Fanfani, Amintore

F. (Pieve Santo Stefano, Arezzo, 1908-Roma 1999) compì i suoi studi tra Urbino, Treviso e Arezzo. Nel 1926 s’iscrisse alla facoltà di scienze economiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano diretta da padre Agostino Gemelli, dove studiò nel Collegio Augustinianum, entrando a far parte della Federazione universitaria cattolica romana (FUCI). Come molti all’epoca, anche tra i cattolici, aderì al fascismo. Il suo nome comparirà assieme a quello dei 330 firmatari che, nel 1938, appoggiarono il Manifesto della razza. Del regime F. condivise più che altro le scelte di politica economica, dimostrandosi un convinto sostenitore del corporativismo, nel quale riconobbe uno strumento provvidenziale per salvare la società italiana dalla deriva liberale o da quella socialista ed indirizzarla verso la realizzazione di quegli ideali di giustizia sociale suggeriti dalla Dottrina sociale della Chiesa. Aveva 25 anni quando pubblicò il volume Le origini del capitalismo in Italia, seguito l’anno dopo dal più organico Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, nel quale propose una coraggiosa interpretazione dei fenomeni di genesi del capitalismo, con particolare riferimento al condizionamento dei fattori religiosi e in sostanziale disaccordo con le tesi, allora paradigmatiche, di Max Weber. Questi scritti valsero a F. nel 1936 la cattedra in Storia economica e l’ingresso a pieno titolo nel circuito del dibattito italiano e internazionale che l’opera di Weber aveva suscitato. L’opera di F., nella edizione del 1934, fu di fatto tradotta e pubblicata più volte in inglese e suscitò particolare interesse negli Stati Uniti: la citò Maritain, la studiò John Fitzgerald Kennedy. In questi primi scritti si ritrova anche quella visione neo-volontarista, basata sulla distinzione tra le cosiddette legge naturali del mercato e la necessità di un intervento dello stato correttivo e ispirato a valori etici, che rimarrà una costante nelle sue ricostruzioni storiche ed economiche, così come nella sua azione politica. Durante il periodo della guerra – trascorso a Milano e poi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 da esule in Svizzera, dove fu incaricato con Colonnetti, Del Vecchio e Luigi Einaudi dalle università di Ginevra e di Losanna di organizzare corsi di studio per militari italiani internati – F. si avvicinò al gruppo antifascista della sinistra cristiana guidato da Giorgio La Pira, anche lui toscano e futuro sindaco di Firenze, e da Giuseppe Dossetti, emiliano e futuro sacerdote dopo una duplice esperienza di vicesegretario della DC. Sono i cosiddetti professorini (i dossettiani) che, nell’immediato dopoguerra, entreranno nella Democrazia cristiana, dando origine alla prima corrente organizzata, Cronache sociali, poi confluita, almeno in parte, in Iniziativa democratica, che criticherà da posizioni progressiste la leadership di Alcide De Gasperi (v. Capperucci, 2010).

Nel settembre 1945 F. fu chiamato a Roma da Dossetti per affiancarlo nella responsabilità del settore stampa e propaganda del partito (SPES). Nell’aprile 1946, dal primo Congresso nazionale della DC venne eletto componente del Consiglio nazionale e poi membro, fino all’ottobre 1946, della direzione centrale. Candidato alla Costituente nel collegio Siena-Arezzo-Grosseto (dove sarà rieletto fino al 1968), F. fu membro della Terza commissione, incaricata di affrontare le questioni relative ai diritti e doveri economico-sociali. Il suo apporto principale fu indirizzato verso il riconoscimento costituzionale di una revisione dei principi dell’economia capitalistica orientati verso una più equa distribuzione della ricchezza. Sua fu la sistemazione di articoli riguardanti la giustizia, la solidarietà politica e la partecipazione economica, così come la formula che si legge nel primo articolo della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», la cui versione finale rappresentò un compromesso tra i sostenitori di “una Repubblica fondata sulle libertà” (Ugo La Malfa e altri esponenti delle correnti liberaldemocratiche) e i fautori di “una Repubblica di lavoratori” (Palmiro Togliatti e Pietro Nenni). Subito dopo la stagione della Costituente ebbe inizio quella di governo. Nel periodo compreso tra il 1947 al 1954 F. ricoprì gli incarichi di ministro del Lavoro e della Previdenza sociale (maggio 1947 – gennaio 1950), di ministro dell’Agricoltura (luglio 1951- luglio 1953) e di ministro degli Interni (luglio 1953- agosto 1953), prima di approdare, senza però ottenere la fiducia, alla presidenza del Consiglio (gennaio-febbraio 1954). Già in questa prima fase, F. si distinse per capacità organizzative non comuni e, soprattutto a partire dal varo di un vasto piano di edilizia popolare (il cosiddetto “Piano Fanfani”), per un grande attivismo, caratteristiche che più in là gli sarebbero valse gli epiteti di “motorino del secolo” e di “cavallo di razza” (per i detrattori pony, vista la bassa statura dello statista aretino) della DC. In quegli anni F. rappresentò, in virtù del suo ruolo di mediatore tra la maggioranza degasperiana e la corrente dossettiana, la sponda progressista di cui lo statista trentino aveva bisogno all’interno della sua compagine governativa.

