Johnson, Lyndon Baines

Nato e cresciuto nel Texas, J. (vicino a Stonewall, Texas 1908-Johnson City, Texas 1973) si laureò nel 1930 al Southwest Texas State Teachers College, cominciò a insegnare in una scuola superiore di Houston e, dal 1932 al 1934, lavorò per il deputato Richard Kleberg. Assunta nel 1935 la direzione per il Texas della National youth administration, uno degli organismi creati nell’ambito del New Deal rooseveltiano, si avviò verso una brillante carriera politica, mentre la moglie, acquistando una stazione radiofonica ad Austin, creava le basi di una sicura posizione finanziaria per la famiglia. Corse per il Congresso nelle file dei democratici e, ottenuto un seggio alla Camera nel 1937, lo conservò fino al 1949. Dopo un primo tentativo di elezione al Senato, nel 1941, J. combatté nel Pacifico meridionale fino all’estate del 1942, guadagnandosi una decorazione al valore. Eletto al Senato nel 1948, vi assunse cariche di crescente responsabilità grazie a un’abilità di manovra non comune: capogruppo dei democratici nel 1951, leader della minoranza nel 1953 e, dopo le elezioni del 1954 che restituirono il controllo ai democratici, leader della maggioranza. In questa posizione, che ricoprì dal 1955 al 1961 con notevole influenza e capacità, J. gestì tra l’altro l’approvazione dei due Civil rights acts del 1957 e del 1960. Sconfitto da John Kennedy per la nomination democratica alle presidenziali, accettò la sua offerta di correre per la vicepresidenza e, dopo la vittoria elettorale, ne assunse l’incarico dal 1961 al 1963. Mai a suo agio nelle vesti di “secondo”, J. svolse gli incarichi collegati al ruolo, presiedendo tra l’altro il Comitato per le pari opportunità e il Consiglio consultivo per il Peace corps. Subito dopo l’assassinio di John Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963), giurò sull’Air force one che ne riportava la salma a Washington e gli successe nella carica come trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti.

Giunto al vertice, J. seppe fronteggiare senza esitazioni le circostanze tragiche dell’avvicendamento alla Casa Bianca, assicurando continuità e stabilità al paese tanto in politica interna quanto sulla scena internazionale. Nell’attesa della campagna elettorale del 1964, cui erano affidate le sue probabilità di conferma in carica, J. richiamò l’attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità di completare il programma di riforme avviato dal suo predecessore e, su più ampia scala, di riprendere nello spirito e nella sostanza il cammino tracciato dal New Deal negli anni Trenta. Alcuni obiettivi centrali vennero identificati nell’espansione generale della prosperità nel paese e nella garanzia di opportunità più sostanziali per gli strati meno abbienti della società: di qui la “guerra alla povertà”, dichiarata nel messaggio sullo stato dell’Unione nel gennaio 1964 («Questa amministrazione – oggi, qui e subito – dichiara guerra incondizionata alla povertà in America»), e l’appello al Congresso perché si adoperasse a favore dei «diritti civili più che nell’insieme di tutte le ultime cento sessioni», lanciasse «il più efficace ed efficiente programma di aiuti per l’estero di tutti i tempi» e promuovesse la costruzione di «più case, più scuole, più biblioteche e più ospedali che in qualunque singola sessione del Congresso nella storia della Repubblica». Si delineavano, così, i primi passi costruttivi della great society: un obiettivo e uno slogan che avrebbero costituito la trama di sfondo di tutta la presidenza. Già nel corso del 1964 furono approvati il Civil rights act e una serie di misure per il contenimento della povertà sfociate nella creazione dell’Ufficio per le opportunità economiche.

