Genscher, Hans-Dietrich

G. nasce il 21 marzo 1927 a Reideburg (Saalkreis) nei pressi di Halle, nel Sachsen-Anhalt, uno dei Länder Orientali. Durante il secondo conflitto mondiale milita, sia pure per pochi mesi, nella Wehrmacht, prima di cadere prigioniero degli alleati. Al termine della guerra ritorna a Halle, dove s’iscrive al Partito liberaldemocratico (LDPD). Nel 1949 consegue la laurea in giurisprudenza e tre anni dopo abbandona la Repubblica Democratica Tedesca per rifugiarsi nella Germania Ovest (v. Germania). Anche nella Repubblica federale G. resterà liberale: dal 1952 in poi sale tutti i gradini della carriera politica all’interno della Freie demokratische Partei (FDP), fino ad assumere la carica di presidente federale (1974-1985). Eletto al Bundestag nel 1965, G. è uno dei fautori della prima svolta politico-programmatica della FDP che la porterà a non rinnovare l’accordo di coalizione con i cristiano-democratici e, successivamente, dopo l’esperienza della Grosse Koalition, a orientare le sue scelte di coalizione al perseguimento di obiettivi di politica estera, e quindi all’alleanza con i socialdemocratici.

Nel periodo 1969-1974 G. è chiamato a ricoprire l’incarico di ministro degli Interni nella coalizione social-liberale guidata da Willy Brandt. Tra gli avvenimenti più significativi che lo vedono in primo piano si ricordano: il tragico sequestro degli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco nel 1972 e nel 1974 l’affaire Guillaume, allorché venne in luce come Günther Guillaume, stretto consigliere del cancelliere Willy Brandt, fosse una spia dei servizi segreti della Germania Est. In questa vicenda, che costerà a Brandt le dimissioni da cancelliere. G. gioca un ruolo poco trasparente che, tuttavia, non comprometterà la sua successiva carriera politica. Salito Walter Scheel alla presidenza della Repubblica, G. passa, infatti, nel 1974 al ministero degli Esteri, dove rimarrà per ben diciotto anni, prima a fianco del cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt e poi, dal 1982 in avanti, dopo aver contribuito in prima persona all’avvicendamento al potere della Christlich demokratische Union-Cristlich soziale Union (CDU-CSD), del cristiano-democratico Helmut Josef Michael Kohl.

Il 27 aprile 1992, due mesi dopo la firma del Trattato di Maastricht, G. annuncia, tra lo stupore di molti, le dimissioni dal suo duplice incarico di ministro degli Esteri e di vicecancelliere del governo Kohl. Resterà membro del Bundestag fino al 1998.

È ben nota la rilevanza storica di G.: egli è stato il ministro degli Esteri che per più tempo ha ricoperto questo incarico nella storia della Repubblica federale e che, al contempo, ha guidato il paese verso la riunificazione. D’altra parte, è nel suo operato, nella quantità e nella qualità delle sue azioni, nella linearità e nella coerenza di fondo espressa dalla sua politica, che va ricercata l’essenza più profonda di quella che, retrospettivamente, può essere definita l’“era del genscherismo”. Osservando le diverse tappe in cui lo sviluppo della politica estera tedesca sotto la sua guida si è articolato, è comunque possibile suddividere il periodo della sua attività all’Auswärtiges Amt in due fasi: una prima fase iniziale, segnata dall’impegno di G. per una politica europea di distensione e di sicurezza nei rapporti tra Est e Ovest, culminata con l’adozione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) nel 1975, e una seconda, per molti aspetti più matura, che lo ha visto tra i principali artefici della riunificazione tedesca e del cammino verso una più stretta integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Con particolare attenzione al processo di costruzione dell’Europa comunitaria, si può ben dire che il ministro degli Esteri G. promosse, con sostanziale continuità durante i suoi diciotto anni di attività, un orientamento inequivocabilmente integrazionista, sia dal punto di vista dell’Allargamento che da quello dell’approfondimento, adoperandosi in prima persona per l’ingresso nella Comunità economica europea dei paesi mediterranei (Grecia, Spagna, Portogallo), per il potenziamento delle Istituzioni comunitarie che tuttora incarnano la logica sopranazionale (il Parlamento europeo e la Commissione europea) e, contestualmente, per il rafforzamento del livello di cooperazione tra i paesi membri nei settori della Politica estera e di sicurezza comune.

