Kissinger, Henry Alfred

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Scienziato politico statunitense di origine tedesca, consigliere per la Sicurezza nazionale dal 1969 al 1975 e segretario di Stato dal 1973 al 1977, nelle amministrazioni dei presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, K. (Fürth, Baviera 1923) è tra i più noti e influenti intellettuali americani dell’ultimo secolo. Nella sua attività politica così come in quella di studioso, K. si propose di inaugurare un approccio alla politica estera dichiaratamente “realista”, rigettando il tradizionale “idealismo” statunitense, ritenuto responsabile di quella tendenza alle “crociate globali” incappata fatalmente nel dramma della guerra in Vietnam. A K. la storiografia ha solitamente riconosciuto, pertanto, il tentativo di espungere dalle relazioni internazionali dell’età bipolare ogni preconcetto ideologico e morale e di considerare i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica semplicemente alla stregua di quelli tra due grandi potenze. Di qui è nata l’immagine di K. quale Metternich o Bismarck dell’era nucleare, “mente europea della politica americana”. A ben vedere, tuttavia, il legame tra le sue idee e le precedenti coordinate ideologiche statunitensi della Guerra fredda è assai più stretto di quanto si possa desumere da tale immagine.

Ebreo tedesco, K. abbandonò con i propri familiari la Germania nel 1938 a seguito delle persecuzioni naziste, e si trasferì oltreoceano, cambiando il proprio nome da Heinz a Henry. Studiò al City College di New York e nel 1943 entrò nell’esercito. Naturalizzato statunitense, trascorse tre anni in Europa, di cui due nella Germania occupata, dove lavorò per l’intelligence dell’esercito. Grazie ai benefici riservati ai veterani di guerra poté poi proseguire gli studi a Harvard. Qui, mettendo in evidenza le proprie doti organizzative, ottenne la direzione di un International seminar, che si rivolgeva a visitatori estivi provenienti da paesi di interesse strategico e ideologico, come l’Italia, la Germania Ovest, la Finlandia e la Iugoslavia (l’iniziativa ricevette finanziamenti importanti da istituzioni come la Ford Foundation e pure, attraverso organizzazioni di facciata, dalla CIA). Nel contempo preparò una tesi di dottorato sulle relazioni internazionali nell’Europa dell’Ottocento, concentrandosi in particolare sull’attività diplomatica di Metternich e di Castlereagh, dei quali mise in luce soprattutto le grandi capacità di persuasione e di manipolazione.

In un contesto accademico altamente competitivo come quello di Harvard, dunque, K. rinunciò a misurarsi con gli altri studiosi direttamente su temi legati alle vicende politiche contemporanee, preferendo dedicarsi a una ricerca storica dalla quale riteneva si potessero trarre preziosi insegnamenti per il presente. Iniziò così a costruire un’immagine di sé quale esperto della sottile e complessa arte diplomatica europea, di fronte a un’America ancora giovane e immatura nella concezione delle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti, a suo avviso, dovevano guardare al vecchio continente, alla sua esperienza e al suo cinismo, per imparare ad affrontare i delicati problemi dell’ordine mondiale. L’idea di Europa da lui proposta, caratterizzata dalle acrobazie diplomatiche e dal ricorso alle tattiche più spregiudicate per salvaguardare gli interessi nazionali, rispondeva in realtà perfettamente a una visione stereotipata statunitense. Ciò comunque gli consentì di iniziare ad accreditarsi quale “mente europea”, e pensatore “realista” in un paese il cui idealismo si era ormai dimostrato inidoneo a fronteggiare le sfide poste dal nuovo scenario globale.

Terminata la propria esperienza a Harvard, K. accettò l’invito a dirigere un gruppo di ricerca presso il Council on foreign relations, prestigiosa istituzione newyorkese, uno dei più influenti think tank per la politica estera. Frutto di quell’incarico fu il volume Nuclear weapons and foreign policy (1957), il cui successo consentì all’autore di accreditarsi definitivamente quale esperto delle relazioni internazionali e dei problemi relativi alla sicurezza nazionale. Nel suo lavoro egli presentava una dottrina strategica in base alla quale le armi nucleari, abbandonati gli estremi della rappresaglia totale e dell’inazione, potevano offrire nuove opportunità. In tale prospettiva gli Stati Uniti, per non limitarsi a confidare passivamente nel potere intimidatorio dell’arsenale atomico, avrebbero dovuto accettare la nozione di “guerra nucleare limitata”: solo così, infatti, avrebbero potuto fare valere la propria superiorità, non solo di fronte al nemico sovietico, ma anche agli alleati europei. Nonostante l’ostentato realismo, dunque, il giovane studioso riconosceva altresì il valore simbolico dell’impegno anticomunista americano, inserendosi nel tradizionale solco culturale e ideologico della Guerra fredda.