Con l’avvio della crisi del centrismo, segnata dal fallimento della legge maggioritaria del 1953, definita dalle opposizioni “legge truffa”, e dal breve interludio dei governi di Giuseppe Pella e Mario Scelba, F. divenne il perno attorno al quale si compì il primo rinnovamento interno alla Democrazia cristiana. La sua elezione nel giugno 1954 alla segreteria del partito – carica a cui sarà confermato anche al successivo Congresso della DC nell’ottobre del 1956 e che deterrà fino al 1959 – sancì l’inizio di una nuova fase nella storia della Repubblica italiana, caratterizzata dall’affermazione di una nuova generazione di leader democristiani (tra cui Emilio Colombo, Aldo Moro, Mariano Rumor, Paolo Emilio Taviani). Fu del resto lo stesso De Gasperi a scorgere in lui il profilo dell’uomo politico democristiano più adatto a guidare il partito e il paese nella nuova congiuntura politica interna e internazionale, affidandogli, poco prima di morire, gli ultimi suggerimenti per la politica interna e internazionale.

Dalle memorie dei protagonisti e dalle fonti che man mano sono venute alla luce, emerge che il prezzo richiesto da De Gasperi per appoggiare F. come suo successore fu l’accettazione, da parte di quest’ultimo, di una linea di politica estera che risolvesse l’interesse nazionale nella congiunzione tra fedeltà atlantica, intesa in senso integrale, ed europeismo, fondato su un nucleo di potere politico condiviso, a sua volta irrorato da un forte sentimento identitario (v. Quagliariello, 2004, pp. 247-286). In questo contesto, si comprende la richiesta disperata dello statista trentino, allora già gravemente malato, al nuovo segretario della DC di condividere fino in fondo la sua battaglia per la Comunità europea di difesa (CED). La lettera che De Gasperi inviò da Sella Valsugana al segretario del partito F. il 9 agosto può in tal senso considerarsi un testamento politico: «La mia spina è la CED […]. Tu puoi appena immaginare la mia pena aggravata dal fatto che non ho la forza né la possibilità di levare la voce, almeno per allontanare dal nostro paese la corresponsabilità di una simile iattura».

La vicenda si sarebbe conclusa in un modo differente da quello auspicato da De Gasperi. Dal canto suo, F. fu tra quanti in Italia si mostrarono sensibili ai cenni di distensione che il contesto internazionale proponeva dopo la morte di Stalin. Nei diari del leader aretino accenni alla necessità di adeguare la politica estera italiana a un mondo in rapida evoluzione si trovano già a partire dal 1954. In tal senso, significativa appare una nota del suo diario del 1° luglio 1954 in cui F. riferisce di un colloquio avuto con l’allora ambasciatrice americana Claire Luce: «Mi chiama Luce e vuol sapere cosa succederà dopo Napoli, gli rispondo che spetta al cons. naz. decidere. Chiede se approvi la CED. Gli rispondo che bisogna risolvere il problema di Trieste. Dice che bisogna difendersi dal comunismo; gli dico che bisogna lasciare agli italiani la libertà e la iniziativa di difendersi. Non mi è sembrata molto lieta delle risposte».

