Gorbačëv, Michail Sergeevič

G. (Privolnoie 1931) ricorda di essere cresciuto in un ambiente di “bizzarro pluralismo”: in casa dei nonni Gopkalo in un angolo vi erano i ritratti di Lenin e Stalin e in un altro icone russo-ortodosse, provenienti dal monastero di Kievo-Pecher.

Evitato per motivi non chiari il servizio militare, nel 1950 riuscì a essere ammesso alla facoltà di giurisprudenza dell’Università statale di Mosca. Come la maggior parte degli studenti, soprattutto non moscoviti, era un fervente e ingenuo stalinista. Aveva una fede patriottica per il suo paese e per i suoi ideali dichiarati, e anche per le sacre memorie di guerra, e riteneva che l’URSS fosse un paese dalle enormi potenzialità. A 19 anni si candidò al Partito comunista e fu prontamente nominato segretario della Lega dei giovani comunisti (Komsomol) presso la facoltà di Legge. Nel 1952 divenne membro del Partito. All’università studiò diritto romano e latino, storia delle dottrine politiche, le costituzioni dei più importanti paesi borghesi, gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, e frequentò lezioni di retorica e lingue straniere.

Il periodo del tardo stalinismo fu contrassegnato dalla campagna contro l’“influenza cosmopolita”, a seguito della quale vennero sviliti e messi in sordina i vecchi corsi di storia, letteratura, arte e filosofia occidentali. Molti professori, soprattutto ebrei, furono presi di mira ed espulsi dalle università. G. dovette partecipare a tale campagna, sebbene il suo contesto antisemitico lo sgomentasse, essendo un autentico “internazionalista”. Uno dei suoi migliori amici era Zdenek Mlynar, uno studente comunista cecoslovacco di famiglia alto borghese, con cui rimase successivamente in contatto epistolare. Nel giugno del 1967, Mlynar, ormai membro riformista della leadership del partito ceco, sarebbe andato a trovarlo a Stavropol. Molti altri compagni intellettuali, tra cui il sociologo Yuri Levada e il filosofo Merab Mamardashvili, entrarono a far parte della sua cerchia.

I progetti di G. di trovare lavoro a Mosca nella Procura naufragarono, e dovette ritornare a Stavropol, dove lavorò nell’Ufficio del pubblico ministero facendo una rapida carriera nell’apparato professionale del Komsomol, di cui nel 1962 divenne secondo e poi primo segretario della regione di Stavropol. Nell’ottobre del 1961 partecipò al XXII Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), nel quale Nikita Chruščёv denunciò per la seconda volta Stalin. Nel congresso partecipò ai lavori della commissione per gli affari culturali. Nel marzo del 1962 passò all’apparato del partito di Stavropol specializzandosi in agricoltura. Nel settembre del 1966 divenne primo segretario del comitato del partito della città di Stavropol; nell’agosto del 1968 divenne secondo e poi nell’aprile del 1970 primo segretario della regione di Stavropol. L’anno dopo divenne membro del Comitato centrale del Partito. In soli dodici anni G. divenne così membro dell’oligarchia politica delle segreterie regionali di Partito, la cerchia esclusiva da cui proveniva la maggior parte dei membri del Comitato centrale e che costituiva la spina dorsale politica della Segreteria generale del PCUS.

Nell’ambito politico, fu più facile per G. fare carriera in provincia. Se fosse rimasto a Mosca, difficilmente sarebbe riuscito ad affermarsi nell’oligarchia di partito. A Stavropol, G. poté incontrare diversi leader del Politburo che si recavano alle terme locali, come Alexei Kosygin, Andrei Gromyko, Dmitri Ustinov e soprattutto Yuri Andropov.