Tuttavia, fu soprattutto a partire dagli anni Ottanta e, in particolare, dopo la svolta del 1982, segnata dall’avvicendamento al potere della CDU-CSU guidata da Kohl, che la figura e l’azione di G. acquisirono un significato e un risalto di primissimo piano in tutte le tappe più importanti che segneranno il processo d’integrazione europea fino alla firma del Trattato di Maastricht. Il neodesignato Cancelliere Helmut Kohl e il riconfermato ministro degli Esteri G. mostrarono, d’altra parte, sin dalle prime relazioni programmatiche, di avere una particolare sintonia nella concezione della politica europea tedesca e di condividere il medesimo ordine delle priorità da seguire negli anni a venire. Significativo il fatto che lo stesso G. definirà nelle sue memorie la politica europea come un vero e proprio “anello di congiunzione” (Bindeglied) della coalizione cristiano-liberale (v. Genscher, 1995, p. 368). Più precisamente, sia G. che Kohl consideravano la politica europea prima di tutto come un elemento centrale e costitutivo della politica estera tedesca, nonostante la sua implementazione non sempre avvenisse in settori e con strumenti di politica estera. Tale concezione veniva giustificata da un lato alla luce della consapevolezza storica che la partecipazione della Germania Ovest al processo d’integrazione europea aveva contribuito in maniera determinante alla sua “riabilitazione” e alla sua, sia pure parziale, “emancipazione” sulla scena internazionale, dall’altro con la definizione dell’obiettivo prioritario che veniva ripetutamente identificato nella realizzazione dell’Unione europea.

La visione dell’Unione europea, e con questa la prospettiva di una vera e propria Revisione dei Trattati istitutivi di Roma (v. Trattati di Roma), G., in realtà, l’aveva già rilanciata con il suo discorso (divenuto poi celebre) pronunciato in occasione dell’incontro del Partito liberale tedesco, il 6 gennaio del 1981, quando all’epoca era ancora ministro degli Esteri del governo Schmidt: «L’Europa ha bisogno di un nuovo impulso politico. Essa ha bisogno di un passo visibile in direzione dell’Unione europea. E chiedo: Non è forse giunto il momento finalmente per un trattato sull’Unione europea?» (discorso pronunciato a Stoccarda il 6 gennaio 1981; v. Auswärtiges Amt, 1995, p. 480). Da questo discorso prendeva le mosse anche la prima, importante iniziativa integrazionista di G. per un “Atto europeo”, anche nota come “Piano Genscher-Colombo” in seguito all’adesione del collega italiano Emilio Colombo; un’iniziativa che avrà un ruolo affatto irrilevante nell’ambito del successivo processo di riforma del sistema comunitario, come lo stesso G. avrà modo di ricordare nelle sue memorie: «L’iniziativa ha messo in moto una specie di missile a tre stadi: primo stadio, la solenne dichiarazione di Stoccarda nel giugno del 1983; secondo stadio: l’Atto unico europeo sottoscritto dal Consiglio europeo a Lussemburgo nel dicembre del 1985; terzo stadio: i Trattati di Maastricht del 1991» (v. Genscher, 1995, p. 368).

