Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea
Le sei libertà fondamentali
La storia dei popoli europei è caratterizzata da una ricerca incessante di libertà e diritti, dall’epoca greco-romana al Medio Evo, dalla Magna Carta del 1215 alla Petizione dei diritti del 1628, dall’Habeas corpus del 1679 al Bill of rights del 1689, dalla Dichiarazione del 1793, scaturita della Rivoluzione francese, alla Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 1948. Questa ricerca ha scandito le tappe della lunga marcia dei popoli europei verso la conquista di uno spazio privilegiato della speranza umana, uno spazio di pace, di rispetto della dignità umana, di libertà, di democrazia, di giustizia, di sicurezza, di solidarietà – valori identitari che hanno forgiato la nostra “europeità”.
Il Mercato unico europeo e le tre direttive del 1990, il Trattato di Maastricht del 1992 – che ha conferito la Cittadinanza europea a tutti i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea – la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (v. anche Trattato di Nizza), la direttiva 2004/38 del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei membri delle loro famiglie di circolare e soggiornare liberamente sul territorio comunitario, e infine la giurisprudenza progressista ed illuminante della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), costituiscono le tappe decisive della lunga marcia del cittadino europeo.
Il titolo III dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957, istitutivo della Comunità economica europea (CEE), ha come titolo La libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali. L’espressione “Libera circolazione delle persone” va precisata. La parola “persona”, dal latino persona e dal greco prosopon, opposta a res (cosa) designa, in generale, ogni essere umano, senza esclusione alcuna. Sicché, se è vero che nel suo significato strettamente etimologico l’espressione “libera circolazione delle persone” dovrebbe riguardare il diritto di circolazione di ogni cittadino della Comunità, senza eccezione alcuna, è altrettanto indubbio che le disposizioni del Trattato oggetto del titolo III – quelle di cui agli articoli da 39 a 55 – riguardano in realtà tre categorie di persone ben definite, ossia cittadini europei economicamente attivi, prestatori cioè di attività economiche, reali ed effettive: i “lavoratori salariati”, e cioè i cittadini europei che esercitano la loro attività in un paese della Comunità diverso da quello del quale hanno la cittadinanza, alle dipendenze di un datore di lavoro (artt. 39-42 Trattato CEE, TCE); i “lavoratori indipendenti”, e cioè i cittadini europei stabiliti in un paese della Comunità diverso da quello del quale hanno la cittadinanza, nel quale svolgono la propria attività economica come indipendenti e in maniera durevole (artt. 43-48 TCE); i “prestatori (o destinatari) di servizi”, e cioè i cittadini europei che prestano la loro attività economica a favore di un destinatario recandosi, a titolo occasionale, in un altro paese della Comunità, o che di detta attività sono, alle stesse condizioni, beneficiari (artt. 49-55 TCE).
Trattasi dunque di tre diverse fattispecie giuridiche, disciplinate da norme diverse, che il Trattato contempla in tre diversi capitoli: “Lavoratori”, “Diritto di stabilimento”, “Servizi”. Discende da quando precede che il Trattato di Roma aveva preso in considerazione unicamente l’homo oeconomicus, ignorando così il “cittadino europeo” in quanto tale e cioè “economicamente non attivo”. Il che è del resto perfettamente comprensibile ove si consideri che detto trattato aveva istituito una Comunità economica europea, una Comunità cioè che perseguiva finalità di carattere meramente economico.
L’aggettivo “economica” è stato in seguito cancellato dal Trattato di Maastricht, che proclamando la “cittadinanza europea” ed elevando a rango di norma costituzionale il diritto di circolazione e di soggiorno – affermato da tre direttive del 1990 – dei cittadini europei non aventi la qualifica di “prestatori di attività economiche”, introduceva nel Trattato una “sesta” libertà fondamentale. Si continua ancora a parlare, come per “sentito dire”, e quindi poco “cartesianamente”, di quattro libertà fondamentali del Trattato di Roma, benché i conti non tornino: 1), Libera circolazione delle merci (artt. 23-31 TCE); 2), libera circolazione dei lavoratori (artt. 39-42 TCE); 3), diritto di Libertà di stabilimento (articoli 43-48 TCE); 4), Libera circolazione dei servizi (artt. 49-55 TCE); 5), Libera circolazione dei capitali e dei pagamenti (artt. 56-60 TCE). A queste cinque libertà previste dal Trattato di Roma, il Trattato di Maastricht (artt. 17 ss. TCE) ne ha aggiunto una sesta: la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea.