D’altra parte, neanche se avesse voluto F. avrebbe potuto salvare la CED da quello che, almeno da un certo punto in poi, si profilò come un fallimento annunciato. Un’approvazione preventiva del trattato da parte dell’Italia, come auspicato da De Gasperi, non avrebbe certamente impedito la bocciatura del trattato da parte dell’Assemblea nazionale francese. Nel breve termine, però, lo scambio politico che fu alla base del primo ricambio generazionale nella storia della Repubblica italiana e soprattutto il richiamo che De Gasperi continuò ad esercitare anche su uomini a lui assai vicini per provenienza politica ebbe l’effetto di bloccare la ricerca, da parte di F., di nuove strade in politica estera, e, in particolare, di inedite soluzioni per l’affermazione dell’interesse nazionale. Si trattò, tuttavia, soltanto di un rinvio.

Morto De Gasperi e consolidatasi la transizione, la ricerca di un nuovo corso in politica estera riprese vigore e si concretizzò in quella politica denominata “neoatlantismo”. F. ne fu, insieme all’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, uno dei principali interpreti. La stagione del neoatlantismo visse e si esaurì in un breve lasso di tempo: i suoi prodromi sono rinvenibili già nel 1954, il suo fallimento coincise con la fine del secondo governo F., agli inizi del 1959. Non di meno, essa rappresenta una delle pagine più interessanti della politica estera italiana del secondo dopoguerra. Fu sotto l’impeto di avvenimenti avvertiti come epocali, come l’avvento al potere di Chruščëv nell’Unione Sovietica, la decolonizzazione francese in Marocco e Tunisia, le due concomitanti crisi d’Ungheria e di Suez – eventi che ebbero peraltro l’effetto di favorire la prospettiva di un’apertura a sinistra preannunciata da F. al Consiglio nazionale di Vallombrosa nel luglio 1957 – che in Italia la politica del neoatlantismo iniziò a prendere forma attraverso l’assunzione di alcune iniziative e decisioni puntuali. Nel 1956 F., nelle vesti di segretario della Democrazia cristiana, giunse a condannare apertamente l’intervento franco-inglese in Egitto. Scorse, d’altro canto, nella tragedia ungherese il segnale di un possibile rinnovamento interno del mondo comunista che avrebbe dovuto trovare in Occidente interlocutori attenti quanto discreti. Queste posizioni implicavano che l’Italia, pur permanendo nel quadro dell’atlantismo, rafforzasse l’interlocuzione con i paesi dell’Europa Orientale e, soprattutto, ricercasse un ruolo più rilevante nella regione mediterranea, in particolare attraverso il rapporto con gli stati arabi del Medio Oriente. F., nell’esplicitare questa nuova prospettiva di politica estera, poté servirsi di almeno tre sponde: quella politica istituzionale offertagli dal Quirinale, quella economica e mediatica di Enrico Mattei dell’Eni e del quotidiano “Il Giorno”, infine, quella etico-morale e culturale di La Pira, il quale attraverso le ricadute del dialogo interreligioso, in particolare con il mondo musulmano, lavorò alla prospettiva di una rottura dello schema bipolare al fine di allargare lo spazio per politiche di integrazione culturale il più possibile autonome dalla logica dei blocchi. Grazie all’intraprendenza di Enrico Mattei e soprattutto al dinamismo di Giorgio La Pira, si sarebbe peraltro verificata all’inizio degli anni Sessanta anche un’importante sinergia in politica estera con le nuove aperture oltre cortina promosse dalla Chiesa cattolica del neoeletto papa Giovanni XXIII (v. Neglie, 2009). In alcuni casi i fautori del neoatlantismo riuscirono effettivamente a tracciare un’azione internazionale più incisiva che in passato. In particolare, memorabile nei ricordi dei diplomatici è rimasto il viaggio di F. negli Stati Uniti del luglio 1958, i cui esiti furono fruttuosi soprattutto per l’attestazione del ruolo chiave che avrebbe dovuto occupare l’Italia come interprete della strategia atlantica in Europa. Nel