Il piano Genscher-Colombo conteneva una serie di dichiarazioni di principio sulla necessità di rafforzare la Cooperazione politica europea e l’integrazione economica tra i paesi membri e di perseguire in una prospettiva di lungo periodo l’obiettivo di un’Unione europea. L’iniziativa non era dunque adeguata, data l’assenza di obblighi precisi, a risolvere i problemi che gravavano sulla Comunità europea, con particolare riferimento all’insostenibilità finanziaria del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), al problema della condizione di “contribuente netto” della Gran Bretagna (v. Regno Unito), agli effetti distorsivi della Politica agricola comune (PAC) e all’inadeguatezza di un sistema decisionale basato sul principio dell’unanimità (v. Voto all’unanimità), in stretta connessione con il possibile allargamento della Comunità economica europea (CEE) a Spagna e Portogallo, né tanto meno costituiva un documento compiuto da un punto di vista tecnico, tale da poter offrire una base programmatica sufficiente per procedere a una modifica sostanziale dei trattati esistenti. D’altra parte, esso rappresentava comunque un primo importante e, soprattutto, autorevole tentativo di risposta alla situazione di crisi generale in cui versava la CEE all’inizio degli anni Ottanta.

Il piano Genscher-Colombo veniva presentato ufficialmente davanti al Parlamento europeo nel novembre 1981. L’iniziativa cadeva, dunque, ancora nel periodo del cancellierato Schmidt (1974-1982); tuttavia, fu solamente con l’avvento al potere del leader cristiano-democratico Kohl, nell’ottobre 1982, che essa acquisiva, insieme a un sostenitore di primissimo ordine, un maggior peso politico a livello comunitario. Al di là del riferimento contenuto nel discorso d’inizio mandato del cancelliere cristiano-democratico, ben più importante fu la decisione della nuova coalizione di governo di adottare l’iniziativa genscheriana del 1981 come documento programmatico per i lavori del semestre europeo sotto la presidenza tedesca (gennaio 1983-giugno 1983). Nel corso del Consiglio europeo di Stoccarda del giugno 1983, tuttavia, gran parte dei contenuti e degli aspetti più qualificanti dell’iniziativa Genscher-Colombo andarono perduti. Ad iniziare dal termine “Atto” che, dietro pressioni britanniche, veniva sostituito con la dizione ben meno impegnativa di “Dichiarazione solenne sull’Unione europea” (v. Dichiarazione di Stoccarda). Con l’“Atto” veniva eliminata anche la prospettiva di un trattato, dal momento che la “Dichiarazione” non conteneva che un semplice “impegno politico” senza alcun valore giuridico.

Tuttavia, al di là del disappunto per la mancata realizzazione del piano “italo-tedesco”, o più precisamente, per il suo, per certi aspetti, prevedibile ridimensionamento, il lavoro della presidenza tedesca, sotto la guida del ministro G., produceva comunque qualche risultato da non sottovalutare. In primo luogo, confezionava un “pacchetto” (Stuttgarter Packet) contenente tutte le principali questioni di crisi: dall’insostenibilità finanziaria del budget della CEE al problema del contributo britannico, dalla riforma della PAC all’allargamento verso sud, dalle riforme istituzionali all’estensione delle Competenze comunitarie, ecc. Un “pacchetto” che aveva sicuramente il pregio di dare una visione complessiva delle varie disfunzioni della CEE e, soprattutto, di riflettere il forte grado di interrelazione esistente tra le diverse questioni. In secondo luogo, la stessa “Dichiarazione solenne di Stoccarda”, seppur ridimensionata rispetto ai progetti iniziali e nonostante il suo scarso valore vincolante, costituiva pur sempre un documento politico, con il quale i capi di Stato e di governo rinnovavano «il loro impegno a progredire sulla via di un’unione sempre più stretta fra i popoli e gli stati membri della Comunità europea». Si trattava di semplici dichiarazioni di principio che, tuttavia, come auspicato da G., avrebbero potuto fornire utili stimoli per uscire dalla crisi.

I successivi Accordi di Fontainebleau del giugno 1984, che vennero raggiunti soprattutto grazie all’azione sinergica di Germania e Francia, spianavano la strada sia all’allargamento che all’approfondimento dell’Europa comunitaria. Tuttavia, se da un lato il passaggio a una Comunità a dodici risultò relativamente agevole dopo il vertice di Fontainebleau (v. anche Vertici) – l’atto di adesione veniva solennemente firmato il 12 giugno 1985 – dall’altro ben più complesse furono le dinamiche che portarono all’Atto unico europeo, ossia alla prima grande revisione dei Trattati istituivi della Comunità europea (v. anche Trattati). Si consideri che la resistenza dei paesi cosiddetti “contrari” (Danimarca, Gran Bretagna e Grecia) fu tale, che solo in extremis, l’ultimo giorno del Vertice di Milano, e perlopiù con la semplice maggioranza dei paesi membri, venne adottata l­a decisione di convocare una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) per la riforma dei trattati.