Discende dalle considerazioni appena svolte che la lunga marcia del cittadino dell’Unione europea ha raggiunto, con il Trattato di Maastricht, una tappa importante verso la sua piena integrazione nel processo di unificazione europea. Anche se “dimenticato” dal Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea, il cittadino comunitario ha progressivamente acquistato un suo status juris grazie non solo al Diritto comunitario, ma anche a una giurisprudenza illuminante e progressista della Corte di giustizia, normativa e giurisprudenza che hanno conferito diritti che vanno ben al di là dei diritti economici e dei vantaggi sociali o fiscali conferiti ai “soggetti economici”.
I diritti delle persone “economicamente non attive”
Tra i principali atti della legislazione comunitaria mirante a dare attuazione alle disposizioni del Trattato di Roma relative alla libertà di circolazione e di soggiorno dei prestatori d’attività economica, ricordiamo in particolare il regolamento 1612/68 del 15 ottobre 1968 (in “Gazzetta ufficiale della Comunità europea” L257 del 19/10/1968) per i lavoratori salariati e la direttiva 75/34 del 17 dicembre 1974 (ibid., L014 del 20/01/1975) per i lavoratori non salariati. Questi due atti normativi hanno conferito, sin dagli anni Sessanta, nuovi diritti a persone non rientranti, stricto sensu, tra le “persone economicamente attive”.
Il regolamento 1612/68 e la direttiva 75/34 affermano il diritto dei membri della famiglia del lavoratore, anche se “economicamente non attivi”, di stabilirsi con lui nel paese ospitante. La stessa normativa comunitaria prevede inoltre che il lavoratore migrante e i membri della sua famiglia, anche se “economicamente non attivi” godano sul territorio dello Stato membro ospitante degli «stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali», quali, ad esempio, insegnamenti impartiti dalle scuole professionali e dai centri di riadattamento o di rieducazione, indennità scolastiche, prestiti agevolati, sgravi fiscali, ecc.
Come già ricordato, la Corte di giustizia ha elaborato una giurisprudenza progressista che ha proclamato diritti che vanno al di là dei diritti economici e dei vantaggi sociali e fiscali derivanti dall’appartenenza a una Comunità economica. Accenneremo brevemente ad alcuni di questi diritti, raggruppandoli in tre categorie.
La prima è quella dei diritti riguardanti la dignità dell’individuo: i diritti fondamentali della persona umana, la cui tutela, secondo la Corte, «pur essendo informata alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, va garantita entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità» (sentenza Internationale Handesgesellschaft del 17 dicembre 1970); il diritto alla non discriminazione (v. Principio di non discriminazione), previsto dall’articolo 12 del Trattato (ex articolo 6), mirante ad assicurare l’uguaglianza di trattamento a ogni cittadino della Comunità (sentenza Defrenne II dell’8 aprile 1976); il diritto al rispetto della vita privata e, in particolare, la protezione del segreto medico e il diritto al rispetto della vita familiare (sentenza Legge tedesca sui medicinali dell’8 aprile 1992); il diritto all’inviolabilità del domicilio, in particolare da perquisizioni di natura amministrativa (sentenza Hoechst del 21 settembre 1989); il diritto alla tutela giuridica degli amministrati, che comporta l’obbligo per la pubblica autorità di motivare le proprie decisioni di rifiuto e indicare le istanze di ricorso presso le quali impugnarle (sentenza Heylens del 15 ottobre 1987); il diritto di ogni amministrato, sottoposto a procedure amministrative suscettibili di concludersi con provvedimenti che comportino sanzioni o con decisioni che risultassero a lui sfavorevoli, di difendersi e di far conoscere il proprio punto di vista (sentenza Hoffman-La Roche del 13 febbraio 1979); il diritto alla libertà di espressione delle diverse componenti sociali, culturali, religiose e filosofiche esistenti in uno Stato membro.
La seconda categoria è quella dei diritti riguardanti la piena integrazione di un cittadino comunitario nell’ambiente sociale di un altro Stato membro. Tali sono: il diritto di ogni cittadino comunitario di utilizzare la propria lingua in una procedura davanti agli organi giurisdizionali dello Stato membro ospitante (sentenza Mutsch dell’11 luglio 1985) (v. Lingue); il diritto del partner che abbia una relazione stabile con un lavoratore comunitario a essere equiparato al coniuge (sentenza Reed del 17 aprile 1986); il diritto all’integrità fisica, alla protezione contro rischi di aggressione e alla concessione di compensi pecuniari previsti dal diritto nazionale in caso di aggressione (sentenza Cowan del 2 febbraio 1989); il diritto di ogni cittadino comunitario di recarsi in un altro Stato membro e di cercarvi un impiego per un periodo di tempo ragionevole (sentenza Antonissen del 21 febbraio 1991).
