Leonardi, Silvio

L. (Torino 1944-ivi 1990) è figura esemplare di quei dirigenti comunisti vicini a Giorgio Amendola che, pur fuori dal cono di luce della ribalta di partito, hanno molto contribuito, dagli anni Sessanta in avanti, al progressivo superamento delle pregiudiziali ideologiche che da sempre avevano caratterizzato l’azione del Partito comunista italiano (PCI) sui temi dell’integrazione europea e delle politiche comunitarie (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Un contributo che nel privilegiare un approccio “concretistico” ai problemi della moderna società industriale di massa, restava altresì attento a preservare le ragioni di una visione alta – o per meglio dire idealistica – dell’Europa come sintesi storica fra l’idea della libertà e la promessa dell’eguaglianza.

La propensione a una più realistica osmosi fra la tradizione del movimento operaio e delle organizzazioni di classe con la realtà estremamente dinamica delle istituzioni e dei processi creati dall’economia di mercato era iscritta nella formazione intellettuale e professionale di L. Nato a Torino, a 12 anni si trasferisce a Milano con la famiglia. Durante gli anni del liceo e dell’università (si laurea in legge nel 1937) si appassiona allo studio delle lingue, tra le quali il russo, e alla politica, venendo a contatto con elementi dell’organizzazione clandestina del PCI. Richiamato nel 1940, viene esonerato due anni dopo dal servizio militare per i postumi di una grave forma di tifo petecchiale e assunto dalla Olivetti a Ivrea nell’ufficio di selezione del personale. Contemporaneamente studia ingegneria al politecnico di Milano. Dopo l’8 settembre combatte con i partigiani in Piemonte e in Valle d’Aosta con responsabilità di comando (v. anche Resistenza). Nel 1946 rientra a Milano, si iscrive al PCI, viene assunto all’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), diventando di lì a breve segretario nazionale dei Consigli di gestione delle imprese del gruppo. Nel 1947 si laurea in ingegneria. Già nel lavoro all’IRI prendono contorni precisi alcune idee che segneranno la sua vita di intellettuale-tecnico e di militante politico che più volte lo metteranno in contrasto con posizioni ufficiali del PCI e della Confederazione generale del lavoro (CGIL). L. sostiene infatti che l’impegno dei lavoratori e dei tecnici nelle strutture produttive non dovrà caratterizzarsi solo sul terreno dello scontro frontale con le linee strategiche e organizzative capitalistiche. Ma in eguale misura dovrà puntare ad accrescere la loro capacità di capire quali siano gli elementi essenziali su cui si fondano quelle scelte, al fine di contrastarle con la massima incisività all’interno delle strutture produttive: nell’interesse dei lavoratori, delle comunità, per lo sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione e per l’ottimizzazione dei costi. Così da fare dei lavoratori e dei tecnici inseriti nel sistema capitalistico non solo i soggetti della lotta di classe, ma anche fattori di governo dei processi produttivi.

Sono idee che negli anni 1951-1952 renderanno tesi i rapporti tra L. e i dirigenti della Federazione sindacale mondiale a Vienna, rigidamente attestata in materia su posizioni staliniste. Rientrato in Italia, nel 1953, L. diventa responsabile dell’Ufficio studi della Camera del lavoro di Milano, dove ha modo di approfondire e sviluppare “sul campo”, assieme ad altri “innovatori” della federazione milanese, e tra questi il futuro parlamentare europeo Aldo Bonaccini, le sue tesi sulla qualità dell’impegno politico necessario a fare fronte in modo adeguato alle profonde trasformazioni in atto nei modi di produzione capitalistici, ai loro contraccolpi sul terreno sociale e del costume.

Eletto consigliere comunale del capoluogo lombardo, nel 1956 non esce dal partito, come altri intellettuali, perché convinto che valga la pena di battersi al suo interno per modificare e adeguare la sua linea politica ai cambiamenti in atto in Italia, in Europa e nel mondo. Eletto deputato nel 1963, 1968, 1972, 1976, dal 1969 è membro (con Giorgio Amendola e altri cinque colleghi di partito) della delegazione parlamentare italiana al Parlamento europeo del quale farà parte, come deputato elettivo, dal 1979 al 1984. L’impegno politico di L. nelle Istituzioni comunitarie copre in questi anni svariati ambiti. In qualità di membro (dal 1974) del Comitato per l’economia e gli affari monetari, del Comitato per l’energia, la ricerca e lo sviluppo tecnologico e (dal 1977) della Commissione europea per le regole di procedura e per le petizioni, ha occasione di intervenire con proposte, interpellanze, iniziative su un’ampia gamma di questioni, e in particolare quelle relative alle relazioni tra la Comunità economica europea (CEE) e il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON), allo sviluppo del commercio intracomunitario, alla politica energetica, al bilancio della comunità (v. anche Bilancio dell’Unione europea).

