Germania

Quadro storico

La storia europea, il potere politico e l’importanza economica, come pure la sua posizione al centro dell’Europa, fanno della Repubblica Federale Tedesca uno Stato europeo del tutto eccezionale. Nel corso del XX secolo la Germania si è resa responsabile di due guerre mondiali e dell’Olocausto, generando in Europa e in altre parti del mondo terrore e sofferenze senza precedenti. L’unificazione europea, che ha subito un’accelerazione dopo la Seconda guerra mondiale, ha rappresentato per la Germania – divisa in due tra Est e Ovest fino al 1990 – un’occasione unica per essere riammessa gradualmente nella comunità internazionale. Nel preambolo della Legge fondamentale, promulgata nel 1949 come Carta costituzionale della Germania Ovest, venne stabilito che tra gli obiettivi centrali della sua politica estera ed europea vi dovesse essere anche quello di «contribuire alla pace nel mondo come membro con parità di diritti all’interno di un’Europa unita […]». Per conseguire quest’obiettivo la Costituzione fu concepita in modo tale da consentire «il trasferimento di diritti di sovranità a organismi internazionali» (art. 24).

Con l’unificazione tedesca, portata a compimento nell’ottobre 1990, venne risolta la cosiddetta “questione tedesca”. La questione si era posta fin dalla fondazione del Reich sotto Bismarck, nel 1871, quando era stata adottata la soluzione “piccolo-tedesca” e non l’opzione “grande-tedesca” che prefigurava un’unione con l’Austria. Anche dopo la Prima guerra mondiale, le potenze vincitrici nel 1918-1919 impedirono una soluzione “grande-tedesca”, vietando l’unione tra la neoistituita Repubblica austriaca e la Repubblica di Weimar. La politica espansionistica aggressiva di Hitler, con l’Anschluss dell’Austria nel 1938 e l’annessione dei sudeti, rappresentò un tentativo di risolvere la questione tedesca con l’uso della forza. La capitolazione della Germania nazista e la divisione del paese in quattro zone di occupazione fecero sì che la questione tedesca rimanesse aperta anche dopo il 1945. La divisione dell’ex impero tedesco in una democrazia liberale occidentale, nella parte ovest del paese (Bundesrepublik Deutschland, BRD, Repubblica Federale Tedesca), e in uno Stato socialista dell’Est (Deutsche Demokratische Republik, DDR, Repubblica Democratica Tedesca) e il loro graduale inserimento nei due sistemi di alleanze, rispettivamente guidati dagli USA e dall’URSS, rappresentarono al più tardi con la costruzione del Muro di Berlino, nel 1961, il simbolo della divisione del mondo nell’epoca della Guerra fredda. L’“opzione per l’Occidente” (secondo l’espressione dello storico Ludolf Herbst), praticabile in un primo tempo solo per la parte dello Stato tedesco-occidentale, con il crollo del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e la fine della Guerra fredda divenne possibile anche per la Repubblica Democratica Tedesca e gli altri paesi dell’Europa dell’Est, prefigurando la creazione di una Comunità paneuropea. La prospettiva, agognata dal governo della Germania Ovest fin dagli anni Settanta, di realizzare l’unificazione tedesca nel quadro di una soluzione europea, con l’inserimento della DDR nella Comunità europea e i successivi allargamenti ai paesi dell’Europa dell’Est nel 2004 e nel 2007 divenne improvvisamente concreta.

Di seguito, e con questo quadro storico sullo sfondo, verranno esaminati la politica europea tedesca dalle sue origini, all’epoca del primo cancelliere Konrad Adenauer, ai giorni nostri, gli attori, le istituzioni, gli obiettivi, gli interessi e le idee guida che la determinano. Si discuterà, inoltre, la questione del valore che la politica europea ha assunto nei partiti politici, nelle associazioni, nell’opinione pubblica e nei media e dei livelli di consenso che si riscontrano presso la popolazione. Infine, si affronterà il tema della collaborazione fra Germania e Italia sempre nel contesto della politica di integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

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Obiettivi e premesse della politica europea da Konrad Adenauer ad Angela Merkel

Le basi della politica europea tedesca furono gettate, sotto ogni aspetto, all’epoca del primo cancelliere della Repubblica federale di Germania, il cristiano-democratico Konrad Adenauer; tali fondamenta appaiono ancora oggi determinanti. Per Adenauer l’obiettivo prioritario era quello di riportare la giovane Repubblica federale di Germania nella famiglia dei popoli europei e, dopo pochi anni dalla fine della guerra e della dittatura nazionalsocialista, avviare un nuovo corso politico. In politica estera, la neonata Repubblica federale non era (ancora) un paese sovrano, dal momento che fino al 1955 rimase sotto il controllo delle potenze alleate. L’unificazione europea e la correlata riconciliazione con l’“arcinemico” storico, la Francia, e con gli altri Stati europei era la strada da percorrere, e ciò nonostante le limitazioni di sovranità, se si volevano riconquistare gli spazi di manovra nella politica estera. Adenauer intraprese questa via dell’integrazione con l’Occidente nonostante l’opposizione che esisteva anche all’interno del suo stesso partito; la politica di Adenauer ricevette dure contestazioni anche dai socialdemocratici e da alcuni settori dell’opinione pubblica. Il primo passo in direzione dell’unità europea, realizzato fin dagli inizi degli anni Cinquanta secondo il piano del ministro degli Esteri francese Robert Schuman e il progetto concepito da Jean Monnet di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, o “Unione carbosiderurgica”), fu quindi accolto con favore e sostenuto da Adenauer. Già nel settembre 1949, quindi pochi mesi dopo la fondazione della Repubblica federale nel maggio di quello stesso anno, il primo cancelliere federale nel suo primo discorso di governo aveva affermato: «Non abbiamo dubbi sul fatto che, a partire dalle nostre origini e dal nostro modo di vedere le cose, apparteniamo all’Europa occidentale. Vogliamo intrattenere buoni rapporti, anche sul piano personale, con tutti i paesi, ma in particolare con i paesi vicini, i paesi del Benelux, la Francia, l’Italia, l’Inghilterra e i paesi nordici […]. Tutti questi interessi devono essere ricondotti all’interno di un assetto e di una concordanza che si possono trovare nel quadro di un’unione europea, alla quale auspichiamo di partecipare il prima possibile».

