Luns, Joseph

L. (Rotterdam 1911-Bruxelles 2002), diplomatico olandese, membro del partito cattolico (Katholieke Volkspartij, KVP), ministro degli Esteri per quasi un ventennio, nonché segretario generale dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), trascorse gli anni dell’infanzia in un ambiente intellettualmente stimolante e raffinato, di estrazione marcatamente cattolica e di spiccati orientamenti francofili. Conseguita la maturità classica, nel 1929, dopo aver frequentato il liceo ad Amsterdam e a Bruxelles, abbandonò presto le aule del college di Gent per trasferirsi a Den Helder, presso l’accademia della Marina reale olandese, trascinato dalla giovanile passione per le navi da guerra. Un’esperienza affascinante e tuttavia di breve durata, avendo L. superato il limite di età prefissato per intraprendere la carriera militare. Nel 1932, pertanto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dapprima a Leida e poi ad Amsterdam, deciso a cimentarsi nella professione diplomatica. Nonostante l’intensa partecipazione alla vita studentesca, nell’ambito della quale si distinse per carisma e straordinaria disinvoltura negli interventi pubblici, peraltro già ampiamente caratterizzati da accenti conservatori e antisocialisti, concluse con estrema rapidità, e non senza lodevole profitto, il percorso accademico.

Nel 1938, il fidanzamento con la baronessa di Heemstra, Elisabetta Cornelia, la quale vantava legami di sangue con la prestigiosa famiglia di diplomatici Van Rechteren Limpurg, presumibilmente costituì un importante viatico per il futuro professionale del neodottore in diritto. Superato l’esame di ammissione, infatti, nello stesso 1938, L. si ritrovava a prestare servizio come funzionario presso il ministero degli Esteri olandese. Non che l’approdo alla diplomazia gli fosse stato garantito soltanto in virtù della pur preziosa mediazione dei Van Rechteren Limpurg. Sia la solida preparazione – peraltro conseguita, tra il 1937 e il 1938, presso la London School of Economics, nonché presso il Deutsches Institut für Ausländer di Berlino – sia le indiscusse qualità intellettuali e morali del giovane candidato ambasciatore divennero, infatti, oggetto di elogio formale da parte dello stesso presidente della Commissione esaminatrice, Ernst Heldring. (v. Kersten, 1999, p. 212).

Poco prima dell’invasione tedesca dei Paesi Bassi, i coniugi L., il cui matrimonio era stato celebrato in forma solenne il 10 gennaio del 1939, si trasferirono a Berna, ove soggiornarono fino al 1941. Dalla capitale svizzera, nello stesso anno, partirono alla volta di Lisbona, per raggiungere infine, nel 1943, il governo dell’Aia, in esilio a Londra. Si trattava di un itinerario tracciato dal ministero degli Esteri, il quale aveva incaricato L. di coordinare i trasferimenti e l’assistenza dei profughi olandesi diretti nel Regno Unito. Una funzione di grande responsabilità, che nondimeno L. dovette svolgere con successo in quanto, appena un anno dopo il suo arrivo nella capitale britannica, la dirigenza del dicastero esule lo designava ambasciatore presso la Corte di san Giacomo.

Si apriva, nel contesto londinese, una stagione densa di importanti sviluppi per L., il cui intuito politico e la cui lucidità di interpretazione della realtà internazionale balzarono presto agli occhi dell’allora ministro senza portafoglio, nonché eccellente diplomatico, Edgar F.M.J. Michiels van Verduynen, che seppe anche superare la personale insofferenza per «la natura rumorosa ed egocentrica» del giovane ambasciatore, pur di promuoverne l’approdo ai più alti ranghi della diplomazia nazionale. Fu lo stesso Michiels, del resto, ad affidare al suo brillante protetto l’incarico di presentare il fascicolo sulla Germania alla Conferenza di Londra, nel 1947-1948, nonché a proiettarlo entro la cornice che avrebbe consacrato la sua eccezionale caratura internazionale, quella dell’Organizzazione delle nazioni unite (ONU; v. Kersten, cit.).