Al pari di molti altri membri dell’apparato di partito tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, all’epoca G. riteneva di poter servire il sistema e migliorarlo dal suo interno con competenza e buone intenzioni. I dubbi di G. sul sistema sovietico non derivavano tanto dalle rivelazioni dei crimini di Stalin e dalla fine silenziosa della destalinizzazione dopo il 1968, ma quando si rese conto che il sistema era stagnante e il progresso raggiunto dall’Unione Sovietica era limitato e inferiore a quello di altri paesi industrializzati. Persisteva peraltro nella sua convinzione che il sistema socialista sovietico, se adeguatamente riformato, avrebbe apportato maggiori benefici al popolo rispetto al capitalismo occidentale. Durante gli anni Settanta, all’epoca in cui a Mosca la burocrazia, gli intellettuali e la stessa leadership sembravano aver perso la fede nel marxismo-leninismo, G. seguitò a credere in questa dottrina.

Nel 1978, G. si trasferì da Stavropol a Mosca diventando membro della potente segreteria del Comitato centrale del PCUS, il vero centro del potere politico. Nell’ottobre del 1980, divenne il più giovane membro del Politburo come responsabile del settore agricolo, e rimase indubbiamente sconvolto dalla corruzione, dal clientelismo, dagli sprechi e dalla irresponsabilità degli ultimi anni di del governo di Brežnev. Nel dicembre del 1979, dopo l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa, G. riconobbe in privato con Eduard Ševardnadze, primo segretario di partito della Georgia, che l’invasione era stata un grande errore.

Nel novembre del 1982, alla morte di Brežnev, Andropov divenne capo dell’URSS e G. un membro di rilievo della sua “squadra” politica (insieme a Egor Ligacev e Nikolai Ryzhkov). Andropov era spesso assente dal Politburo e dalle riunioni della Segreteria, a causa delle sue gravi condizioni di salute, e affidava a G. l’incarico di presiedere le riunioni al suo posto. Inoltre, Andropov creò diversi gruppi di lavoro per esplorare possibili riforme, affidando a G. la responsabilità dell’importante comitato tecnico-scientifico.

Nel febbraio del 1984, dopo la morte di Andropov, G. era il candidato principale alla sua successione, ma la “vecchia guardia” (rappresentata da Dmitri Ustinov e Andrei Gromyko) scelse il malato e innocuo Konstantin Černenko. Tale decisione generò profondo malcontento nelle élites del partito e tra il popolo. In tutte le più importanti burocrazie, compreso l’apparato del partito, il KGB e l’esercito, era opinione forte e condivisa che alla guida dell’URSS dovesse esserci un uomo giovane ed energico. Nel marzo del 1985, Černenko morì e G., dopo una breve contrattazione con l’ultimo vecchio leader rimasto, Gromyko (Ustinov nel frattempo era morto) divenne il segretario generale del PCUS.

G. non incontrò alcuna opposizione né avversari (coloro che si erano opposti alla sua nomina si ritirarono rapidamente). Un gruppo di apparatchik “illuminati” e di consiglieri (Gorgey Arbatov, Evgenij Primakov, Anatoli Chernyaev, Vadim Zagladin, Karen Brutents, ecc.) ritenne che fosse il momento ideale per lanciare varie riforme. Essi prepararono per G. una lista di iniziative radicali di politica interna ed estera, incluso il ritiro dall’Afghanistan e il ritiro dei missili sovietici SS-20 dall’Europa orientale nonché la liberalizzazione delle politiche per l’immigrazione.

Pur concordando sulla necessità di un immediato cambiamento, G. agì lentamente e con estrema cautela e indecisione. Nell’ambito nazionale, egli si mosse sulla falsariga di quanto compiuto sotto Andropov, convinto che la repressione della corruzione, la rimozione dall’apparato dei quadri di Brežnev e il ripristino della disciplina lavorativa avrebbero ridato dinamismo al sistema sovietico. Al posto del pericoloso termine “riforme” (che nell’URSS divenne un tabù ideologico), G. lanciò il termine perestrojka, che nel 1985 assunse il significato di “più socialismo” e “accelerazione” dello sviluppo economico attraverso investimenti massicci nelle obsolete industrie sovietiche.