Ma non erano solo di natura politica gli obiettivi che la Repubblica federale si proponeva di perseguire con la politica di integrazione con l’Occidente; un altro obiettivo era quello di accelerare la riconversione dell’economia di guerra tedesca in un’economia di pace e di porre le basi per nuovi mercati di sbocco nei paesi europei. L’integrazione europea prometteva, dunque, di realizzare contestualmente diversi obiettivi politici ed economici; in particolare, l’idea di garantire, attraverso una più stretta cooperazione economica in Europa, la pace nel lungo termine trovò perfetta corrispondenza nell’obiettivo che l’amministrazione americana si proponeva di perseguire nel quadro del Piano Marshall.

I critici in Germania, tuttavia, vedevano nella politica di Adenauer il pericolo che un rigido e irrevocabile inserimento della Repubblica federale nelle strutture occidentali, come la CECA e poi la Comunità economica europea, potesse approfondire la divisione fra Est e Ovest. In particolare, il partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD), con il suo capo Kurt Schumacher, faceva parte del fronte degli avversari dichiarati dell’integrazione occidentale: respinse categoricamente la CECA e accusò Adenauer di tradimento politico nei confronti dell’unità tedesca, obiettivo che era stato, anch’esso, inserito nel testo della Legge fondamentale. Al contrario, per Adenauer l’unificazione europea era il primo passo da compiere se si voleva perseguire l’unità tedesca. Tra i critici della politica europea di Adenauer ci fu anche l’allora ministro dell’Economia e futuro cancelliere federale Ludwig Erhard. Il padre del “miracolo economico tedesco” temeva, infatti, che l’integrazione europea avrebbe potuto rappresentare un ostacolo all’affermazione dei principi dell’economia di mercato e del liberalismo economico. Ma Adenauer riuscì ad imporsi nei confronti dei suoi critici.

Uno dei capisaldi della politica europea tedesca è dato dall’esistenza di uno stretto rapporto di collaborazione con la Francia, percepito come particolarmente evidente all’epoca della politica di riconciliazione promossa da Adenauer e dal Presidente della Repubblica francese Charles de Gaulle. Ancora oggi – malgrado le crisi ricorrenti – la cooperazione con la Francia rappresenta un elemento essenziale della politica europea tedesca. L’obiettivo della politica francese era quello di vincolare in modo duraturo il suo vicino orientale, che aveva procurato più volte alla Francia grandi sofferenze con guerre e occupazioni, all’interno di strutture europee, per tenere sotto controllo in tal modo la potenza economica e politica della Germania. L’accordo dell’Eliseo del 1963 fu il primo passo in direzione di una stretta collaborazione bilaterale sul terreno della politica, dell’economia e della cultura (v. Trattato dell’Eliseo). Quest’accordo ha rappresentato anche in seguito la base del “motore” franco-tedesco, che è riuscito a dare sempre importanti impulsi all’integrazione europea.

I governi dei cancellieri Ludwig Erhard (Christlich demokratische Union Deutschlands, CDU), negli anni 1963-1966, e Kurt Georg Kiesinger (CDU), nel 1966-1969, proseguirono, in linea di massima, sulla via che era stata tracciata da Adenauer. Sotto Erhard, la politica europea tedesca subì, tuttavia, alcuni mutamenti: il padre del miracolo economico cercò di allentare il forte vincolo con la Francia e sostenne apertamente l’Allargamento della Comunità europea alla Gran Bretagna, contro cui si oppose, invece, duramente de Gaulle. Inoltre, Erhard si adoperò affinché l’economia tedesca, orientata alle esportazioni e dipendente dalle importazioni, guardasse oltre le opportunità offerte del mercato europeo, in un’ottica di libero scambio attuato su scala globale.

La prima grande coalizione, formata dalla CDU/CSU (Christlich-soziale Union in Bayern) e dall’SPD e guidata dal cancelliere Kiesinger (CDU), offrì all’allora ministro degli Esteri e futuro cancelliere Willy Brandt (SPD) l’opportunità di acquisire un profilo autonomo sul terreno della politica di integrazione europea; fu certamente lui l’uomo politico che in quegli anni incarnò, nell’opinione pubblica e sulla scena internazionale, gli obiettivi della politica europea tedesca, riuscendo a svilupparli sotto molti aspetti. Alla politica di riconciliazione con la Francia bisognava affiancare una politica orientata verso la normalizzazione dei rapporti con l’Est. La Ostpolitik, appoggiata anche da Kiesinger, ma legata soprattutto al nome di Brandt, non s’inscriveva nel solco della “via particolare” tedesca (Sonderweg), bensì venne perseguita nel quadro di uno stretto accordo con Washington e con i governi degli altri partner europei. In un intervento al Bundestag, nell’ottobre 1967, il ministro degli Esteri Brandt formulò in questi termini il suo progetto: «Lavoreremo con continuità allo sviluppo della Comunità economica europea e delle sue istituzioni. La comunità dei Sei dovrà essere aperta a tutti gli Stati europei che si riconoscono nei suoi obiettivi. In particolare, saluteremmo con favore la partecipazione della Gran Bretagna e di altri paesi […]» (cit. in Müller-Roschach, 1980, p. 182).

Per il cancelliere Kiesinger l’obiettivo prioritario era la mediazione fra Parigi, Londra e Washington. Anche gli spazi di manovra della politica europea tedesca risentirono, tuttavia, fortemente delle crisi europee che attraversarono tutti gli anni Sessanta. Sulle relazioni franco-tedesche gravarono, inoltre, i fallimenti dei piani per un’unione politica e la crisi monetaria dell’autunno 1968, quando le agitazioni del maggio francese portarono al ritiro dei capitali in Francia e a una rivalutazione del marco tedesco nei mercati valutari internazionali. Contemporaneamente, venne avvertita come sempre più evidente l’esigenza di un coordinamento della politica economica e di una collaborazione più stretta nella politica monetaria. Il progetto di un’Unione economica e monetaria europea venne inquadrato nel Piano Werner (v. Werner, Pierre).