complesso, però, i risultati finali restarono ben al di sotto delle aspettative. La nuova politica estera incontrò numerosi e strenui avversari sia all’estero che all’interno del paese. Se, soprattutto nel 1956, guadagnò simpatie a sinistra, il nuovo corso di politica estera ruppe lo schieramento centrista: suscitò l’opposizione di quanti si mantennero invece fedeli all’impostazione degasperiana e, soprattutto, fece nascere avversioni profonde nell’ambito della diplomazia (tra cui Brosio, Quaroni, Zoppi) e scetticismo in parte dell’establishment americano. In particolare, i differenti orientamenti di politica estera interni alla DC emersero con grande nettezza durante il Consiglio nazionale dell’ottobre 1956. Dalle posizioni espresse da F. all’epoca della crisi di Suez si dissociarono Scelba, fortemente critico nei confronti di Nasser, Antonio Segni, deciso a ribadire l’importanza della solidarietà atlantica in quel momento di crisi, Pella, fermo nel censurare le ambiguità emerse nel governo sul ruolo dell’Italia, e Giulio Andreotti, preoccupato soprattutto delle conseguenze interne di un allentamento dei rapporti euro-atlantici rispetto all’ipotesi di un accordo di governo con i socialisti. Vi fu un momento, però, in cui i fautori del neoatlantismo trovarono improvviso slancio con la costituzione del secondo governo F., formato dalla DC e dal Partito socialdemocratico italiano (PSDI) con l’appoggio esterno del Partito repubblicano italiano (PRI). Le elezioni legislative del 25 maggio 1958 non determinarono la vittoria auspicata da F., tuttavia segnarono una significativa crescita della DC, che ottenne il 42,3% dei consensi, livello da allora mai più raggiunto. Il leader aretino sembrò prossimo all’instaurazione di una sorta di “monarchia”, allorché, conservando la segreteria del partito, formò un gabinetto nel quale cumulò le cariche di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri. Le condizioni per l’annunziata svolta neoatlantica si sarebbero tuttavia rivelate assai meno favorevoli del previsto. Il regno fanfaniano durò infatti solo sette mesi, fino a quando cioè, all’interno della DC la diffusa insofferenza verso il presunto autoritarismo del Presidente del Consiglio e soprattutto i nodi tra i fautori e gli oppositori della cosiddetta apertura a sinistra non vennero al pettine, inducendo F. a farsi momentaneamente da parte. Costretto ad abbandonare la guida del governo, F. lasciò poco dopo anche la segreteria del partito. La progressiva dissoluzione del potere fanfaniano e la conseguente disarticolazione dello schieramento politico-economico che, con l’Ente nazionale idrocarburi (ENI) in testa, aveva salutato con favore la stagione del neoatlantismo contribuì a minare la coerenza interna del disegno di revisione della politica estera italiana, un progetto che in realtà sin dall’inizio si era sviluppato attraverso iniziative e lungo direttive spesso poco coordinate tra loro, a volte addirittura contraddittorie. Lo stesso F. oscillò tra il cosiddetto “occidentalismo conflittuale”, il sostegno a iniziative “terzomondiste” o “distensive” e posizioni più in linea con l’“atlantismo ortodosso”, come in occasione delle trattative che avrebbero portato il 26 marzo del 1959 alla stipula dell’accordo raggiunto con Washington, che condusse allo stazionamento nella penisola italiana di vettori con testata nucleare (i missili Jupiter) sulla base del principio della “doppia chiave”. Tali oscillazioni, che caratterizzarono soprattutto l’ultima fase del secondo governo F. (luglio 1958-febbraio 1959), furono anche il risultato di un tentativo, certamente ambizioso, ma al tempo stesso pretenzioso e velleitario, di volgere a proprio vantaggio contingenze internazionali, che in realtà si sarebbero rivelate tutt’altro che favorevoli al progetto di soppiantare la declinante presenza anglo-francese in Medio Oriente con un’intesa privilegiata con Washington (cfr. Galante, 1988).

