Libera circolazione delle merci

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Introduzione

All’interno delle quattro libertà di circolazione previste dal Trattato istitutivo della Comunità economica europea (v. Trattati di Roma; Comunità economica europea) (relative alla Libera circolazione delle merci, Libera circolazione delle persone, Libera circolazione dei servizi e alla Libera circolazione dei capitali), la libera circolazione delle merci ha, fin dalle origini, svolto un ruolo fondamentale, rappresentando il punto di partenza per la realizzazione del mercato comune (v. Comunità economica europea). Questa libertà, enunciata fra gli scopi del Trattato all’art. 2, e prevista in dettaglio dagli artt. 23-31 Trattato CE (Trattato della Comunità europea, TCE), ha trovato attuazione mediante due strumenti: l’Unione doganale (a integrazione della quale si devono considerare le previsioni di cui all’art. 90 sul divieto di imposizioni fiscali interne discriminatorie nei confronti dei prodotti importati), e l’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi (v. Tesauro, 2005, p. 385; Sbolci, 2005, p. 10). In questo modo si è reso possibile il graduale raggiungimento del mercato interno comunitario (sull’identità delle nozioni di mercato interno/mercato comune v. Moavero Milanesi, 1997, p. 466; Tesauro, 2005, p. 380). Alle previsioni contenute nel Trattato si sono poi affiancati numerosi atti di diritto secondario (v. Diritto comunitario), come i regolamenti sull’istituzione della Tariffa doganale comune e le direttive finalizzate ad abolire gli ostacoli alla libertà di circolazione.

Dal lato passivo, le disposizioni sulla libera circolazione delle merci hanno come destinatari gli Stati membri, obbligando anche le rispettive articolazioni interne territoriali o settoriali (regioni, province, enti locali, amministrazioni pubbliche) a garantirne il rispetto, pena l’infrazione del diritto comunitario a opera dello Stato e le relative conseguenze. Nel caso in cui la violazione delle previsioni in materia sia effettuata da soggetti privati (ad esempio operatori commerciali), lo Stato risulterà comunque responsabile della violazione alla libera circolazione delle merci se e in quanto abbia tollerato il comportamento lesivo, non intervenendo per interrompere e/o sanzionare il comportamento di questi (come sancito dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) nella sentenza 9 dicembre 1997, causa C-265/95, Commissione c. Francia, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I- 6959). Dal lato attivo le disposizioni sulla libera circolazione delle merci sono state più volte valutate dalla Corte di giustizia come produttive di effetto diretto negli ordinamenti nazionali (v. Mengozzi, 2003, p. 315): a prescindere dalla loro mancata attuazione nel diritto interno sarà quindi possibile per i singoli invocarne l’applicazione davanti all’autorità giurisdizionale nazionale (v. anche Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee).

L’Unione doganale

Nella prima fase dell’integrazione comunitaria (v. Integrazione, metodo della), si è reso necessario procedere all’abolizione dei dazi doganali esistenti per il commercio intracomunitario e delle tasse di effetto equivalente a questi (artt. 23-25 TCE). A tal fine è stata fissata una tariffa doganale comune (v. anche Tariffa esterna comune) verso gli Stati terzi (ora definita “taric”: tariffa integrata comunitaria), alla quale sottoporre tutti i beni al momento del loro primo ingresso nel mercato comunitario. In seguito al pagamento di questa, le merci si trovano in “libera pratica”, ossia circolano fra gli Stati membri senza che sia possibile l’ulteriore imposizione di nuovi dazi doganali. Si è così venuta a creare una c.d. “Unione doganale perfetta”, nella quale la libera circolazione si applica anche ai prodotti già importati da Stati terzi. A tal fine si ricordi che, per determinare lo Stato di origine, si fa riferimento all’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o comunque determinante, non rilevando a tal fine le fasi intermedie come quella di semplice assemblaggio del prodotto. L’attuazione di questa prima fase ha altresì comportato la necessità di instaurare una cooperazione doganale contro le frodi e i traffici illeciti (cfr. sentenza 21 settembre 1989, causa 68/88, cosiddetta Mais greco, in “Raccolta della giurisprudenza”. p. 2965), settore che è stato oggetto di comunitarizzazione a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. Per rendere effettivo il divieto dei dazi doganali ed evitare la possibilità per gli Stati di aggirarne il dettato tramite artifizi, si prevede che questo si estenda anche alle c.d. “tasse a effetto equivalente” ossia, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza comunitaria consolidata, a ogni onere pecuniario che uno Stato membro richieda in ragione della mera importazione/esportazione di un prodotto (v. Tizzano, 2004, p. 278). Risulta invece ammissibile sottoporre l’importazione a un onere pecuniario non obbligatorio che abbia natura di compenso effettivo per un servizio reso nell’interesse del soggetto importatore/esportatore (sentenza 1° luglio 1969, causa 24/68, Commissione c. Italia, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 193).