Con i cancellierati di Willy Brandt e di Helmut Schmidt, la responsabilità della politica estera ed europea della Repubblica federale ricadde per la prima volta su due esponenti socialdemocratici. Brandt, apparso in un primo tempo come un visionario, diede insieme al successore di de Gaulle, Georges Pompidou, un importante impulso al Vertice europeo dell’Aia, nel dicembre 1969, al rilancio dei negoziati per l’allargamento della Comunità europea alla Gran Bretagna, per l’Approfondimento della collaborazione europea sul terreno della politica estera e della politica economica e monetaria e per le riforme degli organi della Comunità europea, nel quadro di nuova politica che era per la pace in Europa e orientata alla normalizzazione dei rapporti con l’Est. Il rapporto personale instauratosi tra Brandt e Pompidou conferì maggior peso politico alle iniziative franco-tedesche. Tuttavia, nonostante i rapporti di collaborazione, Bonn e Parigi registrarono anche divergenze sostanziali su alcune importanti questioni politiche, come, per esempio, sulle modalità di realizzazione dell’unione economica e monetaria.

Nel 1974 si verificarono contemporaneamente in Germania, Francia e Gran Bretagna importanti cambi di governo. A Bonn Willy Brandt fu sostituito con il capogruppo socialdemocratico al Bundestag Helmut Schmidt. A Parigi venne eletto il nuovo Presidente della Repubblica, Valéry Giscard D’Estaing, mentre a Londra Harold Wilson (partito laburista) succedette al conservatore Edward Heath nel ruolo di primo ministro. A differenza del 1969, quegli anni furono nuovamente segnati da crisi politiche ed economiche (crisi petrolifera). Schmidt optò, quindi, per un approccio molto pragmatico nella politica estera ed europea, che peraltro trovava corrispondenza nel suo particolare modo di pensare la politica. Dopo il raffreddamento dei rapporti con gli USA, Schmidt intensificò i suoi sforzi per una stretta cooperazione con la Francia. Con Schmidt e Giscard D’Estaing il “motore” franco-tedesco riprese a funzionare, determinando una serie di riforme importanti, dal passaggio alle Elezioni dirette del Parlamento europeo, all’istituzionalizzazione degli incontri al vertice dei capi di Stato e di governo (v. Vertici), con la nascita del Consiglio europeo, al varo del Sistema monetario europeo.

Anche Brandt e Schmidt portarono, dunque, avanti il corso integrazionista che era stato inaugurato da Adenauer, perseguendo la collaborazione in quei settori in cui fu possibile raggiungere il consenso con gli altri partner europei. Allo stesso modo, entrambi si mostrarono disponibili a fare concessioni per promuovere l’integrazione europea (fondi regionali, politica agricola). In particolare, la graduale creazione di una politica estera europea, sia pur segnata da continui contraccolpi, si deve in buona parte all’esperto economista Helmut Schmidt e alla stretta cooperazione con la Francia.

La coalizione social-liberale si sciolse nel 1982 da un lato a causa delle pressioni interne a cui Schmidt fu sottoposto in seguito alla sua decisione di avallare l’installazione degli euromissili in Germania (“doppia decisione” NATO), dall’altro a causa delle crescenti divergenze con i liberal-democratici (partito liberal-democratico) in materia di politica economica. Le elezioni del marzo 1983 ratificarono l’esito della sfiducia costruttiva che era stata promossa l’anno prima congiuntamente dai cristiano-democratici e dai liberaldemocratici ai danni del cancelliere Schmidt, segnando il ritorno al potere di un esponente della CDU, Helmut Kohl, il quale avrebbe dato la propria impronta alla politica europea fino al 1998. In un primo tempo, le condizioni della politica europea non apparivano favorevoli. Alla crisi europea (“eurosclerosi”) seguirono tuttavia una serie di iniziative, come l’iniziativa del Piano Genscher-Colombo del 1981, che porta i nomi del ministro tedesco degli Esteri (v. Genscher, Hans-Dietrich) e del suo collega italiano Emilio Colombo, il progetto per una costituzione europea (“Progetto Spinelli”) nel 1984 (v. Spinelli, Altiero) e l’ambizioso programma per il mercato interno del nuovo Presidente della Commissione europea, Jacques Delors, che con l’Atto unico europeo contribuirono alla prima grande Revisione dei Trattati istitutivi. Nella sua dichiarazione di governo del maggio 1983 Kohl annunciò che in politica europea si sarebbe ispirato al pragmatismo dei suoi predecessori, citando una celebre frase di Adenauer: «L’Europa è come un albero che cresce, ma non può essere costruita». Nei suoi primi anni di governo Kohl riportò in primo piano, almeno nella retorica dei suoi discorsi, anche la prospettiva degli “Stati Uniti d’Europa”. All’inizio degli anni Novanta questo obiettivo perse progressivamente d’importanza, fino a scomparire del tutto dal programma politico della CDU. Kohl motivò questo passo, affermando che attorno a questo obiettivo non era possibile ottenere il consenso né dalla Gran Bretagna né dai paesi scandinavi.

Con la caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, la politica europea del governo Kohl fu messa a dura prova. I sempre più frequenti appelli all’unità tedesca – nella DDR i dimostranti gridavano “Noi siamo un popolo!” – suscitarono grande scetticismo e preoccupazione presso gli altri paesi della Comunità europea. Soprattutto Francia, Gran Bretagna e Italia temevano che una Germania unita, politicamente ed economicamente più grande, avrebbe potuto decidere di emanciparsi dai vincoli europei e imboccare una “via particolare” (Sonderweg). I vertici preparatori alle Conferenze intergovernative di Maastricht, che avvenivano parallelamente alla rivoluzione politica nella DDR, offrirono a Kohl e Genscher l’opportunità di rafforzare l’orientamento europeista della Germania. Kohl si impegnò per l’approfondimento dell’integrazione europea e la realizzazione di un’unione economica e monetaria. L’abbandono del marco forte per una valuta comune europea non fu rilevante solo sul versante economico, ma anche e soprattutto per i suoi risvolti politici.