In politica estera J. seppe instaurare rapporti di fiducia e di collaborazione con i consiglieri più importanti ereditati da Kennedy (tra gli altri, il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario alla Difesa Robert McNamara e l’assistente speciale per gli Affari di sicurezza nazionale, McGeorge Bundy), si adoperò nel segno della continuità nelle relazioni atlantiche con gli alleati europei e affrontò con vigore le scelte complesse che si imponevano sia nell’America latina, dove occorreva valutare in modo realistico la possibilità di raggiungere gli obiettivi della “Alleanza per il progresso”, sia soprattutto nella complessa situazione vietnamita, nella quale J. identificò un test critico della forza decisionale statunitense a fronte della sfida globale sovietica e cinese. Nell’agosto 1964, a seguito dell’incidente nel golfo del Tonchino, chiese e ottenne dal Congresso una risoluzione (adottata all’unanimità dalla Camera e con 88 voti contro due al Senato) che lo autorizzava ad adottare ogni misura necessaria per proteggere le forze armate statunitensi impegnate sul campo.

Dopo aver trionfato alle urne, battendo il candidato repubblicano Barry Goldwater in 44 Stati su 50, con 43 milioni di voti contro 27, cioè con la percentuale più alta mai ottenuta sino allora da un presidente nella storia del paese, J. si dedicò alla realizzazione delle riforme interne, cercando di accentuare il controllo della Casa Bianca sulle scelte del Congresso per superare le fondamentali tappe legislative connesse ai contributi federali per l’istruzione, all’assistenza sanitaria pubblica del programma Medicare, all’integrazione razziale tramite la garanzia dei diritti civili ai neri (con il fondamentale Voting rights act del 1965, che triplicò in tre anni il numero dei neri registrati per il voto), alla “crociata” contro la povertà nel paese. I successi ottenuti nelle riforme non trovarono corrispondenza adeguata nei risultati complessivi dell’azione internazionale promossa dall’amministrazione, che si alienò gradualmente il consenso interno. Nonostante le sorti incerte del conflitto, il presidente e i suoi consiglieri si orientarono infatti verso l’escalation dell’impegno bellico nel Vietnam, assumendo decisioni sempre più gravi (bombardamenti sul Vietnam del Nord e aumento graduale della presenza di truppe statunitensi impegnate nel teatro operativo, fino a superare il mezzo milione di unità alla fine del 1966) che risentirono in parte della personalità competitiva di J. – determinato a emulare e superare i successi di Franklin Roosevelt come grande presidente di pace e di guerra – e non furono sottoposte in modo adeguato al vaglio progressivo dell’opinione pubblica.

Un tentativo significativo, ma non decisivo, in tal senso fu il discorso sullo stato dell’Unione del 12 gennaio 1966, che il presidente dedicò in parte alla questione vietnamita e in parte alla realizzazione della great society, sfidando il paese a collegare i due temi: a riconoscere, cioè, nel Sudest asiatico un punto critico per la posizione complessiva degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali e, nel contempo, a sostenere la prosecuzione a pieno ritmo degli ambiziosi programmi per la salute, l’istruzione e la riduzione della povertà. Dati i costi imposti dalla guerra nel Vietnam, le risorse finanziarie non erano però sufficienti a battere entrambe le strade con pari efficacia. I democratici subirono una sconfitta alle elezioni di mid-term del novembre 1966, pur mantenendo la maggioranza in entrambe le Camere, e, nel corso dell’anno successivo, si allargò sempre più il dissenso sulla guerra all’interno dell’opinione pubblica e, via via, della stessa amministrazione. La svolta militare del conflitto, segnata nel gennaio 1968 dall’offensiva del Tet, diffuse ulteriori motivi di pessimismo nel paese e spinse il presidente alla ricerca di una soluzione: in un discorso tenuto il 31 marzo, J. annunciò la riduzione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord per agevolare l’apertura di negoziati per la pace e dichiarò che non si sarebbe candidato alla Casa Bianca per un secondo mandato. La decisione, molto sofferta, gli permise di dedicare gli ultimi mesi di presidenza alle riforme interne, così come alla soluzione del problema vietnamita e ad altri grandi temi di politica estera, quali il dialogo nucleare con i sovietici, sfociato nella firma del trattato di non proliferazione nel luglio 1968 (preceduto, nel gennaio 1967, dal trattato sullo spazio extraterrestre).

