Aron, Raymond

Quando era in vita e anche in seguito A. (Parigi 1905-ivi 1983) è stato spesso descritto soprattutto come un “atlantista”. Questo non è esatto: in realtà egli era molto più “europeista” che “atlantista”. Tuttavia non fu sempre un fautore della costruzione europea nel senso dell’integrazione e della sovranazionalità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). A. era “europeista” in senso generale, in cui del resto la sua visione della cultura e della storia aveva un ruolo importante, ma lo era molto meno nel senso particolare che spesso oggi ha assunto questo termine (vale a dire sostenitore dell’“Europa di Bruxelles”). Il tema europeo non compare comunque nel suo pensiero prima del 1945, se non attraverso una condanna generale del nazionalismo, di cui A. aveva potuto osservare i devastanti effetti incrociati nei rapporti franco-tedeschi durante il periodo trascorso in Germania fra il 1930 e il 1933. Oltre alle sue riflessioni filosofiche e sociologiche A. allora si era concentrato soprattutto sullo spettacolo della Germania in crisi e, dopo l’ascesa al potere di Hitler, sul fenomeno dei totalitarismi.

Fu chiaramente la Seconda guerra mondiale a indurre A. a prendere coscienza dell’Europa e farla diventare un tema costante delle sue riflessioni. Nei suoi articoli su “Combat” nel 1946 A. descriveva un’Europa ridimensionata di fronte alle due superpotenze che erano le vere vincitrici del 1945, auspicando che potesse affermarsi nei loro confronti per mantenere la propria indipendenza. Inoltre si augurava che la Francia si mettesse alla testa di questo movimento. Ma non si trattava di riflessioni particolarmente originali rispetto alle idee emerse nella cerchia di Aristide Briand alla fine degli anni Venti, epoca in cui il declino relativo dell’Europa rispetto agli Stati Uniti e all’URSS era già un elemento di forte inquietudine. A partire dal 1947 l’evidenza del progetto espansionistico totalitario sovietico e l’inizio della Guerra fredda portano A. a insistere con forza sulla necessità della coesione occidentale e sul ruolo importante dell’America rispetto a Mosca. Ma l’idea di un’Europa indipendente e, se possibile, di un superamento della Guerra fredda non sarebbe mai scomparsa, anche se per lungo tempo le riflessioni di A. saranno consacrate al conflitto Est-Ovest più che alla costruzione europea. Sul piano delle relazioni internazionali la Francia e l’Alleanza atlantica (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) restarono in effetti al centro del suo sistema di coordinate molto più dell’Europa, almeno fino a metà degli anni Sessanta: su “Le Figaro” del 31 agosto 1948 A. osservava a proposito del Piano Marshall che la ricostruzione della Germania da parte degli Stati Uniti era conforme al «bene comune del Vecchio continente, a una sola condizione: che si sappia tradurre in realtà lo slogan dell’unità europea», formula in cui il termine “realtà” opposto al termine “slogan” ben riassume l’approccio aroniano.

A. accolse favorevolmente il Piano Schuman del 9 maggio 1950, ma per due ragioni precise e assai più circoscritte rispetto alle preoccupazioni europeiste a lungo termine di Robert Schuman e soprattutto di Jean Monnet: gli pareva utile un’organizzazione dell’industria pesante europea, con una funzione modernizzatrice, che rendesse più accettabile politicamente la formula dei cartelli siderurgici dell’anteguerra. E l’iniziativa francese dimostrava che alla fine era stata abbandonata la politica punitiva seguita nei confronti della Germania dal 1945 e che ci si era orientati verso una riconciliazione franco-tedesca. Secondo A., in quel momento, era questo l’essenziale e la condizione indispensabile per qualsiasi riavvicinamento europeo. In effetti è in questo periodo, trattando il tema della riconciliazione, che Aron trovò i suoi accenti più profondamente europeisti, come dimostra il discorso rivolto agli studenti dell’Università di Francoforte pronunciato il 30 giugno 1952. Per le stesse ragioni (visione pragmatica delle cose e volontà di riconciliazione con la Germania) egli accettò senza problemi, sempre nel 1950, il principio del riarmo tedesco. In compenso era fortemente critico nei confronti della Comunità europea di difesa (CED) e assolutamente contrario a coloro che intendevano costruire, a partire dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e dalla CED, una vera e propria federazione europea (v. anche Federalismo), come spiegava molto chiaramente nel suo articolo su “Le Figaro” del 24 settembre 1952 Fédération européenne: objectif ou mirage?, A. riteneva che una federazione di questo tipo fosse un progetto irrealistico poiché non teneva conto del peso delle tradizioni e degli interessi nazionali e che inoltre fosse contrario agli interessi della Francia, una potenza con interessi considerevoli anche fuori dell’Europa. Europeista per ragione ragioni culturali e razionali, A. non era certo un europeista idealista e ancor meno un federalista.