Dopo alcune esitazioni iniziali, il governo federale guidato da Kohl fu, inoltre, tra i più accesi sostenitori dell’allargamento a Est dellʼUnione europea. Le responsabilità storiche della Germania e la prospettiva di importanti vantaggi economici con i paesi vicini ad est ebbero un peso decisivo. Negli anni Novanta si pose, pertanto, anche la questione di come conciliare la politica dell’allargamento con quella dell’approfondimento. Al riguardo, due esponenti di punta del gruppo parlamentare CDU/CSU, Wolfgang Schäuble e Karl Lamers, avanzarono, nel settembre 1994, la proposta di creare in Europa un “Nocciolo duro” (Kerneuropa), formato dai paesi politicamente ed economicamente più avanzati. Il fatto che i due promotori dell’iniziativa ritenessero prematura la partecipazione dell’Italia alla terza fase del progetto per un’unione economica e monetaria ha generato alcune tensioni nei rapporti italo-tedeschi, risvegliando peraltro il timore di una Germania dominante.

Un altro aspetto caratterizzante la politica europea nell’era Kohl sono state le frequenti critiche sollevate dai Länder e supportate, in particolare, dal gemello bavarese della CDU, la CSU. Nel corso delle trattative di Maastricht (v. Trattato di Maastricht), nel dibattito tedesco è affiorato il concetto di Principio di sussidiarietà, che è stato considerato come uno strumento contro la presunta “smania di regolamenti” di Buxelles. D’altra parte, l’abolizione del marco tedesco, che per molti cittadini e cittadine aveva rappresentato una sorta di identità di riserva, non trovò grande sostegno nemmeno tra la popolazione. Le critiche dell’opinione pubblica non ebbero tuttavia l’effetto di far cambiare idea a Kohl e al suo ministro delle Finanze Theo Waigel (CSU), i quali rimasero fedeli al loro progetto. L’obiettivo prefissato era quello di fare dell’Euro una moneta forte come il marco. Il tentativo del governo Kohl di affiancare all’unione economica e monetaria anche un’unione politica naufragò, invece, dinanzi all’opposizione degli altri Stati membri. Anche nella successiva conferenza governativa, che portò al Trattato di Amsterdam (1997), il governo federale si impegnò attivamente per promuovere le riforme istituzionali. Quando Kohl fu costretto in seguito alla sconfitta elettorale del 1998 a cedere la sua carica a Gerhard Schröder (SPD), tutti gli osservatori politici furono concordi nell’affermare che Kohl sarebbe passato alla storia come il cancelliere che era riuscito a coniugare l’unificazione tedesca con l’approfondimento dell’integrazione europea. Come riconoscimento per il suo operato europeo, Kohl ha ottenuto il titolo di “cittadino onorario d’Europa”, un premio che, prima di allora, era stato assegnato solo a Jean Monnet.

Con Gerhard Schröder (nato nel 1944) saliva al potere il primo cancelliere di una generazione che non aveva una memoria personale della Seconda guerra mondiale. Mentre nella retorica di Kohl l’idea dell’Unione europea come comunità di pace aveva sempre avuto un ruolo di primo piano, con Schröder la politica europea venne discussa anche sotto l’aspetto dei costi e dei benefici. Per Schröder l’articolazione degli “interessi nazionali” anche nella politica europea s’inseriva all’interno di un tentativo di «normalizzazione» del paese, nel corso del quale le responsabilità storiche della Germania per la costruzione europea passarono in secondo piano. Solo poco tempo dopo l’inizio del suo cancellierato, dal 1° gennaio 1999, il leader della SPD si era trovato a gestire, insieme al ministro degli Esteri Joschka Fischer del partito Bündnis 90/Die Grünen (Alleanza 90 – I Verdi), la presidenza del semestre europeo. Le difficili trattative per l’“Agenda 2000”, la crisi del Kosovo e le dimissioni della Commissione europea guidata da Jacques Santer misero alla prova il ruolo di “onesto sensale” del governo federale. Negli anni seguenti Schröder e Fischer caldeggiarono un ulteriore sviluppo della politica di sicurezza e di difesa europea (v. Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa). Allo stesso modo, il governo federale rosso-verde – soprattutto grazie all’iniziativa del ministro degli Esteri Fischer – si adoperò per il progetto per una “Costituzione” europea. In particolare, con il suo celebre discorso alla Università Humboldt nel maggio 2000 Fischer diede di fatto avvio a quel più ampio dibattito sulla Costituzione per l’Unione europea che si sarebbe sviluppato in modo dinamico negli anni successivi, rilanciando il tema della federazione europea. Anche l’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea fu portata avanti con il sostegno del governo tedesco. La presidenza della Commissione incaricata di elaborare la Carta dei diritti era stata, peraltro, assegnata a un tedesco, all’ex Presidente della Repubblica Federale Tedesca Roman Herzog. La Carta venne poi ufficialmente approvata nel dicembre 2000 con la solenne dichiarazione di Nizza, il cui summit, tuttavia, non portò alle riforme che sarebbero state necessarie a fronte dell’imminente allargamento a Est. Può comunque essere considerato un successo del governo tedesco il fatto che con la dichiarazione sul “Futuro dell’Unione europea” venne delineata la tappa successiva del dibattito sulla Costituzione (v. Costituzione europea).

A partire dalla fine degli anni Novanta, il governo federale fu in grado di affermare con successo i propri interessi in tutte le questioni rilevanti dell’agenda politica. Al riguardo, soprattutto la nuova disponibilità a impegnarsi anche militarmente nel quadro dell’Unione europea con gli altri Stati membri fu criticata dall’opinione pubblica tedesca. Il governo federale Schröder/Fischer, oltre a sostenere con forza la politica dell’allargamento a Est dell’Unione europea, fu una delle forze trainanti che in Europa si impegnarono per accelerare l’ingresso della Turchia nell’Unione europea. In altri ambiti, però, come la giustizia e la politica interna, la Germania di Schröder assunse un atteggiamento di prudenza, se non addirittura di opposizione nei confronti di una maggiore integrazione. Soprattutto i Länder tedeschi manifestarono la loro preoccupazione che un’ulteriore integrazione nelle materie di loro competenza avrebbe potuto limitare fortemente il loro spazio di manovra. Per Schröder la politica europea non assunse mai il valore di “affare privilegiato”; tuttavia, nel corso del suo cancellierato Schröder finì per abbandonare l’iniziale retorica euroscettica e per promuovere un corso di politica europea in linea con quella dei suoi predecessori.

