Bulgaria

La tradizionale immagine della Bulgaria comunista presso l’opinione pubblica occidentale ha rappresentato un paese sempre rigidamente allineato sulle direttive sovietiche, monolitico nella sua struttura politica (al punto che nel gergo politico italiano la parola “bulgaro” indica il forzato unanimismo) e impiegato dai servizi di sicurezza sovietici per compiere missioni “sporche”, come l’esecuzione di dissidenti esuli in Occidente o persino l’attentato al pontefice del 1981. Al di là degli stereotipi, la lunga vicenda della Bulgaria durante il socialismo reale appare molto più complessa e articolata. La Bulgaria ha ricevuto, anche dalla più recente storiografia sul comunismo, minore attenzione rispetto ad altri casi nazionali come quello dell’Ungheria, della Polonia, della Cecoslovacchia (v. Repubblica Ceca; Slovacchia), della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) (v. Germania; Riunificazione tedesca), della Romania, per non parlare delle eresie iugoslava e albanese. Questo perché, a differenza di tutti questi casi, il comunismo bulgaro non ha mai sofferto una profonda crisi interna di consenso (Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, RDT) né si è particolarmente distinto come caso di “comunismo nazionale” in polemica con Mosca (Romania) o addirittura eterodosso (Iugoslavia, Albania). Il caso bulgaro mostra tuttavia alcune caratteristiche peculiari che occorre ricordare per comprendere il successivo processo che ha portato il paese, a circa un ventennio dalla caduta del regime monopartitico, alla piena integrazione nell’Unione europea (v. anche Integrazione, metodo della). Dopo il periodo di Gheorghj Dimitrov, che fu un dirigente del comunismo internazionale e costruttore della Bulgaria stalinista a partire dal 1944, la leadership del partito comunista e quindi del paese venne mantenuta da Todor Živkov ininterrottamente dal 1956 al 1989. Egli fu un tipico prodotto del processo di destalinizzazione voluto da Chruščëv in Europa orientale dopo la morte di Stalin e con il XX congresso del PCUS. Živkov fu capace di condurre per decenni una linea politica moderata, pragmaticamente allineata ai voleri di Mosca. È ancora oggetto di controversia storiografica se la breve stagione ai vertici della politica culturale del paese della figlia del segretario generale, Ljudmila Živkova (scomparsa prematuramente nel 1981), avrebbe potuto o meno trasformarsi in una stagione di liberalizzazione. Caduto l’anziano leader per una sollevazione all’interno dello stesso partito comunista, l’eredità di Živkov aveva consegnato al paese un partito post-comunista profondamente radicato e pragmatico: già dal settembre del 1990 veniva rinominato Partito socialista bulgaro sebbene l’adesione all’Internazionale socialista sarebbe arrivata solo nel 2003. Dopo il 1989 si formò un sistema politico che compì in tempi più rapidi rispetto ad altri paesi (come la Romania) una decisa scelta europeista. Sin dal formarsi del multipartitismo (l’emendamento costituzionale che aboliva il ruolo guida del partito comunista venne adottato all’inizio del 1990), tutte le principali forze politiche convergevano sulla necessità di integrare la Bulgaria nelle strutture di sicurezza, politiche ed economiche occidentali in modo da garantire al paese il “ritorno in Europa”.

