Eurocomunismo

Il termine “eurocomunismo” divenne familiare nella pubblicistica e nel dibattito politico europeo degli anni Settanta per indicare sinteticamente la linea di distinzione e autonomia tenuta in quel periodo da alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale (segnatamente quello italiano, quello spagnolo e quello francese) rispetto all’Unione Sovietica.

Uno dei fattori determinanti all’origine della tendenza “eurocomunista” risiedeva in realtà proprio nel mutamento delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che dai primi anni del decennio sembravano evolvere verso una nuova fase di “distensione”. Il relativo allentarsi della tensione tra i due blocchi dopo gli anni del Vietnam e dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia offriva ai partiti comunisti che operavano nel campo occidentale una maggiore libertà di azione. La situazione generale dei sistemi liberaldemocratici europei appariva in quel periodo, più in generale, particolarmente favorevole per un avvicinamento all’area di governo anche delle sinistre non riconducibili alla tradizione socialdemocratica. Da un lato la fine, o l’imminente fine, dei regimi dittatoriali di destra nell’area dell’Europa mediterranea (Portogallo, Spagna, Grecia). Dall’altro, in paesi come la Francia e l’Italia, la lunga permanenza al potere di forze moderate che, in assenza di meccanismi regolari di alternanza, a fronte di schieramenti di sinistra influenzati da forti componenti comuniste, mostravano segni di un certo logoramento, soprattutto alla luce della crisi economica scatenata in tutto il mondo occidentale industrializzato dallo choc petrolifero seguito al conflitto arabo-israeliano del 1973.

Da qui, intorno alla metà del decennio, una serie convergente di prese di posizione da parte del Partito comunista italiano (PCI), del Partido comunista de España (PCE) e del Parti communiste français (PCF), che rivedevano sensibilmente gli atteggiamenti tradizionalmente propri dei partiti comunisti su temi come l’integrazione europea e le regole della democrazia pluralista. Temi in cui posizioni diverse dalla linea dell’URSS avrebbero trasceso l’ambito delle “vie nazionali al socialismo” rivendicate dai partiti comunisti europei già dalla fase post-staliniana, per configurare una vera e propria dissociazione strategica rispetto a Mosca: anche se non avrebbero alterato di per sé l’equilibrio della nuova distensione tra le superpotenze, fondato essenzialmente sul tacito riconoscimento dello status quo nelle reciproche zone d’influenza, a cominciare dall’Europa.

Innanzitutto le Istituzioni comunitarie, precedentemente sempre rifiutate come uno strumento di rafforzamento dell’alleanza occidentale egemonizzata dagli USA in funzione antisovietica, venivano rivalutate come mezzo per costituire in Europa uno spazio di coesione sociale e di riequilibrio delle tensioni internazionali: una revisione storica ben sintetizzata dalla scelta del Partito comunista italiano di far eleggere a Strasburgo, nella prima legislatura del Parlamento europeo, il padre del federalismo europeo Altiero Spinelli. Nello stesso senso, gli “eurocomunisti” manifestavano a più riprese il loro distacco dall’idea di una “dittatura del proletariato”, e comunque di regimi monopartitici, per collocare la prospettiva di una “transizione” al socialismo nella cornice delle istituzioni democratiche di modello occidentale, sia pure ancora nella ricerca di una “terza via” tra il comunismo sovietico e la tradizione socialdemocratica. Fino ad adombrare, come in una nota intervista di Enrico Berlinguer nel 1976, una preferenza per la collocazione dei loro paesi all’interno dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), non più vista come un nemico ma addirittura come una garanzia per un programma socialista in una cornice democratica.