In seguito al cambio di governo del settembre 2005 che ha portato al potere Angela Merkel (CDU), le opportunità della politica europea tedesca hanno subito un cambiamento. Nella seconda Grande coalizione, con la Merkel come cancelliera e Frank-Walter Steinmeier (SPD) come ministro degli Esteri e vicecancelliere, la gestione della politica europea tedesca è stata affidata a due figure di importanza politica quasi eguale. Fin dall’inizio la Merkel si è adoperata, riscuotendo tra l’altro un certo successo, per un maggior coinvolgimento dei paesi europei più piccoli. D’altro canto, per rilanciare il progetto della costituzione dopo la bocciatura del referendum in Francia e nei Paesi Bassi nell’estate 2005, era necessario un ampio consenso. L’obiettivo del rilancio del dibattito costituzionale ha, di fatto, consentito al governo tedesco di assumere di nuovo il suo tradizionale ruolo guida all’interno dell’Unione europea.

In particolare, durante la presidenza tedesca del semestre europeo nel 2007 (v. Presidenza dell’Unione europea) sono stati ottenuti importanti risultati, come, per esempio, nella Politica europea di vicinato, della Giustizia e affari interni. Il salvataggio del progetto di riforma, che molti consideravano già affossato, è stato dunque anche e soprattutto il frutto di una lungimirante politica di mediazione, attraverso la quale la Merkel è riuscita a coinvolgere, impegnandoli, tutti gli altri partner europei. Con la “Dichiarazione di Berlino” in occasione delle celebrazioni per i cinquant’anni della firma dei Trattati di Roma il governo federale ha, quindi, aperto la strada al Trattato di Lisbona che sarebbe stato firmato nel dicembre 2007. In questa prospettiva, con il suo intervento nel processo costituzionale la Merkel ha, di fatto, già acquisito importanti riconoscimenti sul terreno della politica europea. Le divergenze con il ministro degli Esteri Steinmeier sono state, peraltro, poco rilevanti; eccezione fatta per la questione dell’allargamento dell’UE alla Turchia. Steinmeier ha portato avanti la politica schröderiana di sostegno all’ingresso dei turchi, mentre la Merkel, come presidente della CDU, si è schierata insieme al Presidente francese Nicolas Sarkozy per una soluzione meno impegnativa nel quadro di una eventuale “partnership privilegiata” fra UE e Turchia, e ciò nonostante gli accordi di coalizione costringano la cancelliera a una posizione di supporto alla candidatura della Turchia. Durante la sua prima esperienza di governo (2005-2009) la cancelliera Merkel ha assunto sulla politica europea un controllo maggiore di quanto riuscirono a fare i suoi due predecessori. Kohl e Schröder ebbero, d’altro canto, come ministri degli Esteri due uomini politici, Hans-Dietrich Genscher e Joschka Fischer, molto intraprendenti e smaniosi di codeterminare la politica europea tedesca. La seconda Grande coalizione, pur senza esprimere grandi visioni, è riuscita a partire da alcuni progetti concreti a dare maggior risonanza al tema dell’Europa presso l’opinione pubblica.

Attori e istituzioni della politica europea tedesca

Sull’organizzazione e lo sviluppo della politica europea influiscono in modo significativo le principali caratteristiche del sistema politico in Germania: tra queste, l’assetto federale dello Stato e la collegata logica competitiva tra Bund e Länder; una cultura politica basata sul consenso e il compromesso, tipica delle “democrazie consensuali”; la posizione forte dei singoli ministeri, costituzionalmente garantita dal cosiddetto “principio di competenza”; infine, un sistema di governo di norma basato su governi di coalizione – formati da un grande partito e un “junior partner” o, nel caso della Grande coalizione, da due partner e concorrenti politici di peso quasi uguale. A partire dagli anni Novanta in Germania è stata avviata una più ampia discussione sull’opportunità di riformare il sistema di coordinamento della politica europea. Secondo i critici, l’importanza politica ed economica della Germania non troverebbe effettiva corrispondenza nella posizione espressa dal governo federale nelle trattative a Bruxelles. Francia e Gran Bretagna, quest’ultima in particolare, vengono considerate come assai più efficaci nell’imporre i rispettivi interessi nazionali. Questo è quanto è emerso da un sondaggio sottoposto alle lobby tedesche di Bruxelles nel 2006: alla domanda «qual è il paese che riesce a tutelare meglio i propri interessi politici in Europa?», circa il 70% dei 350 intervistati ha indicato la Gran Bretagna, il 67% la Francia e solo il 20% la Germania. Alla stessa conclusione conduce uno studio presentato alla fine degli anni Novanta dalla Fondazione Bertelsmann: «il governo tedesco nella quotidianità della politica europea […] compete in una categoria che è al di sotto di quella a cui potrebbe realmente aspirare» (v. Bulmer et al., 1998, p. 99). La causa, sostengono gli autori dell’analisi, risiederebbe in talune debolezze organizzative che si riscontrano nel coordinamento della politica europea tedesca. Tra le ragioni, si annoverano la scarsa comunicazione fra i funzionari dei vari ministeri coinvolti, la tendenza ad accordare la priorità agli interessi settoriali dei singoli ministeri, a discapito della possibilità per il governo federale di esprimere una posizione unitaria; la scarsa trasparenza nella ripartizione delle responsabilità politiche tra cancelleria, ministero degli Esteri e ministero dell’Economia. Soprattutto le continue controversie interministeriali sulle competenze, la compresenza di più interlocutori tedeschi nelle varie sedi, a Berlino e nelle istituzioni europee, e un’attività negoziale condotta su più piani paralleli e scarsamente coordinata impedirebbero ai rappresentanti permanenti a Bruxelles di praticare un’azione di Lobbying mirata ed efficace. Ad aggravare i problemi di coordinamento della politica europea tedesca, sempre secondo i critici, avrebbe inoltre contribuito il tentativo dei Länder tedeschi, a partire dagli anni Novanta, di accreditarsi come attori coprotagonisti della politica europea tedesca. Sul piano storico, il problema della ripartizione dei compiti in materia di politica europea si pose, in realtà, sin dai primi anni Cinquanta. Più precisamente, bisogna risalire alla disputa fra il cancelliere Konrad Adenauer, che fino al 1955 esercitò in unione personale anche la carica di ministro degli Esteri, e il ministro dell’Economia Ludwig Erhard. Entrambi lasciarono il segno sulle trattative che nel 1951 approdarono alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio e nel 1957 ai Trattati di Roma. Già allora, però, la politica europea assunse il significato di “pomo della discordia” tra il ministero degli Esteri e il ministero dell’Economia. In particolare, quest’ultimo, a differenza del primo, avrebbe preferito un’area di libero scambio allargata alla più ristretta soluzione del MEC; un’impostazione che, d’altra parte, mal si conciliava con l’integrazione politica perseguita da Adenauer. Per superare il dissidio su chi avesse il diritto all’ultima parola in materia di politica europea, con un provvedimento regolamentare venne stabilito, che nella “democrazia del cancelliere” anche la facoltà di determinare gli obiettivi e le linee direttive sul terreno della politica europea dovesse spettare al capo dell’esecutivo. D’altra parte, la forte impronta economica della CECA e della CEE ha fatto sì che al ministero dell’Economia venisse comunque riconosciuto un ruolo importante nella gestione dell’amministrazione ordinaria. Al ministero degli Esteri venne, invece, assegnato il compito di elaborare i disegni strategici della politica d’integrazione europea della Repubblica federale.