A G. mancò la visione di una trasformazione economica dell’URSS. Egli non intervenne sulla riforma dei prezzi che era essenziale per migliorare l’andamento dell’economia e del commercio sovietico e per ridurre lo schiacciante onere finanziario dei generi alimentari e dei servizi sussidiati. Non vi furono tentativi nemmeno per tornare alla “riforma Kosygin” del 1965, il modesto tentativo ufficialmente riconosciuto di liberalizzare l’iniziativa all’interno dell’economia di Stato. Né si discusse di cambiamenti strutturali nel sistema di pianificazione centralizzata, per non parlare della ripresa dell’economia di mercato.

Affidando le questioni economiche e interne a Ligacev e Ryzhkov, G. si concentrò sugli affari internazionali. Egli era fortemente preoccupato per le tensioni della Guerra fredda e in particolare per la corsa agli armamenti e per l’ostilità tra URSS e USA. Nell’estate del 1985, G. stabilì il proprio controllo sulla politica estera sovietica. Sostituì Gromyko al ministero degli Esteri con il suo protetto Eduard Ševardnadze. Avviò una corrispondenza con il presidente americano Ronald Reagan per sondare le sue intenzioni. Nel novembre del 1985, G. e Reagan si incontrarono a Ginevra. Questo vertice non sciolse il ghiaccio della Guerra fredda ma contribuì ad affermare G. come statista di alto livello.

Nel gennaio del 1986, dopo la consultazione all’interno dei negoziati sul controllo militare e degli armamenti, G. annunciò il programma di un mondo denuclearizzato entro il 2000. In Occidente, soprattutto in Europa, il programma suscitò un profondo scetticismo. Tuttavia, G. incluse tale iniziativa nel rapporto presentato al Congresso del partito a febbraio-marzo del 1986. Inoltre, in quel rapporto, G. introdusse l’idea che nell’era del nucleare la sicurezza sovietica fosse inscindibile dalla sicurezza globale, e persino dagli interessi di sicurezza degli Stati Uniti. Ciò rappresentò un decisivo allontanamento dalla logica bipolarista che aveva guidato i leader sovietici a partire dalla fine degli anni Quaranta.

Nell’aprile del 1986 si verificò un incidente catastrofico al reattore nucleare di Černobyl, in Ucraina. Quando G. apprese la portata del disastro (la radioattività contaminò immense aree, milioni di persone dovettero essere trasferite e il “contenimento” del reattore richiese la più imponente operazione militare dopo la crisi dei missili di Cuba), procedette allo smantellamento del sistema di segretezza e di irresponsabilità collettiva che aveva presumibilmente contribuito all’incidente. I cambiamenti conseguenti inclusero il consenso sovietico a ispezioni internazionali come parte dell’accordo sul controllo degli armamenti e l’introduzione della glasnost, cioè la franca discussione dei problemi in televisione e sulla stampa.

Il programma di Iniziativa di difesa strategica (IDS) varato da Reagan apparve a G. come un ostacolo fondamentale per la realizzazione della sua visione di un mondo denuclearizzato. Nei preparativi per il vertice con Reagan a Reykjavik, in Islanda, nell’ottobre del 1986, G. elaborò, con il benestare dell’esercito, un pacchetto di riduzioni radicali degli armamenti associandolo alla rinuncia da parte di Reagan dell’IDS, compresi i test di laboratorio. Il vertice di Reykjavik fallì poiché Reagan si rifiutò di rinunciare all’IDS. In seguito, G. considerò tale vertice “una svolta”. Nel marzo del 1987, egli intraprese un’altra “offensiva di pace”, decidendo di accettare la proposta americana circa l’“opzione zero” per eliminare le forze nucleari intermedie. Gli americani l’avevano usata come iniziativa di propaganda; l’URSS aveva un’enorme superiorità in questa categoria di armi e nessuno si aspettava che il Cremlino concordasse sulla loro eliminazione. Nel dicembre del 1987, G. andò a Washington dove firmò con Reagan il Trattato sulle forze nucleari intermedie (INF) con cui si eliminava l’intera classe di missili.