Le relazioni ufficiali con la Comunità europea si stabilivano in Bulgaria al crepuscolo del regime comunista, a partire dall’agosto del 1988. Già dal maggio del 1990, alla vigilia delle prime elezioni multipartitiche che avrebbero visto a giugno l’imprevista vittoria del partito comunista, il governo Lukanov concludeva un accordo commerciale con la Comunità economica europea (CEE). Nella crisi del Comecon la dirigenza postcomunista ritenne opportuno orientare il commercio bulgaro verso l’Occidente. L’accordo di associazione con la Comunità del marzo 1993 apparteneva alla seconda generazione degli accordi associativi, che contenevano nella loro strutturazione un esplicito quadro politico-istituzionale indirizzato al processo di integrazione europea. Nell’accordo si definiva una prima impalcatura del dialogo politico tra la Bulgaria e l’Unione europea, nonché dell’assistenza tecnica e finanziaria al processo di integrazione, ad esempio con il Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (PHARE), poi Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD) e ISPA (Instrument for structural policies for pre-accession); si estendevano inoltre le aree del libero scambio tra l’Unione e la giovane democrazia. Il 14 dicembre del 1995 la Bulgaria presentava una formale richiesta di adesione all’Unione europea. Il bilancio degli anni Novanta mostra da un lato la crescita esponenziale dei rapporti economici bulgaro-europei, dall’altro la delusione del paese per l’esclusione, al Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre del 1997, dal primo round di negoziati per il pieno ingresso nell’Unione. Nel gennaio del 1995, in forza dell’accordo di associazione, venivano a cadere le barriere alle esportazioni industriali bulgare nell’Unione; analogamente, all’inizio del 1997 cadevano le restrizioni sulle esportazioni di metalli. Da un punto di vista generale vi fu un aumento deciso delle esportazioni, incluse quelle agricole, nonostante non facessero parte dell’accordo di libero scambio. Il ritorno al potere nell’aprile del 1997 dell’Unione delle forze democratiche (all’epoca il principale cartello di forze politiche di opposizione al governo socialista) produsse, secondo molti osservatori, un effetto estremamente positivo sulle opzioni di integrazione del paese. Arrivato al potere dopo una profonda crisi economica e monetaria negli anni 1995-1997, il nuovo governo attuò quelle riforme strutturali che l’Unione europea riteneva indispensabili per iniziare le trattative per il recepimento dell’Acquis comunitario. Il governo di centrodestra guidato da Ivan Kostov adottò politiche estremamente impopolari che ridussero e appianarono il consistente deficit statale, stabilizzarono il quadro macroeconomico (sviluppo delle infrastrutture e privatizzazioni delle aziende di Stato) e semplificarono il contesto politico e amministrativo (fu ad esempio adottata una drastica riduzione dei ministeri). Occorre aggiungere che, nella valutazione della decisione dell’Unione europea (dicembre 1999) di aprire ufficialmente all’inizio dell’anno successivo i negoziati con la Bulgaria, alcuni analisti scorsero una conseguenza degli assetti scaturiti dalla crisi internazionale del Kosovo.

La necessità di includere velocemente la Bulgaria nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), anche di fronte a una ripresa del ruolo internazionale della Russia di Vladimir Putin, spinse i governi occidentali ad “incentivare” il governo bulgaro attraverso l’offerta dell’inizio dei negoziati per l’adesione all’UE. Come in altri casi si saldava una relazione tra l’appartenenza europea e quella alla NATO. La metà degli anni Novanta era stata infatti segnata in Bulgaria da un complesso dibattito sulle scelte strategiche del paese in cui, anche all’interno dei socialisti allora al potere, non mancavano voci decisamente neutraliste se non filorusse. Si era fatta strada la convinzione, diffusa anche in Romania, che una doppia esclusione, tanto dall’Unione europea quanto dalla NATO, avrebbe relegato i due paesi in una “zona grigia” geopolitica tra l’Europa occidentale e la Russia. In pratica un “doppio fallimento” avrebbe definitivamente allontanato i due paesi balcanici dal contesto euro-atlantico e quindi dall’Occidente. Durante il ritorno dei socialisti al potere (1994-1997) le tendenze neutraliste erano forti nella coalizione di governo: l’opzione di una nuova “alleanza orientale” con la Russia non era più completamente fuori dall’agenda politica. Fu anche in questo caso il governo dell’Unione delle forze democratiche ad imprimere una decisa svolta filo-atlantica alla politica estera bulgara nel corso del 1997. La piena adesione alla NATO sarebbe tuttavia giunta soltanto successivamente. Le oscillazioni della politica bulgara nel corso degli anni Novanta e l’approccio selettivo e gradualista dell’Alleanza atlantica e dell’amministrazione di Bill Clinton esclusero Bulgaria e Romania dal primo allargamento a Est, concretizzatosi subito dopo la guerra del Kosovo nel vertice NATO di Washington nell’aprile del 1999. Il cambio di amministrazione negli Stati Uniti e gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 interruppero brevemente il processo; con il Vertice di Praga del novembre 2002 (v. anche Vertici) sarebbe giunto l’invito ufficiale all’adesione, che si sarebbe realizzata per la Bulgaria nel corso del 2004.