Lo scetticismo di A. nei confronti dell’Europa integrata si manifestò ancora nel 1955, al momento del “rilancio europeo” alla Conferenza di Messina, sia che si trattasse del Mercato comune (v. Comunità economica europea) o dell’Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica): la cooperazione sarebbe stata assai più utile dell’integrazione e sarebbe stato «assolutamente inammissibile» che la Francia rinunciasse alla bomba atomica nel quadro dell’Euratom, ipotesi fortemente discussa all’epoca. Tuttavia, A. si opponeva all’idea, molto diffusa fra i partner della Francia nel 1958, di accettare la proposta britannica di un’ampia zona di libero scambio in cui diluire il Mercato comune. In effetti il suo pragmatismo e la sua visione europeista, seppure non integrazionista, lo inducevano a riconoscere la necessità di un’unione economica dotata di una sua personalità rispetto al mondo esterno, anche se i meccanismi complessi dei Trattati di Roma evidentemente non lo convincevano. Auspicava però che la Gran Bretagna (v. Regno Unito) finisse per aderire alla Comunità economica europea (CEE). Nell’autunno del 1958 i negoziati avviati nel 1957 fra i Sei e gli altri paesi, in particolare la Gran Bretagna, sulla costituzione di una zona europea di libero scambio giungevano a un punto cruciale. A. ritiene indispensabile non far diluire il Mercato comune, che per definizione avrebbe comportato una parziale discriminazione nei confronti dei paesi europei non membri, ma al tempo stesso auspicava la conclusione di un ragionevole compromesso tariffario che tenesse conto degli interessi dei partner, comprese le relazioni fra Gran Bretagna e Commonwealth. A. deplorò la brusca rottura dei negoziati imposta dalla Francia il 15 dicembre 1958, come pure il deteriorarsi dei rapporti fra Parigi e Londra, e continuò a sostenere la necessità di un accordo franco-inglese. In effetti, egli riteneva che l’Europa dovesse fondarsi su un accordo di questo tipo non meno che su un accordo franco-tedesco. L’orientamento della politica francese verso Bonn a partire dal 1960 palesemente non lo entusiasmava: per esempio, dalla sua tribuna regolare su “Le Figaro” non dedicò neppure un articolo al progetto di unione politica europea del 1960-1962 (conosciuto come Piano Fouchet).

Il generale Charles de Gaulle tornò al potere nel giugno 1958. All’inizio A. si mostrò estremamente moderato nei giudizi: dopo tutto, la sua visione di un’Europa pragmatica che non pretendesse di negare le realtà nazionali e la sua diffidenza nei confronti del federalismo coincidevano, almeno a una prima analisi, con gli orientamenti gollisti. A. apprezzava il fatto che il generale non cercasse di stravolgere l’Alleanza atlantica o lo stato delle cose in Europa, ma che volesse semplicemente permettere alla Francia di far sentire meglio la sua voce, un’idea che non lo disturbava affatto. Ma le ambizioni di de Gaulle andavano molto più lontano, mirando a riorganizzare l’Europa occidentale intorno alla coppia franco-tedesca e l’intera Europa intorno al rapporto privilegiato fra Parigi e Mosca, allo scopo di superare la Guerra fredda, mentre gli Stati Uniti sarebbero stati sospinti in una posizione periferica. A. comprese nel 1962 che quel che effettivamente voleva de Gaulle era il ritorno al concerto europeo delle potenze precedente al 1914 (certamente modernizzato per tener conto delle realtà del XX secolo). A partire da questo momento la critica di A. non si rivolse solo ad argomenti particolari, ma investì il cuore della politica di de Gaulle, che mirava ad una sintesi, a suo parere impossibile, fra la vecchia Europa degli Stati e la moderna aspirazione all’unificazione europea (articolo su “Le Figaro” del 14-15 luglio 1962: De Charles-Quint à Clemenceau), tanto più che de Gaulle, nel 1962, annunciò il futuro riavvicinamento fra le due Europe, al di là delle ideologie, e il ritorno ad un sistema internazionale che evocava di fatto il concerto europeo precedente al 1914. Secondo A., ciò era assolutamente insufficiente: «Equilibrio e cooperazione, era la formula di pace all’epoca in cui gli Europei si facevano la guerra più volte al secolo». Ma A. se la prendeva anche con certi orientamenti specifici del generale: in particolare, l’asse Parigi-Bonn voluto da de Gaulle indisponeva non solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri partner europei e isolava la Francia.