Nel frattempo, la dottrina militare sovietica subì uno spettacolare cambiamento. In precedenza, essa poggiava sull’idea della superiorità militare sovietica e sulla guerra offensiva preventiva contro l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e gli altri nemici, Cina compresa. G. propose una nuova dottrina militare basata sulla “sufficienza strategica”, cioè la riduzione delle spese e degli arsenali militari, e sulla “difesa difensiva”. Tali cambiamenti incontrarono una muta opposizione tra i vertici militari. Tuttavia, nel maggio del 1987, dopo la cosiddetta vicenda Matthias Rust, G. epurò il comando militare e a luglio la nuova dottrina venne messa in atto. La glasnost rivelò che in Europa i sovietici avevano dispiegato una forza enorme, superiore a quella della NATO, comprendente 27.000 carri armati e quasi 3,5 milioni di soldati.

Da quel momento, G. iniziò a combinare l’attivismo in politica estera con le riforme interne. Il Cremlino rafforzò la diplomazia della distensione con importanti iniziative per migliorare il rispetto dei Diritti dell’uomo e per liberalizzare la società. Gli arresti dei dissidenti ebbero fine e coloro che erano in carcere e nei campi iniziarono a essere rilasciati. G. mise fine all’esilio del famoso fisico dissidente Andrej Sacharov. Egli incoraggiò la “diplomazia pubblica” affinché migliaia di scienziati, personaggi pubblici e della cultura sovietici potessero viaggiare all’estero e incontrarsi liberamente con gli stranieri per discutere su varie questioni senza la sorveglianza del KGB. Un altro protetto di G., il membro del Politburo Alexander Yakovlev, sfruttò il potere di nomina per collocare dei sostenitori della glasnost e della destalinizzazione in numerose posizioni dei media sovietici.

Nell’estate del 1987 G. scrisse il libro Perestrojka: il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo (Perestrojka: novoe myšlenie dlja našej strany i dlja vsego mira), in cui illustrava una visione delle relazioni internazionali basate su un ordine mondiale equo e democratico, nel quale l’URSS avrebbe svolto un ruolo chiave e le Nazioni Unite avrebbero goduto di forti poteri. Per G. la perestrojka nell’URSS costituiva solo una parte di una sorta di perestrojka globale, della nascita di un nuovo ordine mondiale.

Dal punto di vista economico e finanziario, la situazione in URSS divenne critica: la perestrojka nel paese non funzionò, i problemi economici e finanziari aumentarono e la frustrazione pubblica crebbe visibilmente. La diminuzione delle entrate di bilancio (soprattutto a causa della campagna contro l’alcolismo e del calo dei prezzi del petrolio nonché del costo galoppante del sovvenzionamento di cibo e dei sussidi sociali) imponeva politiche severe e impopolari che G. non volle imporre.

Egli concentrò piuttosto le sue energie sulle riforme politiche dell’apparato del partito. Il suo obiettivo era di democratizzare la politica sovietica, di creare “fronti popolari” nelle varie repubbliche dell’Unione Sovietica (per incanalare l’energia democratica in sostegno della perestrojka) e consentire elezioni, controllate ma a candidatura multipla, per nominare il nuovo organo, il Congresso dei deputati del popolo. Il suo progetto era di conservare il potere istituzionale esistente di segretario generale e al contempo acquisire una nuova legittimità come presidente dell’URSS. Il principale nemico potenziale delle sue riforme, a suo avviso, era il vecchio apparato del partito. All’inizio, egli ragionò, tale apparato doveva essere gradualmente indebolito e smantellato e solo in seguito, con l’aiuto di “iniziative di base” da parte del popolo sovietico, si sarebbe potuto passare alle riforme economiche e sociali.

