Austria

Dal 1° gennaio 1995 l’Austria è uno Stato membro dell’Unione europea (UE). Nonostante la sua posizione geografica nel cuore del continente, è occorso molto tempo prima che questo paese trovasse una propria via d’accesso all’UE. Sia le forze politiche che il popolo austriaco hanno avuto e, in qualche misura, conservano tutt’oggi, posizioni ambivalenti riguardo all’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). Per molti versi, il processo di adesione dell’Austria all’UE può costituire un modello per la futura evoluzione dell’Europa (v. anche Criteri di adesione): un’Unione più intergovernativa oppure più federalista (v. Federalismo), un’Unione in cui il potere è concentrato a Bruxelles oppure nelle capitali degli Stati membri.

I primi passi verso l’integrazione: 1945-1967

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Austria riacquistò la sua piena sovranità – e di conseguenza la capacità di avere un ruolo attivo negli affari esteri – soltanto nel 1955, con il Trattato di Stato per la restaurazione di un’Austria indipendente e democratica. Fin dagli albori, la giovane cosiddetta Seconda repubblica cercò di trovare una propria collocazione nel nuovo assetto dell’Europa postbellica. Poco dopo aver ottenuto l’indipendenza, l’Austria divenne membro delle Nazioni Unite (1955) e, nel 1956, del Consiglio d’Europa. I primi approcci dell’Austria con le Comunità europee (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica) furono fallimentari soprattutto a causa del suo status di neutralità permanente. Eppure, sin dagli anni Cinquanta tutti i governi si adoperarono per intrattenere relazioni sempre più strette con le Comunità. Contemporaneamente alle Comunità europee, il 3 maggio 1960 fu fondata l’Associazione europea di libero scambio (European free trade association) di cui l’Austria fu uno degli Stati fondatori. L’EFTA offrì ai suoi membri (provenienti tutti dalla compagine occidentale dell’Europa, data la situazione politica al tempo della Guerra fredda), l’opportunità di gestire in modo unitario i propri interessi rispetto alle Comunità, compensando così parzialmente la debole posizione in qualità di paesi non membri del mercato interno in evoluzione.

Il blocco neutrale all’interno dell’EFTA, ossia Austria, Svezia e Svizzera, si era avvicinato alle Comunità già nel 1961 con l’idea di un Accordo di associazione. Per mantenere e garantire il suo status di neutralità, l’Austria fu costretta a negoziare un regolamento speciale, che all’epoca venne accettato da tutta la Commissione europea. Le trattative giunsero inaspettatamente a uno stallo quando la Francia, nel 1963, sotto la presidenza di Charles de Gaulle, rifiutò l’adesione del Regno Unito. La Svezia e la Svizzera limitarono i loro sforzi per aderire alle Comunità, mentre l’Austria perseguì la sua politica integrazionista ottenendo che gli Stati membri della Comunità economica europea (CEE) prendessero una decisione cruciale: nel 1965, il Consiglio diede formale mandato alla Commissione per aprire i negoziati con l’Austria. Malgrado l’Austria fosse considerata come parte integrante dell’Europa occidentale, i suoi sforzi risultarono vani. Non fu solo il suo status di neutralità a costituire un impedimento, ma anche i suoi rapporti con l’Italia si rivelarono un ostacolo insormontabile. Da un lato, l’URSS contrastava l’adesione dell’Austria appellandosi al suo status di neutralità permanente e all’articolo 4 del Trattato di Stato per la restaurazione di un’Austria indipendente e democratica, che proibiva qualunque forma di unione politica o economica con la Germania. Dall’altro lato, l’Italia era contraria all’adesione e a ulteriori trattative a causa della questione ancora irrisolta del Trentino-Alto Adige (ceduto dall’Impero Austro-ungarico all’Italia a seguito del trattato di pace alla fine della Prima guerra mondiale. La notifica della risoluzione della controversia tra l’Italia e l’Austria a questo riguardo avvenuta avvenne soltanto il 19 giugno 1992).

Un nuovo approccio: 1967-1973

Nel giugno del 1967 il completo fallimento dei negoziati di adesione alle Comunità europee costrinse l’Austria a modificare la sua strategia nei confronti dell’Europa. I governi austriaci – negli anni Sessanta sotto i cancellieri del Partito popolare austriaco (Österreichische Volkspartei, ÖVP) e dal 1970 al 2000 sotto quelli del Partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Österreichs, SPÖ) – dovettero cercare una via d’uscita dall’isolamento rispetto al sempre più stabile mercato comune da un lato e, dall’altro, alla posizione geografica del paese, caratterizzata da una lunga linea di confine resa inaccessibile dalla cortina di ferro.

Dopo l’insuccesso del 1967 l’Austria avviò una serie di iniziative bilaterali affiancate da iniziative multilaterali (queste ultime insieme ai rimanenti Stati membri dell’EFTA) per l’integrazione europea. Le iniziative bilaterali miravano a rafforzare le relazioni con i paesi europei senza contemplare l’obiettivo finale di entrare a far parte della CEE, e portarono, nel dicembre 1969, alle trattative per un accordo provvisorio sull’abolizione bilaterale delle barriere doganali nel settore industriale. Queste trattative furono favorite dall’Italia, che ritenne sufficienti gli sforzi compiuti dall’Austria in merito al problema del Trentino-Alto Adige. Sebbene l’obiettivo non dichiarato dell’Austria fosse ben più ambizioso di quello ufficiale (ossia quello di integrare il mercato agricolo nelle trattative per l’accordo provvisorio), le Comunità europee non erano interessate, in quel momento, a un’area di libero scambio bilaterale globale. Ciò nonostante, il 26 ottobre 1970, il Consiglio diede mandato alla Commissione per avviare le trattative con l’Austria al fine di raggiungere un accordo provvisorio bilaterale. L’Austria ribadì che, qualunque passo si fosse intrapreso verso l’integrazione, il suo status di neutralità permanente sarebbe rimasto indiscusso.

