonizzazione è minima, quando la misura comunitaria stabilisce quali sono le caratteristiche che un prodotto o servizio deve possedere per essere commercializzato nella Comunità, ma lascia agli Stati la possibilità di prevedere standard diversi e più severi per i prodotti o servizi nazionali. Ciò significa che ogni Stato deve accettare la commercializzazione sul suo territorio di beni o servizi che rispettano lo standard comune, ma può imporre ai prodotti o servizi nazionali standard diversi e più severi. Il limite alla libertà degli Stati è data dal Trattato stesso, e in particolare dalle disposizioni sulle quattro libertà. Lo standard minimo non è quello proprio dello Stato che prevede le norme meno rigorose (v. sentenza 12 novembre 1996, causa C-84/94, Regno Unito contro Consiglio, in “Raccolta”, p. I-5755 e ss., par. 17), ma può essere determinato dalle istituzioni in base all’obiettivo perseguito. Questa forma di armonizzazione si impone laddove il Trattato stabilisce che le istituzioni possano adottare solo prescrizioni minime (come nel caso dell’art. 137), ma è preclusa nel caso dell’art. 94 (v. sentenza 25 aprile 2002, causa C-154/00, Commissione contro Grecia, in “Raccolta”, p. I-3879 e ss.).

Con riferimento alle norme relative ai prodotti, si suole anche distinguere l’armonizzazione “tradizionale” dall’armonizzazione realizzata secondo il c.d. “nuovo approccio”. Non si tratta di una distinzione operata dalla dottrina, ma dalle stesse istituzioni comunitarie. L’armonizzazione tradizionale garantisce condizioni identiche in ogni Stato membro per quanto riguarda ogni aspetto della produzione e commercializzazione dei prodotti, ma è molto onerosa e tanto più difficile da realizzare quanti più sono gli Stati membri (per una critica a questo tipo di approccio, v. Weatherill, 2006, p. 623 e ss.). Il “nuovo approccio” comporta che siano oggetto di armonizzazione completa soltanto le disposizioni relative alla definizione dei requisiti essenziali di sicurezza, salute, tutela dell’ambiente che i prodotti devono soddisfare per poter essere immessi sul mercato e circolare nella Comunità. Le specifiche tecniche per produrre beni conformi alle esigenze essenziali sono elaborate dagli enti di certificazione e sono volontarie. I prodotti conformi alle suddette specifiche devono essere riconosciuti dagli Stati membri come idonei a tutelare le esigenze essenziali. Questo meccanismo è assai più duttile del precedente e ha il merito di focalizzarsi sugli obiettivi (tutela delle esigenze essenziali e della circolazione delle merci) e non sugli strumenti per conseguirli (specifiche tecniche).

Alessandra Lang (2007)