A partire dal 1985, egli utilizzò la vecchia formula di Charles de Gaulle di una “Europa dall’Atlantico agli Urali” per promuovere lo slogan della “Casa comune europea”. Ciò non costituì un tentativo di dividere la NATO escludendo gli Stati Uniti dall’Europa. Al contrario, nel 1985-1987 G. utilizzò i suoi rapporti con i leader di Francia, Regno Unito, Italia e di altri paesi dell’Europa occidentale come leva per esercitare pressioni sull’amministrazione Reagan. La nozione di “casa comune europea” non intendeva essere una formula propagandistica, ma non si emancipò mai dal suo carattere vago e metaforico: «L’Europa è veramente una casa comune, dove la geografia e la storia hanno strettamente intrecciato i destini di dozzine di paesi e di nazioni […]. Perciò, sviluppando la metafora, si può dire: la casa è in comune, certo, ma ogni famiglia ha il suo appartamento e vi sono diversi ingressi. Tuttavia soltanto insieme, collettivamente, seguendo le norme sensate della coesistenza, gli europei possono salvare la loro casa, proteggerla da una conflagrazione e da altre calamità, renderla più sicura, migliorarla e mantenerla in ordine. Il concetto di una “casa comune europea” suggerisce soprattutto un certo grado d’integrazione, anche se i suoi Stati appartengono a sistemi sociali diversi e ad alleanze politico-militari contrapposte. Unisce la necessità all’opportunità» (M. Gorbačëv, Perestrojka; trad. it., p. 261). Questa concezione si dimostrò di difficile applicazione, trattandosi di una grande prospettiva cui ostavano non solo gli obiettivi politici dell’Unione europea (UE) e le condizioni economiche del blocco sovietico, ma anche la generale mancanza di volontà di creare un’Europa dall’Atlantico agli Urali, ritenuta da molti una struttura di difficile gestione.

Al contempo, i contatti di G. con leader socialisti dell’Europa occidentale, tra cui François Mitterrand, Felipe Gonzáles e Willy Brandt (nonché la sua familiarità con i lavori della commissione Palme) lo condussero a cercare un terreno comune tra la sua agenda e le idee della socialdemocrazia dell’Europa occidentale. Alla fine, G. giunse a considerarlo come un progetto di reintegrazione dell’Europa, progetto che avrebbe contribuito a superare il confronto tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Entrambe le superpotenze, secondo le sue valutazioni, avrebbero fatto parte di una nuova super Europa e gradualmente le vecchie alleanze per la sicurezza, la NATO e il Patto di Varsavia, si sarebbero sciolte. Egli annunciò alcune di queste idee nel suo discorso alle Nazioni Unite del dicembre del 1988.

Alla fine del marzo 1987, dopo aver incontrato Margaret Thatcher, G. riferì ai suoi più stretti collaboratori che l’URSS aveva una scarsa conoscenza dell’Europa e sottolineò come avesse bisogno dell’Europa non solo per migliorare la propria posizione internazionale, ma anche per affrontare la ricostruzione interna. Nella primavera del 1988, quando lo scontro tra i sostenitori della glasnost e i conservatori venne allo scoperto, G. si schierò dalla parte della liberalizzazione e della libera discussione. Dopo di che, l’apparato del partito iniziò a perdere il controllo sui media sovietici e sul dibattito pubblico. Presto l’intera società sovietica venne coinvolta nella catarsi collettiva e nel ripensamento dell’oscuro passato, processo simile a quello avvenuto in Polonia nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968.

Nel maggio del 1988, Reagan fece una visita amichevole nell’Unione Sovietica e ammise pubblicamente nella Piazza Rossa che l’URSS non era più “l’impero del male”. La Guerra fredda si stava chiaramente concludendo. G. utilizzò la distensione con gli USA per argomentare a favore della liberalizzazione e di riforme politiche più profonde. La fine dello scontro, secondo le sue previsioni, avrebbe consentito all’URSS di rendere disponibili le risorse destinate agli armamenti per utilizzarle a fini interni. Alla conferenza straordinaria del partito nell’estate del 1988, G. e Ševardnadze dichiararono che la dottrina dei “due campi” e della “lotta di classe” aveva contribuito alla Guerra fredda. Una nuova politica estera si sarebbe basata sulla ricerca del consenso e sui “valori dell’Uomo”.