Nel frattempo, le iniziative multilaterali avevano favorito negoziati preliminari tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA. Quando, nel novembre 1969, il Consiglio conferì un secondo mandato alla Commissione per aprire le trattative tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA, i due binari delle iniziative austriache poterono convergere e già nel luglio 1971, la Comunità economica europea si dichiarò favorevole a un accordo di libero scambio con i membri dell’EFTA. In seguito a serrate trattative (conclusesi il 22 luglio 1972), l’Accordo di libero scambio tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA entrò in vigore nel gennaio 1973 (l’area di libero scambio, comunque, fu istituita solo nel 1977, quando tutte le barriere doganali sui prodotti industriali furono abolite). L’accordo del 1972 tra le Comunità europee e gli Stati membri dell’EFTA, la cosiddetta Cooperazione di prima generazione CEE-EFTA, fu istituito non come un accordo di associazione regolamentato dall’art. 238 del Trattato CEE, ma come un trattato sui generis ai sensi dell’articolo 113 del Trattato CEE.

L’integrazione in fase di realizzazione: 1973-1989

Gli anni seguenti furono offuscati dagli ultimi residui della Guerra fredda e dal profilarsi di una crisi economica causata soprattutto dalla crisi petrolifera. I cambiamenti dell’economia globale costrinsero sia gli Stati membri della CEE sia quelli dell’EFTA a fronteggiare l’urgente necessità di riaffermare la loro competitività nei confronti degli Stati Uniti e del Giappone, nonché di alcuni paesi neoindustrializzati. Sebbene con l’accordo del 1972 fosse già stata abolita la maggior parte delle barriere doganali, si moltiplicavano i regolamenti e i requisiti (in materia di protezione sanitaria, di sicurezza e tutela dei consumatori). Questi regolamenti variavano da uno Stato membro all’altro e costituivano una limitazione al commercio ben più significativa rispetto a quella alquanto modesta delle barriere doganali. In particolare, queste barriere di tipo non doganale, al commercio aggiungevano costi alla già debole economia europea. Tuttavia, i rapporti tra la CEE e l’EFTA migliorarono quando si arrivò alla prima riunione del Consiglio congiunto, che si tenne il 9 aprile 1984 a Lussemburgo. Il punto culminante del Consiglio congiunto fu indubbiamente la cosiddetta Dichiarazione di Lussemburgo. Tale dichiarazione esprimeva la forte volontà politica da entrambe le parti di creare un’area economica dinamica nell’Europa occidentale e stabiliva inoltre un programma di sviluppo per la futura cooperazione economica europea che in ultimo avrebbe portato alla creazione del più esteso sistema di libero scambio del mondo. La Dichiarazione di Lussemburgo, con la sua decisione implicita di stabilire uno Spazio economico europeo (SEE), fu il punto di partenza della cosiddetta “cooperazione di seconda generazione” CEE-EFTA.

Fra il 1984 e il 1989, gli Stati membri dell’EFTA e della CEE perseguirono questa nuova strategia basata su una cooperazione sempre più stretta fra le due comunità, raggiungendo accordi su molte questioni specifiche volti ad allentare o rimuovere le barriere doganali. Per quanto, alla fine del 1988, si fossero prodotti oltre venti progetti specifici, questi non riuscirono in modo sostanziale ad assicurare uno sviluppo consistente della cooperazione; entrambe le parti giunsero alla conclusione che fosse necessario un nuovo approccio.

L’Austria osservò attentamente i progressi delle Comunità europee, in particolare i risultati del Libro bianco sul completamento del mercato interno del 1985 (v. Libri bianchi) e dell’Atto unico europeo del 1986. Entrambi davano un nuovo, vigoroso impulso all’integrazione interna della CEE, e l’Austria temeva sempre più di essere esclusa dagli sviluppi futuri del mercato interno. Questa eventualità rappresentava una seria minaccia in quanto due terzi del commercio estero dell’Austria dipendevano per l’appunto da quel mercato. Di conseguenza, nel 1987, l’Austria stabilì un approccio nuovo e globale, mirato a una partecipazione totale al mercato interno. In sostituzione del precedente approccio a due binari ne sviluppò uno a tre binari: accordi tra la CEE e l’EFTA, accordi fra l’Austria e la CEE, e la cosiddetta “euro compatibilità”, ossia l’applicazione autonoma della legislazione CEE (vale a dire, l’adattamento della legislazione nazionale all’Acquis comunitario della CEE).

Soltanto dopo due anni, l’Austria si rese conto che suoi questi sforzi non avrebbero portato al risultato sperato, e che si rendeva necessario un cambiamento radicale di strategia. L’allora presidente della Commissione europea, Jacques Delors, era pienamente consapevole che l’Austria mirava a compiere una svolta individuale verso l’adesione alla CEE. Poiché queste iniziative avrebbero interferito con il suo modello preferito di comunità parallele, tentò di bloccarle, offrendo all’EFTA, il 17 gennaio 1989, una cooperazione più stretta con le Comunità all’interno del SEE, sulla base di organismi decisionali ed esecutivi comuni. Delors sperava che con questa offerta avrebbe potuto realizzare il suo desiderio di rafforzare l’integrazione piuttosto che estendere le Comunità.