Dopo il successo di Nuclear weapons and foreign policy, K. tornò a Harvard, dove gli venne affidata la direzione del Centro di studi europei. Era divenuto intanto uno dei più apprezzati commentatori di politica internazionale per importanti riviste come “Foreign Affairs”, “The New Republic” e “The New York Times Magazine”. In un nuovo libro, The necessity for choice (1961), pur attingendo nuovamente al bagaglio retorico dello studioso realista, avvertì i suoi lettori che, di fronte al vantaggio missilistico gradualmente maturato dall’URSS, gli Stati Uniti avrebbero dovuto rilanciare scelte interventiste di ampio raggio. L’autore tornava così alle prospettive globaliste tipiche del “liberalism della Guerra fredda” americano, che a parole aveva rigettato.

Pochi anni dopo, nel volume The troubled partnership (1965), commissionatogli dal Council on foreign relations nell’ambito di una grossa ricerca sulle relazioni euroamericane, K. sostenne che la leadership statunitense sull’Occidente si era rivelata debole e confusa. In prima battuta egli auspicava la formazione di una sorta di “Confederazione atlantica” che, pur nel rispetto delle prerogative dei singoli Stati sovrani, elaborasse una posizione comune nei negoziati con l’Unione Sovietica e garantisse pace e stabilità in Europa. A differenza di molti osservatori statunitensi, poi, espresse la propria ammirazione per Charles de Gaulle, il quale, a suo avviso, aveva manifestato preoccupazioni analoghe alle sue chiedendo una maggiore coordinazione delle politiche atlantiche. A ben vedere, però, K. riteneva che l’America non dovesse permettere al multilateralismo di minacciare la sua sovranità e libertà di azione. Reputava inoltre necessario guardare con attenzione ai progetti europeistici: un’Europa occidentale unita e forte sarebbe potuta infatti diventare per gli Stati Uniti un temibile competitore. L’autore era pertanto del parere che gli Stati Uniti dovessero limitarsi a sostenere il processo di integrazione del vecchio continente sul piano “filosofico” (v. anche Integrazione, teorie della). Per altro verso, comunque, egli non considerava neppure nell’interesse americano un’Europa troppo debole: ai suoi alleati Washington doveva poter demandare ruoli di responsabilità, purché venissero assunti in sintonia con le prospettive atlantiche.

Nel 1969, dopo una campagna elettorale incentrata inevitabilmente sulla politica estera (era in pieno corso la guerra in Vietnam), K. divenne consigliere per la Sicurezza nazionale del nuovo presidente, il repubblicano Richard Nixon. Insieme, essi stabilirono le nuove linee generali dell’impegno internazionale americano, prevedendo tra l’altro il dialogo con Mosca, l’avvicinamento alla Cina e la soluzione della crisi nel Sudest asiatico. K. abbandonò dunque le proprie tesi sulla “guerra nucleare limitata”, ritenendo ora necessario avviare negoziati con l’URSS, anche a causa dei costi sempre meno sostenibili della corsa agli armamenti. La “distensione” aveva inoltre l’obiettivo di stabilizzare il bipolarismo, di mettere fine alle spinte centrifughe di alcuni partner del vecchio continente e di consentire così agli Stati Uniti il consolidamento del loro primato nel blocco occidentale. Nella sua visione era soprattutto necessario scongiurare il pericolo che la Comunità europea costruisse la propria identità politica sulla base di posizioni “antiamericane” e si sottraesse alle proprie responsabilità atlantiche.

L’apertura alla Cina, uno degli aspetti più noti e caratterizzanti dell’era Nixon-K., venne analogamente concepita con particolare attenzione alle possibili ricadute “eurocentriche”. Nel 1971, per la prima volta dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, una missione diplomatica statunitense giunse a Pechino. L’anno seguente fu la volta della visita ufficiale del presidente Nixon. In realtà mancavano le condizioni per stringere dei veri e propri accordi tra i due paesi; tuttavia gli obiettivi antisovietici costituivano efficacemente un terreno comune. Nella visione kissingeriana, elaborata integralmente in ottica bipolare, la Cina doveva contribuire al contenimento dell’URSS e a evitare che un eventuale dominio assoluto sovietico in Asia inducesse qualche alleato degli Stati Uniti in Europa occidentale a cercare un accomodamento con Mosca. K. in ultima analisi, riponendo assai poca fiducia nei partner europei, temeva la “finlandizzazione” del vecchio continente (vale a dire la sua completa sottomissione all’influenza dell’URSS).

Suscitava inoltre una forte preoccupazione nel consigliere per la Sicurezza nazionale la cosiddetta Ostpolitik, ovvero l’apertura da parte di Willy Brandt, ministro degli Esteri e poi cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, nei confronti della Germania orientale. Per K. la distensione rappresentava semplicemente una modalità di gestire meglio il bipolarismo; in Europa gli pareva si profilasse invece una differential détente, dalla quale vedeva discendere un possibile scardinamento di quell’assetto internazionale che egli si era pazientemente impegnato a consolidare. Ancora una volta il punto di partenza del suo ragionamento era la scarsa fiducia negli alleati europei: la Ostpolitik mirava a un ammorbidimento delle relazioni bipolari, ma K. temeva che ne derivasse un vantaggio per l’Unione Sovietica. Mentre Brandt sperava che la Repubblica Federale Tedesca potesse rivelarsi un “magnete” per l’Europa orientale, egli non era certo di quale delle due parti avrebbe “davvero costituito il magnete”.