La terza categoria, infine, comprende il diritto di circolazione per i destinatari di servizi. Il diritto di circolazione, sancito dalla Corte nelle sentenze Luisi-Carbone del 30 gennaio 1984 e Cowan del 2 febbraio 1989, pur essendo inserito nel contesto della prestazione dei servizi ai sensi dell’articolo 49 del Trattato, ha come destinatari anche i cittadini comunitari che non prestino attività economiche. Nella sentenza Luisi-Carbone la Corte ha anzitutto precisato che, nell’ambito dell’articolo 49 del Trattato, al fine di permettere l’esecuzione della prestazione di servizi, si può avere sia lo spostamento del prestatore che si reca nello Stato membro dove è stabilito il destinatario del servizio, sia lo spostamento del destinatario del servizio che si rechi nello Stato in cui è stabilito il prestatore. In particolare, la Corte afferma che il diritto dei destinatari dei servizi comprende la libertà di recarsi in un altro Stato membro al fine di beneficiarvi di un servizio. Il godimento di tale diritto – che non deve essere ostacolato da alcun tipo di restrizioni – si estende a tutti i cittadini comunitari, anche se “economicamente non attivi”, che si rechino, quali destinatari di servizi, in un altro Stato membro, per ragioni di turismo o di studi.
L’Atto unico europeo e le direttive del 1990
È indubbio che né l’espressione “cittadino europeo” né altre simili figurano nell’Atto unico europeo (AUE) entrato in vigore il 1° luglio 1987. Esso riprende infatti la stessa espressione “libera circolazione delle persone” del Trattato CEE, con tutte le ambiguità alle quali abbiamo fatto già riferimento. Tuttavia è altrettanto vero che mai, sino a quel momento, nella storia dell’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della), un obiettivo (quello della realizzazione del Mercato unico europeo) e una scadenza (quella del 31 dicembre 1992) avevano mobilitato con un consenso così ampio le forze progressiste del mondo politico ed economico e avvicinato all’idea europea il cittadino comunitario con una partecipazione così diretta (v. Mattera, 1990).
L’articolo 14 dell’AUE enuncia una regola innovatrice, oseremmo dire rivoluzionaria: la soppressione delle frontiere interne. Gli obiettivi indicati sono infatti ambiziosi: eliminare definitivamente le barriere doganali, tecniche, fiscali, amministrative che avevano fatto del nostro continente una sorta di Europa feudale per creare uno spazio economico, sociale, culturale unificato (v. anche Unione doganale). Il 14 giugno 1985 i paesi del Benelux, la Francia e la Germania, firmavano a Schengen l’accordo relativo alla soppressione dei controlli alle frontiere comuni. Il 16 giugno 1990 i cinque paesi firmavano la Convenzione di applicazione di questo Accordo, convenzione che istituisce il principio della soppressione dei controlli alle frontiere interne nei confronti di ogni persona ed indica le necessarie misure di accompagnamento.
Attualmente, sia gli Stati che hanno firmato l’Accordo del 1985 sia quelli che vi hanno aderito in seguito (Italia, Spagna, Portogallo, Austria, Grecia, Danimarca, Finlandia, Svezia) fanno parte del cosiddetto “Spazio Schengen”. Soltanto il Regno Unito e l’Irlanda vi hanno aderito, mentre un periodo transitorio di adattamento è previsto per i nuovi Stati che hanno aderito all’Unione a decorrere dal 1° maggio 2004. Ricordiamo infine che l’“acquis Schengen” è stato incorporato nel Trattato di Amsterdam.
Lo spazio unificato senza frontiere interne, quale delineato dagli autori dell’AUE e previsto dall’articolo 14, sarebbe rimasto un voeux pieux senza l’effettiva attuazione del diritto di circolazione e di soggiorno di tutti i cittadini facenti parte di questo spazio unico. L’AUE non aveva tuttavia previsto alcuna fonte normativa per l’attuazione di tale diritto. Si è dovuto pertanto ricorrere allo “strumento normativo di emergenza”: l’articolo 308 del Trattato. Il 28 giugno 1990 (vale a dire undici anni dopo l’adozione da parte della Commissione europea della proposta in merito) il Consiglio dei ministri dell’Unione, grazie ai “venti favorevoli” della scadenza del 1992, adottava contemporaneamente tre direttive (v. Direttiva) volte a conferire a ogni cittadino europeo “economicamente non attivo” il diritto di soggiorno su tutto il territorio della Comunità. I cittadini comunitari economicamente non attivi sono stati classificati in tre categorie: i cittadini comunitari diversi da quelli rientranti nelle due categorie di cui appresso (direttiva 90/364); i cittadini comunitari che hanno cessato la propria attività lavorativa (direttiva 90/365) e cioè i lavoratori pensionati o licenziati; gli studenti (direttiva 90/366).