Sulla via dell’adesione alla CEE: 1989-1994

Ciò nonostante, a seguito di lunghi e approfonditi dibattiti pubblici, il 17 luglio 1989 il governo austriaco presentò la sua candidatura per l’adesione alle Comunità europee. Nella storiografia austriaca tale richiesta è nota come la cosiddetta “Lettera a Bruxelles” e può essere considerata come una svolta, tra le altre, nella storia austriaca postbellica. Nel rapporto del governo federale austriaco del 17 aprile 1989, risultava evidente che il desiderio del paese di far parte a tutti gli effetti del mercato interno poteva realizzarsi soltanto con un’adesione totale alle Comunità. I Länder austriaci svolsero un ruolo decisivo non solo grazie al sistema federale della Repubblica, ma anche grazie alla loro influenza politica sull’elettorato austriaco. I Landeshauptleute (governatori) appoggiarono il governo federale, approvandone i passi intrapresi, e l’11 maggio 1989 la seconda Camera del Parlamento nazionale, il Bundesrat, espresse il suo consenso esortando ulteriormente il governo federale a garantire la piena integrazione dei Länder e dei comuni nel processo d’integrazione. Poche settimane dopo, la prima Camera, il Nationalrat, presentò una risoluzione attraverso la quale sollecitava il governo federale a richiedere l’adesione alla CEE come membro a pieno titolo. L’Austria era politicamente consapevole dei problemi che sarebbero sorti a causa del suo status di neutralità permanente e del divieto di unione politica ed economica con la Germania sancito dall’articolo 4 del Trattato di Stato, ma era convinta di poter trovare una soluzione. L’opinione pubblica si mostrò cauta ma favorevole all’iniziativa del governo e anche l’industria e i sindacati la appoggiarono. Alcuni settori della società temevano che l’Austria avrebbe perso la sua specifica identità e che sarebbe stata assorbita piuttosto che integrata; altri paventavano la possibilità che il territorio nazionale venisse “svenduto” a ricchi cittadini dell’UE, desiderosi di stabilire la loro seconda residenza nelle località sciistiche alpine. Alla fine, sia i critici che i sostenitori decisero alla fine che il futuro dell’Austria sarebbe stato più al sicuro all’interno delle Comunità europee, per evitare il rischio di ricadere nell’isolamento economico a medio termine.

Così gli Stati membri della CEE e dell’EFTA dovettero affrontare una situazione delicata: da un lato l’offerta della CEE di negoziare con tutti i membri dell’EFTA (Austria inclusa) per un accordo sul SEE; dall’altro si poneva il problema di come gestire allo stesso tempo la richiesta austriaca di piena adesione alla CEE e la possibilità che altri Stati membri dell’EFTA potessero imitarla. La situazione politica europea si complicò ancor più quando, il 6 giugno 1989, Michail Gorbačëv annunciò ufficialmente l’abbandono della “dottrina di Brežnev”, o della sovranità limitata, in favore della cosiddetta “dottrina di Sinatra”, che consentiva alle nazioni del Patto di Varsavia di decidere dei loro affari interni, accelerando così, seppur involontariamente, il crollo del blocco orientale.

Il 1° luglio 1990 ebbero inizio i negoziati per il SEE che si conclusero rapidamente il 21 ottobre 1991. L’Austria era impegnata in trattative bilaterali con la CEE per stipulare un trattato di transito per i TIR, il quale avrebbe potuto concludersi proprio quel giorno (quel trattato avrebbe costituito successivamente un altro ostacolo durante i negoziati di adesione). Nel frattempo, la Commissione europea aveva emesso il suo avis rispetto alla richiesta di adesione dell’Austria, dando via libera ai negoziati, ma sottolineando al contempo che lo status di neutralità permanente poteva risultare problematico.

Quando, il 7 febbraio 1992, gli altri Stati membri sottoscrissero il Trattato di Maastricht, l’Austria dichiarò subito la sua volontà di accettare il nuovo acquis comunitario, pienamente consapevole della situazione ancora più problematica che sarebbe sorta in materia di Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Il Consiglio europeo riunitosi a Maastricht aveva richiesto alla Commissione di elaborare uno studio sulle eventuali conseguenze di un allargamento dell’UE. La Commissione presentò il documento il 24 giugno 1992. Il rapporto della Commissione affermava chiaramente che l’UE era in grado di sostenere un allargamento fino a sedici Stati membri (Austria, Svezia, Finlandia e Norvegia) purché si fossero attuati alcuni adattamenti istituzionali (per esempio: la ponderazione dei voti nel Consiglio, dei seggi nel Parlamento europeo, ecc.) e i nuovi Stati membri avessero ratificato il Trattato UE. Per fortuna, la Commissione propose adattamenti istituzionali aritmetici, evitando così approfondite discussioni politiche e patteggiamenti.

Sulla scia dell’Austria, anche Svezia, Finlandia e Norvegia presentarono la loro candidatura per aderire alla CEE/UE e i negoziati di adesione ebbero inizio il 1° febbraio 1993 (per la Norvegia il 5 aprile dello stesso anno). Le trattative per l’adesione poterono basarsi sui risultati dei negoziati in merito al Trattato SEE, accelerando così tutto il processo (durante i negoziati SEE, infatti, era già stato analizzato più del 60% della legislazione nazionale dei paesi candidati). Il 12 aprile 1994 i negoziati si conclusero con esito positivo. Ostacoli come il transito dei TIR, le seconde residenze e lo status di neutralità permanente poterono essere superati successivamente con risoluzioni sui generis: il trattato per il transito dei TIR tra l’Austria e la CEE fu incorporato nel pacchetto di adesione con una validità di 10 anni dalla data della stessa; l’Austria poté mantenere la sua normativa, all’epoca discriminante, riguardante la seconda abitazione per un periodo transitorio di altri 5 anni dalla data di adesione; (3) l’Austria dichiarò la sua volontà di adempiere ai suoi doveri in accordo con la PESC e di non aderire ad alcuna iniziativa militare (partecipare a campagne militari, far parte di alleanze militari, insediare basi militari straniere nel proprio territorio, ecc.).

