Giovanni XXIII

La storia di Roncalli (Sotto il Monte 1881-Città del Vaticano 1963), papa nel 1958 con il nome di Giovanni XXIII, è nota e studiata. Infatti, dal momento della sua elezione, ci si è interrogati sulla vicenda che preparò quello che è stato chiamato il “mistero” Roncalli. Chi era quest’uomo che sembrava incarnare una svolta nella più antica istituzione europea? Giovanni XXIII, eletto papa all’età di 79 anni, convocò, solo novanta giorni dopo la sua elezione, il Concilio. Non se ne teneva uno da quasi un secolo (il Vaticano I); ma per andare a un Concilio veramente incisivo nel cattolicesimo bisogna risalire a quattrocento anni prima, a quello di Trento. Qualcuno, in modo affrettato o entusiasta, ha paragonato il Vaticano II a una rivoluzione nella Chiesa. Ma R. era l’uomo delle rivoluzioni? Così si è tentato di ricostruire la sua storia anche sulla scorta della vasta documentazione lasciata dal papa e in gran parte accessibile (fatto unico per i pontefici del XX secolo).

Da parte sua Giovanni XXIII ha tenuto sempre viva una riflessione sulla sua esistenza, lasciando appunti spirituali e un vasto corpo di agende annotate che abbracciano tanta parte della sua vita (oggi in corso di pubblicazione a cura dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna). Infine il suo segretario particolare, il prete veneziano Loris Capovilla, è intervenuto puntualmente, non solo offrendo documentazione, ma tenendo viva la memoria del papa e segnalando alcune interpretazioni sul suo operato. Insomma di questo papa si sa molto più dei suoi predecessori.

Il pontificato di Giovanni XXIII è breve: dura dal 28 ottobre 1958 al 3 giugno 1963, nemmeno cinque anni. La sua incisività è notevole, tanto che viene a rappresentare un luogo importante per comprendere lo sviluppo del cattolicesimo del Novecento. L’elezione del cardinale R., fatta da un collegio cardinalizio anziano e a ranghi ridotti, nonostante fosse prevista da varie diplomazie (tra cui soprattutto quella francese che lo stimava), è quella di un candidato di mediazione e di transizione, anche in considerazione dell’età avanzata. Viene preferito all’armeno (ma molto romanizzato), cardinale Gregorio Pietro Agagianian, nato nel Caucaso e orientale, cardinale di Curia, che sarebbe stato il primo papa non italiano dopo tanti secoli. R. non è un uomo di Curia, in una stagione in cui la Curia romana non gode di tanto prestigio, come si vede dalla consultazione ai vescovi in vista del Vaticano II (realtà di cui lo stesso gruppo curiale è consapevole). R. è un vescovo residenziale italiano, patriarca di Venezia, cattedra a cui è stato nominato da Pio XII nel 1953: rappresenta una figura bonaria e pastorale che può realizzare una delicata transizione da un pontificato teso, “profetico”, in tempi difficili, come quello di Pio XII.

Ma R. non era solo un “pastore”. Egli aveva alle sue spalle una carriera diplomatica: dal 1925 al 1953, prima in Bulgaria, poi ad Istanbul con l’incarico anche della Grecia (due sedi piuttosto periferiche, dove il delegato del papa non aveva carattere diplomatico), infine come nunzio nella prestigiosa sede di Parigi. La sua formazione peraltro non era stata diplomatica. Nato nel 1881 in un’umile famiglia contadina di Sotto il Monte, in provincia di Bergamo (si può ancora visitare la sua casa natale in un paese che, ormai, è divenuto un santuario e luogo memoriale della figura del papa, proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 2000), R. entrò in seminario a Bergamo e successivamente compì gli studi a Roma, dal 1901 al 1904 (con l’intervallo del servizio militare tra il 1901 e il 1902). Ordinato prete nel 1904 (assistito anche dal condiscepolo Ernesto Buonaiuti, personalità marcante del modernismo romano), nel 1904 veniva chiamato a Bergamo come segretario del vescovo Giacomo Radini Tedeschi, con cui restò sino alla morte di questi. Fu un periodo denso, accanto a una delle figure più notevoli dell’episcopato italiano, liberale e conciliatorista, vicino al cardinale Andrea Carlo Ferrari di Milano, non in linea con la severa politica antimodernista di Pio X.