Nella prospettiva storica e storiografica, la gestione della crisi nel Sudest asiatico e le critiche agli Stati Uniti che essa suscitò nell’opinione pubblica e in alcuni ambienti governativi di molti paesi alleati hanno oscurato a lungo il bilancio delle relazioni tra Washington e l’Europa occidentale negli anni di J.: un bilancio che fu invece, nel complesso, positivo. Il presidente e i suoi collaboratori seppero infatti sviluppare con abilità, pazienza e flessibilità l’eredità kennedyana, tributando la debita attenzione a quelle relazioni, nelle quali essi ravvisavano, in piena continuità con le scelte compiute sotto Harry Spencer Truman negli anni Quaranta, l’asse portante di un solido multilateralismo a guida statunitense, capace di superare lo scontro con l’Unione Sovietica e di stabilizzare in prospettiva l’ordine mondiale. Nel 1967 giunse a compimento, in seno all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) (v. Organizzazione mondiale del commercio), il “Kennedy round” per la riduzione degli ostacoli tariffari al commercio. Nello stesso anno si conclusero in modo soddisfacente nuovi accordi offset a tre con la Germania occidentale e con il Regno Unito per una soluzione complessiva delle questioni militari e finanziarie correlate alla presenza delle forze britanniche e statunitensi sul suolo tedesco. Alterna fortuna ebbero invece gli sforzi di Washington per stimolare una riforma appropriata e concertata del sistema monetario internazionale che salvasse e aggiornasse il sistema di Bretton Woods.

Per cinque anni, con toni e misure variabili a seconda delle circostanze e delle reazioni degli interlocutori, l’amministrazione continuò a sostenere la necessità dell’unificazione economica e politica allargata alla Gran Bretagna e ad altri candidati come obiettivo finale della costruzione europea e come via maestra verso lo sviluppo di una comunità atlantica a due pilastri. Finché fu possibile, venne perseguito l’obiettivo di costituire una Forza multilaterale atomica e, una volta fallito il disegno, a Washington ci si adoperò con discreto successo per trovare soluzioni alternative per il nuclear sharing in seno all’Alleanza atlantica. Smorzando l’inclinazione alla rappresaglia di alcuni collaboratori, J. guidò una ripresa vigorosa della leadership statunitense all’interno dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) dopo il colpo formidabile sferrato all’organizzazione dal generale Charles de Gaulle nel marzo 1966, quando la Francia, in linea con la politica estera ambiziosa dispiegata dal suo presidente, annunciò il ritiro militare dai comandi integrati, senza peraltro abbandonare l’Alleanza. Il rafforzamento della NATO, legato anche all’approvazione dello “Studio Harmel” (v. Piano Harmel) nel dicembre 1967, permise agli Stati Uniti di sviluppare su basi consolidate il dialogo con l’Est europeo e con l’Unione Sovietica, e di fronteggiare la crisi cecoslovacca del 1968.

In un discorso tenuto il 3 maggio 1966, J. aveva sottolineato la convinzione statunitense che «la spinta verso l’unità nell’Europa occidentale non è solo auspicabile ma anche necessaria. […] Ogni lezione che il passato può insegnarci e ogni prospettiva rivolta al futuro dimostrano che le nazioni dell’Europa occidentale possono svolgere il ruolo che loro compete nella comunità mondiale solo agendo sempre più di concerto. […] Una difesa atlantica integrata è la prima necessità e non il risultato ultimo della costruzione dell’unità nell’Europa occidentale, in vista dell’ampliamento della partnership tra le due rive dell’Atlantico e della composizione delle divergenze con l’Est». Affermazioni di questo genere furono ripetute in ogni occasione utile dal presidente e dai membri dell’amministrazione, dal 1963 al 1968. A volte si confusero concetti distinti come integrazione e costruzione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), unità e unificazione, comunità, confederazione e federazione (v. Federalismo); ma fu sempre convogliato agli europei con sufficiente precisione il messaggio che Washington auspicava il progresso della costruzione europea all’interno di una più ampia comunità atlantica, in vista di una gestione condivisa del campo occidentale. Tale costruzione, a patto che gli alleati si dimostrassero disponibili a correggerne gli sviluppi finanziari e commerciali più direttamente dannosi per gli Stati Uniti, rientrava in una prospettiva di enlightened self-interest americano, cui l’amministrazione intendeva continuare a ispirarsi. Un polo unico europeo avrebbe infatti costituito l’alter ego o il socio di minoranza ideale per un sistema egemonico di potenza volto nel medio periodo a contenere l’avversario esterno, cioè l’Unione Sovietica, ma destinato a consolidarsi nel lungo periodo, e a scongiurare lo scatenarsi di nuove crisi belliche generali, solo se le tensioni intraeuropee avessero trovato un’adeguata camera di compensazione pacifica nella costruzione istituzionale comune.