Nel 1949, infatti, L. veniva inviato a New York, presso l’Assemblea generale dell’ONU, per partecipare all’ultima, delicatissima fase del negoziato sull’Indonesia. Nella metropoli americana, il dirigente del Ministerie van Buitenlandse Zaken (il ministero degli Esteri olandese) ebbe l’opportunità di evidenziare il talento diplomatico di L. anche di fronte alla prestigiosa platea internazionale, nell’ambito della quale, come delegati dell’Aia, figuravano politici del calibro di Geert J.N.M. Ruygers e Marinus van der Goes van Naters, per il partito socialdemocratico (Partij van de Arbeid, PvdA), nonché, tra i cattolici, di padre Leo J.C. de Beaufort, confidente del leader Carl P.M. Romme, e Margaretha Klompé.

Non si trattava peraltro del primo contatto diretto tra L. e gli esponenti del policy-making nazionale. Difatti già ad Amsterdam, nell’ateneo locale, l’allora studente di giurisprudenza aveva instaurato un profondo e duraturo rapporto di amicizia con Romme, già militante del Roomsch-Katholieke Staatspartij (RKSP, il partito cattolico prebellico), nonché cofondatore, nel dicembre del 1945, del KVP. Un legame che andò ulteriormente rafforzandosi all’indomani della Seconda guerra mondiale, giacché i due illustri personaggi, oltre alle convinzioni politiche e confessionali, iniziarono altresì a condividere una decisa avversione all’indipendenza indonesiana, peraltro testimoniata da un fitto e corposo carteggio (v. Kersten, cit.).

Anche in virtù di tali conoscenze eccellenti, la personalità di L. cominciò a guadagnare crescenti apprezzamenti dalla dirigenza del KVP. Più che al suo discusso passato nelle file del Nationaal-Socialistische Beweging (NSB), il movimento filonazista sorto in Olanda all’inizio degli anni Trenta dalla cui deriva autoritaria e antisemita il giovane militante aveva comunque preso le distanze, si guardava a una possibile candidatura del valido diplomatico per la carica vacante di ministro degli Esteri. Una figura istituzionale che, di fatto, all’inizio degli anni Cinquanta avrebbe assunto un ruolo di primissimo piano nel dibattito politico dell’Aia con la costruzione comunitaria agli esordi e le ripetute richieste, soprattutto da parte dei cattolici, per la creazione di una sezione del ministero espressamente dedicata agli affari europei, oltre che con la crescente priorità che le questioni di politica internazionale andavano acquisendo sull’agenda governativa.

Sulla base di tali considerazioni, all’indomani delle elezioni del 1952 – il cui esito aveva ulteriormente rafforzato il PvdA e il KVP, rispettivamente impostisi come primo e secondo partito dei Paesi Bassi – i cattolici iniziarono a premere con insistenza sul formatore socialdemocratico, Willem Drees, al fine di riservarsi l’accesso all’ambito portafoglio. Non che il premier entrante avesse dato qualche segnale di flessibilità in tal senso. Al contrario, il leader del PvdA, oltre a voler limitare gli appetiti del KVP per la distribuzione degli incarichi ministeriali, mirava apertamente a scongiurare che la guida del ministero degli Esteri fosse affidata a un uomo di Romme. Di fronte alla prospettiva di un’“Europa vaticana”, infatti, ampiamente prefigurata dalla fisionomia del Consiglio dei ministri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), ove cinque dei sei componenti erano membri dei rispettivi partiti cattolici, Drees rifiutava di agevolare la costruzione del mosaico “romano”, offrendo, di fatto, il tassello mancante.

L’acceso confronto tra i due schieramenti di maggioranza dell’Aia, per nulla disposti a recedere dalle rispettive posizioni, condusse all’inedita divisione del dicastero fra due leader, il primo, Johan Willem Beyen, politico senza affiliazione partitica ed ex presidente della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (FMI), scelto direttamente – e non senza rimpianti – dal primo ministro e incaricato delle questioni multilaterali e della politica europea; il secondo L., espressione del KVP, designato ministro senza portafoglio e responsabile dei rapporti bilaterali e delle relazioni con l’ONU.