Il divieto di imposizioni fiscali interne discriminatorie

Al divieto di dazi doganali e tasse di effetto equivalente la Comunità europea affianca il divieto di imposizioni fiscali interne (imposte dirette e indirette) discriminatorie nei confronti dei prodotti di altri Stati membri, nonché il divieto di imposizioni protezionistiche a favore della produzione nazionale, entrambi contenuti nell’art. 90 TCE. In questo modo si colpiscono le previsioni fiscali interne non ricollegate all’attraversamento della frontiera, ossia applicabili a tutti i prodotti, importati e non, qualora abbiano come risultato quello di discriminare i prodotti di altro Stato membro. Si vuole così evitare che gli Stati eludano le previsioni in materia di libera circolazione delle merci.

Il rispetto di questa previsione sarà verificato tramite una comparazione fra la tassazione dei prodotti importati e quella di prodotti nazionali “similari”: ove la prima risulti quantitativamente superiore ci si troverà di fronte a un’imposizione fiscale discriminatoria.

Allo stesso modo risultano vietate le disposizioni fiscali che proteggono indirettamente le produzioni interne non similari, ma comunque in concorrenza col prodotto importato perché ne rappresentano una possibile alternativa, come ad esempio è stato stabilito dalla Corte di giustizia con riferimento alla birra in rapporto al vino (sentenza 12 luglio 1983, causa 170/78, Commissione c. Regno Unito, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 2265; sentenza 7 maggio 1987, causa C-193/85, Co-frutta, ivi, p. 2085; sul punto v. Sbolci, 2005, p. 18). Ogniqualvolta si sia alla presenza di una violazione dell’art. 90 TCE lo Stato dovrà provvedere alla restituzione del tributo illegittimamente riscosso.

L’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi

L’attuazione del divieto di restrizioni quantitative agli scambi e di misure di effetto equivalente a queste (artt. 28-29 TCE) ha dato origine a un’interessante evoluzione a opera della giurisprudenza comunitaria.

Quanto alle restrizioni quantitative, rientrano in questa categoria sia disposizioni nazionali che prevedano un divieto assoluto di importazione (o un rifiuto di rilasciare licenze di esportazione), sia disposizioni nazionali che prevedano un quantitativo massimo di beni.

Quanto alle misure di effetto equivalente, fondamentale sul punto è la c.d. “formula Dassonville” (desunta dall’omonima sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 837), secondo la quale rientrano in questa nozione tutte le misure che, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, restringano gli scambi commerciali fra gli Stati.

Il punto di partenza iniziale si basava sulla differenza di trattamento fra prodotti nazionali e importati: erano così valutate in violazione degli artt. 28-29 TCE le c.d. misure distintamente applicabili, come ad esempio la richiesta di un certificato o di una licenza per i prodotti importati e la previsione di controlli sanitari sistematici (sentenza 17 dicembre 1981, causa 272/80, Biologische Producten, ivi, p. 3277, la quale prevede che non si possano esigere nuovamente i controlli già effettuati nel paese di origine). Allo stesso modo, anche le misure che scoraggiano o impediscono le importazioni parallele rientrano in questa previsione.

Successivi interventi interpretativi hanno portato a ritenere possibile la ricaduta nel divieto, a certe condizioni, anche delle misure indistintamente applicabili ai prodotti nazionali e a quelli importati (a favore dell’estensione anche a quelli esportati v. Sbolci, 2005, p. 34, in senso contrario v. Tesauro, 2005, p. 424), come ad esempio le norme su qualità e presentazione del prodotto. Proprio al fine di eliminare i residui ostacoli derivanti da questa tipologia di disposizioni è stato introdotto, tramite la sentenza Cassis de Dijon (sentenza 20 febbraio 1979, causa 120/78, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 649) il principio di mutuo riconoscimento, in base al quale gli Stati devono avere una fiducia reciproca nelle rispettive norme tecniche sulla commercializzazione dei prodotti (v. Mengozzi, 2003, p. 319), non potendo quindi richiedere ai prodotti importati il rispetto delle proprie norme nazionali sul punto, salvo la necessità di salvaguardare le esigenze imperative quali ad esempio la tutela dei consumatori e la lealtà dei negozi commerciali.

Per quanto riguarda le misure che stabiliscono modalità di vendita (come ad esempio la vendita sottocosto) la giurisprudenza comunitaria ha subito un revirement: mentre inizialmente la Corte di giustizia aveva previsto che anche queste misure andassero valutate caso per caso sulla base del Principio di proporzionalità, a partire dalla sentenza Keck (sentenza 24 novembre 1993, cause riunite C-267 e 268/91, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-6097) si è ritenuto che non costituiscano misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative ove incidano allo stesso modo sui prodotti nazionali e su quelli importati (v. Tizzano, 2004, p. 293).