Una acuta, e coraggiosa, riflessione sui problemi posti al partito dalla evoluzione del capitalismo e dalla realtà del Mercato comune europeo (MEC), è proposta da L. sul n. 4-5 1968 di “Critica Marxista” in un saggio dal titolo Schema di interpretazione dello sviluppo italiano in questo dopoguerra, il cui testo aveva fatto anticipatamente conoscere a Giorgio Amendola. L. ricorda le componenti principali dell’interpretazione staliniana sulla “crisi generale del capitalismo”, che prevede «restringimento del mercato mondiale, disoccupazione permanente di massa»; sulla possibilità di sviluppo delle forze produttive solo in regime di proprietà pubblica dei mezzi di produzione; sulla impossibilità per lo Stato borghese di azioni pianificatrici, di nazionalizzazioni o altro «che non corrispondessero agli esclusivi interessi dei grandi gruppi e simili». Osserva poi che a quelle idee staliniane vanno fatte risalire posizioni diffuse nella sinistra italiana quali: «Immagine “istantanea” del processo rivoluzionario; mancanza o insufficienza di elaborazione programmatica atta a utilizzare sia pur ristretti margini di riforma; distacco tra politica ed economia e trascuratezza per quest’ultima; insufficiente sensibilità per i problemi posti dallo sviluppo capitalistico (progresso tecnico, consumi di massa, cambiamenti nella composizione delle classi lavoratrici); denuncia delle iniziative di Allargamento del mercato internazionale come disastrose per l’economia italiana (Comunità europea del carbone e dell’acciaio [CECA], MEC e simili)».

Il tema dell’atteggiamento del partito di fronte al MEC fu trattato nella relazione introduttiva di L. in una riunione ristretta di dirigenti del PCI convocata per «esaminare le questioni inerenti alla politica di integrazione economica europea» e «l’attività dei nostri compagni nel Parlamento europeo». L. osserva che «si assiste ad un avanzamento del grado di integrazione europea che ha assunto carattere di irreversibilità […]. La Comunità si è consolidata al di là delle previsioni iniziali originariamente improntate ad una visione di tipo liberistico», caratterizzata da spinte integrative all’interno «non omogenee», e da una dialettica esterna CEE-USA contraddittoria, con tentativi di autonomia e di distinzione da parte europea. L. conclude indicando nell’azione per una integrazione comunitaria di tipo federativo (v. Federalismo), e per una crescita del potere politico comunitario su quello economico i terreni che dovrebbe privilegiare l’impegno del PCI. Da parlamentare europeo L. ispira la sua attività alle sue posizioni culturali, alle esperienze di studio e di lavoro tecnico-politico e alla linea indicata da Giorgio Amendola nel 1969 ai deputati del Pci della delegazione parlamentare italiana al Parlamento europeo (PE): «Dobbiamo dimostrare di essere capaci. Quindi la mia raccomandazione è che ognuno si impegni seriamente, che studi tutti i problemi, anche i più marginali, per dimostrare che siamo preparati e attivi e siamo qui a lavorare per l’Europa». Nella seduta del 1° luglio 1969 è L. a motivare il voto contrario del gruppo sui risultati dell’attività dell’Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica). Ma senza porre pregiudiziali ideologiche e illustrando emendamenti per adeguare gli indirizzi comunitari in materia alla realtà della situazione nell’ambito comunitario e in quello internazionale. Nell’intervento svolto in vista della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa emerge nitida la sua visione innovativa – rispetto alla tradizione comunista – delle prospettive aperte dall’avanzare del processo di integrazione economica dell’Europa occidentale, ma con una nota di alta sensibilità politica singolarmente anticipatrice. L. considera la conferenza come un prezioso fattore di stimolo per riqualificare i rapporti esterni della Comunità «verso altri paesi di questa stessa Europa retti da un diverso sistema economico e sociale»; dunque come rottura della logica che in passato aveva diviso le due parti del continente sul terreno ideologico. Ciò comporta però, per L., un mutamento degli indirizzi che nella comunità hanno sino a ora impedito ai paesi membri di fare «politiche comuni nei campi dell’industria, dei trasporti, dell’energia, della ricerca scientifica», senza le quali sarà impossibile sviluppare rapporti esterni, «che non possono essere solo commerciali, ma di cooperazione e di sviluppo di progetti comuni nel campo della produzione, della ricerca, dei trasporti dell’energia, della difesa dell’ambiente. In modo che la divisione di questa Europa derivante dalla guerra, dalla contrapposizione dei blocchi, dalle differenze dei sistemi, perda sempre più il carattere di frattura, e la cooperazione crescente costituisca la base certa e permanente della sicurezza».