Ma il 4 luglio 1962, a Filadelfia, John F. Kennedy annunciò quello che è stato definito il suo “grande progetto”, vale a dire una comunità atlantica politica, economica, strategica fondata su due pilastri, l’America del Nord e un’Europa unita che comprendesse la Gran Bretagna. A questo punto entrarono apertamente in conflitto i due “grandi progetti” di un’“Europa europea”, quello di Kennedy e quello di de Gaulle, ed ebbe inizio quel percorso che avrebbe condotto alla conferenza stampa del generale il 14 gennaio 1963 e alla rottura dichiarata fra Parigi e Washington. Da quel momento in poi A. smise di credere nella possibilità di un accordo con Washington. Ai suoi occhi de Gaulle non cercava più un compromesso sulla base di obiettivi precisi, ma un rovesciamento dell’Alleanza atlantica e dell’Europa in funzione di una visione superata del ruolo della Francia nel mondo, rovesciamento che non era di per sé auspicabile e che Parigi, inoltre, non aveva alcuna possibilità di imporre. A. puntò più volte il dito sulla difficoltà principale del progetto gollista: la Repubblica Federale Tedesca non poteva scegliere Parigi contro Washington a meno che la Francia non la incoraggiasse a dotarsi anch’essa dell’arma nucleare, il che era impensabile. Ne seguiva una conclusione perfettamente logica, che era al tempo stesso la critica più forte rivolta da A. contro de Gaulle e senz’altro il punto centrale del loro disaccordo: «È nel quadro atlantico e non a favore di una rivalità franco-americana che può e deve svilupparsi l’amicizia tra la Francia e la Germania» (“Le Figaro”, 4 agosto 1964, Un ensemble occidentale). Per A. l’Europa e l’Alleanza atlantica non erano antinomiche ma complementari. Questo non gli impedì (il gollismo in atto fu per lui una seconda esperienza fondante dopo la Seconda guerra mondiale) di estendere ormai le sue critiche specificamente alla politica europea del generale, in particolare a partire dalla crisi detta della “sedia vuota” del 1965-1966, mentre fino a quel momento aveva spesso dimostrato un certo scetticismo nei confronti delle idee federaliste o sovranazionali che preconizzavano un abbandono della sovranità. In una serie di cinque articoli su “Le Figaro” dedicati all’idea europea, dal 15 novembre al 12 dicembre 1966, A. sviluppò le sue sottili concezioni. In primo luogo constatava che il Mercato comune non era diventato altro che una zona di libero scambio, «un’unità commerciale, non un’unità economica, ancora meno un’unità tecnica» (15 novembre 1966). D’altra parte, l’idea dei padri fondatori secondo cui l’unità politica sarebbe scaturita del tutto naturalmente dall’unità economica si era rivelata falsa (17 novembre, L’échec politique). Di fatto, «l’Europa che si sta sviluppando, sia all’Est che all’Ovest, è un’Europa delle nazioni”. La concezione di Robert Schuman e della sua scuola, secondo cui l’integrazione dell’Europa occidentale avrebbe permesso sia di resistere in un primo tempo all’URSS che di far pazientare la Germania, prima di potersi estendere progressivamente all’Europa orientale quando fosse finita la Guerra fredda, si era rivelata efficace per un certo lasso di tempo, ma ormai non rispondeva più alle realtà del momento, ossia non teneva conto della potenza americana che il Mercato comune non aveva potuto eguagliare e del rifiuto dell’URSS di modificare lo statu quo (7 e 12 dicembre). Tuttavia questo parziale fallimento nulla toglieva all’apporto essenziale dell’impresa: l’instaurazione di «relazioni interstatali di tipo nuovo […] fra popoli divisi da memorie tragiche […] che senza sottrarre agli Stati nazionali la responsabilità delle decisioni ultime devono incoraggiali o aiutarli a comprendersi» (7 dicembre).

Allo stesso tempo, un altro modello di Europa, quello di de Gaulle, era altrettanto condannato al fallimento, ma in modo assai più radicale. Innanzitutto i sovietici non ne volevano sapere, e inoltre esso non poteva che portare ad un equilibrio instabile fra nazioni indipendenti, «senza altri legami all’infuori dei loro mutevoli interessi», a meno che non comparisse un domatore «che non risiederebbe a Parigi» (7 dicembre). A. denunciava «i pericoli dell’evoluzione in corso, che conduce dalla congiuntura di ieri, dominata dalla Guerra fredda, a un’Europa non più separata in due campi ma suddivisa in un gran numero di Stati sovrani» (12 dicembre). Nel dibattito fra gli “europeisti” alla Schuman e gli europeisti gollisti, A. dava fondamentalmente ragione ai primi, ma sottolineando che potevano accontentarsi di aspettare la fase postgollista per riprendere il precedente corso europeo. In effetti, la politica francese, anche dopo de Gaulle, rischiava «di restare, almeno per qualche tempo, di ispirazione gollista» e d’altra parte Bonn tendeva a guardare sempre più a Est. L’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune, di per sé auspicabile, poteva senz’altro provocare un rilancio europeo, ma nell’immediato appariva poco probabile. Quindi era necessario che gli “europei” pensassero in primo luogo a una «stretta intesa fra i paesi dell’Europa occidentale, condizione di un’accresciuta autonomia nei confronti degli Stati Uniti»; e, per raggiungere quest’obiettivo, A. raccomandava di puntare sulla pressione dei “popoli” sui governi (12 novembre, Garder confiance).