Il Trattato di Maastricht e la cittadinanza europea
Il termine “cittadinanza” deriva dal latino civitas, che deriva a sua volta da civis: membro libero di una città alla quale costui appartiene per origine o per adozione. La parola civitas (che va distinta da quella di urbs, che designa invece una comunità di persone stabilitasi su un territorio ben delimitato) ha dunque il significato di “condizione di cittadino”, status civitatis. Discende da queste nozioni etimologiche che la nozione di “cittadinanza” possiede intrinsecamente, sin dall’epoca romana, un significato che va ben al di là del semplice legame di appartenenza a una città, a un paese o a una nazione. È uno status civitatis che conferisce libertà, diritti e al tempo stesso doveri, che attribuisce al legame di appartenenza al territorio o a una comunità un contenuto sostanziale, uno status giuridico e fa del titolare di detto status juris un “soggetto di diritto”.
Nel 212 d.C. la cittadinanza romana fu estesa a tutti i residenti dell’Impero in virtù di una nuova costituzione promulgata dall’imperatore Antonino Caracalla (Costitutio antoniana) il cui principio fondamentale era il seguente: in orbe Romano qui sunt, ex costitutione imperatoris Antonini, cives romani effecti sunt. La concezione della cittadinanza romana implicava una par condicio piena ed effettiva in virtù della quale i cittadini dell’Impero che beneficiavano di tale status e gli abitanti dell’Urbs godevano delle stesse libertà e degli stessi diritti ed erano tenuti all’osservanza degli stessi doveri.
L’articolo 17 del Trattato CE, introdotto dal Trattato di Maastricht prevede l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione («è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro»), e stabilisce che «i cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti dal presente Trattato».
Tali diritti devono essere altresì distinti dalla possibilità concessa ad ogni cittadino di rivolgersi al Mediatore europeo istituito conformemente alle disposizioni dell’articolo 195 del Trattato CE e al quale vanno presentati i ricorsi contro la cattiva amministrazione delle Istituzioni comunitarie e degli organi comunitari (a eccezione della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado). Si tratta di possibilità non strettamente legate allo status di cittadino e che avrebbero potuto e dovuto esistere già prima dell’istituzione di un tale status.
Considerazioni analoghe possono essere formulate con riferimento all’istituto della “protezione diplomatica e consolare” di cui gode, in virtù dell’articolo 20 dello stesso Trattato, ogni cittadino dell’Unione sul territorio di un paese terzo dove lo Stato membro del cittadino non è rappresentato; la Protezione diplomatica e consolare del cittadino europeo è in tal caso assicurata al soggetto in questione dalle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro rappresentato sul territorio di detto paese terzo.
Gli articoli 17 e ss. del trattato CE conferiscono ai cittadini dell’Unione i seguenti tre diritti. In primo luogo, il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui il cittadino risiede (articolo 19, paragrafo 1: «Ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di tale Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, dovrà adottare entro il 31 dicembre 1994; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno stato membro lo giustifichino»). Le modalità di esercizio del suddetto voto sono state poi fissate attraverso la direttiva 94/80/CE del Consiglio del 6 dicembre 1993 (GUCE L368 del 31/12/1994).
In secondo luogo il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui il cittadino risiede (articolo 19, paragrafo 2: «Fatte salve le disposizioni dell’articolo 138, paragrafo 3 e le disposizioni adottate in applicazione di quest’ultimo, ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, dovrà adottare entro il 31 dicembre 1993; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino»). Le modalità di esercizio di detto voto sono state poi fissate con la direttiva 93/109/CE del Consiglio del 6 dicembre 1993 (GUCE L239 del 30/12/1993).
Infine, il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (articolo 18, paragrafo 1).
Si tratta incontestabilmente di diritti che, da un canto, permettono ai cittadini comunitari di esercitare i propri “diritti civici” e, di conseguenza, di garantire un certo livello di rappresentatività democratica all’interno dell’Unione (diritto di voto e di eleggibilità) e, dall’altro, assicurano a questi stessi cittadini la possibilità di godere di tale status non in quanto “fattori di produzione” ma in quanto “cittadini”.
Per quanto riguarda il diritto di circolazione e di soggiorno del cittadino europeo e la diretta applicabilità dell’articolo 18 CE, l’articolo 18 del Trattato CE dispone che «ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente Trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso. Il Consiglio può adottare disposizioni intese a facilitare l’esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1; salvo diversa disposizione del presente Trattato, esso delibera secondo la procedura di cui all’articolo 251. Il Consiglio delibera all’unanimità durante tutta la procedura».
Sin dalla firma del Trattato di Maastricht, le disposizioni dell’articolo 18, paragrafo 1 sono direttamente applicabili nell’ordinamento giuridico di ogni Stato membro e conferiscono ai cittadini europei il diritto di «circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri», diritto che le giurisdizioni nazionali devono tutelare. Dette disposizioni consacrano il diritto di circolazione e di soggiorno del cittadino europeo quale diritto fondamentale riconosciuto dalla Comunità e lo elevano a rango di diritto costituzionale comunitario. In virtù di detta norma il cittadino europeo assurge a “soggetto di diritto comunitario”.