Il 6 luglio 1989 G. scelse il Consiglio d’Europa per lanciare una nuova proposta di disarmo (riduzione unilaterale dei missili nucleari a corta gittata), promuovere l’idea di una casa comune europea (abbandono del ricorso alla forza e della “dottrina Brežnev”, mantenimento del socialismo) e trattare dei Diritti dell’uomo (pur senza menzionare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali).

Le azioni e le parole di G. crearono lo scenario per la rapida dissoluzione dei regimi comunisti nell’Europa centrale e orientale. G. e i suoi consiglieri liberali non intendevano più utilizzare la forza militare all’interno del blocco sovietico, in nessuna circostanza. Alcuni consiglieri liberali di G. erano già giunti alla conclusione che l’“integrazione socialista” con l’Europa orientale non funzionava e che l’URSS era diventata un benefattore dei paesi del Patto di Varsavia, un fornitore di risorse a buon mercato. Gli ex gioielli dell’impero di Stalin, la Polonia e la Germania Est, erano sempre più delle zavorre agli occhi di G. e dei riformisti. Inoltre, G. evidentemente si illuse che i cambiamenti in Europa centrale e orientale sarebbero stati graduali e che i paesi della regione sarebbero rimasti “socialdemocratici” ed economicamente interessati alla cooperazione e all’integrazione con l’Unione Sovietica. Il 9 novembre 1989, quando crollò inopinatamente il muro di Berlino e la Germania orientale iniziò rapidamente a sgretolarsi, tutti gli ex satelliti sovietici si affrettarono ad allearsi con l’Occidente. G. non aveva un piano pronto per la Riunificazione tedesca e iniziò a discuterlo soltanto quando divenne chiaro che la Germania Est sarebbe stata integrata alla Germania Ovest alle condizioni occidentali.

Nel 1989, G. trasformò il suo potere istituzionale. Oltre alla posizione di segretario generale del partito e di comandante in capo delle forze armate, divenne presidente del “nuovo” Soviet supremo eletto al Congresso dei deputati del popolo (riunitosi dopo le elezioni nazionali parzialmente libere nel marzo del 1989). Nel marzo del 1990, egli divenne presidente dell’URSS. La nuova base istituzionale, tuttavia, era fragile. G. rifiutò di essere eletto dal voto popolare, sebbene in quel momento avrebbe potuto vincere facilmente. Al contempo, altri leader di partito delle repubbliche sovietiche divennero anche loro presidenti, cosa che diede uno slancio alla richiesta di sovranità di tali repubbliche rispetto al centro.

In generale, la decisione di G. di introdurre riforme politiche e statali radicali, unita alla estromissione dell’apparato del partito dalla vita economica, creò una gravissima crisi economica e diede origine a forze politiche centrifughe che finirono fuori controllo all’interno della società sovietica. La glasnost divenne un turbine di rivelazioni che screditò le intere fondamenta della politica estera sovietica. A partire dalla primavera del 1989, la liberalizzazione di G. originò dibattiti politici liberi, ma anche scioperi dei minatori in Russia e in Ucraina, violenze etniche nel Caucaso del sud e il movimento per la liberazione nazionale nei paesi baltici. All’interno della Russia, il grande rivale di G., Boris El’cin guadagnò rapidamente popolarità, sviluppando un seguito politico di massa tra russi di orientamento nazionalista, intellettuali e giovani che accusavano G. di incoerenza e di non sufficiente rottura con il passato.