Dal punto di vista del vero e proprio processo di integrazione definitosi attraverso le trattative tra l’Unione europea e la Bulgaria sul complesso recepimento dei criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione), e in particolare dei capitoli dell’acquis comunitario, il cammino bulgaro è stato difficile e accidentato. Se nei primi rapporti della Commissione europea, prima e dopo l’avvio ufficiale dei negoziati per l’adesione, l’attenzione si focalizzava sulle debolezze strutturali dell’economia bulgara, nei rapporti successivi le maggiori preoccupazioni riguardavano gli affari interni e la giustizia. Nel primo rapporto della Commissione dopo la presentazione ufficiale della candidatura bulgara, rilasciato il 15 luglio 1997, si descriveva la sostanziale stabilità delle istituzioni democratiche bulgare nonché il pieno rispetto dei diritti della minoranza turca e delle altre minoranze nazionali. Molto più preoccupante era la situazione economica anche, e soprattutto, a causa della crisi monetaria che aveva prodotto nel 1996 una recessione percentuale di 10 punti. Le politiche economiche del primo quinquennio di democrazia post-comunista venivano definite nel rapporto della Commissione come fortemente limitate e incapaci di realizzare la costruzione dell’economia di mercato. Si esprimevano tuttavia apprezzamenti per gli intendimenti riformatori del nuovo governo. In sintesi, la Commissione europea riteneva che la Bulgaria soddisfacesse i criteri politici, ma fosse profondamente carente nelle politiche economiche e non avesse sostanzialmente recepito i capitoli dell’acquis in alcuni settori (soprattutto ambiente, agricoltura, giustizia e trasporti) dove apparivano gravi ritardi strutturali. Nonostante il linguaggio burocratico («La Commissione dovrebbe aprire i negoziati con la Bulgaria nel momento in cui essa abbia compiuto sufficienti progressi nel soddisfare i criteri di adesione definiti dal Consiglio europeo di Copenaghen») il rapporto rappresentava una decisa bocciatura per le speranze di Sofia.