Il governo federale austriaco, insieme ai governi regionali e alle amministrazioni comunali, lanciò un’estesa e massiccia campagna informativa per convincere il popolo austriaco della necessità di aderire all’Unione europea. Le politiche austriache sull’ambiente, sul transito delle merci e, naturalmente, sullo status di neutralità permanente, furono al centro del dibattito pubblico. In alcune occasioni furono sollevate obiezioni astruse in opposizione all’adesione (quali ad esempio il fatto che sarebbe stata permessa l’importazione di cioccolato prodotto con il sangue di bue o che i termini alimentari specifici, altra eredità dell’impero austro-ungarico, sarebbero scomparsi). Tuttavia, quando la stampa si espresse a favore dell’adesione, la campagna riscosse finalmente successo. Un altro risultato positivo giunse dal Parlamento europeo, il quale, il 4 maggio 1994, votò in favore dell’adesione dell’Austria con 378 voti favorevoli su 517.

Il 12 giugno 1994 si tenne il referendum sull’adesione austriaca all’UE e il risultato fu una schiacciante vittoria dei voti a favore con un’affluenza alle urne particolarmente alta (81,72%, con il 66,58% dei voti a favore dell’adesione e soltanto il 33,42% contrari). I voti contrari non prevalsero in nessun distretto politico. Tutte le fasce sociali si espressero a favore (no -laureati 60-65% e laureati 70%) nonché tutte le categorie professionali (liberi professionisti 63%; dipendenti 67%; operai 64%, con l’eccezione degli agricoltori con il 27%). Esaminando la votazione rispetto alle preferenze politiche dell’elettorato, si osservarono differenze significative: la percentuale dei voti a favore nell’SPÖ fu del 73%; nell’ÖVP del 66%; nel Partito della libertà (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ) di Jörg Haider del 41%; nel partito dei verdi (Die Grünen) del 38% e nel Forum liberale (Liberales Forum, LiF) del 75%. Potrebbe sorprendere che l’ÖVP non avesse ottenuto l’adesione più alta, dato che era il principale sostenitore dell’adesione, ma tale risultato si spiega con la cospicua presenza di agricoltori nelle file del partito.

I primi passi come Stato membro e la prima presidenza UE: 1995-1999

Il 1° gennaio 1995 l’Austria diventò uno Stato membro dell’UE. Fin dall’inizio mostrò la piena volontà di partecipare a tutti i settori dell’integrazione e firmò l’accordo di Schengen nel maggio 1997. Nel secondo semestre del 1998 l’Austria assunse per la prima volta la presidenza dell’Unione europea. Il 16 dicembre 1998, l’allora ministro degli Affari esteri, Wolfgang Schüssel dell’ÖVP, presentò al Parlamento nazionale austriaco una relazione molto positiva, nella quale sosteneva che il lungo cammino dell’Austria per uscire dal completo isolamento era finalmente giunto al termine, proprio nel cuore dell’Europa. L’allora cancelliere federale, Viktor Klima dell’SPÖ, trasse le stesse conclusioni davanti al Parlamento europeo lo stesso giorno a Strasburgo. Il governo austriaco era particolarmente fiero del fatto che l’Unione europea avesse accettato il successivo allargamento sotto la presidenza austriaca, rendendo quindi possibile il superamento definitivo del regime postbellico.

Nel corso del 1999 il clima politico in Austria divenne delicato e ciò venne confermate dai risultati delle elezioni generali del 3 ottobre. L’SPÖ si confermò al primo posto (33,15%: -4,91; 1.532.448 voti; 65 seggi: -6), l’ÖVP perdette il secondo posto (26,91%: -1,38; 1.243.672 voti; 52 seggi) a vantaggio dell’FPÖ di Jörg Haider (26,91%: +5,02; 1.244.087 voti; 52 seggi: +11) con un margine di soli 415 voti, mentre i Verdi mantennero il loro quarto posto (7,4%: +2,59; 342.260 voti; 14 seggi: +5). Durante la campagna elettorale, l’ÖVP aveva annunciato che avrebbe lasciato il governo se avesse perso il secondo posto. Tuttavia, dopo un periodo di forte sgomento, il partito avviò trattative esplorative con l’SPÖ, ancora in corso durante il Consiglio europeo di Helsinki, dove, inter alia, fu concordata la CIG (Conferenza intergovernativa) del 2000.

La fase sanzionatoria: 2000

Dopo un interminabile negoziato, l’ÖVP interruppe le trattative con l’SPÖ e, nel gennaio 2000, cominciò a negoziare con l’FPÖ. Quando entrambi i leader dei partiti, Wolfgang Schüssel e Jörg Haider, raggiunsero un accordo, la reazione degli Stati membri dell’UE fu a un tempo radicale e perplessa. Il 31 gennaio 2000, gli altri quattordici Stati membri imposero all’Austria una serie di sanzioni che sarebbero state applicate nel caso in cui l’ÖVP avesse formato un governo con l’FPÖ. La presidenza dell’UE, allora detenuta dal Portogallo, fu sostanzialmente costretta ad annunciare le sanzioni in tre fasi che il gruppo dei Quattordici avrebbe imposto: i governi dei Quattordici non avrebbero promosso o accettato alcun contatto ufficiale bilaterale a livello politico con un governo austriaco che comprendesse l’FPÖ; sarebbe stato negato qualsiasi appoggio a candidati austriaci per ricoprire posizioni nelle organizzazioni internazionali; gli ambasciatori austriaci nelle capitali dell’UE sarebbero stati ricevuti solo a livello tecnico. Il 1° febbraio 1999, la Commissione europea rilasciò una dichiarazione nella quale rendeva note le intenzioni del gruppo dei Quattordici ribadendo che l’UE era stata fondata sui principi della libertà, della democrazia, del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nonché sul principio di legalità, insinuando così che un governo di coalizione tra l’ÖVP e l’FPÖ non avrebbe soddisfatto questi requisiti. Nello specifico, il Parlamento europeo aveva espresso la sua posizione in una risoluzione che condannava le posizioni di Haider, confermando l’indignazione europea per le affermazioni rese in passato da Haider che esprimevano un’ideologia «offensiva, xenofoba e razzista». La risoluzione sottolineò esplicitamente che «ogni governo austriaco deve rispettare lo spirito e la lettera dei principi fondamentali del Trattato».