Nella sentenza Baumbast del 19 ottobre 2004, la Corte di giustizia ha confermato la diretta applicabilità dell’articolo 18 del Trattato, sostenendo che il diritto di soggiorno è riconosciuto direttamente a ogni cittadino dell’Unione da una disposizione “chiara e precisa“ quale quella dell’articolo 18, par. 1 (punto 84 della motivazione).
Il Trattato di Amsterdam
I dibattiti che hanno preceduto la ratifica da parte degli Stati membri del Trattato di Maastricht avevano posto in luce come tra i cittadini comunitari si fosse diffusa una forte corrente di scetticismo nei confronti della costruzione europea (v. anche Euroscetticismo).
Il Trattato di Amsterdam ha risposto solo parzialmente alle attese dei cittadini europei. È vero che è stato loro dedicato un capitolo intero di tale Trattato: proclamazione dei diritti fondamentali, allargamento della sfera di applicazione del principio di non discriminazione; applicazione alle istituzioni e agli organi della Comunità degli atti comunitari relativi alla protezione delle persone fisiche con riferimento al trattamento dei dati personali e alla libera circolazione di tali dati; diritto di accesso ai documenti comunitari, ecc. Occorre tuttavia riconoscere che alcuni di questi diritti formavano già parte integrante dell’ordinamento giuridico comunitario in virtù della Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee (diritti fondamentali della persona umana). Inoltre, l’allargamento della sfera di applicazione di altri diritti (non discriminazione e parità di trattamento) è più formale che sostanziale. Infine, gli altri diritti introdotti dal Trattato di Amsterdam sembrano avere una portata alquanto modesta.
Vanno comunque sottolineate alcune innovazioni significative in tema di tutela dei diritti dei cittadini: il meccanismo di sanzione, previsto dagli articoli 6 e 7 de trattato sull’Unione europea, contro uno Stato che non rispetti i diritti fondamentali (v. Monjal, 1998); l’integrazione nel regime comunitario (c.d. “comunitarizzazione”) di alcuni regimi e politiche (segnatamente, il regime applicabile alle frontiere esterne, la politica dei visti, le Politiche dell’immigrazione e dell’asilo, la Cooperazione giudiziaria in materia civile). Questa integrazione ha prodotto cambiamenti importanti di cui si sono avvantaggiati i cittadini comunitari: adozione di direttive e regolamenti in sostituzione delle Convenzioni; controllo giurisdizionale da parte della Corte di giustizia; potere esclusivo di iniziativa da parte della Commissione (allo scadere di un periodo transitorio quinquennale di iniziativa congiunta Commissione-Stati membri); incorporazione dell’acquis di Schengen nel regime comunitario attraverso un Protocollo allegato al Trattato. Quest’ultima operazione, pur complessa, ha consentito di inserire la libera circolazione delle persone nel primo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea), lasciando nel terzo (v. Petite, 1997) unicamente la disciplina degli aspetti relativi al diritto penale e alle attività di polizia (v. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).
I risultati non esaltanti raggiunti con il Trattato di Amsterdam inducevano Mario Monti, commissario europeo responsabile del Mercato interno, a forzare i tempi, convinto che le sfide che l’Unione europea era chiamata ad affrontare all’alba del terzo millennio – Allargamento, riforma delle istituzioni, tutela dell’ambiente (v. anche Politica ambientale), lotta contro la disoccupazione, Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga, Lotta contro il terrorismo, l’integralismo, ecc. – potessero essere colte solo con il consenso democratico dei popoli europei. La partecipazione di tutti i cittadini a tale processo rappresentava perciò per Monti un’esigenza imprescindibile.
In diverse comunicazioni rivolte al Consiglio e al Parlamento europeo, la Commissione europea, su proposta di Monti, sottolineava l’urgente necessità di garantire a tutti i cittadini della Comunità un’effettiva libertà di circolazione e di soggiorno. In una di queste comunicazioni, quella del 1° luglio 1998, Monti identificava i quattro obiettivi da raggiungere: creare un regime unico di libera circolazione ai sensi dell’articolo 18 del Trattato per tutti i cittadini dell’Unione e per i membri delle loro famiglie, indipendentemente dal fatto che essi esercitino meno un’attività economica; chiarire lo status dei membri della famiglia di un cittadino comunitario; definire con maggiore concretezza e limitare al massimo le deroghe che permettono di giustificare il divieto di ingresso o l’espulsione di un cittadino comunitario dal territorio di uno Stato membro; adottare un nuovo approccio in tema di esercizio del diritto di soggiorno, limitando in particolare l’obbligo di presentare un titolo di soggiorno ai soli casi in cui esso risulti necessario. Questi quattro obiettivi saranno raggiunti grazie alla direttiva 2004/38.