Il giovane R., dal 1915 al 1918, prestò servizio militare in sanità e poi come cappellano militare, condividendo la vita dei soldati in tempo di guerra; smobilitato, operò nella pastorale diocesana fino al 1920, fondando la casa dello studente, e fu direttore spirituale del seminario, per passare a Roma nel 1920. Qui fu presidente della commissione italiana per la propagazione della fede, con il compito di coordinare la raccolta dei fondi per le missioni. Cinque anni dopo, ricevuta l’ordinazione episcopale, sarebbe partito per le sue missioni fuori dall’Italia, per ritornarvi solo ventotto anni dopo, gran parte degli anni del regime fascista, quelli della guerra e della ricostruzione democratica.

Al di là di questi dati esteriori della sua biografia e nonostante i costanti cambiamenti di scenario (Bergamo, Roma, la Bulgaria, la Turchia e la Grecia, la Francia, infine di nuovo l’Italia), ci sono alcuni tratti permanenti nella vita di R. Come mostrano i suoi documenti di autobiografia spirituale, il papa, dalla sua giovinezza fino alla morte, tenne viva una riflessione spirituale costante su di sé e sul suo sacerdozio all’insegna della ricerca della santità: «io santo devo essere a qualunque costo» – annota nel 1902 dopo gli esercizi spirituali predicati da padre Francesco Pitocchi. Il Giornale dell’Anima, suo testo autobiografico, è la testimonianza dell’itinerario interiore che lega il seminarista contadino al papa del Concilio. L’Imitazione di Cristo e le fonti tradizionali della pietà sono il nutrimento spirituale del prete bergamasco, anche se non va trascurata la familiarità con la Bibbia. Insomma, il futuro papa è un uomo dalla pietà soda e tradizionale, dalla spiritualità sacerdotale tridentina.

R. è anche un uomo di cultura, impegnato negli studi storici sul cardinale Cesare Baronio e su san Carlo Borromeo, con un vivo senso della storia della Chiesa, che lo porta a vedere gli eventi presenti della Chiesa in una prospettiva di lungo periodo. I suoi studi e il suo insegnamento, nella stagione giovanile, sono sospettati di modernismo, ma senza giungere a nessuna condanna. R. è sfiorato dalla tempesta modernista, come si vede dai contatti con il condiscepolo Buonaiuti, ma ne resta sostanzialmente estraneo, perché fortemente ancorato all’obbedienza. “Oboedientia et pax” è il motto, tratto dal Baronio, che egli assume al momento della sua ordinazione episcopale.

Interessato agli studi storici, Giovanni XXIII è anche un uomo curioso del mondo. Egli compie tutte le sue missioni visitando a fondo i paesi che gli sono affidati. Così impegna molto tempo nei viaggi in Francia, ricevendo un rimprovero dalla Segreteria di Stato e dallo stesso Pio XII. Durante la nunziatura francese si reca pure in Nordafrica, dove coglie il clima teso che si sta creando alla vigilia dello scoppio della lotta di liberazione in Algeria. Viaggia molto in Bulgaria, in Turchia e in Grecia (dove si reca pure nella penisola monastica del Monte Athos). Compie molti viaggi anche al di fuori dei suoi incarichi: è pellegrino in Medio Oriente con il suo vescovo, si reca pure in Polonia, conosce i Balcani e via dicendo. Ha al suo attivo la conoscenza di molti paesi europei e mediterranei. In questi viaggi, come nelle sue permanenze, intesse una fitta rete di rapporti, a cui resta fedele nel tempo, anche attraverso la corrispondenza.