Anche in questo caso, il ministro degli Esteri G. svolse un ruolo di primissimo piano, dal momento che fu proprio lui a ispirare questa vera e propria “forzatura delle regole del gioco” con un documento, sottoscritto successivamente anche da Francia, Italia e dai paesi del Benelux, che aveva voluto sottoporre, con il consenso del cancelliere, ma senza essersi consultato precedentemente con gli altri funzionari tedeschi, all’attenzione del Consiglio europeo il 29 giugno 1985: «L’Unione europea ha inizio: i paesi membri decideranno sull’organizzazione di questo trattato. Si convocherà una conferenza intergovernativa, che avrà il compito di elaborare entro il 31 ottobre 1985 un progetto di trattato. Questo verrà discusso e approvato al Consiglio europeo di Lussemburgo» (documento presentato da G. al Consiglio Europeo di Milano, citato in Gaddum, 1994, p. 257). Ancora più importante fu l’impegno di G. per favorire l’attuazione concreta dell’Atto unico europeo, soprattutto perché il ministro degli Esteri, sia pure spalleggiato dal cancelliere, si vide costretto non solo a negoziare la propria politica integrazionista con i colleghi degli altri paesi europei, ma anche a superare le forti resistenze esistenti al proprio interno.

Alcuni ministri della Bundesregierung si erano, infatti, fortemente opposti nel corso del 1987, prima ancora che si fosse concluso il processo di ratifica dell’Atto unico, a larga parte delle proposte contenute nel piano di ristrutturazione finanziaria “Portare l’Atto unico al successo”, che era stato presentato della Commissione Delors (v. Delors, Jacques) per consentire il completamento del mercato comune (v. Comunità economica europea). Il ministro tedesco dell’Agricoltura Ignaz Kiechle era arrivato, persino, a definire l’iniziativa della Commissione come una vera e propria «dichiarazione di guerra» (Kriegserklärung) alla Repubblica Federale Tedesca (discorso di Kiechle il 24 febbraio 1987 a Bruxelles, cit. in Garthe, 1987, p. 336). Tale ostilità era dovuta principalmente da un lato alla percezione che la Repubblica federale fosse chiamata dalla riforma del bilancio comunitario a pagare un prezzo relativo troppo elevato, dall’altro al timore di perdere il potenziale elettorale legato al mondo dell’agricoltura. Ciononostante, nel 1988, G., a cui anche in quest’occasione il cancelliere Kohl aveva affidato la conduzione dei lavori, decideva di dedicare il semestre da lui presieduto all’adozione del “primo pacchetto Delors”, esattamente come cinque anni prima aveva orientato la politica della sua presidenza alla realizzazione del piano Genscher-Colombo.

Tuttavia, diversamente da quanto avvenuto a Stoccarda, in occasione della seduta straordinaria del Consiglio europeo di Bruxelles del febbraio 1988 la presidenza tedesca (v. anche Presidenza dell’Unione europea) conseguiva un risultato visibilmente più concreto: qui, nella fattispecie, i capi di Stato e di governo dei paesi membri riuscivano a varare una vera e propria riforma del sistema finanziario della CEE, come auspicato dalla Commissione. Sempre nel corso del semestre europeo sotto la sua presidenza, G. decideva inoltre di rilanciare il progetto dell’Unione economica e monetaria. Sin dalla sua relazione programmatica, nel gennaio del 1988, G. aveva voluto ribadire l’importanza storica dell’Unione economica e monetaria, lasciando al contempo intendere che la Bundesregierung riteneva maturi i tempi per rilanciare il dibattito in sede comunitaria (discorso del 20 gennaio 1988 davanti al Parlamento europeo di Strasburgo, “Programma della presidenza tedesca nella Comunità europea”, pubblicato in “Bulletin des Presse – und Informationsamts der Bundesregierung”, n. 9 del 22 gennaio 1988, pp. 61-67).