La direttiva 2004/38
Il 30 aprile 2006, il cittadino europeo ha raggiunto un importante, decisivo traguardo nella “lunga marcia”, iniziata con i Trattati di Roma, verso la conquista di diritti e libertà che gli consentono di circolare senza restrizioni nei paesi dell’Unione europea, di soggiornarvi liberamente, di beneficiarvi dello stesso trattamento accordato ai cittadini dello Stato ospitante.
Questo traguardo è stato raggiunto grazie alla direttiva 2004/38 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 che gli Stati membri sono stati chiamati a recepire nel proprio ordinamento giuridico entro la precitata data del 30 aprile 2006. La direttiva 2004/38 ha dunque esteso ai cittadini dell’Unione che non esercitano alcuna attività economica gli stessi vantaggi e diritti concessi ai cittadini dello Stato ospitante. Prima di aver ottenuto il soggiorno permanente in quest’ultimo Stato, il cittadino europeo potrà beneficiare di detti diritti e vantaggi solo se dispone (come previsto dalle precitate tre direttive del 1990) di risorse sufficienti a evitare che diventi un onere irragionevole per l’assistenza sociale dello Stato ospitante, e abbia inoltre provveduto ad assicurarsi contro ogni forma di malattia, invalidità, ecc.
Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2004/38 i beneficiari dei diritti da essa conferiti sono: i cittadini dell’Unione e cioè ogni cittadino avente la cittadinanza di uno Stato membro; i membri della sua famiglia, e cioè: il coniuge; i discendenti diretti (figli, nipoti, ecc.) di età inferiore a 21 anni o a carico, nonché quelli del coniuge o del partner registrato; gli ascendenti diretti a carico (genitori, nonni, ecc.), nonché quelli del coniuge o del partner registrato; il partner del cittadino dell’Unione, anche se “extracomunitario”, che abbia contratto con detto cittadino un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, se quest’unione è riconosciuta nello Stato membro ospitante.
Gli Stati membri ospitanti hanno inoltre l’obbligo di agevolare l’ingresso e il soggiorno di altri parenti, anche se non sono cittadini dell’Unione (fratelli e sorelle, cugini, zii, ecc., genitori non a carico o figli di età superiore ai 21 anni se vivono con il cittadino) nonché di persone che convivono con il cittadino dell’Unione, ivi compreso il partner, con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata, se dette persone sono a carico del cittadino dell’Unione o se gravi motivi di salute esigono che da questi vengano personalmente assistiti. Un eventuale rifiuto del loro ingresso o soggiorno dovrebbe formare oggetto di una decisione debitamente motivata e suscettibile di impugnazione davanti alle giurisdizioni nazionali.
Il diritto del cittadino europeo di lasciare il proprio paese con i suoi familiari per stabilirsi in un altro Stato membro è espressamente previsto e disciplinato dall’articolo 4 della direttiva 2004/38 che ha modificato le direttive esistenti.
Discende da detto articolo che tale diritto comporta per lo Stato membro di origine l’obbligo di: consegnare e rinnovare i documenti necessari (carta d’identità o passaporto) ai cittadini comunitari; autorizzare l’uscita dei familiari del cittadino che non hanno la nazionalità di uno Stato membro, se muniti di un passaporto in corso di validità; non subordinare il beneficio di questo diritto ad alcuna condizione restrittiva (visti di uscita o obblighi equivalenti, restrizioni in materia di trasferimento dei capitali, l’obbligo di rientrare dopo un certo periodo o di trasferire una parte del salario nel paese di origine, ecc.).
Come precisato dalla Corte nella sua sentenza Pieck del 3 luglio 1980, i termini “visto d’ingresso o obbligo equivalente” si riferiscono a «qualsiasi formalità, mirante ad autorizzare l’ingresso nel territorio di uno Stato membro, prescritta oltre al controllo del passaporto o della carta d’identità alla frontiera, indipendentemente dal luogo o dal momento del rilascio di detta autorizzazione e dalla forma che essa può avere».
Il diritto di ingresso in un altro Stato membro è disciplinato dall’articolo 5 della direttiva 2004/38, dal quale discende che un cittadino europeo ha il diritto di entrare in un altro paese dell’Unione: con i suoi familiari, cittadini dell’Unione, se muniti di una carta di identità o di un passaporto in corso di validità; con i familiari che non hanno la nazionalità di uno Stato membro se muniti di un passaporto in corso di validità; nessun visto d’ingresso né obbligo equivalente possono essere imposti al cittadino dell’Unione.