I tentativi di G. di riformare l’economia nel 1990-1991 risentirono sempre della mancanza di un piano complessivo e G. finì per abbandonarli del tutto non appena questi minacciarono di suscitare il malcontento popolare. Il risultato, però, fu che la crisi economica e finanziaria finì fuori controllo. Lo Stato sovietico si ritrovò sull’orlo della bancarotta e G. iniziò a rivolgersi ai paesi stranieri in cerca di prestiti e crediti per colmare i buchi finanziari. Il governo della Germania Ovest fu generoso, per ripagare in fondo l’assenso sovietico alla riunificazione tedesca e il ritiro delle truppe dalla Germania. Il resto dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Giappone non furono altrettanto pronti ad aprire le loro casseforti. Dopo la caduta del muro di Berlino, l’idea di G. sulla “casa comune europea” era destinata a fallire così come le sue aspettative sul fatto che l’Occidente avrebbe avuto un interesse a “salvare” il progetto sovietico di perestrojka ormai in fallimento.

A partire dalla metà del 1990, anche alcuni sostenitori di G. iniziarono ad abbandonarlo; l’ultimo fu il ministro degli Esteri Eduard Ševardnadze nel dicembre del 1990. Poiché G. si ritrovò su posizioni più arretrate rispetto all’avanguardia riformista, dovette contare sugli esponenti dell’ala più dura che aveva posto a capo dell’esercito, del KGB e del complesso militare-industriale. Nella primavera del 1991, affrontò i leader delle repubbliche sempre più risoluti; nel giugno dello stesso anno El’cin vinse le elezioni presidenziali libere e democratiche nella Federazione russa e ottenne la legittimazione pubblica che mancava a G. Il leader sovietico cercò di elaborare il nuovo trattato dell’Unione che trasformava l’URSS in una confederazione di repubbliche sovrane. Tuttavia, alla vigilia della firma del trattato, partì per una vacanza in Crimea. Il 19 agosto, i membri dell’ala più dura del suo governo ne approfittarono per attuare un colpo di mano mettendo G. davanti al fatto compiuto. Posto agli arresti domiciliari nella sua dacia di campagna, G. di fatto perse il potere. Allo stesso tempo, il suo rivale El’cin, dopo aver inscenato una resistenza contro i golpisti su tutte le televisioni mondiali, venne considerato come il vero leader della “nuova rivoluzione russa”. G. perse il potere istituzionale; El’cin mise fuorilegge il partito comunista, indebolì il KGB e assunse il controllo delle forze armate ormai demoralizzate. La Russia dichiarò l’“indipendenza” dall’impero sovietico e anche le repubbliche, una dopo l’altra, votarono per l’indipendenza. L’8 dicembre 1991, El’cin e i leader della Bielorussia e dell’Ucraina firmarono un accordo per sciogliere l’URSS creando al suo posto la Comunità di Stati indipendenti. G., fedele ai suoi principi di non violenza, non cercò mai di fermare la disintegrazione dello Stato sovietico con la forza, né in quel momento aveva il potere per farlo. Il 25 dicembre egli fu sfrattato dal suo ufficio nel Cremlino dal trionfante El’cin.

Molti osservatori sottolineano che le riforme di G. furono troppo moderate, troppo inconsistenti e troppo tardive. Le forze centrifughe nell’economia, nello Stato e nella società sovietici erano troppo potenti per essere fermate e controllate. Allo stesso tempo, la personalità di G., l’idealismo messianico e altero, l’ottimismo moralistico, l’indecisione e i rinvii contribuirono probabilmente al suo fallimento come ultimo statista sovietico. Alcune delle decisioni prese e di quelle non prese da G. continuano ad avere ripercussioni nelle relazioni tra la Russia e l’Europa, quali ad esempio il Trattato sulla riduzione delle forze armate convenzionali (CFE), il fallimento nell’evitare il crollo dell’autorità in Cecenia e la mancata negoziazione dei limiti sul dispiegamento di forze della NATO nell’Europa centrale e orientale. Inoltre la catastrofe economica e sociale causata dalle riforme fallite e mal concepite di G., e ingigantite dal governo di El’cin, scatenò nella Russia del primo decennio del XXI secolo una violenta reazione antiliberale e antidemocratica.

Vladislav Zubok (2012)