Questo prelato, considerato a Roma “giramondo”, resta però molto legato al suo mondo contadino e bergamasco, e alla sua famiglia, da cui trae semplicità e religiosità. È un uomo dell’incontro, delle relazioni, della visita, dell’attenzione alle diversità dei paesi e delle storie. In particolare, ha una forte esperienza dell’Oriente cristiano (bulgaro, del patriarcato di Costantinopoli che attraversa una grave crisi, della stessa Grecia e dell’Athos). Non è un ecumenista di professione, ma attraverso i suoi contatti con il franco orientale padre Cirillo Korolevskij (alias Charon), con Lambert Baudouin, fondatore del monastero ecumenico di Chevetogne, e soprattutto attraverso il contatto vivo con il mondo religioso ortodosso, si convince in modo appassionato della necessità di ricostruire l’unità cristiana, riconoscendo nei “cristiani separati” una profonda realtà di fede cristiana.

Ma R. ha conoscenza diretta anche dei mondi “altri” rispetto al cristianesimo: non solo quello laico in Francia (che frequenta la sua nunziatura), ma anche il «misterioso mondo musulmano» che attraversa una stagione difficile tra le misure laicizzatici della Turchia di Kemal Ataturk e la rinascita nazionalista. Ha profondi contatti con l’ebraismo, spesso in grave difficoltà durante la persecuzione nazista (su cui interviene direttamente con generosità), mantiene rapporti cordiali con i diplomatici d’Israele. Al di fuori della Chiesa cattolica, tra i cristiani, coglie le differenze, come quando riflette sul dramma armeno e sulla storia particolare di questo popolo. A tali esperienze particolari si unisce quella, così intensa, del periodo trascorso in Francia. Il paese, passata attraverso la guerra, conosceva una stagione di forti fermenti ecclesiali sia di tipo intellettuale (si pensi alla cosiddetta nouvelle théologie, che avrebbe dato un forte contributo al Concilio) sia pastorali, come i preti operai, una nuova riflessione sociale e nuovi impegni di carattere pastorale. Da Roma si guardava con preoccupazione all’effervescenza teologica e pastorale francese, come mostrano le misure prese nei confronti di alcuni teologi francesi e la chiusura dell’esperienza dei preti operai. In questo quadro vivace, dove non manca però un forte cattolicesimo tradizionale, R. non è conosciuto come un “progressista”, ma come un ecclesiastico prudente che non ama le misure repressive.

Questo suo atteggiamento emerge anche durante il breve governo del patriarcato di Venezia. Nel 1953, presentandosi ai veneziani, il cardinale R. chiarisce il metodo pastorale che emerge dalla sua esperienza di vita: «La Provvidenza mi trasse dal mio villaggio nativo, e mi fece percorrere le vie del mondo in Oriente e in Occidente, accostandomi a gente di religioni e ideologie diverse, in contatto con problemi sociali acuti e minacciosi, e conservandomi la calma e l’equilibrio […] sempre preoccupato, salva la fermezza dei principi del credo cattolico e della morale, più di ciò che unisce che di quello che separa e suscita contrasti». Questa posizione si manifesta anche nel governo di Venezia. Mentre alcuni atteggiamenti (come il telegramma al congresso socialista nella città lagunare) suscitano perplessità a Roma, gli elettori del successore di Pio XII sono convinti che R. sia una figura robustamente tradizionale.