Nei decenni successivi questa divisione del lavoro fra i vari ministeri avrebbe, tuttavia, rivelato anche le sue debolezze. In particolare, la sua funzionalità è stata messa a dura prova dalla progressiva europeizzazione dei singoli settori di competenza – processo che ha subito un’accelerazione a partire dagli anni Ottanta in seguito agli ulteriori trasferimenti di sovranità decisi con l’Atto unico europeo (1987) e soprattutto con il Trattato di Maastricht (1993). Mentre i ministeri svilupparono solo gradualmente, nel corso degli anni Novanta, una propria competenza europea, istituendo dipartimenti ad hoc e canali diretti con Bruxelles, il dipartimento europeo del ministero dell’Economia (Dipartimento E) costituì ancora fino agli anni Ottanta il principale organo di coordinamento, da cui originavano le direttive per i rappresentanti permanenti a Bruxelles. Solo con il Trattato di Maastricht il ministero degli Esteri ha potuto accrescere il proprio peso politico, istituendo un suo dipartimento europeo. L’ampiezza dei temi che sono stati racchiusi nel Trattato di Maastricht ha rafforzato il ministero degli Esteri nella sua funzione di coordinamento generale della politica europea; anche perché, a eccezione della politica estera e della politica di sicurezza europee, per sua impostazione l’Auswärtiges Amt non persegue interessi di settore.

Nel corso degli anni è cambiato relativamente poco in quest’organizzazione della politica europea. Solo con l’avvento al potere della coalizione di governo rosso-verde nel 1998 è stata finalmente riformata la divisione del lavoro in vigore da decenni fra ministero delle Finanze e ministero dell’Economia. Più precisamente, il ministero dell’Economia, per iniziativa del designato ministro delle Finanze Oskar Lafontaine (SPD), ha dovuto rinunciare alla sua funzione di coordinamento sulle questioni di politica finanziaria. Tuttavia, nel quadro delle trattative per la formazione della coalizione dopo le elezioni federali del 2005, su impulso del “superministro” designato Edmund Stoiber (CSU), le competenze per le questioni fondamentali della politica europea sono state nuovamente assunte dal ministero dell’Economia; una decisione questa che ha provocato un violento scontro politico fra le parti interessate. Con questa nuova regolamentazione veniva ripristinato lo status quo ante, ovvero il sistema che era stato in vigore per quattro decenni fino al 1998. Dal ministero delle Finanze sono state riportate al ministero dell’Economia e della tecnologia le seguenti competenze: il coordinamento della politica europea (a eccezione dell’ECOFIN), e, in particolare, il compito di dettare le disposizioni al Comitato dei rappresentanti permanenti, la gestione della politica strutturale, dei Fondi di coesione UE e delle Reti transeuropee, l’attuazione della Strategia di Lisbona, le questioni riguardanti la rappresentanza della Repubblica Federale Tedesca di fronte alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e la politica di controllo delle sovvenzioni. La rivalutazione del ministero dell’Economia in rapporto alla politica europea è stata mantenuta dal governo di Grande coalizione guidato da Angela Merkel (dal 2005) anche dopo il ritiro di Stoiber in Baviera.

Tutti i cancellieri che si sono succeduti dal 1949 in poi – e la cancelliera Merkel non costituisce un’eccezione – hanno sviluppato uno spiccato interesse per la politica europea, anche perché in quest’ambito si aprivano spazi di manovra politica non soggetti ai condizionamenti della politica interna. Questo ha portato a un accrescimento del ruolo dell’ufficio della cancelleria, soprattutto per quanto riguarda la preparazione degli incontri al vertice tra i capi di stato e di governo e la gestione dei dossier più rilevanti in seno al Consiglio Europeo.

Coordinamento fra i ministeri

Il coordinamento delle Competenze segue il principio del bottom up, per cui le posizioni rispetto alle singole iniziative europee vengono definite a un livello possibilmente basso della gerarchia ministeriale. Solo in caso di conflitto fra i ministeri intervengono i vertici dei vari settori. Tre organi svolgono un ruolo importante in questo coordinamento interministeriale. Il cosiddetto “comitato del martedì” è quello che si riunisce più spesso. Vi prendono parte i capi dei dipartimenti che si occupano di affari europei allo scopo di definire le politiche che vengono poi comunicate ai rappresentanti permanenti a Bruxelles. All’interno dei comitati dei rappresentanti permanenti vengono poi affrontati i vari dossier, lasciando al Consiglio dei ministri l’incombenza di risolvere solo le questioni più spinose sulle quali non è stato possibile raggiungere un accordo.