Incurante di questa ingerenza negli affari interni (le elezioni generali austriache del 1999 si erano svolte al di sopra di ogni sospetto e in nessun modo le si poteva definire contrarie a un qualsiasi principio democratico; inoltre, le opinioni di Jörg Haider non erano una novità ed egli, in precedenza, aveva già preso parte a eventi internazionali e a sessioni plenarie del Comitato delle regioni – CDR, dell’UE senza alcuna opposizione), il governo di coalizione tra il l’ÖVP e l’FPÖ prestò giuramento davanti al presidente austriaco il 4 febbraio 2000. Alla vigilia dell’insediamento, il 3 febbraio 2000, il futuro cancelliere Wolfgang Schüssel e il leader dell’FPÖ, Jörg Haider, sottoscrissero una dichiarazione congiunta in risposta alle preoccupazioni internazionali. Con la dichiarazione sulla “Responsabilità dell’Austria. Un futuro nel cuore dell’Europa” il governo austriaco riaffermava «la risoluta fedeltà dell’Austria ai valori spirituali e morali che costituiscono il patrimonio comune dei popoli dell’Europa». Inoltre, esprimeva l’impegno del governo nei confronti dei diritti umani, condannava «qualsiasi forma di discriminazione, intolleranza e demagogia», si impegnava a rispettare i principi dell’UE come espressi nell’articolo 6 del Trattato UE e ribadiva il sostegno austriaco all’allargamento dell’UE.

Le sanzioni erano state radicali in termini politici, ma allo stesso tempo non decisive, poiché non prevedevano sanzioni economiche né mettevano in discussione l’adesione o la posizione dell’Austria in qualità di membro dell’UE. Ovviamente il gruppo dei Quattordici era pienamente consapevole che sarebbe stato pressoché impossibile rettificare le sanzioni istituite dai Trattati UE (il Trattato UE consente agli Stati membri di imporre sanzioni ad altri Stati membri solo in caso di grave e persistente violazione) e aveva scelto quindi una via bilaterale. L’indecisione è ancor più comprensibile se si considera che il gruppo dei Quattordici riuscì a cooperare con l’Austria all’interno della struttura dell’Unione europea, e quindi con i membri del governo austriaco durante le riunioni del Consiglio, con il rappresentante permanente all’Unione europea e i membri della rappresentanza permanente dell’Austria durante le riunioni del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) e i gruppi di lavoro del Consiglio, con i membri austriaci del Parlamento europeo nonché con i membri austriaci del Comitato economico e sociale (CES) e il CDR (con Jörg Haider come membro, in qualità di governatore della Carinzia) durante le riunioni delle commissioni o sessioni plenarie.

Come deciso dal gruppo dei Quattordici, le sanzioni non pregiudicarono l’adesione dell’Austria all’UE e quindi le autorità austriache presero parte a pieno titolo ai negoziati della CIG (Conferenza intergovernativa) del 2000. Dietro le quinte, il governo austriaco, e rispettivamente il cancelliere Schüssel e il ministro degli Affari esteri, Benita Ferrero-Waldner, si adoperarono sin dall’inizio affinché le sanzioni venissero abolite. A facilitare la situazione intervennero le dimissioni, il 28 febbraio 2000, di Jörg Haider da leader dell’FPÖ. Dopo due settimane fu evidente che le pressioni esterne non solo non avrebbero costretto il governo austriaco a dimettersi, ma avrebbero persino rafforzato la sua posizione interna data la diffusa disapprovazione del popolo austriaco rispetto alle sanzioni. Soltanto quando l’Austria accettò un riesame esterno della sua situazione politica da parte del gruppo dei cosiddetti “tre saggi, nominati dalla Corte europea dei diritti umani, entrambe le parti riuscirono a uscire da quella situazione assai intricata. I “tre saggiresero pubblica la loro relazione l’8 settembre 2000 e il risultato immediato fu che le sanzioni furono sospese il 12 settembre 2000.

Le sanzioni imposte erano state interpretate individualmente e poi applicate dai membri del gruppo dei Quattordici: comprendevano una serie di provvedimenti e misure, come il boicottaggio delle gite scolastiche, degli scambi culturali e delle esercitazioni militari. Lo scopo ultimo delle sanzioni, ossia quello di far dimettere il governo, non fu mai raggiunto e anzi fece sì che una larga fetta della popolazione austriaca le percepisse come un’espressione di ostilità nei confronti della loro nazione anziché uno strumento per aderire ai principi dell’UE. Il risultato più significativo delle sanzioni fu un crescente malcontento da parte degli austriaci nei confronti dell’UE, dell’integrazione europea e delle prospettive di allargamento. Quest’ultimo punto è di particolare interesse: i governi austriaci, infatti, compresi quelli di coalizione fra l’ÖVP e l’FPÖ (il primo governo Schüssel dal 4 febbraio 2000 al 28 febbraio 2003 e il secondo governo Schüssel, dal 28 febbraio 2003 all’11 gennaio 2007) erano stati tra i principali sostenitori dell’allargamento fino ai Balcani, in contrapposizione all’elettorato austriaco (soltanto riguardo alla domanda d’adesione della Turchia i governi austriaci sono in linea con la posizione contraria del proprio popolo).