A partire dall’estate 1958, l’esperimento neoatlantico fu chiamato innanzitutto a confrontarsi con la revisione degli equilibri internazionali provocata dal ritorno al potere di Charles de Gaulle in Francia. Al di là delle dichiarazioni formali di rinnovata amicizia con la Francia rese al Parlamento dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, la sostanza della politica estera di F. segnò un crescendo di diffidenza e di ostilità nei riguardi del nuovo potere gollista. In particolare, si ritenne che il nuovo corso della politica estera francese si sarebbe per forza di cose riflettuto negativamente sullo status internazionale dell’Italia. La richiesta di una posizione privilegiata della Francia in seno all’Alleanza atlantica avrebbe portato ad una riduzione dello spazio italiano; l’accordo di collaborazione italo-franco-tedesco per la produzione di nuovi armamenti, concluso nel novembre del 1957, sarebbe stato senz’altro denunziato da de Gaulle, cosa che puntualmente si verificò; si temeva inoltre che la nuova politica gollista in Nord Africa avrebbe disturbato la politica filoaraba dell’Italia. In un primo momento F. scelse la via dello scontro frontale con Parigi. A fronte delle turbolenze che investirono la regione mediorientale – gli interventi britannici e statunitensi, rispettivamente in Giordania e in Libano, il colpo di stato in Iraq, la costituzione della Repubblica araba unita, il problema dei rifugiati palestinesi e della sicurezza di Israele, la crisi algerina – i primi atti del governo F. furono, infatti, diretti a scalzare le posizioni francesi, facendo forza sulla sponda americana. In questo contesto si inseriscono l’organizzazione dei “colloqui mediterranei”, che vide la partecipazione di due esponenti del Front de Libération nationale (FLN), gli accordi dell’ENI di Mattei con il Marocco e l’Egitto, la proposta agli Stati Uniti di varare un Piano Marshall per il Medio Oriente, il vasto movimento diplomatico, iniziato nel luglio 1958 e culminato con l’allontanamento dell’ambasciatore Rossi-Longhi da Parigi, e, infine, la visita di F. al Cairo nel gennaio 1959, la prima di un leader occidentale: iniziative che determinarono una vera e propria crisi nei rapporti tra l’Italia e la Francia (cfr. Russo, 2008).

In questo quadro, la Comunità economica europea (CEE) sembrò giocare, almeno inizialmente, una parte secondaria; in particolare il governo F. diede relativamente poca importanza alla messa in opera delle Istituzioni comunitarie, considerata forse un aspetto secondario di carattere strettamente diplomatico e burocratico. Ciò trovò conferma nelle nomine dell’Italia all’interno dei più importanti organismi comunitari. Alla Commissione europea, nata nel 1958, il governo di Roma inviò due esponenti democristiani, Piero Malvestiti e Giuseppe Petrilli. Il primo rappresentava una parte della DC delle “origini” destinata ormai ad uscire di scena. Il vecchio leader dei neoguelfi sarebbe rimasto alla Commissione CEE per solo un anno: nel 1959 venne indicato dall’Italia alla guida dell’alta Autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) dove, tuttavia, la sua esperienza non suscitò particolare entusiasmo. Petrilli, esperto di questioni economiche e federalista convinto (v. Federalismo), ricoprì per soli due anni la carica di Commissario europeo, alla quale rinunciò nel 1960 per assumere la presidenza dell’IRI (v. Varsori, p. 164). L’Europa e gli affari comunitari tornarono invece a occupare una posizione centrale nella politica estera italiana all’inizio degli anni Sessanta, durante i governi F. III (luglio 1960-febbraio 1962) e IV (febbraio 1962-giugno 1963), allorché nel corso dei concomitanti negoziati per la realizzazione di un’Europa politica e per l’Allargamento della Comunità europea al Regno Unito, e sullo sfondo di nuovi inquietanti segni del riacutizzarsi della Guerra fredda, di cui i sintomi più gravi furono la costruzione del muro di Berlino e la crisi dei missili di Cuba, la prospettiva di un asse franco-tedesco in chiave di contrapposizione alle potenze anglosassoni iniziò ad assumere forme concrete (v. Quagliariello, 2006, pp. 17-48). In quello stesso periodo ebbe peraltro avvio una battaglia, poi vinta soprattutto grazie alla determinazione di F., affinché in territorio italiano avesse sede un’università europea. Per scongiurare l’ipotesi di un’Europa a più velocità imperniata sull’asse franco-tedesco, l’Italia