Non può sorprendere che considerazioni del genere suscitassero forti riserve nei quadri comunisti legati alla tradizionale interpretazione ideologica delle vicende europee. Come documenta una testimonianza dell’on. D’Angelosanto, eletto nel 1969 per il PCI, con L., nella delegazione parlamentare italiana al PE: «Mi pareva troppo poco comunista; lui era un liberal democratico, non credeva assolutamente al comunismo. Ci aveva creduto nella lontanissima gioventù […]. A noi serviva perché, proprio per questo, era molto stimato dagli altri. Era un ottimo tramite per parlare in Europa». Certamente L. aveva colto con largo anticipo le ragioni di debolezza teorica e pratica dell’ideologia comunista, e in particolare di quella parte realizzata nel sistema sovietico; e un suo lavoro incompiuto ha per titolo Appunti sulla crisi del movimento comunista, una bozza di interpretazione. Ma continuava a credere nella buona causa del progresso dei lavoratori, soprattutto attraverso il riconoscimento del loro ruolo essenziale nella vita delle società avanzate dell’Occidente, da realizzarsi con nuovi strumenti teorici, nuove strategie e nuove alleanze, in Italia e soprattutto in Europa.

La prova forte di questa interpretazione dell’europeismo di L. è nella premessa alla sua relazione al PE sul tema “Competitività dell’industria comunitaria” preparata per la seduta del 27-28 aprile 1983. Afferma L.: «Il problema della competitività delle industrie dei paesi della CEE […] con quella delle industrie di altri paesi operanti sul piano mondiale, e innanzitutto di quelle degli USA e del Giappone, ma anche di quelle dei paesi di nuova industrializzazione […] è stato da noi affrontato per illustrare il contesto mondiale in cui dobbiamo muoverci. La crisi, con le gravi conseguenze sull’occupazione, ha caratteri mondiali, ma per i nostri paesi caratteri europei […]. Noi abbiamo perso capacità concorrenziale rispetto al resto del mondo, soprattutto nei settori industriali tecnologicamente più avanzati, e questa condizione deve essere tenuta presente per qualsiasi politica di rilancio […]. D’altro canto, condizione per il successo di un simile sforzo è la nostra capacità di operare nella dimensione comunitaria necessaria per assicurare alle nostre industrie condizioni simili a quelle in cui operano le industrie concorrenti statunitensi o giapponesi. I problemi del rilancio economico dell’occupazione, della politica industriale necessaria sia per i settori tradizionali sia per quelli nuovi – concludeva – sono, quindi, strettamente connessi con quelli dell’Unione economica e monetaria, della riforma delle istituzioni, dell’identità, insomma, dell’Europa nel mondo».

Sono osservazioni che attestano come le posizioni di L. non si siano mai limitate a una sterile denuncia dei ritardi e delle distorsioni ideologiche del movimento comunista sui problemi posti dalla vitalità dimostrata dal capitalismo nel secondo dopoguerra e sulla natura e prospettive dell’integrazione economica e politica dell’Europa occidentale. E viceversa come esse abbiano concretamente contribuito a innovare gli strumenti di analisi della cultura politica comunista, consentendo al partito di guardare alle strutture comunitarie e al processo di integrazione europea come a una realtà irrevocabile entro la quale individuare le strategie e le soluzioni in grado di ridare al movimento operaio del continente un ruolo ancora una volta essenziale: tanto sul terreno della riorganizzazione e dello sviluppo tecnologico delle strutture produttive tradizionali e nuove, quanto su quello del confronto – non solo economico ma anche culturale e politico – dell’Europa comunitaria con gli USA e il Giappone, che erano allora i due poli “forti” del capitalismo mondiale.

Andrea Guiso (2012)