Lingue minoritarie nell’Unione europea

La diversità linguistica è un carattere comune a tutti i ventisette Stati membri dell’Unione europea, in cui complessivamente sono circa sessanta milioni i cittadini che hanno come lingua propria una lingua minoritaria (v. anche Lingue). Ciascuna di esse, secondo la definizione che ne dà la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, convenzione adottata dalla Conferenza dei ministri del Consiglio d’Europa il 29 giugno 1992, è una lingua «diversa da quella/e ufficiale/i di uno Stato e dai suoi/loro dialetti», che è «tradizionalmente usata in un dato territorio di uno Stato da cittadini dello stesso che formano un gruppo numericamente inferiore rispetto al resto della popolazione».

Nel glossario pubblicato nel 1995 dall’European bureau for lesser-used languages (EBLUL), organizzazione indipendente di dimensioni continentali sorta nel 1982 in seguito alla prima iniziativa del Parlamento europeo a favore della tutela delle minoranze, alla voce “lingua minoritaria (o minorizzata o meno diffusa)” corrisponde la seguente descrizione: «una lingua che, come risultato delle sue strutture, dei suoi suoni, delle sue caratteristiche e della sua storia, è differente e distinta dalla lingua dominante di uno stato ed è parlata e/o scritta in un determinato territorio da un inferiore numero di persone» (v. Carrel, 1995). Questa definizione si applica a lingue alle quali «non è garantita giuridicamente neppure l’attribuzione di un livello minimo di co-ufficialità nel territorio in cui sono tradizionalmente parlate», e pertanto il loro sviluppo può essere condizionato, minacciato e impedito e il loro uso «tende a diminuire o addirittura a scomparire», ma vale altresì per quelle che sono riuscite a ottenere «un qualche grado di riconoscimento ufficiale», riuscendo così, almeno in parte, a invertire la tendenza alla marginalizzazione.

Rientrano in questo quadro casi molto diversi, che sono riconducibili a due diverse categorie generali. La prima comprende lingue di popolazioni «che la storia ha posto entro i confini di uno Stato e che usano la lingua ufficiale di quello oltre frontiera», le quali pertanto possono essere chiamate anche “lingue in situazione minoritaria”, per esempio il tedesco in Italia, Belgio o Danimarca, il danese in Germania, il francese in Italia, lo sloveno in Italia e in Austria. La seconda si riferisce a lingue «che in nessun luogo hanno posizione dominante nelle società in cui sono usate», anche se talvolta – per esempio il gallese nel Regno Unito, il friulano e il sardo in Italia, il frisone nei Paesi Bassi – hanno una diffusione territoriale che va oltre la minoranza numerica della popolazione di determinate regioni: è per questo motivo che per definirle talvolta si utilizza l’espressione “lingue regionali”.

La nozione di lingua minoritaria si lega a doppio filo con quelle di minoranza e minoranza linguistica. Riprendendo lo studio condotto alla metà degli anni Settanta da Francesco Capotorti per conto della Commissione diritti umani dell’ONU (v. anche Diritti dell’uomo), si può affermare che una minoranza «è una comunità insediata nel territorio di uno Stato in modo compatto o sparso, numericamente inferiore alla restante popolazione, i cui membri si differenziano dagli altri cittadini dello stato stesso per caratteristiche etniche, linguistiche o religiose e manifestano, anche in maniera implicita, un sentimento di solidarietà allo scopo di mantenere la loro cultura, la loro lingua o la loro religione» (v. Capotorti, 1979). Di conseguenza, ciascuna minoranza è un gruppo di persone che è “minore” in termini quantitativi, è “diverso” sotto un qualche profilo che possiamo chiamare per brevità “qualitativo” e condivide una certa “percezione” di sé e della propria comune diversità dal resto della popolazione dello stato in cui si trova. Nel caso della minoranza linguistica l’elemento “qualitativo” che la distingue dalla maggioranza, è costituito dalla lingua, la quale è minoritaria in quanto ha caratteri di individualità e diversità, ma non è riconosciuta come tale e la sua presenza nella società e nel territorio in cui è usata è limitata e subordinata rispetto alla “lingua dominante”.