di F. seguì sin da principio due strategie parallele, attestandosi su un difficile punto di equilibrio destinato a rompersi. Incrociando esigenze di politica interna e posizioni di politica estera, innanzitutto sostenne lealmente la candidatura di adesione della Gran Bretagna presso la Comunità europea e aderì con convinzione al progetto della Forza multilaterale avanzato da Kennedy. Impegnato nel progetto di apertura al partito socialista sin dalla metà degli anni Cinquanta, F. capì che il consenso dell’amministrazione americana sarebbe stato indispensabile per favorire il buon esito dell’operazione politica interna (v. Nuti, 1999). Dall’altro canto, nel corso dei negoziati per l’unione politica, l’Italia di F. si propose nel ruolo di mediatore tra i piccoli paesi del Benelux e il tandem Bonn-Parigi, ricevendo talvolta l’apprezzamento delle altre delegazioni, talvolta le accuse di doppiogiochismo, soprattutto da parte dei francesi. Nonostante i non facili rapporti con de Gaulle, vi era infatti piena consapevolezza da parte di F. dell’importanza per l’Italia del buon funzionamento del Mercato comune per scongiurare il rischio di una rottura definitiva con la Francia. Posto dinanzi al fallimento del Piano Fouchet e ai successivi viaggi trionfali di de Gaulle in Germania e di Konrad Adenauer in Francia, che preannunciarono l’intesa a due poi approdata al Trattato dell’Eliseo, il IV governo F. non esitò tuttavia ad imprimere alla politica estera una svolta in chiave filobritannica. La svolta venne ufficializzata in occasione di un discorso che il leader aretino pronunciò nel corso della riunione degli ambasciatori presso i paesi membri l’11 settembre 1962: con inedita chiarezza F. esplicitò il valore prioritario che egli intendeva accordare all’ingresso dei britannici nel Mercato comune anche rispetto alla prospettiva dell’unione politica. La crescente influenza dei socialisti e l’allontanamento di Segni dalla gestione degli Affari esteri contribuì d’altra parte non poco allo scivolamento di Roma sulle posizioni dei paesi del Benelux. Il discorso di F. lasciò peraltro intravedere una nuova disponibilità a sacrificare le istanze federaliste sull’altare dell’ingresso dei britannici nella Comunità europea. Anche per questo F. non conquistò la fama di europeista. Oltre alle diffidenze ereditate dal periodo dossettiano, il suo atteggiamento nei confronti dell’unificazione europea fu fortemente segnato dal timore costante che l’Italia venisse sopraffatta o marginalizzata dalla Francia e dalla Germania. Alla vigilia della firma del Trattato dell’Eliseo La Malfa, allora ministro del Bilancio dell’esecutivo guidato da F., promosse alcune iniziative finalizzate a realizzare un asse anglo-italiano da contrapporre a un eventuale blocco franco-tedesco. Tali tentativi s’infransero, tuttavia, non soltanto contro il rifiuto britannico, ma anche contro il tiepido sostegno ricevuto dallo stesso F., il quale preferì piuttosto arginare la prospettiva di un’Europa terza forza imperniata su l’asse franco-tedesco puntando sul “grande disegno” kennedyano di una sola Comunità atlantica. A fronte dell’importante calo di consensi registrato dalla Democrazia cristiana in occasione delle elezioni politiche del 1963, F. rassegnò le dimissioni.

Momentaneamente estromesso dagli incarichi istituzionali e ridimensionato in quelli di partito, sarà costretto ad accettare che la creatura (il centrosinistra) che aveva per primo immaginato passasse definitivamente nelle mani di Aldo Moro. Il suo allontanamento dai banchi del governo non sarebbe, tuttavia, durato a lungo. Dal 1965 al 1966 e dal 1966 al 1968 avrebbe ricoperto la carica di ministro degli Esteri, rispettivamente del secondo e terzo governo Moro. L’attenzione e l’impegno profusi a sostegno della politica estera italiana, finalizzati a rafforzare i legami con l’Europa e l’Alleanza atlantica, gli sarebbero valsi l’elezione, nel settembre del 1965, alla presidenza dell’Assemblea dell’ONU, incarico che avrebbe esercitato con grande prestigio, conservando, al contempo, salvo una breve parentesi, la titolarità del dicastero degli Esteri. Nel corso del biennio di presidenza, F. si sarebbe trovato ad affrontare alcuni dei nodi che le trasformazioni delle relazioni internazionali e l’emergere di nuove aree geopolitiche di interesse avevano portato al pettine. L’attenzione per il Terzo mondo e per il Medio Oriente avrebbero