Su questo sfondo – che J. non volle modificare fino al termine del suo mandato, anche quando, come nel caso dell’abbandono del progetto di Forza multilaterale nucleare, le circostanze e il calcolo del rapporto tra costi e benefici imposero decisi colpi di timone – non mancarono dubbi e critiche, all’interno dell’opinione pubblica e in seno alla stessa amministrazione, sull’opportunità di continuare ad appoggiare l’integrazione europea in nome di obiettivi strategici di lungo periodo, anche in presenza di comportamenti degli alleati direttamente dannosi per l’interesse nazionale statunitense. Come affermò il segretario al Tesoro, Henry Fowler, in un documento inviato a J. alla fine del maggio 1967: «I paesi del Mercato comune hanno mancato di assumersi la giusta quota di responsabilità che dovrebbe accompagnarsi all’incremento della forza economica e finanziaria. Hanno dato minori contributi alla difesa comune di quanto dovrebbero; hanno continuato ad accumulare riserve internazionali […]. In breve, quei paesi cercano di accrescere la propria influenza senza accollarsi il carico di responsabilità più forti […]. Non dovremmo quindi incoraggiare un ulteriore rafforzamento dell’Europa, e soprattutto della CEE [Comunità economica europea], finché proprio la CEE non dimostri di sapersi accollare le responsabilità di un’area caratterizzata da bilancia dei pagamenti in surplus».

Questo ritorno polemico sul tema del burden sharing, che aveva costituito peraltro il nocciolo dell’approccio kennedyano alle tematiche europee, ripreso in pieno da J., si sommava ai dissidi aperti dalla questione vietnamita e, sullo sfondo di una disillusione americana rispetto alla capacità europea di percepire quel conflitto e altri temi globali in termini di equa condivisione di responsabilità, apriva la via alla tentazione unilateralista: perché, in fondo, non inaugurare un nuovo corso in politica estera più libero e creativo nell’ordine delle priorità, considerando l’Europa occidentale una regione al pari delle altre nel globo, non più come l’interlocutrice fondamentale delle iniziative statunitensi, tanto nel confronto con Mosca quanto nella competizione per convincere i paesi in via di sviluppo a scegliere il mercato anziché il modello di crescita proposto dall’Est socialista? Vinte le presidenziali nel novembre 1968, Richard Nixon avrebbe impostato nuove coordinate per la politica europea degli Stati Uniti, portando per gradi a maturazione, d’intesa con il suo Consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Alfred Kissinger, quel processo di disincanto rispetto alle prospettive di corresponsabilità e cogestione del campo occidentale che avevano ancora animato la presidenza di J.

Nel gennaio 1969 J., che era riuscito a garantire al suo vicepresidente, Hubert Humphrey, la nomination per le elezioni ma non la vittoria, si ritirò nel suo ranch a Johnson City, in Texas. Nei quattro anni successivi attese alla stesura di un volume di memorie e contribuì all’organizzazione della biblioteca presidenziale dedicata al suo nome. Morì di un attacco cardiaco nel gennaio 1973, subito prima della firma degli Accordi di Parigi per la pace nel Vietnam.

Massimiliano Guderzo (2010)