A poche settimane di distanza da questa prima presa di posizione, G. pubblicava un memorandum con il quale suggeriva al Consiglio europeo di incaricare un gruppo di saggi, con il compito specifico di formulare delle proposte per «la creazione di un’area monetaria europea e di una banca centrale europea» (memorandum del 26 febbraio 1988; v. Auswärtiges Amt, 1995, pp. 560-563). Quest’iniziativa veniva legittimata da G. principalmente sulla base di considerazioni di natura politica, in vista dell’opportunità di imporre una svolta integrazionista sulla via dell’unificazione europea (v. Staack, 2000, p. 360).

Le ragioni di natura economica, comunque, non venivano ignorate. Il ministro degli Esteri tedesco, infatti, metteva in chiaro sin dall’inizio anche le condizioni alle quali, secondo lui, si sarebbe dovuto pervenire alla realizzazione dell’Unione economica e monetaria: «La creazione di un’area monetaria unitaria con una banca centrale europea è un’integrazione economica necessaria al Mercato unico europeo. Costituisce, inoltre, il catalizzatore per la convergenza necessaria delle politiche economiche dei paesi membri, senza la quale non può esistere un’unione monetaria […]. Gli elementi fondamentali dello statuto della Bundesbank e gli obiettivi stessi dello statuto, volti alla promozione della stabilità e della crescita nell’economia, dovrebbero costituire i fondamenti di una Magna Carta europea per la politica di stabilità» (memorandum del 26 febbraio 1988, cit., pp. 560 e ss.). Condizioni che erano anche le sole alle quali il ministero delle Finanze, la Bundesbank, ma anche i principali attori impegnati nella vita economica e sociale della Repubblica Federale Tedesca sarebbero stati, verosimilmente, disposti ad acconsentire alla realizzazione del progetto; ritenendo questi ultimi insensato e pericoloso, soprattutto per la stabilità interna della valuta e del livello dei prezzi, compiere dei passi in direzione di un’unione monetaria prima ancora che i paesi membri avessero raggiunto una sostanziale convergenza nei principali parametri macroeconomici (soprattutto in termini d’inflazione), così come dover rinunciare ai capisaldi e, in particolare, alle caratteristiche istituzionali della loro politica monetaria. Le perplessità, soprattutto dell’autorevole Bundesbank, sulla maturità dei tempi e sulle modalità con cui tale impresa si sarebbe dovuta realizzare restarono forti anche nel periodo successivo; ma alla fine queste riserve dovettero cedere il passo dinanzi al primato della scelta integrazionista di cui proprio G., in particolare, si era fatto paladino.

Gli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (v. Germania) determinarono un’importante accelerazione del processo d’integrazione europea nel suo complesso. Un’accelerazione che alcuni paesi europei, in primis la Francia, ritennero inequivocabilmente opportuna al fine di inquadrare la Bundesrepublik all’interno di una più solida struttura prima dell’eventuale, poi inevitabile, riunificazione tedesca. Un’accelerazione che, d’altra parte, la stessa diplomazia tedesca decideva di promuovere attivamente, soprattutto con riferimento al progetto di un’unione politica: da un lato per realizzare l’obiettivo storico di una Germania riunificata e integrata in maniera irreversibile all’interno di una salda struttura europeo-occidentale, dall’altro per rispondere efficacemente ai problemi legati all’imminente disgregazione degli stati multinazionali dell’Europa dell’Est.