Quanto ad autorità decisionale, la ripartizione delle competenze predisposta dal governo sembrava, in realtà, privilegiare Beyen. Tuttavia, con l’abilità propria di un diplomatico navigato, L. provvide autonomamente a ripristinare gli equilibri. Concordò infatti con Beyen, frequentemente impegnato in missioni all’estero, la facoltà di assumere ad interim le sue funzioni, ben consapevole, d’altro canto, del carattere inavocabile delle proprie responsabilità. La nuova asimmetria di ruoli, sapientemente disegnata dal ministro cattolico, non dava certo garanzie di stabilità. Nel primo anno di amministrazione congiunta, difatti, gli uffici degli Esteri furono spesso teatro dei diverbi, più e meno violenti, tra i due vertici, personalità affatto antitetiche, se si escludono la comune ambizione a eccellere e una sostanziale diffidenza reciproca. Sicché all’interno del dicastero, soprattutto a livello di alti funzionari, il barone Samuel J. van Tuyll van Serooskerken in primis, iniziarono a moltiplicarsi le rimostranze, all’indirizzo del governo, rispetto all’insostenibilità del clima venutosi a creare, crescendo altresì le apprensioni sulla possibile collisione tra Beyen e L., ritenuta, peraltro, tanto più prossima quanto più imminente diventava la scadenza per la presentazione del bilancio ministeriale alla Camera. Un nodo problematico, questo, intorno al quale, nel novembre del 1952, si sarebbe effettivamente prodotto il paventato scontro tra i due ministri, caratterizzato da un’inedita veemenza verbale e conclusosi con la richiesta di dimissioni inoltrata da L. all’Aia. Domanda che – pur non ricevendo alcuna considerazione da Drees e Romme, fin troppo provati dalla recente esperienza della distribuzione dei portafogli – si rivelò determinante per sollecitare il Consiglio dei ministri a ripensare, precisandolo, il meccanismo di ripartizione delle competenze fra i due capi del ministero degli Esteri, mirando scrupolosamente ad evitare possibili sovrapposizioni e interferenze. Per quanto ben costruito, il nuovo schema non fu efficace ad allentare la tensione. E sia Beyen sia L. conclusero il mandato, nel 1956, decisi a non voler ripetere analoghi esperimenti di responsabilità condivisa.

Sempre nel 1956, nell’ambito del quarto governo Drees, il ministro cattolico veniva riconfermato nella sua funzione. Leader assoluto e indiscusso del dicastero fino al 1971, godeva di piena autonomia nelle decisioni politiche, mentre le responsabilità dei suoi pur illustri viceministri, da Ernst H. van der Beugel, a Beren J. Udink, ricadevano esclusivamente sull’attuazione pratica di risoluzioni prestabilite. Seppur imperniata sul rigido rispetto della gerarchia, la riorganizzazione del ministero, intrapresa da L. già all’indomani della sua riconferma, fu essenziale per ristabilire l’armonia interna e l’efficienza amministrativa, nonché per garantire all’esperto diplomatico la stima incondizionata dei suoi più stretti collaboratori, per lo più affascinati dal suo straordinario senso dell’umorismo e dalla sua sostanziale ponderatezza. Qualità che, tuttavia, il ministro degli Esteri faticò a esprimere sulla più ampia scena politica nazionale, nell’ambito della quale, a partire dal 1957, si rese protagonista di più di qualche rumoroso alterco, sia con il Parlamento – nei confronti delle cui proposte non mostrava alcuna forma di apertura, soprattutto in tema di politica coloniale – sia con i colleghi degli Affari economici, in ragione di reali o presunti conflitti di competenza, con particolare riferimento alle questioni comunitarie. All’Aia, più in generale, L. venne spesso considerato un ostinato conservatore, incapace di ripensare la propria prospettiva politica, costruita essenzialmente a cavallo tra le due guerre, in funzione dei nuovi e progressivi sviluppi a livello nazionale e planetario. D’altra parte, lo stesso ministro cattolico non aveva mai nascosto la propria insofferenza verso qualsiasi forma di alterazione dei rapporti tradizionali, fossero essi di carattere sociale, istituzionale o interstatale. E, di fatto, la condotta politica che egli adottò, per l’intero corso del suo lungo mandato, fu riflesso coerente di tali concezioni.

Fu la complessa situazione nelle colonie, nella fattispecie il problema della cessione della Nuova Guinea alla Repubblica dell’Indonesia, intorno alla quale, tra la fine del 1954 e il 1963, si infiammò il dibattito nei Paesi Bassi – mobilitando, in varie forme, oltre al Binnenhof (il palazzo del governo dell’Aia), anche l’opinione pubblica nazionale e la stampa – il primo passaggio controverso, nonché fortemente lesivo sul piano del prestigio personale, dell’articolata carriera istituzionale di L.