rappresentato solo alcune delle preoccupazioni di cui egli si sarebbe reso portavoce nel corso delle riunioni dell’Assemblea. Altrettanto centrale sarebbe stata l’attenzione rivolta al riconoscimento della Cina popolare e della sua rappresentanza all’Onu che lo avrebbe indotto a fissare un ruling procedurale che consentisse a Pechino, negli anni successivi, di raggiungere il quorum di voti necessari per sostituire Formosa nel consesso internazionale. Nella nuova veste internazionale, il 4 ottobre del 1965 F. accolse la visita all’Onu di Paolo VI. In quella occasione, sollecitato da Giorgio La Pira, il “teologo” del dialogo interreligioso, non avrebbe mancato di rendersi interprete con il pontefice di quelle esigenze di mediazione che l’aggravarsi della situazione in Vietnam rendevano non più procrastinabili. Nella sua agenda politica non sarebbero mancati, poi, riferimenti ai temi del disarmo, della proliferazione nucleare, dello sviluppo nei paesi dell’America latina, ai quali sin da giovane si era appassionato e che aveva avuto modo di visitare personalmente nel corso di un viaggio con il presidente Giuseppe Saragat dal 10 al 21 settembre del 1965. Negli anni successivi F. avrebbe continuato a ricoprire incarichi di rilievo tanto sul versante istituzionale quanto su quello partitico. Come si dirà, da questo momento in poi la sua azione politica perderà quel respiro europeo e internazionale che aveva caratterizzato la prima parte della sua carriera, per concentrarsi prevalentemente entro i confini nazionali. In ciò il percorso di F. ha qualcosa di emblematico. Rappresenta bene la parabola di una classe politica che, nella prima parte della storia repubblicana, riflette sui problemi del paese collocandoli nei grandi scenari internazionali in divenire, e che, da un certo punto in poi – conquistata l’apertura a sinistra – sembra invece ripiegare in una logica eminentemente interna, quasi a voler sfruttare fino in fondo quel margine faticosamente ritagliatosi nell’interazione tra equilibri politici nazionali e logiche della Guerra fredda.
La cornice di questo ripiegamento entro i confini nazionali fu quella segnata dalle profonde trasformazioni della società italiana degli anni Sessanta e Settanta e dalle sfide che, la contestazione prima e il terrorismo poi, avrebbero lanciato alla democrazia e alla governabilità del sistema.

Nelle vesti di presidente del Senato, dal giugno del 1968 al giugno del 1973, riceverà dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone, la nomina, il 10 marzo del 1972, a senatore a vita per “aver illustrato la patria con altissimi meriti nel campo scientifico e sociale”. La ricerca di costanti mediazioni e soluzioni che consentissero ai partiti di reagire alla crisi di delegittimazione che sembrava investirli lo indusse ad attenuare alcuni degli aspetti più radicali che nei periodi precedenti avevano contraddistinto il suo carattere e la sua azione politica. La svolta “moderata”, tuttavia, non si sarebbe rivelata immune da insuccessi e difficoltà personali. Le vicende che avrebbero accompagnato il suo tentativo di salire al Quirinale ne offrono una prima conferma. Alla scadenza del mandato di Giuseppe Saragat la sua designazione incontrò forti opposizioni interne alla stessa DC. Di quel frangente è rimasto celebre un incontro tra il leader aretino e Moro, allora ministro degli Esteri, voluto dallo stesso F. nella speranza di sondare lo stato di avanzamento delle trattative per far convergere la maggioranza delle preferenze sul suo nome. Nel corso del colloquio con Moro, di ritorno da un viaggio a Bruxelles concluso con successo, accennò ad un problema ancora aperto che occorreva risolvere con urgenza. Deludendo le aspettative del suo interlocutore, si affrettò a chiarire che si trattava della regolamentazione della “pesca del merluzzo nelle acque norvegesi”. Il tema del Quirinale non venne nemmeno sfiorato e al Colle finì col salire Giovanni Leone. Non maggiore fortuna incontrò la battaglia condotta, come segretario politico della DC – carica che aveva riassunto nel giugno del 1973 lasciando la presidenza del Senato – a favore dell’abrogazione della legge sul divorzio, la Baslini-Fortuna, approvata nel 1970: privo dell’appoggio dei maggiori esponenti del suo partito (Rumor, Moro, Colombo, Cossiga), vincolato dalle pressioni del mondo cattolico ufficiale e fiancheggiato soltanto dal Movimento sociale italiano, F. dovette