L’adesione al progetto europeo di A., complessa e ricca di sfumature, non è stata sempre compresa. Jean Monnet, in ogni caso, non la fraintese e il 17 dicembre 1966 scriveva ad A. di aver seguito i suoi articoli «con interesse crescente» e manifestava la convinzione che in quel momento fosse «necessario agire», cosa che osava «credere possibile», chiedendogli di incontrarlo per «parlargli dei mezzi» ai quali pensava. Di fatto i federalisti francesi erano giunti alle stesse conclusioni di A.: il cammino rapido verso la costituzione di un’Europa sovranazionale che dalla sfera economica sfociasse in quella politica in cui si era creduto fino alla crisi della “sedia vuota” del 1965 era ormai bloccato. In prima istanza bisognava consolidare le acquisizioni della CEE e a questo scopo accogliere la Gran Bretagna nel Mercato comune, per fare da contrappeso al gollismo. Il 16 marzo 1967 Jean Monnet annunciava che il Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa, all’unanimità, si pronunciava per l’ingresso dell’Inghilterra nella CEE, il che per Monnet ed il Comitato, ostili alla prima domanda di adesione britannica del 1961, rappresentava un notevole cambiamento.

Ma A. si preoccupava anche del mantenimento dell’Alleanza atlantica: a proposito del famoso discorso di Henry Alfred Kissinger del 23 aprile 1973, in cui quest’ultimo propose la stesura di una nuova Carta atlantica e annunciò che per l’amministrazione americana il 1973 sarebbe stato «l’anno dell’Europa», A. approvò l’iniziativa, al contrario di numerosi commentatori europei. In effetti, per Kissinger si trattava di mantenere l’Alleanza atlantica «malgrado i contrasti economici», confermando «alcuni obiettivi politici» comuni, una posizione che corrispondeva perfettamente alle preoccupazioni di A. Sembra che nell’ultima fase della sua carriera, prima della scomparsa nel 1983, A. Tornasse a essere più scettico nei confronti dell’Europa e si preoccupasse preoccupato nuovamente per l’evoluzione del totalitarismo comunista e delle relazioni Est-Ovest, ritenendo che il recupero della solidarietà occidentale si facesse quanto mai pressante. La crisi economica provocata dallo choc petrolifero successivo alla guerra del Kippur indeboliva l’Occidente, che doveva affrontare una recrudescenza dell’attivismo sovietico a partire dal 1975. Inoltre la crisi rendeva più fragili i governi moderati dell’Europa occidentale, in particolare in Italia, dove i comunisti si avvicinavano al potere, e in Francia, dove la posta in gioco delle elezioni legislative del 1978 fra la maggioranza e l’opposizione social-comunista del “Programme commun” appariva eccezionalmente importante, mentre la crisi portoghese a partire dal 1974 e la transizione spagnola dopo la morte di Franco nel 1975 appassionavano le élites francesi. Il pessimismo di A. traspariva nel libro pubblicato nel 1977, Pladoyer pour l’Europe. Ai suoi occhi la crisi investiva l’Europa quanto l’America, se non di più. La crisi contemporanea del funzionamento della democrazia liberale in Francia, in Italia, in Gran Bretagna (Le syndrome de Weimar, “Le Figaro”, 4 agosto 1976), i problemi della Comunità europea, in particolare a causa delle esitazioni britanniche, la prospettiva dell’ascesa al potere dei comunisti in Francia e in Italia sottolineavano l’inesistenza a livello internazionale dell’Europa dei Nove, che pure dopo la guerra del Kippur si era sforzata di smarcarsi dagli Stati Uniti con alcune dichiarazioni prive di conseguenze (L’Europe aussi est en crise, “Le Figaro”, 7 maggio 1975).

In ultima analisi il sistema che A. preferiva era un mondo occidentale concepito come un’ellissi con due fuochi: gli Stati Uniti e un’Europa con una propria personalità, ma su basi realistiche, che tenesse conto delle nazioni e della loro storia e introducesse la sovranazionalità solo con grande cautela, laddove fosse al tempo stesso utile e possibile.

Georges-Henri Soutou (2010)