La fase postsanzionatoria: 2001-2005

Dopo l’abolizione delle sanzioni, la situazione ufficiale tra l’Austria e gli altri Stati membri dell’UE migliorò rapidamente, al punto che osservatori esterni avrebbero potuto pensare che non fosse mai esistita. L’Austria aveva beneficiato dei provvedimenti istituiti dalle politiche regionali e strutturali e stava tramutando la sua precedente situazione di confine isolato a causa della cortina di ferro in un prosperoso sviluppo delle regioni di confine. Nonostante gli effetti positivi, l’incubo dell’Austria di essere invasa dal traffico di transito europeo divenne oggetto di una delle maggiori dispute con l’UE. L’accordo di transito tra l’Austria e l’UE faceva parte del pacchetto di adesione, ma era cessato nel 2005. La Commissione europea, il Parlamento europeo e molti Stati membri consideravano l’accordo di transito come un elemento estraneo al mercato interno, a causa delle limitazioni imposte sul numero di TIR a cui era permesso percorrere le autostrade austriache nel transito da un paese all’altro. In contrasto con questa posizione, l’Austria considerava l’accordo come uno strumento ecologico in grado di ridurre le minacce all’ambiente e alla salute dei cittadini. Ma la lotta dell’Austria per la cosiddetta “internalizzazione dei costi esterni” contro la lobby europea degli autotrasportatori e contro quegli Stati membri sedi di industrie era una causa persa in partenza (v. anche Lobbying). Allo scadere del primo accordo di transito, l’Austria insieme ad altri Stati membri sensibili alla tutela dell’ambiente aveva alla fine costretto l’Unione europea ad approvare delle leggi ecocompatibili sulla circolazione dei mezzi pesanti; ciò nonostante, quel dossier in particolare finì per accrescere l’opinione negativa di gran parte del popolo austriaco contro l’UE.

Facendo parte della “zona euro”, il 1° gennaio 2002 l’Austria, insieme ad altri undici Stati membri, adottò l’euro come moneta unica, e questo divenne un altro punto critico della politica austriaca nei confronti dell’UE. Sebbene appoggiata dal governo e dall’industria, la nuova moneta fu criticata da una fascia molto ampia della popolazione austriaca, in particolare dai sindacati, che la ritennero la causa diretta o indiretta dell’incremento dei prezzi. Effettivamente i prezzi erano aumentati, ma questo non poteva essere imputato all’euro in quanto tale, bensì al risultato delle politiche dei prezzi di alcuni settori dell’economia.

Nel follow-up della CIG del 2000 e quella successiva del 2004, il governo austriaco mirò a un cambiamento sostanziale alla struttura istituzionale e al conseguente adattamento. Alla fine, l’Austria fu uno dei primi Stati membri a ratificare il Trattato costituzionale nel 2005 (v. Costituzione europea).

Come già sopra menzionato, tutti i governi austriaci sostennero il processo di allargamento che il 1° maggio 2005 portò all’adesione di dieci nuovi membri e inoltre, convinti che l’Unione fosse vincolata dalle promesse fatte a Romania e Bulgaria, ne sostennero l’adesione il 1° gennaio 2007. D’altro canto, l’Austria avrebbe dovuto affrontare una situazione difficile per il suo mercato del lavoro qualora i suoi confini fossero stati aperti, senza alcuna restrizione, a lavoratori emigrati dai nuovi Stati membri. L’Austria ritrovò nella vicina Germania e in particolare nell’allora cancelliere Gerhard Schröder, un alleato con le stesse preoccupazioni. Entrambi i paesi non solo temevano ondate incontrollate di disoccupati in cerca di lavoro provenienti dai cosiddetti paesi “a basso salario” (la Polonia in particolare) ma, allo stesso tempo, dovevano anche affrontare l’opposizione crescente dei sindacati all’allargamento. Questi ultimi prevedevano tempi duri per i loro iscritti, a causa delle forti pressioni che i livelli salariali avrebbero subito quando gli operai austriaci e tedeschi si sarebbero confrontati con competitori disposti a lavorare per salari più bassi. Lo slogan “wage dumping”, i salari sotto costo imputati all’allargamento dell’UE, entrò nell’uso comune non soltanto tra i sindacati ma anche fra gli euroscettici di tutte le fasce della società (v. Euroscetticismo). Austria e Germania riuscirono a convincere gli altri Stati membri che la minaccia era reale e non pura fantascienza. Il confine tedesco, condiviso con la Polonia e la Repubblica Ceca, e il confine austriaco, condiviso con Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Slovenia, avrebbero chiaramente reso entrambi i paesi la prima tappa naturale per emigranti disoccupati provenienti dai nuovi Stati membri, considerato altresì che il livello salariale era molto basso paragonato a quello di Austria e Germania. I paesi in via d’adesione si considerarono maltrattati dai loro vicini e lamentarono di non poter prendere pienamente parte al mercato interno. L’obbligo del voto all’unanimità per l’adesione di nuovi Stati membri rafforzò la posizione dell’Austria e della Germania. Infatti, alla fine dei negoziati di adesione, riuscirono a far aggiungere una clausola che imponeva ai nuovi Stati membri un periodo di transizione di un massimo di sette anni dalla data di adesione, durante i quali gli altri Stati membri potevano chiudere le loro frontiere ai lavoratori emigranti. Questa vittoria parziale non fece crescere il consenso nell’opinione pubblica nei confronti dell’UE e del suo allargamento; gran parte della società austriaca, infatti, la considerò una necessaria misura difensiva contro l’ingerenza dell’UE. La situazione si fece ancora più delicata per il governo austriaco quando le federazioni padronali richiesero un’apertura anticipata del mercato alla forza lavoro straniera, legittimando ancor più l’incubo dei rappresentanti sindacali. Sebbene le cifre dimostrassero chiaramente che l’Austria era uno dei paesi che aveva maggiormente beneficiato del processo di allargamento, il popolo era convinto e, per certi versi, continua a esserlo tuttora, che l’espansione rappresentasse una minaccia per loro e per i loro figli, soprattutto per quanto concerneva la situazione del mercato del lavoro.