subire una evidente sconfitta: nei risultati del referendum svoltosi il 12 e 13 maggio 1974 i “sì” registrarono il 40,7% dei voti, i “no” il 59,3%. A costargli la perdita della guida del partito fu, però, l’esito delle elezioni amministrative del 15 e 16 giugno 1975, le prime che ammettevano al voto i diciottenni. La Democrazia cristiana registrava un evidente calo di consensi a fronte di un forte aumento del peso elettorale del PCI: il partito di Enrico Berlinguer, avviato sulla strada della revisione interna, premessa necessaria alla credibilità del compromesso storico, innescava nel partito dei cattolici la “paura del sorpasso”. Le politiche dell’anno successivo avrebbero ristabilito il primato democristiano, premiando la gestione di Benigno Zaccagnini, e consegnando nuovamente a F. la presidenza del Senato che mantenne fino al 1982. Nel corso del triennio che segnò la fine della conventio ad excludendum nei confronti del Partito comunista e che si sarebbe concluso con la tragica morte di Aldo Moro, F. non mancò di manifestare forti perplessità nei confronti della linea di apertura ai comunisti sostenuta dalla dirigenza del partito. Nel tentativo di rallentare il dialogo, durante il XIII Congresso nazionale della DC del marzo 1976, si pose alla guida, insieme ad Andreotti e ai dorotei di Piccoli e Bisaglia, di un cartello di correnti moderate opposte alla linea sostenuta dal segretario e denominato “DAF” (Dorotei-Andreotti-F.) e intenzionate a sostenere la candidatura di Arnaldo Forlani. Gli equilibri interni al partito e l’abile regia di Aldo Moro costrinsero le correnti del cartello, fatta eccezione per Andreotti, all’opposizione, offrendo a F. la carica di Presidente del Consiglio nazionale. Carica che mantenne per pochi mesi, preferendo, come accennato, tornare alla presidenza del Senato. Nel corso dei tre mesi, segnati da rapimento e dall’uccisione di Moro da parte delle Brigate rosse, fu tra i pochi esponenti della Democrazia cristiana a schierarsi a sostegno della trattativa, fino al punto di negare al governo in carica la sede deliberante – richiesta dallo stesso presidente Andreotti – sui provvedimenti di polizia proposti il giorno successivo a quello del sequestro.

La ricerca dei nuovi equilibri governativi che seguì la fine dell’esperienza della solidarietà nazionale lo videro prima confermare l’opposizione alla prosecuzione dell’apertura verso il PCI, ribadita con convinzione in occasione del XIV Congresso nazionale della DC del 1980, il congresso del cosiddetto “Preambolo”, poi tornare su posizioni di sinistra moderata, in occasione della successiva assise nazionale. La perdita della presidenza del Consiglio da parte della DC, nel 1981, avrebbe infatti innescato nuove tensioni all’interno della DC, mettendo nuovamente in discussione gli equilibri raggiunti nel 1980. Il XV Congresso nazionale si concludeva con la nomina alla segreteria politica di Ciriaco De Mita, il candidato sostenuto dalle sinistre e sul quale si sarebbe realizzata la convergenza di Andreotti, Piccoli e dello stesso F. (il cosiddetto PAF). Proprio il PAF avrebbe segnato la definitiva spaccatura tra i fanfaniani e dorotei che avrebbero sostenuto, risultando sconfitti, Arnaldo Forlani, il vecchio delfino di F. Dal 1982 al 1983 fu chiamato a presiedere, per la quinta volta, un esecutivo formato da DC, PSI, PSDI, PLI con l’appoggio esterno del PRI; dal 1985 al 1987 presiedette nuovamente il Senato, eletto grazie ad un’ampia maggioranza che comprendeva, oltre alle forze del “pentapartito” il PCI e il MSI. La sua ultima esperienza alla presidenza di Palazzo Chigi si concluse nel 1987 quando fu costretto a rimettere il mandato a seguito del mancato voto di fiducia della Camera dei deputati. F. non avrebbe, tuttavia, abbandonato i banchi del governo: fu ministro degli Interni nel governo Goria dal luglio 1987 all’aprile 1988 e ministro del Bilancio e della programmazione economica dall’aprile 1988 al luglio 1989 nel governo De Mita. Nel 1992, nel nuovo panorama politico segnato dalla fine della lunga stagione dei partiti, venne eletto presidente della Commissione permanente “Affari esteri” del Senato che mantenne fino al 14 aprile 1994. Di fronte alla diaspora che seguì la fine dell’unità politica dei cattolici e la scomparsa della Democrazia cristiana, F. scelse di aderire, nel 1994, al Partito popolare fondato da Mino Martinazzoli.

Gaetano Quagliariello (2012)