Nel 1958, in particolare, di fronte alla rinnovata minaccia di uno scontro militare con Giacarta, ove il governo della Repubblica aveva predisposto il rafforzamento dell’apparato bellico nazionale, nonché con l’intensificarsi delle pressioni anglo-statunitensi per una rapida e pacifica soluzione del contenzioso, il ministro degli Esteri fu immediatamente chiamato dall’Aia a un intervento energico e risoluto. Su L. ricadeva, in primo luogo, la responsabilità di rafforzare la politica di congelamento dello status quo, la quale, adottata dal governo dopo la crisi del 1951, mirava a dilazionare quanto più possibile le discussioni sul trasferimento della sovranità sull’isola alla repubblica di Sukarno, adducendo a pretesto la necessità di preparare la popolazione indigena all’autonomia; in secondo luogo, l’onere di elaborare una strategia diplomatica efficace a evitare sia la rottura dei rapporti con l’Indonesia, sia un qualsivoglia coinvolgimento diretto dell’ONU. Con tali finalità, nonché con la certezza del sostegno americano, fu quindi concepito e messo a punto il cosiddetto “Piano Luns”, presentato dallo stesso autore all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel settembre del 1961. Il progetto prevedeva la cessione della sovranità agli autoctoni e proponeva, altresì, di porre il territorio sotto il controllo dell’ONU, mentre il governo dell’Aia avrebbe provveduto annualmente a sostenere i costi della decolonizzazione. Largamente discusso, a novembre il Piano Luns non superò la prova della votazione. Di là dalla delusione del promotore, suscitata dal mancato supporto di Washington piuttosto che dal fallimento della sua proposta di risoluzione, l’esito negativo della tentata mediazione olandese ebbe l’effetto di porre la questione papuana all’attenzione internazionale, sollecitando la Casa Bianca, e il presidente John Kennedy in prima persona, a interporsi, a nome delle Nazioni Unite, nel conflitto diplomatico tra Olanda e Indonesia. Pur tra le forti rimostranze di L., pertanto, l’Aia perdeva il primato decisionale sui destini dell’isola, avviandosi altresì a rinunciare definitivamente ai propri possedimenti nel Sud est asiatico.

Nel 1963, la cessione della Nuova Guinea alla Repubblica indonesiana infrangeva bruscamente il sogno romantico del diplomatico nazionalista, il quale continuava a intravedere, nella superstite porzione del già imponente impero coloniale dei Paesi Bassi, un riflesso importante del glorioso passato nazionale, nonché una significativa garanzia di prestigio internazionale per il piccolo Stato. Inoltre, nella circostanza, L. venne improvvisamente investito da una violenta ondata di critiche, impietose e multilaterali, le quali esprimevano, pur con accenti diversi, la condivisa amarezza degli olandesi per una vicenda politica dai presupposti incerti e dagli esiti disastrosi.

Il fallimento della politica coloniale si innestò, peraltro, sulla di per sé logorante controversia che vedeva protagonisti il ministro degli Esteri dell’Aia e il presidente transalpino Charles de Gaulle. Interamente disputato attorno alle contrapposte concezioni sulle finalità e sul metodo dell’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della), il conflitto franco-olandese toccò il suo apice nel novembre del 1961, allorché L., dopo aver già manifestato – dopo le conferenze al vertice di febbraio e di luglio – il proprio disappunto rispetto al progetto gollista di Europa confederale, si oppose con inedita decisione, e in assoluta solitudine, al primo progetto per l’unione politica europea presentato dalla Commissione Fouchet (v. Piano Fouchet). Non che L. avesse mai dimostrato un sincero entusiasmo europeista. Tuttavia, nel 1956, alla partenza di Beyen, cioè del promotore dell’integrazione orizzontale e del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea), essendo i Sei impegnati con la fase conclusiva delle trattative sulla Comunità economica europea (CEE) e sulla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), aveva risolto di continuare sulla linea perseguita dal suo omologo agli Esteri, sostenendo la rapida ratifica dei Trattati di Roma, istitutivi delle succitate Comunità. Era il 25 marzo del 1957 e di lì a un anno il generale francese sarebbe entrato in scena tentando di riscrivere la storia dell’integrazione continentale, faticosamente costruita intorno all’aspirazione alla sovranazionalità, sul modello dell’Europa degli Stati (v. Integrazione, teorie della).