All’inizio degli anni Settanta, accanto al “comitato del martedì”, è stato istituito un altro organo che riunisce una o due volte al mese i direttori degli uffici europei che fanno capo ai vari ministeri. Inoltre, sin dal 1963 si riunisce sotto la presidenza del ministero degli Esteri, anche qui con cadenza mensile, il comitato dei segretari di Stato per gli affari europei, alle cui riunioni prende parte anche il rappresentante permanente a Bruxelles. Questi incontri servono a risolvere e a ricomporre le eventuali divergenze politiche emerse tra i vari ministeri. L’iniziale carattere esclusivo rendeva possibile trovare un accordo all’interno di una piccola cerchia, ma quest’opportunità si è persa con l’ampliarsi delle competenze della UE in seguito al Trattato di Maastricht agli inizi degli anni Novanta. Oggi questa cerchia è estesa a tutti i ministeri. Solo se all’interno di questa cerchia non si riesce a trovare un accordo, di norma viene coinvolto il gabinetto come ultimo organo arbitrale. Nei governi di coalizione un cancelliere o una cancelliera ricorrono solo in casi eccezionali al potere di indirizzo politico per risolvere i conflitti pendenti; nella prassi, tuttavia, è sufficiente minacciare questo ricorso perché i ministri contendenti decidano di ricomporre le divergenze. A partire dall’allargamento a Est, avvenuto fra il 2004 e il 2007, si nota in tutti i paesi grandi della UE che la politica europea è sempre più soggetta a un controllo diretto da parte dei principali centri decisionali. In tal senso, anche in Germania l’ufficio della cancelleria ha assunto un ruolo sempre più importante nella determinazione della politica europea.

I Länder e il Consiglio federale nella politica europea

Fin dall’inizio la collaborazione in Europa è stata considerata dai Länder tedeschi sia come un’opportunità che come una possibile minaccia per i loro interessi particolari, se non altro per l’articolo della Costituzione che riconosceva alla federazione (art. 24 c. 1) il diritto di trasferire sfere di competenza nazionali a livello europeo. Questa circostanza, già negli anni Cinquanta, aveva indotto l’allora presidente del Nordrhein-Westfalen, Karl Arnold, ad ammonire che i Länder tedeschi nel quadro dell’integrazione europea avrebbero potuto essere «ridotti a semplici unità amministrative». Questa preoccupazione ha segnato l’atteggiamento dei Länder tedeschi nei confronti del Bund e di Bruxelles fino a oggi e spiega la diffidenza sempre presente fra centro e periferia sulle questioni di politica europea. Nel corso delle riforme realizzate dai trattati, Bund e Länder sembrano essersi accordati sul fatto che le diverse forme di cooperazione devono, da un lato, ridurre al minimo i conflitti politici negli affari di ordinaria amministrazione e, dall’altro, impedire uno “svuotamento” del federalismo tedesco.

Per tutelare la loro statualità, i Länder hanno adottato una logica basata sul principio della compensazione: la federazione può trasferire competenze che appartengono ai Länder (per esempio nell’ambito dell’istruzione, della ricerca e della politica culturale) alla sfera europea, a condizione che questa perdita di potere venga compensata da un maggior coinvolgimento dei Länder nelle sedi in cui vengono prese le decisioni in materia di politica europea. In seguito alle riforme dei trattati europei e alla correlata estensione delle competenze della Comunità europea sono state sviluppate numerose procedure che consentono ai Länder di svolgere, attraverso il Bundesrat, un ruolo più incisvo sulla politica europea. Questo sistema che riconosce ai Länder maggiori diritti sul piano dell’informazione e di intervento nelle sedi decisionali è stato poi perfezionato con la ratifica del Trattato di Maastricht. Dato che il trattato dell’Unione doveva essere ratificato con una maggioranza dei due terzi non solo dalla Camera dei deputati, ma anche dai Länder, rappresentati al Senato federale, questi ultimi ebbero buon gioco nel far valere i propri interessi, minacciando di far naufragare la ratifica del trattato al Bundesrat. L’“articolo europeo” (articolo 23 della Costituzione), creato ex novo nel 1993, doveva servire a stabilire un modus vivendi duraturo nel rapporto tra federazione e Länder.

Il prolisso “articolo europeo” riconosce – analogamente a quanto avviene sul piano interno nella ripartizione delle competenze – diversi diritti di codecisione al Bundesrat. La cosiddetta “legge sulla cooperazione tra federazione e Länder negli affari dell’Unione europea (EUZBLG)”, del 12 marzo 1993, dà attuazione alla procedura definita in base all’articolo 23 della Costituzione. Questo articolo “europeo” è frutto di quella prassi molto diffusa in Germania volta a risolvere i conflitti politici per vie burocratiche. Che quest’obiettivo si possa conseguire solo in modo limitato è dimostrato dalle violente controversie politiche tra federazione e Länder che sono emerse in seguito al dibattito più recente sulla riforma del federalismo (fra il 2003 e il 2006). I Länder, rispetto ad altre regioni europee, hanno buone possibilità di far valere i propri interessi nei confronti del governo federale, ma anche dell’Unione europea. Il Bundesrat, come Camera dei Länder, svolge infatti un ruolo centrale nell’implementazione del Diritto comunitario, al punto che la sua esperienza amministrativa è determinante affinché l’applicazione del diritto comunitario si realizzi senza difficoltà ed esitazioni.

Il Parlamento federale tedesco nella politica europea

Come il Bundesrat, anche il Bundestag in seguito alla ratifica del Trattato di Maastricht del 1993 ha conosciuto una rivalutazione del suo ruolo nell’ambito della politica europea. Tuttavia, è apparso chiaro fin dall’inizio che, per ragioni strutturali, i poteri di controllo della Camera dei deputati sarebbero stati più limitati di quelli del Bundesrat. Salvo poche eccezioni, nei sistemi parlamentari i governi federali possono, infatti, generalmente fare affidamento sui “loro” deputati rappresentati nei rispettivi gruppi parlamentari. Con l’integrazione europea e il trasferimento di alcuni ambiti di competenza, tuttavia, il parlamento federale ha subito una importante trasformazione, nel senso di una progressiva “europeizzazione” del suo lavoro. Due cifre possono illustrare questo cambiamento: a fronte dei 224 provvedimenti europei esaminati dal Bundestag durante la legislatura 1961-1965, nel periodo tra il 1998 e il 2001 il numero è salito a 2131. Tuttavia, malgrado la crescente professionalizzazione dell’amministrazione e l’introduzione di comitati ad hoc, non sempre è possibile per il parlamento nazionale esercitare la sua classica funzione di controllo nei confronti dell’esecutivo sui temi di politica europea. I nuovi regolamenti stabiliti nel 2006, così come l’apertura di un ufficio del Bundestag a Bruxelles nel marzo 2007, possono sopperire solo in parte a questi limiti strutturali. Se il parlamento federale riuscirà a sfruttare le nuove possibilità per migliorare la propria capacità di controllo sulla politica europea del governo, la politica europea risulterà nel complesso più trasparente anche agli occhi dell’opinione pubblica. Con la sentenza del 30 giugno 2009, il Tribunale costituzionale federale ha al riguardo chiarito che Bundestag e Bundesrat sono costituzionalmente tenuti a legittimare la democraticità delle decisioni europee garantendo un effettivo controllo parlamentare.