Nel maggio del 1972 K. raggiunse uno dei risultati più significativi della sua attività diplomatica: l’accordo Strategic armaments limitations talks (SALT) con l’Unione Sovietica. I due paesi stabilirono insieme regole e numeri dei missili offensivi e dei sistemi di difesa. Si trattava di un’operazione di grande importanza, nuovamente nell’ottica di una stabilizzazione del bipolarismo, che otteneva infatti legittimità, in tal modo, dalla sua natura consensuale e distensiva.

All’inizio del 1973 K. (che a settembre avrebbe assunto anche la carica di segretario di Stato) annunciò l’apertura dell’“Anno dell’Europa”. Ora, dunque, il sostegno ai progetti europei di integrazione pareva andare oltre quel livello puramente “filosofico” teorizzato in precedenza. Sennonché egli ribadì che l’unificazione del vecchio continente non sarebbe dovuta avvenire a spese della comunità atlantica. Si stava profilando, a suo avviso, la tendenza da parte degli europei a costruire la propria identità comune sulla base dell’esclusione degli americani dalle loro decisioni: la consultazione dell’alleato d’oltreoceano veniva spesso effettuata solo “a fatto compiuto” e risultava così prosciugata di ogni contenuto. Per K., in ultima analisi, atlantismo ed europeismo si rivelavano sempre meno complementari.

Anche la sofferta questione vietnamita venne affrontata nella prospettiva del mantenimento della struttura mondiale bipolare. All’insediamento nel 1969 della nuova amministrazione alla Casa Bianca, era già chiaro che gli Stati Uniti avrebbero dovuto accettare di ritirarsi dal Sudest asiatico. Tuttavia Nixon e K. optarono per un lento disimpegno, che si protrasse per quattro anni e previde innanzitutto una “vietnamizzazione” del conflitto, vale a dire l’addestramento e il rafforzamento dell’esercito del Vietnam del Sud in modo da trasferire su di esso la responsabilità bellica. Obiettivo era quello di evitare che precipitosi accordi di pace minassero la credibilità internazionale statunitense. A dispetto dell’ostentato realismo, dunque, K. continuava ad assegnare una notevole importanza ai fattori “simbolici” della Guerra fredda. Il suo impegno per porre fine alla crisi nel Sudest asiatico, comunque, gli valse il premio Nobel per la pace nel 1973.

Nello stesso anno K. fu al centro della controversa politica statunitense in Cile, che contribuì alla presa del potere da parte di Augusto Pinochet. K. negoziò inoltre il cessate il fuoco nella quarta guerra arabo-israeliana (detta dello Yom Kippur, perché iniziata in coincidenza con l’omonima festività ebraica). Il conflitto era stato causato da un attacco simultaneo di Egitto e Siria a Israele. Dopo avere subito gravi perdite, gli israeliani erano riusciti a reagire e a contrattaccare, occupando diversi territori al di là dei propri confini, parte dei quali venne restituita ai vicini arabi anche grazie all’intervento diplomatico americano.

Con l’elezione del democratico James Earl Carter, K. perse quel ruolo di protagonista della vita politica americana che aveva ricoperto ininterrottamente durante le presidenze di Nixon e Ford. Non lo riconquistò neppure quando i repubblicani tornarono al potere: negli anni di Ronald Reagan gli furono infatti affidati solo incarichi di secondaria importanza. Nel frattempo però egli non abbandonò la propria intensa attività di scrittore e commentatore politico, spaziando dalle memorie della sua esperienza diplomatica a riflessioni di carattere teorico.

Nel 2001 K. diede alle stampe il libro Does America Need a foreign policy? Toward a diplomacy for the 21st century. Ancora una volta egli formulava una propria versione dell’ideologia nazionalistica americana rivestendola delle forme del realismo. Criticò la presidenza democratica di Bill Clinton, che a suo avviso, abusando di concetti ambigui come quelli di “intervento umanitario” e di “giurisdizione universale”, aveva perso di vista l’obiettivo fondamentale, vale a dire la promozione di un sistema internazionale favorevole agli interessi statunitensi. Distinse inoltre, nello scenario mondiale postbipolare, quattro sistemi internazionali. Il primo era quello occidentale, ovvero una comunità di sicurezza fondata su pace, democrazia e mercato, i grandi valori politici promossi dall’America. Il secondo era quello vigente in Asia: si trattava, secondo K., di una riproposizione del vecchio modello europeo ottocentesco dell’equilibrio di potenza. Vi era poi, procedendo in ordine discendente quanto a stabilità e sicurezza, il teatro mediorientale, che l’autore accostava a quello europeo prewesftaliano, caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità. L’Africa si trovava, infine, nella condizione peggiore, esito del disastroso fallimento del processo europeo di decolonizzazione. L’analisi di K. tendeva pertanto a valorizzare il contributo americano alla costruzione del più stabile e promettente sistema internazionale, mettendolo a confronto con i precedenti, imperfetti, modelli derivati dalle esperienze del vecchio continente.

Giovanni Borgognone (2012)

Bibliografia

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