Con il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, fermamente disposto al fianco di de Gaulle, il portavoce del governo dell’Aia, sempre più in apprensione di fronte alla prospettiva di una “confederazione europea” asservita agli interessi dell’asse Parigi-Bonn, trovò il proprio alleato nel nuovo ministro degli Esteri belga, Paul-Henry Charles Spaak, già partner di Beyen nel 1955, nel corso delle trattative sul mercato comune e l’Euratom. Ancorché sostenitore di una maggiore flessibilità, rispetto al deciso ostruzionismo di L., Spaak offrì al collega del Benelux un supporto decisivo nel confronto tra “grandi” e “piccoli” d’Europa. Alterco che, peraltro, dalla metà del 1962 – affossato definitivamente, e per mano dello stesso generale, anche il secondo Piano Fouchet, presentato nel gennaio dello stesso anno – andò inasprendosi contestualmente al dibattito sull’ingresso britannico nel MEC. La candidatura del Regno Unito all’Adesione, infatti, osteggiata a gran voce da Parigi, era ampiamente sostenuta dall’entourage di L. e Spaak, i quali, pur consapevoli del tiepido entusiasmo di Londra per il progetto sovranazionale, riconoscevano nella membership comunitaria dello Stato d’oltremanica un essenziale fattore di riequilibrio nei confronti della straripante egemonia parigina.

Dopo la conferenza stampa del gennaio 1963, durante la quale de Gaulle aveva annunciato il veto francese alla candidatura del Regno Unito, il fronte dei piccoli, con il ministro degli Esteri olandese alla guida della compagine, si trovò impegnato in una nuova operazione di consolidamento e di tutela dell’integrazione continentale a fronte di una vigorosa quanto inedita offensiva gollista. Il 30 giugno del 1965, infatti, il portavoce dell’Eliseo, Maurice Couve de Murville, responsabile del Quai d’Orsay, aveva annunciato la cosiddetta “politica della sedia vuota” – cioè il ritiro immediato dei rappresentanti francesi dalle sedi istituzionali delle Comunità europee – quale contromossa parigina all’iniziativa della Commissione Hallstein (v. Hallstein, Walter) di creare un sistema di risorse proprie comunitarie per il finanziamento della Politica agricola comune (PAC).

Constatata l’eccezionale delicatezza del momento, L., che aveva recentemente assunto il mandato presidenziale al Consiglio dei ministri della CEE, prese le distanze dal consueto atteggiamento massimalista, affidandosi alla consolidata perizia diplomatica. Divenne, quindi, promotore e artefice del Compromesso di Lussemburgo, firmato il 29 gennaio del 1966, il quale costituiva una formula di mediazione “volutamente ambigua” e tuttavia essenziale per uscire dall’impasse (v. Mammarella, Cacace, 2006, p. 126). A ben guardare, il compromesso segnava la conclusione del lungo confronto politico e ideologico tra de Gaulle e L. Un epilogo, in realtà, senza vincitori né vinti, per quanto i due antagonisti, in diverse occasioni, avessero conseguito importanti successi personali.

All’indomani del 29 gennaio 1966, in effetti, la CEE tornava ad affrontare inalterati i nodi problematici emersi ancora all’inizio del decennio: dall’approfondimento dell’integrazione, con particolare riferimento all’unificazione politica; al finanziamento della PAC; all’Allargamento ai candidati all’adesione, e soprattutto alla Gran Bretagna. Tutte questioni discusse dagli Stati membri della Comunità alla Conferenza dell’Aia, del 1-2 dicembre 1969, nella cui cornice L., che peraltro aveva svolto un ruolo di primo piano nella fase preparatoria dell’incontro, si trovò davanti due nuovi interlocutori come rappresentanti dei grandi Stati: il socialdemocratico Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca (RFT), e il gollista Georges Pompidou, presidente francese eletto nello stesso 1969. Per la prima volta, dopo anni di malessere comunitario, il ministro olandese aveva la sensazione che il ricambio al vertice della RFT – dove, fino ad allora, aveva prevalso la linea filoparigina perseguita da Adenauer – prospettasse la svolta definitiva del cammino comunitario verso la costruzione dell’Europa sovranazionale. Ed ebbe ragione del suo entusiasmo, vista la portata degli accordi raggiunti dai Sei all’Aia, sia in materia di Bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) mediante “risorse proprie” della Comunità, sia rispetto all’apertura del negoziato con la Gran Bretagna e con gli altri candidati, sia riguardo all’impegno comune in direzione dell’Unione economica e monetaria (v. Rapone, 2005, pp. 54-55).