La tutela delle lingue minoritarie consiste, pertanto, nel sostenere e garantire il loro utilizzo (e dunque il loro sviluppo libero e dinamico) in tutti gli ambiti della vita pubblica, la loro presenza nei media e il loro insegnamento e il loro uso nelle scuole. Gli interventi in questo campo rispondono non solo all’esigenza di valorizzazione di ciascuna lingua come una parte del patrimonio culturale dell’umanità, ma anche alla necessità di superare discriminazioni, garantire parità di diritti per tutti i cittadini e prevenire situazioni di conflitto.

Per tutte queste ragioni e per la variegata situazione linguistica del continente, le Istituzioni comunitarie hanno assunto iniziative talvolta particolarmente significative in questo settore. Ciò vale in particolare per il Consiglio d’Europa, per cui, dalla sua fondazione ai giorni nostri, è possibile individuare un percorso che va dalla Convenzione europea sulla tutela dei diritti dell’uomo e sulle libertà fondamentali (v. Convenzione europea dei diritti dell’uomo) (1950) alla già citata Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (1992) e alla Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali (1995).

L’azione della Comunità e poi dell’Unione europea in questo campo è invece limitata agli ultimi tre decenni. La svolta positiva in questa direzione è stata impressa dalle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo nel 1979, grazie alle quali le istanze di tutela manifestate con forza da molte comunità minorizzate e tutt’altro che assecondate a livello statale poterono essere accolte e interpretate in quella sede. Le prime risposte concrete furono la Risoluzione su una Carta delle lingue e culture regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche e la Risoluzione sulle misure a favore delle lingue minoritarie e delle rispettive culture, entrambe promosse dal socialista italiano Gaetano Arfè, e approvate rispettivamente il 16 ottobre 1981 e l’11 febbraio 1983.

Il merito del Parlamento europeo è duplice: ha collocato chiaramente il valore culturale e politico della tutela delle minoranze in una prospettiva europeista e ha concorso all’apertura di apposite linee di bilancio a favore di progetti, locali ed europei, di promozione delle lingue minoritarie (v. anche Bilancio dell’Unione europea). L’Europarlamento, dalla Risoluzione Kujipers (30 ottobre 1987) alle più recenti Risoluzione su un nuovo quadro strategico per il multilinguismo (19 novembre 2006) e Risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea 2004-2008 (14 gennaio 2009), ha preso più volte posizione rivolgendosi sia agli altri organi comunitari sia ai governi statali.

L’esistenza e l’attuazione di un’adeguata legislazione in materia di tutela delle minoranze sono tra i requisiti necessari per i nuovi stati che intendono aderire all’Unione europea, indicati dal Consiglio europeo di Copenaghen del 21 e 22 maggio 1993.

Alla Commissione europea si deve il sostegno finanziario a molteplici iniziative locali, a progetti quadro, come lo studio Euromosaic, e a reti di documentazione come Mercator, articolata in tre sezioni tematiche (istruzione, media, diritto). Questi interventi, però, sono stati ridotti drasticamente negli ultimi anni, poiché una sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) del 1998 ha comportato il blocco della principale linea di finanziamenti dedicata.

Le lingue minoritarie e la loro tutela sono tenute in considerazione, non solo come parte del patrimonio culturale europeo e come ambito di garanzia di diritti fondamentali, ma anche come risorsa formativa e educativa, nel quadro delle più recenti iniziative promosse dalla Commissione su istruzione permanente e all’educazione plurilingue.

Lingue e minoranze trovano spazio anche nei Trattati, a partire dal Trattato di Maastricht che all’articolo 128 (titolo IX) prevede un esplicito riferimento (confermato dal successivo Trattato di Amsterdam) alla diversità delle culture europee anche all’interno degli stati membri. Il Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009, ha mantenuto nella sostanza le previsioni più significative, già contenute nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa che ha sostituito (v. Costituzione europea). Tra i valori su cui si fonda l’Unione figurano tra gli altri il rispetto dei diritti umani, compresi i «diritti delle persone appartenenti a una minoranza», il pluralismo e la non discriminazione, mentre tra le finalità perseguite sono presenti il rispetto della «ricchezza della diversità culturale e linguistica» e la vigilanza «sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo». Pur non includendo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (v. anche Trattato di Nizza), attribuisce a essa effettivo valore giuridico vincolante.

Marco Stolfo (2010)