Ai sensi e per gli effetti delle disposizioni del paragrafo 4 della stessa direttiva, lo Stato membro ospitante non può bloccare alla frontiera né respingere un cittadino dell’Unione o un familiare che non abbia la nazionalità di uno Stato membro, qualora questi non dispongano dei documenti di viaggio richiesti o, se richiesto, del visto necessario. È quanto discende con assoluta chiarezza dal testo di detto paragrafo che così recita: «Lo Stato membro interessato concede a queste persone, prima di procedere al respingimento, ogni possibile agevolazione affinché possano ottenere o far pervenire entro un periodo di tempo ragionevole i documenti necessari, oppure possano dimostrare o attestare con altri mezzi la qualifica di titolari del diritto di libera circolazione». L’espressione “periodo di tempo ragionevole” implica innegabilmente che lo Stato membro ospitante è tenuto ad accettare sul suo territorio le persone in questione e accordare loro ogni possibile agevolazione prima di respingerle. Come il diritto di ingresso, anche il diritto di soggiorno sul territorio dello Stato membro ospitante è conferito ai cittadini comunitari direttamente dal trattato CE. L’articolo 6 della direttiva 2004/38 prevede che tutti i cittadini dell’Unione hanno il diritto di soggiornare sul territorio di un altro Stato membro fino a tre mesi, senza limitazioni né vincoli di sorta. La sola esigenza richiesta è di possedere una carta d’identità o un passaporto in corso di validità. Analogo diritto è conferito ai familiari che non hanno la cittadinanza di uno Stato membro, e che accompagnano o raggiungono il cittadino dell’Unione, se muniti di un passaporto in corso di validità.
Il medesimo articolo dispone che ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di soggiornare nel territorio di un altro Stato membro per una durata di più di tre mesi se rispetta le già citate condizioni (risorse sufficienti e assicurazione contro ogni rischio). I familiari che lo accompagnano o raggiungono godono dello stesso diritto. La “Carta di soggiorno” sinora richiesta è stata soppressa. Tuttavia, lo Stato membro ospitante può richiedere ai cittadini dell’Unione di iscriversi presso le autorità competenti entro un termine non inferiore ai tre mesi dall’ingresso, iscrizione che comporta l’immediato rilascio – dietro presentazione di una carta d’identità o di un passaporto – di un “attestato di iscrizione” contenente le generalità e il domicilio della persona iscritta. Ai familiari che non sono cittadini UE è rilasciata, alle già citate condizioni, una “Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione”, valida cinque anni. I familiari del cittadino UE, qualunque sia la loro nazionalità, conservano il diritto di soggiorno, alle condizioni previste dalla direttiva, sia in caso di decesso o partenza del cittadino dell’Unione sia in caso di divorzio, di annullamento del matrimonio o di scioglimento dell’unione registrata.
La direttiva 2004/38 conferisce altresì il diritto di soggiorno permanente nello Stato ospitante ai cittadini dell’Unione e ai familiari che hanno soggiornato legalmente in via continuativa per cinque anni nel territorio di questo Stato. Questo diritto è conferito, alle stesse condizioni, anche ai familiari che non hanno la cittadinanza di uno Stato membro Gli Stati membri rilasciano ai cittadini dell’Unione un documento che attesta il soggiorno permanente mentre i familiari “extracomunitari” riceveranno una carta di soggiorno permanente rinnovabile ogni dieci anni.
Ai sensi del primo paragrafo dell’articolo 24 della direttiva 2004/38 i cittadini dell’Unione e i loro familiari che soggiornano sul territorio dello Stato membro ospitante beneficiano della parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali in tutti i settori di competenza comunitaria. Tale diritto è esteso anche ai familiari che non sono cittadini dell’Unione.
In deroga al primo paragrafo, lo Stato membro ospitante ha la facoltà di non attribuire il diritto a prestazioni d’assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno e, se del caso, durante i primi cinque anni, né è tenuto a concedere a studenti, prima dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente, borse di studio o prestiti, anche se a scopo di formazione professionale. Come osserveremo a breve, tale limitazione va tuttavia interpretata alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia.
La direttiva 2004/38 ha fortemente limitato le eccezioni al diritto di soggiorno del cittadino europeo previste dalla precedente normativa. Quest’ultima prevedeva eccezioni per cittadini affetti da malattie a rischio per la salute pubblica quali, ad esempio, la tubercolosi, la sifilide, e altre malattie infettive, parassitarie o contagiose, ecc. In virtù della nuova direttiva le sole malattie che possono giustificare misure restrittive del diritto di circolazione e di soggiorno sono quelle potenzialmente epidemiche, quali definite dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). In nessun caso l’insorgere di malattie dopo tre mesi dalla data di arrivo può giustificare l’espulsione.