Evento conclusivo di un semestre di presidenza olandese (v. anche Presidenza dell’Unione europea) segnato da importanti successi, la Conferenza del dicembre 1969 sanciva altresì il trionfo della politica europea di L., il quale, oltre ad aver offerto un apporto di altissimo valore alla tutela del metodo comunitario, era anche riuscito a salvaguardare la coesione dell’alleanza euro-statunitense, parimenti minacciata dall’ambizione del generale francese all’autonomia europea negli ambiti della sicurezza e della difesa. Per l’atlantista ministro degli Esteri, in effetti, secondo una visione parzialmente mutuata dai predecessori Dirk Stikker e Johan Beyen, la compattezza dell’Occidente, e soprattutto del suo braccio militare, la NATO, saldamente e indiscutibilmente affidata alla direzione di Washington, costituiva la sola garanzia dell’integrità territoriale olandese. Qualsiasi tentativo di sottrarre l’Europa all’egida americana avrebbe comportato il rischio di esporre il fianco del Continente all’invasione sovietica, nonché di allentare l’ancora labile legame tra Bonn e l’ovest europeo. (v. Kersten, cit., p. 222).

La decisa opposizione di L. all’antiamericanismo gollista non fu certo ignorata dai policy-makers statunitensi, che pure non gradivano taluni eccessi di zelo atlantista del politico olandese. Ma proprio in virtù di tale impegno, peraltro straordinariamente efficace a rinsaldare il vincolo euro-americano in campo strategico-militare, nonché per l’appoggio incondizionato all’intervento militare degli USA in Vietnam e per il suo fervente, financo teatrale, anticomunismo, il Dipartimento di Stato suggerì a Richard Nixon, nel 1972, di sostenere la nomina del ministro dei Paesi Bassi a segretario generale della NATO, come successore dell’italiano Manlio Brosio. Si trattava di un’aspirazione di lungo periodo di L., il quale già alla fine degli anni Cinquanta aveva presentato la propria candidatura per il prestigioso incarico, poi assunto dal belga Spaak, essendo il candidato olandese interprete della sconsiderata politica coloniale dell’Aia nei confronti della Nuova Guinea.

Al vertice della segreteria di Bruxelles, l’ex ministro cattolico, personalità imponente e dotata di grande umorismo, affrontò con abilità e rigore le delicatissime questioni all’ordine del giorno sulla scena internazionale, senza peraltro risparmiare accenti critici nei confronti di Washington, con particolare riferimento alla decisione di produrre la bomba a neutroni. In particolare, si adoperò senza riserve per conferire all’Organizzazione una caratterizzazione politica, essenziale per garantirle un ruolo attivo nel processo di distensione, e favorì, nel 1975, la nuova collaborazione europea nel terreno della difesa, avviata dalla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE).

Dedizione assoluta e iniziative pregevoli non furono tuttavia sufficienti ad assicurare a L. la gloriosa uscita di scena a lungo vagheggiata. Nel 1979, infatti, in piena crisi degli euromissili, l’atteggiamento assunto dal segretario generale della NATO, il quale tentò inutilmente di guadagnare il favore dell’opinione pubblica alla causa del controllo degli armamenti avvalendosi anche del supporto di politici dello spessore di François Mitterrand, Helmut Schmidt e Helmut Josef Michael Kohl, gli scatenò contro le critiche feroci della stampa, europea e internazionale e dei movimenti pacifisti, dai quali fu dipinto come l’emblema del passato, una figura anacronistica e rumorosa, costretta entro i limiti di un’ideologia superata e incapace di recepire nuovi stimoli (v. Prillevitz, 2002). E anche all’Aia – ove il governo progressista di Joop den Uyl era divenuto bersaglio privilegiato degli attacchi di L., causa la politica lassista e la decisione di ridurre le spese per la difesa – e, più in generale, nei Paesi Bassi, la popolarità dell’ex ministro cattolico subì un progressivo e irreversibile declino.

Nel 1984, all’età di settantatré anni, dopo aver stabilito un eccezionale primato per longevità di mandati, sia in patria, ove rimase al vertice del ministero degli Esteri per quasi un ventennio, sia in ambito internazionale, avendo ricoperto per tredici anni la funzione di segretario generale della NATO, L. decise di calare il sipario sulla propria carriera istituzionale. Trascorse gli ultimi anni a Bruxelles, tra le visite, progressivamente più sporadiche, al quartier generale dell’Alleanza atlantica – ove si recava per discutere con gli ex colleghi gli sviluppi concitati della politica internazionale nella seconda metà degli anni Ottanta – la dedizione alla famiglia e la riscoperta della spiritualità cattolica.

Giulia Vassallo (2010)