Il rapporto dell’8 novembre del 2000, tre anni dopo l’inizio del processo riformatore apertosi con le elezioni del 1997, mostrava un quadro nettamente differente e migliore. Le strutture della cooperazione bulgaro-europea si erano ulteriormente rafforzate. il Consiglio di associazione, i comitati tecnici ed economici, le relazioni interparlamentari avevano compiuto una intensa attività in un quadro di integrazione economica e cooperazione ulteriormente rafforzato (oltre la metà del commercio estero bulgaro era ormai diretto verso l’UE). Dal punto di vista politico e della qualità democratica, si esprimeva soddisfazione per le riforme intraprese, ma anche preoccupazione per la popolazione rom. Si dedicava molta attenzione nel rapporto alla questione della complessiva debolezza strutturale del potere giudiziario nel sistema bulgaro. La valutazione sulla costruzione dell’economia di mercato era marcatamente positiva per i processi di stabilizzazione compiuti. Il recepimento dei capitoli dell’acquis mostrava una forte accelerazione da parte dello Stato balcanico. Nello specifico delle politiche pubbliche, il sistema giudiziario emergeva come il punto più critico. La forte corruzione, la penetrazione della criminalità organizzata nonché la forte instabilità politica gettavano, all’inizio del decennio, molte ombre sulla possibilità di integrazione del paese. L’instabilità sconvolgeva il panorama politico bulgaro con la vittoria elettorale, nel 2001, dell’ex monarca Simeone II con un movimento politico “personale” che sconfiggeva i partiti tradizionali. Il rapporto della Commissione del 6 ottobre 2004 da un lato dichiarava come l’ordinamento giudiziario avesse cominciato a rafforzarsi nel budget e nella capacità operativa, dall’altro lamentava la grande penetrazione della corruzione nella sfera pubblica. L’economia, dopo il disastro degli anni 1996-1997, mostrava indici positivi con una crescita annua tra i 4 e i 5 punti percentuale: la Bulgaria presentava, nelle parole del rapporto, una economia di mercato funzionante. I capitoli dell’acquis venivano provvisoriamente a essere chiusi con una buona valutazione, sottolineando la richiesta di un maggiore impegno nella lotta anti-corruzione. L’obiettivo dell’accesso nel 2007 si concretizzava definitivamente con il rapporto del 26 settembre 2006. l’Unione europea, nonostante il rapporto 2004 avesse chiuso i negoziati e i trattati di adesione fossero stati firmati nel corso del 2005, aveva posposto fino agli ultimi mesi dell’anno la decisione finale sull’ingresso di Bulgaria e Romania. L’Unione aveva infatti sospeso il via libera per poter verificare che i due paesi realizzassero entro la data dell’adesione (1° gennaio 2007) alcune misure urgenti. In caso contrario il Consiglio europeo avrebbe ritardato di un anno l’ingresso dei due nuovi Stati membri. I punti più critici per i bulgari erano la debolezza del sistema giudiziario, la lotta alla corruzione, la cooperazione di polizia e la lotta al crimine organizzato, la lotta al riciclaggio di denaro, il controllo amministrativo in agricoltura e la prevenzione dell’encefalite spongiforme bovina. Il rapporto sugli sforzi compiuti dalla Bulgaria nel breve intervallo di tempo tra il maggio e l’ottobre del 2006 mostrava che il paese aveva intrapreso passi positivi in ciascuna di queste politiche pubbliche. Il sistema giudiziario era stato riformato con regole certe sulle nomine dei giudici e miglioramenti delle procedure penale e civile; nella lotta alla corruzione erano stati adottati provvedimenti per la trasparenza dell’attività dei partiti e delle proprietà degli uomini politici, così come un deciso impulso era stato dato alle inchieste giudiziarie sulla corruzione e il crimine organizzato; per quanto riguarda le funzioni amministrative nelle politiche agricole, la Bulgaria aveva pressoché completato i sistemi di controllo dei fondi e il sistema di identificazione fondiario. Nonostante la necessità di ulteriori progressi, l’Unione europea accoglieva così la Bulgaria al suo interno all’inizio del 2007, utilizzando le clausole di salvaguardia consentite dal trattato di accesso (come la possibilità demandata agli Stati membri di sospensione della libera circolazione dei lavoratori). Tra gli ambiti dove l’Unione richiedeva un ulteriore sforzo e si impegnava a esercitare un’attività di monitoraggio vi era quello delle riforme istituzionali, affinché risultasse rafforzata l’indipendenza del potere giudiziario.

La riforma costituzionale è stata in Bulgaria un processo molto complesso. Come tutte le costituzioni dell’Europa orientale, fortemente basate sull’intangibilità della sovranità nazionale, si è resa necessaria un’opera emendativa per consentire la compatibilità con il diritto comunitario e le istituzioni comunitarie. Tuttavia è prevedibile che le riforme costituzionali continueranno per garantire la necessaria quota di cessione di sovranità all’Europa.

In conclusione, la vicenda della Bulgaria è quella di un paese che, seppure tra forti ritardi strutturali e fasi di instabilità politica ed economica, ha perseguito con determinazione e pragmatismo l’obiettivo dell’integrazione europea. Oggi il paese è governato da una “grande coalizione” tra i socialisti, il partito della minoranza turca e i monarchici di Simeone II, e la permanenza in Europa sembra essere un obiettivo condiviso dalle classi dirigenti bulgare. Ha prodotto tuttavia una forte inquietudine in Europa il fatto che alle ultime elezioni presidenziali abbia raggiunto il turno di ballottaggio un candidato ultranazionalista.

Daniel Pommier Vincelli (2009)