Certo, tali prese di posizione (salvo l’apertura alla NATO, mai peraltro organicamente sviluppata) non postulavano di per sé una autentica discontinuità rispetto all’obiettivo strategico di fondo della politica estera sovietica fin dall’epoca staliniana: favorire una tendenza alla progressiva “neutralizzazione” del continente europeo. E in questo senso sembravano andare ancora, in effetti, le tesi di politica internazionale sottoscritte nella Conferenza internazionale dei partiti comunisti europei convocata a Berlino nel 1976, in cui, dopo lunghe e logoranti trattative con gli emissari di Mosca, prevalse una visione “terzaforzista” dell’europeismo, che accantonava più esplicite adesioni al modello democratico occidentale.

Tuttavia, anche tali timidi aggiustamenti della linea dei comunisti europei dovevano apparire pericolosi all’URSS, e spinsero i dirigenti sovietici a decise azioni di scoraggiamento verso ogni successivo sviluppo su quella strada. Infatti, anche limitate manifestazioni di autonomia rispetto a Mosca – essi prevedevano, consapevoli del sempre minore grado di coesione interna al decadente sistema sovietico – potevano innescare la propagazione a catena di germi di dissenso in grado di minare fatalmente la stabilità del sistema degli stati “satelliti” e dello stesso edificio dell’URSS. Come ben comprendeva, dopo le rigidità di Richard Nixon e Gerald Ford, l’amministrazione Carter (v. Carter, James Earl), che specularmente, ispirata dal consigliere per la sicurezza nazionale Zbignew Brzezinski, mostrava di non considerare più come un grave pericolo l’ingresso dei partiti comunisti nei governi dei paesi europei di area NATO, se essa fosse avvenuta nel rispetto di una cornice di democrazia pluralista.

Conseguentemente, quando il segretario del PCE Santiago Carrillo si spinse fino a contestare apertamente la leadership e il modello politico sovietico sui comunisti europei, Mosca lanciò un’immediata controffensiva: appoggiandosi ai settori più filosovietici del partito spagnolo, mise in piedi una campagna di delegittimazione del segretario che ne indebolì sensibilmente la base di consenso interna. Il partito francese e quello italiano, soggetti ad analoghe pressioni da parte degli elementi di raccordo con il Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), prudentemente preferirono tenere un basso profilo ed evitarono di spingere l’acceleratore della polemica con Mosca. Sicché, verso la fine del decennio, si può dire che la manovra di contrasto da parte sovietica avesse ottenuto gli obiettivi che si prefiggeva. La breve stagione di una possibile, annunciata linea indipendente dei partiti comunisti “mediterranei” rispetto al PCUS e di un loro organico inserimento nella dialettica liberaldemocratica occidentale era già conclusa, strozzata nella culla ancor prima di dispiegarsi compiutamente: e la definitiva pietra tombale su di essa fu rappresentata dal fallimento della timida distensione di metà decennio e dal nuovo aggravarsi della contrapposizione sovietico-statunitense, dalla penetrazione sovietica in Africa orientale al dispiegamento dei missili nucleari SS-20 all’invasione dell’Afghanistan.

Il partito comunista italiano, che dal 1976 al 1979 aveva appoggiato i governi “della non sfiducia” e della “solidarietà nazionale” convergendo con i partiti del vecchio centro-sinistra su politiche di contrasto alla crisi economica e di lotta frontale al terrorismo di estrema sinistra, davanti a scelte di governo come l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo e lo schieramento NATO dei missili statunitensi Pershing e Cruise contro gli SS-20 sovietici uscì dalla maggioranza e tornò a una opposizione intransigente, sposando posizioni pacifiste che erano nuovamente in piena convergenza con gli interessi sovietici. Il partito francese, invece, sarebbe entrato nella maggioranza di governo nella coalizione di François Mitterrand, ormai egemonizzata da un partito socialista di chiara impronta riformista. E quello spagnolo, “ibernato” dal riassorbimento nell’orbita filosovietica, sarebbe stato irrimediabilmente emarginato nella nuova stagione della democrazia dell’alternanza, dominata a sinistra dai socialisti di Felipe Màrquez González.

Eugenio Capozzi (2008)