Tale in fondo appare anche all’inizio del suo pontificato, quando intende restaurare le funzioni normali della Curia romana che, negli anni di Pio XII, avevano subito una certa paralisi. Nomina prima di tutto come segretario di Stato, carica vacante dal 1944, il cardinale Domenico Tardini, che rappresenta la continuità del lavoro diplomatico di questa istituzione. Procede alla creazione di nuovi cardinali, primo tra tutti quel Giovanni Battista Montini (v. Paolo VI) che Pio XII aveva trasferito all’arcivescovado di Milano, accogliendo in parte quella corrente di forte sfiducia che si era determinata nei confronti del futuro Paolo VI negli ambienti curiali. Il “partito romano” vedeva in lui un ecclesiastico liberale e non sicuro, una posizione non condivisa da R. Giovanni XXIII ripristina le udienze con i capi dicastero di Curia e intende far funzionare in modo normale l’amministrazione centrale della Santa sede. In genere le scelte dei cardinali rispondono al criterio dettato dalla consuetudine, anche se c’è da notare quella di Agostino Bea, rettore dell’Istituto biblico, interprete della linea ecumenica di Giovanni XXIII e di Paolo VI.

L’esperienza degli uomini e delle situazioni, i contatti e gli incontri sono per Giovanni XXIII molto importanti: «Tardini – dice il papa – ha un’esperienza unica degli affari della Chiesa ma non è mai uscito dal Vaticano, gli sono mancati quei contatti che ho avuto io». I contatti continuano con il pontificato attraverso una fitta rete di incontri e di visite, fino al primo viaggio di un papa fuori Roma, quello ad Assisi e Loreto (modesta ma significativa premessa di quello sviluppo del “viaggio” del papa come strumento di presenza, che si avrà con Paolo VI e soprattutto con Giovanni Paolo II). Giovanni XXIII intende far uscire il papa da una condizione di isolamento, sottolineare il carattere episcopale e pastorale del suo ministero (come con la presa di possesso del Laterano, la visita al seminario, quelle alle parrocchie romane, quelle ai più poveri: i carcerati o i piccoli ammalati dell’ospedale Bambino Gesù). In pochi mesi la popolarità del papa eclissa quella, pur notevole, del suo predecessore Giovanni XXIII, nel suo colloquio con il mondo, supera i confini della Chiesa cattolica e suscita simpatie in mondi differenti e lontani. È il papa che interpreta i sentimenti di un Occidente che vuol porre termine al clima di Guerra fredda.

Nella simbologia popolare l’immagine del “papa buono”, come viene salutato Giovanni XXIII, è accostata a quella del presidente John Kennedy e del leader sovietico Nikita Chruščëv. In realtà papa Giovanni vuole portare il suo contributo al clima di distensione, come avviene con l’appello (che avrebbe avuto una qualche influenza, specie coprendo la “ritirata” sovietica) a proposito di quella crisi di Cuba che fa temere un conflitto nucleare. L’enciclica Pacem in terris, la seconda enciclica sociale dopo la Mater et Magistra, pubblicata alla fine del pontificato, costituisce un importante riferimento per quell’impegno per la pace che ha caratterizzato tutti i papi del Novecento.

Il papa buono è anche un accorto diplomatico. In Italia intende distaccare la Chiesa da un impegno troppo diretto nelle vicende politiche, lasciando più spazio alla responsabilità dei politici cattolici e alla Conferenza episcopale italiana, guidata dal cardinale Giuseppe Siri. Questo si risolve nel consentire la collaborazione politica tra Democrazia cristiana e Partito socialista italiano, che appare un cedimento ad una forza politica ancora non ideologicamente chiara, a buona parte dell’episcopato italiano e della Curia. Sullo scenario europeo il papa appoggia il processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), mentre guarda con grande interesse all’Est, per cui si pone il problema di aprire nuovi contatti al fine di assicurare uno spazio di sopravvivenza al cattolicesimo.