A fianco dell’applicazione del principio di mutuo riconoscimento, si pone la preesistente esigenza di procedere anche all’Armonizzazione delle normative nazionali sulla base degli artt. 94 e 95 TCE. L’applicazione combinata di questi due approcci, entrambi finalizzati al raggiungimento e buon funzionamento del mercato interno, ha fatto sì che si passasse da un primo periodo in cui le direttive adottate tendevano a garantire un’armonizzazione completa dei settori interessati, a una seconda fase nella quale l’armonizzazione è stata limitata allo stretto necessario a favore della più ampia applicazione del principio di mutuo riconoscimento. Per preservare le peculiarità di certe produzioni nazionali nel settore alimentare si è poi reso necessario creare un sistema di tutela dei prodotti tipici tramite l’introduzione di denominazioni di origine protetta (DOP) e indicazioni geografiche protette (IGP) previste (da ultimo) dal regolamento del Consiglio n. 510 /2006/CE (in “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” L 93 del 2006).

Nozione di merce e deroghe alla libera circolazione

Il Trattato istitutivo non prevedeva alcuna nozione di merce. Si è quindi reso necessario attendere l’intervento interpretativo della Corte di giustizia, la quale ha basato il proprio ragionamento sul principio di valutazione economica. Rientreranno perciò nella nozione di merce tutti i beni valutabili in denaro, a prescindere dall’entità della valutazione stessa. A carattere esemplificativo, si può vedere come, sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale, siano stati via via inclusi nella nozione di merce i seguenti beni: beni di interesse artistico, storico e archeologico (sentenza 10 dicembre 1968, causa 7/68, Commissione c. Italia, in “Raccolta della giuisprudenza”, p. 562), i beni che incorporano opere dell’ingegno (libri, sentenza 10 gennaio 1985, causa 229/83, Leclerc, ivi, p. 1; dischi, sentenza 8 giugno 1971, causa 78/70, Deutsche Gramophon, ivi, p. 487; videocassette, sentenza 11 luglio 1985, causa 60/84, Cinetheque, ivi, p. 2605), le monete non aventi corso legale (sentenza 23 novembre 1978, causa 7/78, Regina c. Thompson, ivi, p. 2247), i beni di interesse economico per lo Stato (petrolio, sentenza 10 luglio 1984, causa 72/83, Campus Oil, ivi, p. 2727), energia elettrica (sentenza 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. Enel, ivi, p. 1129; sentenza 27 aprile 1994, causa C-393/92, Comune di Almelo, ivi, p. I-1477), gli stupefacenti (sentenza 28 marzo 1995, causa C-324/93, Evans Medical, ivi, p. I-563; sul punto vedi Marini, 2006, p. 190; v. Tesauro, 2005, p. 386; Sbolci, 2005, p. 12). Anche i rifiuti, riciclabili o meno, possono rientrare nella qualifica di merci, in quanto ne risulta possibile, seppur difficilmente quantificabile, la valutazione economica (sentenza 9 luglio 1992, causa C-2/90, Commissione c. Belgio, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4431).

Quanto ai prodotti agricoli, la disciplina della libera circolazione delle merci troverà applicazione nei loro confronti solo nel caso in cui non rientrino, ai sensi della Politica agricola comune, in un’organizzazione comune di mercato.

Una ulteriore espressa esclusione è prevista dall’art. 296 TCE in relazione ai prodotti che riguardano la sicurezza compresi in apposito elenco, come, ad esempio, le armi: gli Stati avranno in questo caso la facoltà di ostacolarne il commercio.

Il Trattato, all’art. 30, prevede un elenco tassativo di motivi in base ai quali è possibile restringere la libera circolazione delle merci, imponendo restrizioni quantitative e misure di effetto equivalente (ma non dazi doganali o tasse di effetto equivalente). Si tratta di ragioni di moralità pubblica, pubblica sicurezza, ordine pubblico, salute (di persone, animali e vegetali), protezione del patrimonio storico-artistico-culturale e tutela della proprietà industriale e commerciale. Trattandosi di deroghe al principio generale, queste sono state interpretate restrittivamente e potranno essere applicate solo in assenza di armonizzazione comunitaria completa e nel rispetto del principio di proporzionalità: saranno ammissibili le misure necessarie alla tutela dell’obiettivo previsto a patto che siano quelle meno restrittive possibili per gli scambi comunitari.

La Corte di giustizia ha esteso il novero delle eccezioni tramite la previsione della c.d. tutela delle esigenze imperative (sentenza Cassis de Dijon, cit.), concetto nel quale rientrano interessi generali ulteriori rispetto all’elencazione di cui all’art. 30 TCE. Le esigenze imperative verranno però in rilievo solo per le misure indistintamente applicabili (v. supra), mentre le deroghe previste dall’art. 30 trovano applicazione anche nei confronti delle misure distintamente applicabili (sulla distinzione fra deroghe ex art. 30 e tutela delle esigenze imperative cfr. Sbolci, 2005, p. 44; Tizzano, 2004, p. 300).

Elisabetta Bergamini (2007)

Bibliografia

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