La seconda presidenza UE e periodo successivo: 2006-2007

Alla fine del 2005, di fronte ai sondaggi d’opinione che mostravano un crescente tasso di euroscetticismo, il governo austriaco dovette far fronte alla richiesta di adesione da parte della Croazia e della Turchia alla vigilia del turno austriaco alla presidenza, nel gennaio 2006.

L’alleanza con la Germania, che in precedenza si era rivelata così efficace, in questo caso non funzionò poiché l’allora governo tedesco di sinistra era uno dei più forti sostenitori dell’adesione turca all’UE. Quello stesso governo tedesco aveva perso le elezioni generali nell’autunno del 2005, ma era ancora in carica quando il Consiglio per gli Affari generali ed esteri dovette votare sull’apertura dei negoziati d’adesione. Il cancelliere designato, la cristiano-sociale Angela Merkel, aveva promesso durante la sua campagna elettorale di appoggiare l’Austria, favorendo ogni offerta alla Turchia salvo l’adesione a pieno titolo. La posizione dell’Austria sembrò molto isolata. Dopo interminabili trattative, l’Austria riuscì finalmente a raggiungere un accordo: anche le trattative con la Croazia sarebbero state aperte, ignorando così il parere contrario di due Stati membri e consolidando quindi la sua forte partnership con i paesi dei Balcani occidentali; le trattative con la Turchia sarebbero incominciate ma con un risultato aperto; la Commissione avrebbe dovuto redigere una relazione sulla valutazione dell’impatto dei futuri allargamenti. A quel punto il governo austriaco si trovò in una posizione ancora più precaria rispetto al periodo che precedette la decisione dell’ottobre 2005 di sostenere la richiesta della Turchia dell’apertura dei negoziati. Il 1° gennaio 2006 l’Austria dovette assumere la presidenza dell’UE per 6 mesi e aprire le trattative con la Turchia discutendone i primi capitoli.

Il governo Austriaco si concentrò pienamente sui compiti della presidenza UE e raggiunse risultati molto apprezzati: gli esiti del summit di primavera del Consiglio europeo svoltosi a marzo 2006, con il quale si concordò un rilancio della Strategia di Lisbona e si propose di sviluppare una politica europea per l’energia (v. Politica dell’energia); la finalizzazione del pacchetto di norme per l’attuazione delle future politiche strutturali e di coesione (v. Politica di coesione); l’accordo politico dopo le lunghe e accese discussioni per la Direttiva sui servizi e, in particolare, la presentazione e l’accordo sulla prima roadmap che avrebbe portato in ultimo a una Revisione dei Trattati europei prima della scadenza delle elezioni dirette del Parlamento europeo del 2009.

L’eccellente operato della presidenza austriaca dell’UE fu ben accolto e approvato dall’elettorato austriaco, ma non giovò al governo nelle elezioni generali del 1° ottobre 2006. Con una bassa affluenza alle urne (appena il 78,5%, il 5,8% in meno rispetto alle elezioni del novembre 2002), l’ÖVP perse il primo posto (34,3%: -8,0%; 1.616.493; 66 seggi: -13) a vantaggio dell’SPÖ (35,3%: -1,2; 1.663.989 voti; 68 seggi: -1) con un margine di 47.493 voti. I Verdi raggiunsero appena il terzo posto (11,0%: +1,5; 520.130 voti; 21 seggi: +4) rispetto all’FPÖ (11,0%: -1; 519.598 voti; 21 seggi: +3) di Jörg Haider, che nel frattempo aveva subito una scissione. Il nuovo partito di Haider riuscì a malapena a entrare al parlamento con un ristretto margine (4,1%; 193.539 voti; 7 seggi). Il cambio di leadership all’interno del nuovo governo di coalizione (dall’ÖVP all’SPÖ) non comportò alcun cambiamento nella politica austriaca in merito all’UE. Come dichiarato nel programma di governo presentato dalla coalizione formata dall’ÖVP e l’SPÖ, il nuovo governo si sarebbe battuto «per una forte Europa unita», inclusi, inter alia, l’approfondimento dei valori comuni, il rafforzamento del modello di stile di vita europeo, l’ulteriore sviluppo della politica estera e di sicurezza comune e il superamento di qualsiasi divario esistente nel mercato interno europeo. Inoltre, il governo considerava la promozione di una maggiore fiducia tra il popolo austriaco nel progetto europeo come una questione di particolare importanza. Per quanto riguarda il processo d’allargamento, il governo avrebbe garantito che venisse condotto con attenzione e cautela, tenendo conto della capacità europea di accogliere altri membri. Il nuovo governo austriaco riteneva che l’integrazione europea fosse incompleta senza i paesi dei Balcani occidentali. In merito ai tentativi compiuti dalla Turchia per diventare membro dell’UE, il programma di governo affermava molto chiaramente che era «nell’interesse degli Stati membri dell’UE guidare la Turchia e la sua popolazione verso i valori e gli standard europei in modo mirato ma allo stesso tempo cauto». Il programma ribadiva che l’Austria si era «adoperata per raggiungere una conclusione aperta delle trattative con la Turchia» e avrebbe continuato a sostenere innanzitutto un approccio graduale, mirato a creare una comunità su misura che comprendesse la Turchia e l’Europa. Se l’esito delle trattative avesse stabilito come obiettivo finale l’adesione della Turchia all’Unione europea, i cittadini austriaci avrebbero avuto in ogni caso l’ultima parola attraverso lo strumento referendario. Sullo sviluppo futuro dell’Unione europea, il governo considerava il Trattato costituzionale come una base equilibrata e costruttiva e avrebbe preso parte attiva nelle discussioni a esso associate. Tuttavia, il nuovo governo, così come quello precedente, avrebbe promosso la cosiddetta “Europa dei progetti concreti” e anche un utilizzo più efficace e trasparente dei trattati in vigore per avvicinare maggiormente la politica UE ai cittadini d’Europa.