La Corte costituzionale federale

A partire dagli anni Settanta anche la Corte costituzionale federale di Karlsruhe, attraverso una serie di sentenze, ha influenzato la politica europea. In particolare, con le sentenze Solange I (1974) e Solange II (1986) venne affrontata la questione della tutela dei diritti fondamentali. Con le sentenze formulate a ridosso della firma del Trattato di Maastricht (1993) e del Trattato di Lisbona (2009) la Corte costituzionale federale si è invece pronunciato su un problema di compatibilità tra le leggi che approvano i trattati e l’esercizio da parte del parlamento della sua funzione di legittimazione e di controllo dell’esecutivo. In entrambi i casi la suprema corte tedesca ha dichiarato la compatibilità dei Trattati della UE con la Costituzione tedesca, ma altresì imposto delle condizioni (per esempio con la sentenza riguardante il Mandato d’arresto europeo), invitando il legislatore tedesco a prendere le misure necessarie per garantire i principi di democrazia e di legittimità nel contesto della politica di integrazione europea. La Corte costituzionale federale ha espresso una posizione molto forte, soprattutto se valutata nel confronto internazionale, e lasciato intendere che tale posizione non potrà essere modificata nemmeno dalle tappe successive dell’integrazione. Nella prassi, dagli anni Novanta in poi tra la Corte costituzionale tedesca e la Corte europea di giustizia di Lussemburgo si è sviluppato uno stretto e proficuo rapporto di collaborazione informale.

Media, opinione pubblica e partiti

I media tedeschi (giornali, riviste, televisioni, radio e Internet) esprimono prevalentemente orientamenti favorevoli all’Europa e all’integrazione europea. I grandi quotidiani a diffusione nazionale come la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e la “Süddeutsche Zeitung” riferiscono ogni giorno in modo esauriente e attendibile sulla politica nell’Unione europea. Il numero di corrispondenti a Bruxelles delle principali redazioni è addirittura aumentato negli ultimi anni. Gli speciali dedicati all’Europa, tuttavia, vengono solitamente mandati in onda fuori del prime time. Anche tra la popolazione si registra un consenso molto diffuso attorno all’Unione europea e alle sue politiche. Nel periodo compreso fra il 1985 e il 2005, tra il 40% e il 70% dei tedeschi ha dichiarato che l’appartenenza della Germania alla Comunità europea è “un fatto positivo”. Dagli anni Novanta, come d’altronde è accaduto anche in altri paesi europei, si è registrato, invece, un calo di consensi. Dopo la Seconda guerra mondiale l’integrazione europea ha rappresentato per i tedeschi occidentali una sorta di identità di riserva e così anche l’obiettivo degli “Stati Uniti d’Europa” è stato appoggiato dalla maggioranza dei tedeschi. Molto meno popolare è stata invece l’introduzione dell’euro. Su questo tema si è sviluppato un ampio dibattito pubblico a partire dal quale sono state mosse anche molte critiche al governo Kohl. A eccezione del “Bund freier Bürger-Offensive für Deutschland”, una formazione politica nata nel 1994 e votata a contrastare il Trattato di Maastricht e, in particolare, l’introduzione dell’euro, nessun altro partito si è schierato sul fronte antieuropeo. Lo stesso “Bund freier Bürger-Offensive für Deutschland” si sarebbe poi sciolto nel 2000. I grandi partiti popolari CDU e SPD si considerano come partiti europei ed europeisti; soprattutto la CDU, sulla scia della tradizione inaugurata da Adenauer e portata avanti da Kohl, si presenta come il partito europeista più rappresentativo. Anche la SPD, dopo la dura opposizione alla politica di integrazione e l’uscita di scena di Kurt Schumacher, ha finito gradualmente per sostenere la costruzione europea. Così anche il partito dei Verdi e i liberaldemocratici (Freie demokratische Partei, FDP) nei loro programmi perseguono obiettivi sul terreno della politica europea, che non si discostano in maniera sostanziale da quelli degli altri partiti. Solo il partito della Linke (Sinistra) e la CSU, il partito bavarese gemello della CDU, si sono mostrati spesso euroscettici, rispecchiando lo scetticismo presente nell’opinione pubblica nei confronti, per esempio, dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea o di un ulteriore sviluppo incontrollato dell’integrazione.

Collaborazione fra Germania e Italia nella politica europea

Fin dall’inizio, la collaborazione fra Italia e Germania è stata un elemento di propulsione della politica di integrazione europea. Pur non raggiungendo i livelli della cooperazione franco-tedesca, fin dai tempi di Konrad Adenauer e Alcide de Gasperi Germania e Italia, entrambi paesi a vocazione europeista, hanno espresso una particolare sintonia sul piano della politica europea, da cui sono originate anche importanti iniziative comuni. Il progetto italo-tedesco più importante è rappresentato dal Piano Genscher-Colombo, promosso nel 1981 su iniziativa dei ministri degli Esteri tedesco e italiano. Il suo obiettivo consisteva nel dare nuovo impulso al processo di integrazione europea che stava attraversando una fase di crisi: al centro del progetto vi erano il rafforzamento della collaborazione politica europea e dell’integrazione economica e le riforme istituzionali. L’iniziativa approdò poi a una Dichiarazione congiunta per la realizzazione dell’Unione europea. Nel periodo successivo non sono stati più realizzati progetti analoghi; sul piano operativo, però, la cooperazione tra i due governi non è mai venuta meno. Nell’ottobre 2004 il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il cancelliere Schröder hanno celebrato il 25° anniversario delle consultazioni governative italo-tedesche. Sotto il governo Berlusconi, la politica estera italiana si è orientata maggiormente in direzione degli USA e della Russia, il che ha fatto sì che le relazioni italo-tedesche perdessero di importanza.

Martin Große Hüttmann (2012)