In quanto deroga a un diritto fondamentale, dette misure restrittive devono essere proporzionate e debitamente motivate. Inoltre, eventuali provvedimenti di ordine pubblico e di pubblica sicurezza devono essere proporzionati e devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell’interessato, comportamento che deve comunque rappresentare una «minaccia reale, attuale e sufficientemente grave» tale da pregiudicare un interesse fondamentale della società. L’esistenza di condanne penali anteriori non giustifica in sé la limitazione del diritto di libera circolazione e di soggiorno. I provvedimenti restrittivi non possono inoltre basarsi solo su considerazioni di prevenzione generale. Infine, prima di adottare un provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico o pubblica sicurezza, lo Stato membro ospitante deve tenere conto di aspetti quali la durata del soggiorno dell’interessato, la sua età, le condizioni di salute, la situazione familiare ed economica, l’integrazione culturale e sociale e l’intensità dei suoi legami con il paese d’origine. Maggiori garanzie sono offerte ai cittadini dell’Unione e ai loro familiari che hanno acquisito il diritto di soggiorno permanente.
La direttiva 2004/38 prevede inoltre importanti garanzie procedurali. In particolare, ogni decisione di espulsione o di rifiuto d’ingresso deve essere motivata e comunicata all’interessato. Essa deve inoltre specificare l’organo dinanzi al quale potrà essere impugnata – con possibile effetto sospensivo – nonché il termine entro il quale la procedura dovrà essere espletata.
Nella sua illuminante giurisprudenza la Corte ha affermato e consacrato il principio della parità di trattamento che lo Stato membro ospitante è tenuto ad accordare ai cittadini europei, un diritto fondato sul combinato disposto degli articoli 12 (principio di non discriminazione) e 17 (cittadinanza europea accordata a tutti i cittadini dell’Unione). La Corte opera inoltre una sapiente distinzione tra il diritto di soggiorno – subordinato, sino all’ottenimento del soggiorno permanente, al possesso di risorse sufficienti e di una assicurazione contro ogni rischio – e la possibilità di beneficiare dello stesso trattamento del cittadino nazionale. La Corte afferma infatti che i cittadini europei, e quindi gli studenti, possono invocare il diritto alla parità di trattamento ai sensi degli articoli 12 e 17 CE, se soggiornano legalmente nello Stato membro ospitante.
Nell’affermare detto principio, la Corte non esclude che lo Stato membro ospitante possa subordinare il beneficio della parità di trattamento a condizione che esso non costituisca “un onere irragionevole” per le finanze dello Stato ospitante, e che i cittadini degli altri Stati membri che godono di tale beneficio abbiano raggiunto un certo livello d’integrazione nel tessuto sociale e culturale dello Stato ospitante. Va sottolineato al riguardo che il concetto di “integrazione” comporta, in eo ipso, l’accettazione delle diversità e delle identità del soggetto che si integra in un corpus che non è quello dal quale proviene. Nell’affermare quanto precede la Corte ricorda agli Stati che, l’essere membri di una “Comunità”, richiede da parte loro una certa solidarietà finanziaria nell’organizzazione e nell’attuazione dei loro sistemi di assistenza sociale.
La carta dei diritti fondamentali dell’Unione
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione è stata proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 ed è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. La Carta accorpa in un medesimo testo tutti i diritti delle persone: diritti civili, politici, economici e sociali e diritti dei cittadini dell’Unione europea. Tali diritti erano già stati consacrati da diverse fonti (Trattati, giurisprudenza della Corte di giustizia, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Carta sociale europea, Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, ecc.), ma erano stati “proclamati” in testi diversi, con una conseguente, disagevole dispersione. La Carta di Nizza ha posto fine a tale inconveniente assicurando una migliore accessibilità e visibilità, e quindi una tutela più efficace.
Il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità economica europea, aveva limitato i diritti che abbiamo illustrato (circolazione, soggiorno, parità di trattamento) ai soli “prestatori di attività economiche”, dimenticando quindi i cittadini europei in quanto tali. La lunga marcia di quest’ultimi verso l’ottenimento di un proprio status juris e la loro piena integrazione nel processo di unificazione europea è dunque iniziata cinquant’anni or sono ed è proseguita sino ad oggi attraverso una serie di tappe decisive e di altrettante conquiste.
Possiamo perciò oggi affermare che ogni cittadino dell’Unione può rivendicare ormai il diritto di circolare attraverso i paesi della Comunità, di soggiornarvi liberamente e godere dello stesso trattamento riservato ai cittadini nazionali, invocando semplicemente come Paolo di Tarso, davanti al tribuno Lisia, il suo status juris di cittadino europeo: «civis europaeus sum».
Alfonso Mattera (2004)