Sintesi e prospettive

Può darsi che l’Austria e il suo popolo siano scettici nei confronti di alcuni aspetti dell’integrazione europea, come si potrebbe desumere dal calo di consensi dopo l’esito decisamente positivo del referendum sull’adesione, o ancora dalla diminuzione dell’affluenza alle elezioni del Parlamento europeo (1996: – 67,73%; 1999: – 49,40% [media UE: 49,8%]; 2004: – 42,43% [media UE: 45,5]). In entrambi i casi, consenso generale e affluenza alle elezioni del Parlamento europeo, l’Austria non si discosta dalla media degli altri Stati membri dell’UE. Tuttavia, nessuno, né i partiti politici né le fasce sociali, metterebbe mai seriamente in discussione l’adesione austriaca. Tutti gli Stati membri hanno i loro problemi specifici con taluna o talaltra politica dell’UE e difendono la propria identità nazionale all’interno di un’Europa unita.

In realtà, fin dal 1° gennaio 1995, gli investimenti esteri diretti sono aumentati più del 300% e, nello stesso periodo, gli investimenti austriaci all’estero sono cresciuti del 120% circa, il tasso di esportazione austriaco è raddoppiato e il tasso di importazione è aumentato del 75%. Anche in confronto alla vicina Svizzera, comunemente nota come uno dei paesi più ricchi nella classifica dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), l’Austria era in grado di raggiungere se non superare i risultati del paese confinante: mentre il PIL pro capite dell’Austria si stabilizzava al 110% della media UE, quello svizzero passava dal 132% del 1995 al 117% del 2002. Gli stessi esiti positivi si osservano anche nel campo dell’occupazione: in 10 anni di appartenenza all’UE, l’Austria ha generato più di 165.000 nuovi posti di lavoro (almeno 70.000 direttamente riconducibili alla sua adesione all’UE). Analizzando i risultati di uno degli indicatori politici chiave, ossia il tasso di occupazione, l’Austria ha raggiunto l’obiettivo stabilito dall’UE del 70% già all’inizio del 2005, con il 69,3% (nello stesso periodo l’obiettivo fissato a Lisbona di un tasso d’occupazione femminile del 60% era stato persino superato con il 63,1%). L’entrata in vigore, il 1° gennaio 1999, dell’Unione economica e monetaria ha svolto un ruolo nel calo del deficit pubblico e nella stabilizzazione della situazione economica globale del paese.

I Länder austriaci non solo hanno svolto un ruolo importante nella fase iniziale del processo di adesione, ma hanno anche trovato una propria collocazione all’interno dell’UE attraverso il Comitato delle regioni, i cui membri sono gli stessi governatori, e il processo decisionale austriaco rispetto alla politica UE, dove hanno un ruolo alla stessa stregua del governo federale. Adesso prendono parte attiva e, insieme al governo federale, promuovono le posizioni dell’Austria all’interno del contesto istituzionale. Le città e i comuni austriaci hanno beneficiato della cooperazione internazionale grazie all’appartenenza all’UE, specialmente tramite le cooperazioni oltre confine sotto l’ombrello della Politica regionale dell’UE (v. Politica di coesione). Anche le città e i comuni sono integrate nelle politiche UE dell’Austria.

Fin dagli inizi la Camera di commercio austriaca ha appoggiato l’approccio integrazionista del paese nei confronti l’Unione europea in vista delle ampie opportunità che essa avrebbe rappresentato per l’economia, e il suo successivo sviluppo e collocazione nel mercato in via di globalizzazione. Se i summenzionati organismi amministrativi regionali e locali, la Camera di commercio e la Federazione industriale austriaca criticano il sovraccarico dell’amministrazione, parzialmente dovuto alla nuova legislazione UE e i costi aggiuntivi per l’industria dovuti alle decisioni UE nei settori dell’ambiente, della sanità e della tutela del consumatore, tuttavia, nel complesso considerano il bilancio positivo e continuano a dare forte sostegno alla partecipazione austriaca all’UE.

In qualche modo, i sindacati austriaci adottano una posizione leggermente più critica. A loro avviso, il primato che esercita la politica economica e monetaria, orientata verso la stabilità, è motivo di critiche, quali il tasso di disoccupazione in Europa, ancora alto, e il modello sociale europeo, sotto la pressione permanente della politica economica. Inoltre, considerano la tendenza verso una sempre maggiore liberalizzazione del mercato come una potenziale minaccia per gli interessi dei lavoratori.

Il settore agricolo in Austria mantiene una posizione ambivalente rispetto all’UE, ma il livello del consenso sta aumentando. La riforma della Politica agricola comune (PAC) figurerà certamente al centro delle attività delle Camere austriache dell’agricoltura negli anni a venire.

L’Austria aveva una lunga strada da percorrere per raggiungere l’obiettivo finale dell’adesione a pieno titolo all’UE, e ci è riuscita. Per molti versi, il paese si è dimostrato un buon esempio come Stato membro dell’UE: critico rispetto ad alcuni dettagli, ma positivo riguardo al grande progetto dell’integrazione europea.

Klemens Fischer (2010)