Con Giovanni XXIII si ha il primo inizio della politica orientale della Santa sede, di cui è interprete il cardinale Agostino Casaroli. Il papa cerca anche contatti con i sovietici, sia per favorire la pace sia per ottenere l’alleviamento della persecuzione (riesce a ottenere la liberazione del metropolita ucraino Yosif Slipyi, riceve la figlia e il genero di Chruščëv, Alexei Adjubei). Si tratta di una diplomazia spesso personale, che rappresenta un cambiamento rispetto ai tempi di Pio XII. Giovanni XXIII è consapevole della dura situazione dei credenti nell’Est (in URSS, dal 1959 al 1962 viene chiusa quasi la metà delle Chiese ortodosse). Egli si pone il problema di come sopravvivere e appoggia da vicino la politica forte e nazionale del primate polacco Stefan Wyszynski, che pure si scontra con il governo comunista di Varsavia. Avvia, seppure solo in maniera iniziale, il processo di riconoscimento della Polonia nei suoi nuovi confini, fatto importante per i polacchi (cattolici o comunisti che siano), ma anche basilare per l’Ostpolitik tedesca e per l’avvio del negoziato di Helsinki. Intende riprendere a tutti i costi i contatti con i vescovi e i fedeli dell’Est, per rendersi conto della situazione e delle modalità attraverso cui operare per migliorarla.

In Asia e Africa il papa favorisce la creazione di episcopati autoctoni, proprio nella stagione delle indipendenze nazionali. Nel 1961 trasferisce il cardinale Marcel Lefebvre, arcivescovo di Dakar in Senegal (fino all’inizio del suo pontificato anche delegato apostolico per una vasta porzione dell’Africa), in una piccola diocesi francese. Nomina successore un africano, anche dopo le critiche del presidente Léopold Sédar Sénghor alle dure posizioni di Lefebvre sul “socialismo africano”. Non è che un esempio di una politica di promozione del carattere autoctono della Chiesa intrapresa da Giovanni XXIIII. Del resto il papa ha presente il Sud del mondo, quello delle povertà, come si legge nel radiomessaggio preparatorio del Vaticano II, l’11 settembre 1962: «In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta qual è, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri».

Il governo ordinario di Giovanni XXIII va però compreso accanto all’aspetto più significativo del suo pontificato, quello del governo straordinario. Maggior atto di questo tipo di governo è proprio la convocazione del Vaticano II, il 25 gennaio 1959 nella basilica di San Paolo. Una simile iniziativa, su cui avevano già riflettuto Pio XI e Pio XII arrivando ad una conclusione negativa, appare un azzardo a taluni settori curiali. Il papa, però, intende farne una manifestazione dell’unità cattolica (è la prima assemblea paneuropea dalla guerra, comprendente vescovi dell’Est e dell’Ovest), che miri non alla condanna ma all’aggiornamento della Chiesa. Dopo un’intensa preparazione (che viene poi in larga parte non utilizzata dai padri conciliari), il papa delinea il suo programma l’11 ottobre 1962 con l’allocuzione di apertura Guadet Mater Ecclesia, che resta un testo di riferimento per comprendere il sentire roncalliano rispetto al Vaticano II.

Sotto la presidenza di questo papa, si tiene solo la prima sessione del Concilio, in cui Giovanni XXIII favorisce la responsabilizzazione dei padri conciliari, tra cui si delinea una maggioranza riformatrice animata da grandi cardinali europei. Giovanni XXIII non dà un’architettura ai lavori del Concilio, ma introduce una dinamica, fondando la responsabilità dei vescovi: «Questo rinnovato slancio pastorale è l’ansia costante del nostro cuore: questo è lo scopo del Concilio ecumenico» – afferma nel discorso per il suo ultimo Natale, quello del 1962. Il papa si spegne il 3 giugno 1963, mentre la folla, dalla piazza e attraverso i media, segue la sua agonia. È una morte assai particolare rispetto a quella dei suoi predecessori, rivelatrice del nuovo modo di essere papa, quale Giovanni XXIII è venuto a realizzare. Al di là del Vaticano II, l’impatto del pontificato giovanneo è profondo sul modo di orientarsi dei suoi successori.

Andrea Riccardi (2010)