È in questo contesto che si collocano i considerevoli sforzi dispiegati da G. per dotare la costituenda Unione europea di un’“identità di sicurezza” (Sicherheitsidentität). In particolare, il 4 febbraio 1991, il ministro degli Esteri tedesco presentava, insieme al suo collega francese Roland Dumas, un piano molto ambizioso che contemplava, sia pure in prospettiva, la creazione di una vera e propria politica di difesa autonoma (documento comune franco-tedesco sulla politica estera e di sicurezza comune dell’Unione politica; v. Auswärtiges Amt, 1994, pp. 338-341). Più precisamente, in questo “documento comune” i due ministri degli Esteri non si limitarono a rinnovare la proposta, che era già stata avanzata nell’iniziativa franco-tedesca del 6 dicembre 1990, di procedere a una progressiva comunitarizzazione nei settori della politica estera e di sicurezza da estendere a tutti i settori pertinenti, ma giunsero a identificare l’Unione dell’Europa occidentale (UEO) con il possibile «braccio armato» dell’Unione europea.

Tuttavia, le massime aspirazioni del ministro G. andarono in gran parte deluse, soprattutto a causa dell’indisponibilità di alcuni paesi membri (in primis la Gran Bretagna) a rinunciare a uno degli aspetti più qualificanti della sovranità nazionale da una parte e a considerare l’UEO come qualcosa di più di una semplice colonna dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) dall’altra.

Anche al proprio interno c’era chi non condivideva le posizioni, considerate troppo eurocentriche, del ministro degli Esteri G. In particolare, il ministro della Difesa Gerhard Stoltenberg, anche in reazione alle pressioni esercitate dagli americani, aveva voluto, a distanza di due mesi dalla presentazione dell’ultimo documento di matrice franco-tedesca, esplicitare la sua contrarietà nei confronti dell’ipotesi che si potesse pervenire alla creazione di una struttura di sicurezza europea autonoma e potenzialmente concorrenziale alla NATO, ipotesi che effettivamente non veniva esclusa nel documento del 4 febbraio 1991 (Nato für die Sicherheit unentbehrlich. Stoltenberg warnt in Washington vor Risiken in der UdSSr, in “Die Welt” del 15 aprile 1991, p. 6, cit. in Stark, 2000, p. 422). Lo stesso Kohl, sia pure favorevole all’idea di rafforzare l’identità di sicurezza europea, aveva sposato una posizione comunque più attenta alle sensibilità atlantiche esistenti all’esterno, come al proprio interno (discorso del cancelliere Helmut Kohl a Washington del 20/5/1991, in Auswärtiges Amt, Deutsche Aussenpolitik nach, 1994, pp. 46-52).

Molto controverso è stato, invece, l’operato di G. nel corso della prima crisi iugoslava. In particolare, la determinazione con cui G. cercò di imporre, soprattutto a partire dal novembre 1991, la strategia dell’immediato riconoscimento di Slovenia e Croazia contribuì ad alimentare le mai sopite perplessità sull’affidabilità dell’“elemento tedesco”. D’altra parte, come emerge chiaramente anche dalle sue memorie, G. giustificò la sua linea politica su una duplice, sia pure discutibile, ma sincera convinzione: da un lato che il principio dell’autodeterminazione che aveva funzionato per la riunificazione tedesca potesse essere applicato anche in altre situazioni geopolitiche, dall’altro che la guerra in atto in Iugoslavia dovesse essere considerata come una guerra di aggressione della Serbia e non come una guerra civile, valutazione che, successivamente, sarebbe stata riconosciuta come corretta anche dalla Comunità internazionale.

La decisione della diplomazia tedesca di procedere nel dicembre 1991 al riconoscimento delle due repubbliche secessioniste di Slovenia e Croazia prima del termine stabilito dalla CEE e senza attendere il verdetto della Commissione Badinter, che avrebbe dovuto accertarne le condizioni di accettabilità, sollevò comunque, a torto o a ragione, molte perplessità.

L’impegno personale di Hans-Dietrch G. per la realizzazione di un’Europa politica, tuttavia, non può essere messo in discussione alla luce della quantità e della qualità delle iniziative e delle decisioni che hanno contraddistinto il suo lungo percorso europeo.

Gabriele d’Ottavio (2009)